A seguito di ricerche
effettuate presso laPro
loco di Torre del Greco, Vesuvio Live è venuto in possesso
del filmato dellaRievocazione
Storica del Riscatto Baronale, rappresentata durante la
Festa dei 4 altari del 1979.
Ci è sembrato interessante metterlo a disposizione dei
visitatori del sito.
Ringraziamo la Pro loco per la gentile concessione.
Riordinando le carte lasciate da Gennaro e custodite gelosamente
dalla moglie Uta, abbiamo trovato il canovaccio di una
rappresentazione scenica del 1979. Un testo che fu
rappresentato, durante la Festa dei Quattro Altari, ma non su un
palcoscenico, bensì tra la gente, nelle vie e nei vicoli più
antichi del centro storico.
Gennaro, forte della sua esperienza teatrale volle cimentarsi in
un lavoro apparentemente “diverso” dal solito. Infatti scrisse
lui stesso il testo che faceva rivivere il Riscatto Baronale del
popolo torrese del 1699. Ad
un primo approccio può forse sembrare un lavoro di scarso
interesse,. tuttavia, rileggendolo attentamente, anche da questo
breve lavoro emerge tutto l’impegno teatrale, sociale e
politico, che Gennaro era solito infondere nei suoi lavori. Ad
esempio l’incontro tra la Duchessa Medina Sidonia e la Contessa
di Berlips, anche se storicamente mai avvenuto, tuttavia dà la
possibilità a Gennaro di mettere a confronto due mentalità, due
modi di gestire il potere politico ed economico. Quello dei
Carafa (al quale va la sua simpatia) improntato sul rispetto del
popolo e quello della Contessa, arrogante e avida, basato sul
sopruso e lo sfruttamento (“…a me basta il feudo; la gente che
lo abita se ha bisogno di aiuto… dovrà rivolgersi alla
Provvidenza della Chiesa!”). Nel
testo, inoltre, si legge un esplicito invito al popolo a
scuotersi di dosso quel potere che “passanno da nu Signore a n’nauto”
mantiene la città in uno stato di degrado. Non
dimentichiamo che quando Gennaro sono trascorsi appena sei anni
dall’epidemia di colera, che ha messo completamente in ginocchio
l’economia locale. È chiaro quindi il riferimento alla
situazione in cui versava Torre del Greco. Egli
sembra, inoltre voler sottolineare che, come per riscattarsi dal
barone non è stato necessario ricorrere alla violenza, ma è
bastato servirsi astutamente della legalità, anche per liberarsi
dal malgoverno è possibile utilizzare mezzi legali e non
violenti. “Noi
non abbiamo bisogno di far scorrere nemmeno una goccia di
sangue. Visto che per lasciare o prendere questo nostro paese si
è soliti usare la forza del denaro, noi dobbiamo trovare il modo
di utilizzare questa stessa arma. È il primo passo per la
conquista del potere”.
Nella quarta scena esplode tutto il suo amore per il popolo e
l’importanza di essere tutti uniti per far sì che insieme si
divenga una vera forza. Il
tentativo del Marchese di “convincere” individualmente la gente
a rinunciare al Riscatto, all’inizio sembra riuscire. “Al
principio era facile. Scendevano a uno a vota. Ma mò è na folla.
Tra poco staranno tutto quanta cà”. Il
finale di questa scena poi è un’autentica apoteosi: “Tremma
Marchese, ca si stammo tutti uniti a fà chi st’ultimi sacrifici
cia pigliammo sta città”. infatti in questa frase finale è
racchiuso tutto il pensiero politico e sociale che animava
l’attività artistica di Gennaro.
Della penultima scena non ho reperito alcun testo in quanto si
tratta di una rappresentazione scenografica, priva di dialoghi,
realizzata al Porto, dove giungono le navi torresi provenienti
dalla Spagna (altro episodio non storico, ma di indubbia
efficacia scenografica) tra l’esultazione di gioia del popolo,
che le accoglie con grandi festeggiamenti e fuochi d’artificio.
L’ultima scena al Palazzo Baronale, vede il popolo torrese che
esulta alla lettura del Decreto d’Annessione al Regio Demanio. C’è
sembrato utile ricostruire questo lavoro di Gennaro Vitiello,
sia per l’attualità del messaggio che contiene, sia per
sottolineare l’importanza storica, oltre che religiosa, di una
festa che oggi sembra aver smarrito ogni significato.
Palazzo nobiliare del ’600.
Saloncino privato di Marianna Duchessa di Medina Sidonia.
(Scrittoio con sedia, divano, cassapanca o camino. L’ambiente è
illuminato da pochi e pesanti candelabri; sulla parete un arazzo
od un enorme dipinto). ANNO 1696.
PERSONAGGI: Fabrizio Sansone, notaio; la Duchessa Medina Sidonia;
la Contessa Maria Geltrude di Berlips.
DON FABRIZIO: Il sette marzo avete definitivamente ereditato la
Castellanìa e la Capitanìa di Torre del Greco e Comarca. Poi,
sapete come il Re si è venuto a trovare debitore verso la
Contessa di Berlips della somma di 10.800 ducati annui; così
S.M. deve cedere alla Contessa feudi e territori di pertinenza
del Regio Demanio per sanare tale debito.
So perfettamente che per Voi è un momento difficile, siete Voi a
doverLe parlare! Rimanete, è necessario che l’aspettiate qui, in
casa vostra.
MEDINA SID: Ma io… dovrei cedere il destino di questi luoghi ad
una straniera, ad una donna che di questa gente e di questa
terra ignora tutto!!?!!
DON FABRIZIO: Si! Purtroppo, si! Posso capire perché Vi riesce
difficile: Voi temete il giudizio del popolo torrese e… non Vi
aggrada vedere la Contessa apparirvi innanzi.
MEDINA SID: No, don Fabrizio! Un giudizio, sia pur duro, da
parte della mia gente potrei anche sopportarlo, ma incontrare
Lei… Sono forte per farlo?
(Con fare sconsolato e rassegnato) Eppure debbo; nel punto in
cui sono non c’è proprio scampo!
E Voi, don Fabrizio, siate qui vicino a me, come un angelo
inviato dal cielo!… Ma,… perché non parlate Voi?
Non posso farcela a sopportare la sua vista!
Risparmiatemi, don Fabrizio, vi prego, risparmiatemi questo
colloquio!
DON FABRIZIO: Fatevi coraggio, Duchessa! L’ora è decisiva; lo
vuole Sua Maestà, che Dio guardi. Purtroppo Voi dovete cedere la
Capitanìa di Torre e Comarca alla Contessa di Berlips… (pausa) e
per la firma è necessario che voi due v’incontriate.
MEDINA SID: Lo so… forse da molto tempo! È vero! Ho impresso con
cura nella mia memoria ciò che devo dire. Ed ora mi pare di non
poter profferire parola; il cuore mi si rivolta in un impeto di
odio e di ribellione. Non me la sento di cedere la Torre del
Greco e li suoi Casali ad una che certamente in questo paese si
comporterà da forestiera e che forse non verrà mai ad abitare in
un paese marinaro, lei, la Contessa abituata alla Corte
madrilena!!
DON FABRIZIO: (Per calmare la Duchessa tanto agitata).
Calmate, Duchessa, il vostro sangue agitato, cacciate via
l’amarezza! Vi sembrerà, il mio, Duchessa, un consiglio troppo
duro, ma dovete obbedire alle leggi reali che vogliono la
Contessa ora più forte di…
MEDINA SID.: Basta, vi prego, basta! Non posso…
DON FABRIZIO: (Interrompendola) Dovete farlo! Parlatele con
calma; parlatele di questo popolo, di questa terra. Fate appello
alla sua origine nobile; non parlateLe di diritti, non è il
caso, né il momento.
MEDINA SID: Forse noi stessi Carafa ci siamo procurati la nostra
sventura, ma, ohimè, mi si poteva almeno evitare questo
incontro!!!… Soffro troppo!
DON FABRIZIO: Dovrete sopportarne la presenza per poco. Le
lettere che Le avete inviate certamente l’avranno disposta a ben
comportarsi.
MEDINA SID: (Poggiando una mano al braccio di don Fabrizio).
Don Fabrizio, lo so che mi siete amico, che i vostri consigli
mirano al meglio! È che mi hanno trattata con durezza, persino
il Re.
DON FABRIZIO: Dimenticate! Ora pensate solo a riceverla; con
gentile diplomazia ed umile rispetto; Vi conviene, anche per ciò
che la Contessa potrebbe narrare al Re.
MEDINA SID: Fatela entrare! (Maria Geltrude, Contessa di Berlips
entra e con fare imperioso si fa avanti).
MEDINA SID: DIOS MIOS! Fammi forte!…
(Dopo una pausa in cui si nota lo sforzo della Duchessa a
vincere la rabbia).
Geltrude, il Re t’ha voluta favorire e sei felicemente
vittoriosa. Inoltre, Geltrude, grazie per aver affrontato questo
viaggio dalla Spagna fino a Napoli.
BERLIPS: Vi sbagliate, Duchessa; sono in Italia già da alcuni
giorni, altrimenti è a voi che sarebbe toccato un viaggio in
Castiglia. (Sorride con durezza).
MEDINA SID: (Fatica a continuare il colloquio).
Geltrude, non restatevene lì ironica e dura.: non mi costringete
a sforzi per raggiungervi. Vi cedo ciò che forse mai prima d’ora
avevo capito di amare tanto, quel che possedevo per eredità di
sangue. So che il destino di questo paese che amo dipenderà
forse dall’eloquenza che saprò dare alle mie parole. Mettetemi
in condizione di parlarvi ed è giusto che insieme alla mia
firma, che Vi permetterà il possesso di queste terre, io possa
offrirVi quei consigli che Vi permetteranno di capire i bisogni
di queste popolazioni che necessiteranno del Vostro aiuto.
BERLIPS: Cosa avreste da consigliarmi, Voi, la Duchessa di
Medina Sidonia che non ama toccare il denaro? Il Vostro orgoglio
di Carafa vi ha fatto perdere questi possedimenti! Se ho bisogno
di consigli so a chi rivolgermi!
E poi a me basta il Feudo; la gente che lo abita se ha bisogno
di aiuto non è a me che dovrà rivolgersi, ma alla Provvidenza
della Chiesa!
Questo possedimento mi appartiene per diritto di conferma e non
di sangue. Vi prego ora don Fabrizio, firmiamo l’atto di
vendita. (Don Fabrizio, dopo la lettura del documento, fa
firmare le due donne, indi esce con la Contessa).
MEDINA SID: La Università di Torre del Greco e Comarca è
profanata da una ignobile Dama di Compagnia della Corte di
Spagna. Il laborioso popolo torrese sarà ingannato da
un’arrivista senza scrupoli. Maria Geltrude, i Torresi però non
ti sopporteranno a lungo! Questa terra ti scotterà sotto i
piedi!
Incontro su una loggia d’un antico palazzo Barocco di alcuni
rappresentanti del popolo torrese e resinese con l’avvocato
Geronimo Villano e don Marzio Cirillo. 7 aprile 1696.
RESINESE: Faciteme arrepusare. Arrivo stanco a st’appuntamento.
Vengo a piedi da Resina e le cosce me fanno male. Beh, ma ce
bevimm nu bicchiere e vino?
I° TORRESE: ’O vino, Mastro Pietro lu tene chiuso a chiave,
dinto alla cantina.
2° TORRESE: (Chiamando il figlio che sta giocando sul terrazzo).
Lucariè va a piglià nu fiasche e vino. Tiene, ca ce stanno le
chiavi de la cantina.
(Lucariello scende di corsa le scale).
RESINESE: Guardate là, comme sò belle le bbarche a mare! Partono
per la Sardegna.
2° TORRESE: Ne pescarranno de curallo!
RESINESE: Tu pienze ca ’a li marenare lu sudore lloro le
venarriè pavato? E si iessero ancontro a la tempesta?
1° TORRESE: Tutto po’ succerere.
2° TORRESE: Si nuj, nun ce sciuglimmo a sotto ’a lu padrone,
servimmo solo ’a faticà comme la furmica, j’accumulà tesore alla
Duchessa.
LUCARIELLO: Papà ’o vino!
2° TORRESE: Puosalo là, ’ncoppa a lu muro, Lucariè. E mò
vattenne, va ’a pazzià ’a nata parte.
1° TORRESE: Sì, tu tiene ragione! Nuje summigliammo ’a la
furmica che sape pensà a lu vierno; nuje tenimme la cura e la
pacienza de l’ape che fà lu mèle. Quanno invece avessimo
sulamente chiagnere a pensà che la Capitanìa de la Torre
passanno da nu Signore a n’nauto, ce và a mannà a lu diavolo
anne de periculi cuntra a li pirati e de fatica.
Comme se nun ce bastassero li guai che ce sò venuti dalla
Muntagna e da la Peste.
RESINESE: Nuje e de necessità noste che simmo venuti a parlà.
E don Geronimo Villano e don Marzio Cirillo quanno venono?
2° TORRESE: Mo lì vedrai venì.
RESINESE: Nuje avimmo chiesto l’aiuto de li avvucati, de la
legge, quanno pe ce liberà de li Utili Padroni nce dovessimo
abbrucià li case. A me nun me va de stregnere la cinta pe la
legge. Nce sta lu rischio de addevennà lumache quanno avessimo
essere comme a l’aquila. Vuje state cierto che sti duje avvucati
nun stanno d’accordo cu li Padruni o ca nun sa venneranno a li
capricci lloro?
1° TORRESE: No, può sta tranquillo: don Geronimo Villano e don
Marzio Cirillo stanno da la parte nosta. Pure si nun tenano ’a
stessa rraggia toja, so propense a truvà na forma pe trattà.
(Entrano il Villano e Cirillo).
VILLANO: Scusateci se veniamo così tardi. Ma, venendo, abbiamo
avuto l’impressione d’essere spiati e ci siamo fermati in una
cantina, finché non ci è sembrata libera la strada.
Ora siamo qui a portarvi una notizia personale e importante. Una
notizia che voi dovete diffondere fra tutta la popolazione della
Torre.
La Capitanìa di Torre e Comarca sarà venduta ad un’altra
persona, e questo vuol dire un grosso passo avanti per la nostra
vittoria, perché se ci sarà alienazione, cioè se gli Utili
Padroni non riusciranno a pagare il debito che hanno, noi popolo
torrese ci potremo avvalere del diritto di prelazione e verremo
in possesso della nostra terra.
Sagrato Chiesa S. Maria di Costantinopoli.
Incontro di Tommaso Mazza e altri torresi con don Marzio
Cirillo.
Inizi ottobre 1698.
TOMMASO: Voi, don Marzio! Erano mesi che non vi si vedeva da
queste parti. Che cosa vi ha spinto fin qui?
DON MARZIO: Il bisogno di parlare con te, Tommaso, e anche con
gli altri.
TOMMASO: Il piacere che provo nel vedervi mi si apre il cuore. E
a casa vostra stanno tutti bene? La vostra cara moglie e gli
assennati figli?
DON MARZIO: Bene, grazie Tommaso.
TORRESE: Ognuno di noi, che è stato a casa vostra, loda
l’ospitalità e l’attenzione dei vostri familiari, don Marzio. E
tutti noi sappiamo bene con che cura ci sapete rappresentare.
TOMMASO: Ma parlate, don Marzio, che c’è?
DON MARZIO: Vengo proprio ora dal porto. Un marinaio m’ha dato
questa lettera d’un amico madrileno che mi informa d’una grave
notizia. La Contessa di Berlips, con un atto pubblico stipulato
a Madrid il 7 settembre, ha venduto, senza diritto di ricompra,
il feudo di Torre e Comarca per 106.000 ducati al Marchese di
Monteforte Mario Loffredo.
TORRESE: Contro ò paese nuoste nun avevano mai fatto na cosa
simile… mai era capitato che Torre ò Grieco se l’accattassero e
se la vennessero comme si fosse na pezza e stoffa.
DON MARZIO: Avete ragione. Ma sapete a me qual è la cosa che più
mi preoccupa? È a chi la Contessa di Berlips ha venduto il
paese. Col Marchese Mario Loffredo quello che ci toccherà
soffrire sarà intollerabile. E non vedo con faciltà come potremo
porre fine all’oppressione.
Anche se non abbiamo avuto la grazia d’essere veramente liberi,
almeno con i Carafa, anche con l’ultima, la Duchessa di Medina
Sidonia, si aveva la fortuna di essere governati bene. A Torre
non c’era mai capitato una disgrazia simile, da quando il primo
pescatore pescò il primo pezzo di corallo.
TORRESE: Dò Marzio, si sa, ogni torrese l’ha sentito dire che ò
Marchese di Monteforte è un tiranno. Ognuno ’e nuje lo sape che
sotto à nu padrone comme lu marchese ce potriano succedere cose
tremende, come succedono dinta a li terre de la Calabria e de la
Puglia.
TOMMASO: Si, è vero, in Calabria e in Puglia capitano cose
terribili, che vengono fatte pagare col sangue…
Un barone ha avuto voglia del frutto proibito: voleva disonorare
con sfacciata violenza la moglie di un contadino. Il marito, un
brav’uomo, quando l’ha saputo, gli ha spaccato la testa con una
scure. Poi è scappato sull’Aspromonte per sfuggire alla legge.
Si sarà nascosto in qualche grotta di quelle montagne.
DON MARZIO: Ora però è bene non avvilirsi, Da un’occasione così
sfortunata, se sapremo meditare sul da farsi e sapremo di
conseguenza agire, potremo trarne dei grossi vantaggi.
TOMMAS: Se sapremo agire, don Marzio? Io credo che questa sia
l’occasione buona per agire. Il momento è favorevole. Ieri sono
tornate le barche di corallo. I torresi sono tutti a terra. Non
c’è un assente e l’assemblea sarà plenaria. Non vi preoccupate,
don Marzio, mi impegnerò io a fargli capire quello che noi ora
qui decideremo di fare. No, non vi preoccupate. Parlerò nella
maniera più chiara possibile. Per poter agire, aspettano solo un
comando, perché lo sanno che se non reagiscono a questo stato di
cose potranno venire tempi molto duri.
Dopo i tanti sacrifici sopportati per il Vesuvio, non hanno
nessuna minima voglia di affrontarne altri per i piaceri del
Marchese di Monteforte.
TORRESE: Si, don Marzio, diteci quello che dobbiamo fare e noi
ci muoveremo.
ALTRO TORRESE: Nuje, dò Marzio, sapimmo pure fà scorrere ò
sangue.
DON MARZIO: No, calma. Noi non abbiamo bisogno di far scorrere
nemmeno una goccia di sangue.
Visto che per lasciare o prendere questo nostro paese si è
soliti usare la forza del denaro, noi dobbiamo trovare il modo
di utilizzare questa stessa arma. È il primo passo per la
conquista del potere.
Per prima cosa c’è necessario far parte del Demanio. Convincete
tutti a pagare quei tre carlini per tomolo di farina invece di
uno, che siamo abituati a pagare. Una volta d’accordo, fate
firmare questo memoriale e inviatelo all’Autorità.
(Tutti escono a indire l’Assemblea di popolo).
Quartiere marinaro alle spalle
di S. Maria di Costantinopoli.
PERSONAGGI. Marchese Loffredo, suo segretario, notaio Campanile,
due sgherri.
I 5 personaggi avanzano nel borgo alla luce di torce e lanterne.
18 ottobre 1698 Notte.
SEGRETARIO: (Al Marchese di Monteforte). Eccellenza, a Voi vi
pare giusto di farci trovare in questo posto?
MARCHESE: Geretiello, sto qua per fare due chiacchiere con te.
Poi, appena la cosa si è avviata, me ne torno subito a Napoli.
Sbagli non se ne possono commettere. Io devo stare tranquillo.
Devo essere certo che il notaio Campanile mi è fedele.
SEGRETARIO: Signor Marchese, il notaio Campanile è persona
fidata e non ve ne dovete preoccupare. Quando sono venuto io,
lui stava già qua ad aspettarmi. Ora si è allontanato un momento
per andare a chiamare i due sbirri. Io però, se mi permettete un
parere, signor Marchese, quest’incontro con la gente del Borgo
non l’avrei organizzato alle tre di notte.
MARCHESE: Geretiello, e perché mai?
SEGRETARIO: Vedete, signor Marchese, noi adesso, quando andiamo
a bussare alle porte, può pure darsi che la gente fa finta di
non sentire, non si affaccia e non scende. Certo, in piena
notte, signor Marchese, uno se sente bussare si può pure mettere
paura.
MARCHESE: Questo, Geretiello, è proprio questo che voglio io.
Io, li voglio fà cacà sotto. Solo se si mettono veramente paura,
Geretiello mio, la finiranno una volta per sempre di permettersi
di organizzarsi contro il Marchese di Monteforte. E poi vedi che
ti sbagli. Quando voi andrete a bussare, quelli, morti di paura,
per sapere chi è si affacceranno. Stanne certo. Però ti devi
fare avanti tu, sei tu che li hai da chiamare. Il notaio e i due
fidati è bene che si mantengano appartati e nascosti. A te,
Geretiello, la gente ti conoscono, si fidano e li puoi
convincere a scendere. E quando sono scesi non ti preoccupare,
una volta giù nel vicolo, il notaio e i due sbirri sanno quello
che devono fare, come si devono comportare.
SEGRETARIO: Sissignore, Marchese, quello che voi avete detto è
giusto; è ciò che io non avevo pensato. Comunque, scusate, però
credo che voi in questo posto non potete rimanere.
MARCHESE: Me ne vado, anche perché sento i passi del notaio
Campanile che sta venendo con i due sbirri. A te, però, mi
raccomando…
NOTAIO: (S’avvicina al segretario in compagnia dei due sgherri).
Eccoci qua. Ora tocca a te. Noi ce ne staremo in disparte. Ci
andiamo ad appartare di là, sotto quegli archi. Però mi
raccomando non li chiamare tutti insieme. Falli venire da noi
uno alla volta, sennò può pure essere pericoloso.
SEGRETARIO: Non dubitate. Agli ordini vostri.
(I tre scendono giù per il vicolo e si appostano sotto gli
archi).
Tre e lloro, cu lu curtiello e me addimannano de li affrontà a
uno a vota. Bello curaggio! Io so sulo e nun avess avè paura. A
me ò curaggio chi me l’avesse dà (prende da sotto il mantello
una bottiglia di liquore e se ne fa un bel sorso) sta butteglia?
(Poi, fattosi coraggio, s’avvicina alla prima porta e bussa).
Ohè! Tatò! Tatò! Tatonnoooo!
(Dopo un breve istante s’accende a una finestra una luce).
(Con voce soffiata) Tatò! Tatò io sò Giro, Giretiello de
Mezzasignore!
ANTONIO: Giro, Giretiello e che vuò a chest’ora è notte?
SEGRETARIO: Scinno, scinn ’a bascio ca t’aggia dimannà na cosa
importante.
ANTONIO: Aspetta. Mo metto ’o cazone e scengho!
SEGRETARIO: (Fischia ai compari e si nasconde dietro un portone.
I tre avanzano al buio. Antonio apre la porta).
ANTONIO: Giritiello? Gir…?
I° SBIRRO: Siete voi Antonio Ascione?
ANTONIO: SI, sono io. Ma, scusate, Giro, l’amico che m’ha
chiammato, addò stà?
2° SBIRRO: (Facendosi all’altro lato di Antonio). Sta là, s’è
avviato, stà più avanti col notaio Campanile.
Venite, seguimoli, loro ci aspettano. (Di colpo il notaio appare
di fronte ad Antonio).
NOTAIO: Antonio Ascione! Ma che è, voi tremate? E di chi avete
paura?
ANTONIO: No, di nessuno. È che io, prima ho sentito la voce di
un compagno mio, che mi voleva… e trovo voi…
NOTAIO: Ah la voce di Giro. Ah si Giro, si ha detto che doveva
fare un bisogno, e s’è allontanato un momento. Ma a proposito
del Marchese di Monteforte, voi mi permettete se vi faccio una
domanda? Antonio Ascione, ma voi, di don Marzio Loffredo, che ne
pensate?
ANTONIO: e chi mai… (Il notaio lo interrompe dandogli un
colpetto sul viso).
NOTAIO: Tatò, eppure il Marchese, a voi Torresi, vi potrebbe
aiutare. Per esempio lui certe tasse potrebbe pure evitare di
farvele pagare. Che è, jate chiagnenne miseria e po’ vi
concedete il lusso di pagare tre carlini per ogni tomolo di
farina?
ANTONIO: I tre carlini io… io non li volevo accettare… ma
1° SBIRRO: (Tirando con noncuranza fuori il coltello). Devi
sapere, Antò, che nò, che non è il Signor Marchese a sta contro
alla povera gente, ma cierte persone che ve jencano a capa,
cierte persone ca si nun sarrà oggi, ma sarrà dimane, venarranno
’a pruvà sta lama è curtiello.
ANTONIO: Vuje… ma vuje (I quattro lasciano solo Antonio, e si
allontanano parlottando).
SEGRETARIO: (Ad un’altra porta. Bussa e poi chiama).
Tò? Salvatò, Tò…?
(Passa qualche istante e un uomo esce dal portone, seguito dalla
moglie).
(Giro, vedendolo con la propria donna ha un attimo di
smarrimento).
Salvatò, ti volevo addimannà na cosa!…
CARMELA: Sì, vamm sentuto. Là, avito chiammato a Tatonno, ccà a
maritemo. Ma che è, vulito scetà a tutta a gente dò paese?
Che v’avita mise dinto è chiocche?
SEGRETARIO: Avita fatto buono Carmè, avito fatto buono a venì
pure vuje. Io veramente, si v’aggio dicere a verità,
sicuramente, quanto è certa a Maronne… (s’avvicinano gli sgherri
col notaio) ecco nuje…
1° SBIRRO: (Giocherella infilzando il coltello nel legno della
porta).
Sì Salvatò nuje, sì a nuje ci piaciarria e sapè tu e muglierete
che ne pensate di don Mario Loffredo, del Marchese di Monteforte.
2° SBIRRO: Carmilì, vuje tenite già quatte piccirille e me
parite sempe na guagliuncell… (Le avvicina la bocca a un
orecchio e con tono insidioso) a i piccirill vuost ’o pane nun
gli piace…? Pecchè vuje certamente e sord pe pavà a farina a tre
carlini addò li pigliate pe la pavà?
CARMELA: Giuvinò, ma vuje che vulite dicere? Spiegatevi meglio…
io non vi capisco.
SALVATORE: Carmè trasetenne dinto… sennò
2° SBIRRO: Totò ma a tè te piace e pazzià…
(Da un vicolo torna il segretario. Fischia il richiamo. Gli
sbirri e il notaio gli vanno incontro).
SEGRETARIO: Dobbiamo squagliarcela. Al principio era facile.
Scendevano a uno a vota. Ma mò è na folla. Tra poco staranno
tutto quanta cà. Ja… Jammoncenne. (In un attimo scompaiono. I
Torresi sono tutti fuori alle porte).
ANTONIO: (Gridando). Avete visto! Erano li sbirri dò Marchese.
So lloro che s’hanno appaurato. Tremme Marchese, ca si stammo
tutti uniti a fà chi st’ultimi sacrifici cia pigliammo sta
città.