Presentazione
di Pietro Gargano
Ha cento
talenti, il maestro Ciro Adrian Ciavolino. Dipinge la vita vesuviana,
anche quella che non c’è più, cioè le vendemmie, la bellezza
innocente e carnale delle donne, le masserie sullo sfondo del vulcano
fumante. Dipinge miracoli di santi e prodigi della natura. Dipinge figure
della storia come Ladj Hamilton. Dipinge sulla tela e sui muri, sugli
apparati da festa e sugli effimeri tappeti di fiori. Dissemina i quadri di
simboli; Scolpisce ogni materia duttile. Insegna, a molte generazioni.
Qualche critico sostiene che le sue opere sono gonfie di silenzi. Forse
per colmarli altrove, Ciavolino è un artista pure della parola scritta.
Questo volume dà conto della sua ultima produzione per il periodico La
Tofa di Antonio Abbagnano: brani tutti tesi sul confine sottile fra
giornalismo e letteratura. L’artista si conferma così un figurativo
moderno e antico perfino quando colma pagine di giornale o di libro. Lo fa
dal 1966, dall’esordio su La Torre dell’avvocato Salvatore Accardo,
con le rubriche intitolate di volta in volta Gentile Signore o Le lettere
impossibili o Lettere sull’acqua su altri periodici.
L’appuntamento sulla Tofa ha avuto una doppia fase, la prima intitolata
Conchiglie, la seconda - nel corso dall’estate del 2007 – Lettere a
una Signora. Il cambio e legato, appunto, dalla missiva di una
gentildonna, adesso lontana da Torre del Greco, che a sua volta scriveva
sui giornali: un ricordo ”dolce sincero appassionato” meritava
settimanale risposta.
Viviamo un aspro tempo di amnesie, indirizzato ad avere oggi tutto e
subito. Di riflesso, i cronisti della memoria e le riviste che li ospitano
svolgono una funzione cruciale per la società tutta, ben al di là della
fabbrica della nostalgia. Andrebbero studiati nelle scuole, perché senza
ieri – senza le radici – non c’è mai domani. E poiché Ciavolino
mai ”ha condiviso arrampicate sociali e vergognosi arrivismi”, se ne
ricava una lezione morale, un invito a tornare ai desideri semplici, all’identità
pur solidale dei popoli, opposti agli obblighi avidi di questo presente
asvelenato.
Nella prosa, fluente come poesia, lampeggia Torre del Greco di una volta,
coegli orti di San Giuseppe alle Paludi, il cinema Iris i tragitti delle
stelle sopra i silenzi marini appena rotti dal sibilo di una lenza e dal
tonfo leggero di un piombo ad oliva. Erano anni in cui in cielo volavano
le comete comprate ’ncopp’i grariatelle r’a ciucciara nella casa di
due vecchiette vestite di nero; gli armadi odoravano di cipria e
ospitavano il vestito di fustagno e il bastoncino di papà, il cappotto
scuro di mamma che restò incieta sotto una eclisse di luna. Non c’era
la televisione, una radio piccola e verde, di galalite, apriva porte sul
mondo; una conversazione di Carnelutti era scuola di vita.
La pioggia la annumiavano i gatti. Sapeva di delizia ’a rattatura, il
residuo recuperato dall’impasto di pane nella minima madia di casa detta
martulella. Il suono del passo dei cavalli si confondeva con quello degli
zoccoli di donna. Frusciavano ciclisti diretti alla festa della Madonna
della Neve. I profumi Lavanda, brillantina, borotalco, alghe; o petali di
rose nella bacinella per la festa dell’Ascensione: e ”l’odore della
memo ria, del tempo che passa, cosi lentamente: l’odore della vita”.
Molti torresi avevano uno strangianomme, Ciavolino era il figlio della
Cerasa perché il nonno, fanciullo, s’era perso una ciliegia dal cuoppo
comprato all’angolo della via e i ragazzi lo seguivano nella ricerca,
sfruculiando: ”Cicci, Cicci, ’a cerasa”. Anche gli srangianomme sono
andati perduti.
La partenza dell’itinerario e la casa natia di Vico del Pozzo numero
quattro, ma il cammino si estende, tocca Posillipo, Materdei di Giuseppe
Marotta, piazza Dante, il corpo di Napoli dove nela setrine vedi ancor
liuti, chitarre e mandolini, dove la margherita o la marinara da mangiare
allerta, piegata libretto, sono pagine di libri nostri che sfogliamo da
sempre.
Il provincialismo alla rovescia di cui soffrono troppi napoletani -
soprattutto gli intellettuali, “falsi artisti ma grandi giocolieri” -
mette all’indice pizza e mandolino, quasi che ferissero come rasoi. E
invece Ciavolino dimostra - forse perché ben conosce il segreto del
colore – che questi materiali, se usati a modo, sono vivi, lontani dall’oleografia,
nel diario di un uomo curioso di pietre e di storia.
Si snodano le stagioni, la primavera gialla delle ginestre, libere sul
lontano Vesuvio o prigioniere dei cancelli di una scuola in Via Veneto; l’estate
azzurra dei bagni a mare sulla spiaggia del Cavaliere; l’autunno
corrusco e odoroso di vino sulla tavola della domenica; l’inverno grigio
di pioggia e tiepido di caldarroste. Ciascuna ha le sue tinte perché
Ciavolino – pittore e scrittore – dice che ”i colori accompagnano il
nostro respiro, e raccontano le loro e le nostre storie”. A volte, ed e
giusto, la tinta manca perché certi discorsi sono in bianco e nero, come
le fotografie dai margini dentellati.
La colonna sonora è fatta di canzoni appuntate sull’angolo destro in
alto. Spesso sono napoletane, erano famose ma ora si sentono di rado.
Rieccole e fare cultura. Dipenderà da ciò la strana felicità in arrivo
quando Ciavolino telefona per interrogarti sul titolo esatto di un motivo
perduto o per chiederne il testo completo. E’ pur sempre una felicità
malinconica, ma non sa di muffa. Esattamente come le pagine di questo
libro.
Pietro Gargano