NARRATORI TORRESI
‘E grariatelle
d''a ciucciara
Aveva completato la vendita del latte della sua asina
e ritornava al suo "basso".
Risaliva Corso Umberto I°, passava davanti al negozio di Don Vincenzino
il farmacista ed imboccava i gradini che in discesa portavano alla
stalla. I gradini prendevano il nome da una sua trisavola, che anch’essa
campava vendendo latte di asina; si chiamavano infatti " ‘e
grariatelle da ciucciara" cioè i gradini della ciucciara, di
quella cioè che possedeva una ciuccia ossia un’asina.
Sistemò l’asina accanto al fieno ed andò a sedersi fuori la porta
del "basso". Mise una cesta in grembo e tirò fuori
"canne", carte velina, coriandoli, colla, spago, aghi, forbici
e quant’altro le servisse per fabbricare le "comete" ossia
gli aquiloni. Oltre alla vendita del latte d’asina, la vendita degli
aquiloni era un’altra piccola fonte di guadagno, che le permetteva di
tirare avanti.
Messo da parte ogni velleità di matrimonio, aveva lasciato sfiorire il
proprio fisico, intenta ormai solo a sbarcare il lunario.
Invero solo la vendita del latte era un "impegno" perché
nella costruzione delle "comete" ella traeva, oltre ad un
piccolo guadagno, anche la soddisfazione di esprimersi artisticamente.
Sceglieva tra le canne quelle più flesse, le tagliava a strisce in modo
da formare lo scheletro della cometa , sul quale incollava
cuciva la carta velina colorata, cui poi aggiungeva dei coriandoli a
formare la coda. Nei tre buchi fatti con un chiodo, in alto, al centro
ed in coda, faceva passare il filo di spago, controllava che tutto fosse
ben bilanciato e con un nodo ne fissava l’aerodinamicità. Finito il
suo capolavoro, lo appoggiava allo stipite della porta del basso ed
incominciava a costruirne un altro.
I ragazzi aspettavano pazientemente cogli spiccioli in mano e la
ciucciara, quasi controvoglia e dopo una calcolata attesa, decideva di
acconsentire all’acquisto del "capolavoro" appena terminato.
L’attesa negli ultimi tempi era diventata più lunga perché Agnesina,
la venditrice di latte d’asina nonché artista delle comete, aveva
deciso di insegnare quest’arte a Sufenella, una sua cugina che abitava
in un basso attiguo.
Ogni atto della creazione della cometa, prima di essere eseguito, era
spiegato nei minimi particolari con le espressioni più tipiche e più
affettuose verso gli oggetti, mentre era evidentemente scarsa la
considerazione delle qualità comprensive di Sufenella.
Sufenella ascoltava con rassegnazione, ma era continuamente distratta da
tutto ciò che le passava davanti: carretti, giovanotti, vecchi,
venditori ambulanti, questuanti, cani, ragazzini che giocavano e
soprattutto dal suono della radio di don Giosuè il cameista, che le
arrivava dal primo piano. In particolare non si perdeva mai due
trasmissioni: Il Gambero e la Corrida, entrambe presentate da Corrado.
Il Gambero era una "hit parade" dell’epoca mentre la Corrida
era una gara tra dilettanti cui evidentemente Sufenella avrebbe in cuor
suo ambito partecipare. Della hit parade conosceva a memoria tutte le
canzoni e le cantava con voce squillante ed appassionata.
'E ggrariatelle d''a Ciucciara
I pensieri e i sogni delle due donne vengono improvvisamente distratti
dalla voce di un femminiello evidentemente molto conosciuto, che vende
numeri per la riffa degli oggetti che sono nel paniere sottobraccio. E’
magrissimo, vestito con abiti dismessi e strettissimi ed ha ovviamente
movenze effeminate. Appena riesce a liberarsi degli scugnizzi che
saltellandogli intorno lo irridono, elenca gli oggetti che costituiscono
il premio della riffa.
In modo teatrale incomincia:
"A mano è llibera! (agitando il panariello)
jamme ch’è l’urdemo! A mano è llibera!
o salame d’a vuzzulosa
v’o’ magnate fella fella
e ve lasse a vocca bella!
A spina e Don Peppino l’elettricista
tu ‘a’n file e se schiara ‘a vista
c’o cafè e Don Ciro Ignarra
o sapore nun se sgarra
ch’e deliziose ‘e Filippiello
saglie ‘o ddoce int’o cerviello
ddoje ove fresche ‘e fiucchella
e te faje ‘na bella frittatella
e pe’ parià ch’ello e chest’ato
Don Vicinzino 'o farmacista
offre cremone e cetrato.
A mano è llibbera! Jammo ch’è ll’urdemo!!!"
Riesce a vendere due numeri alle donne e va via ancheggiando e
gridando: "accattateve ‘o nummero, che ve facce vencere ‘o
panaro mio".
Circa un' ora dopo, il femminiello ritorna alle grariatelle col numero
estratto tra le dita: "è asciute ‘u 29, huè huè, chi ho tene
‘u vintinove ?".
Purtroppo non riuscirà a trovare il vincitore della riffa e, malgrado
sia contento che non abbia dovuto consegnare i premi del cesto, commenta
amareggiato con le donne: "Signurì, ccà nun ho tene mai nisciuno
u 29! Gnesì, comme se dice: ciorte è…29 bbiate chi llave!".
"A chi u dicite a mme, giuvino’, rispose Agnesina, c’haggio
passato ‘a vita cercannolo."
Intanto Giovanni il calzolaio stava uscendo dal basso, due "grariatelle"
piu’ giu’, nel quale abitava e dove abitualmente svolgeva la sua
attività di ciabattino, in quel periodo però non portava fuori gli
arnesi di lavoro, perché, avvicinandosi il natale, la sua
personalità subiva come ogni anno la metamorfosi artistica
per cui già da un mese aveva incominciato a costruire solo pastori per
il presepe.
Su un tavolo accanto all’ingresso poggiava con delicatezza i San Giuseppe,
le madonne, i buoi, gli asinelli, le lavandaie, i re magi, i benino,
insomma tutti i personaggi del presepe già pronti per essere venduti e,
con grande impegno e concentrazione, cominciava a rifinire quelli già
abbozzati.
Quando Giovanni si affacciava all’uscio del basso, Sufenella,
evidentemente interessata a lui, cercava in mille modi di attirarne l’attenzione:
"don Giuva’ (disse una volta togliendosi una scarpa) ‘cca
‘nce vulessere ‘ddoje centrelle".
e Don Giovanni, con pazienza artistica, rimò:
"‘a scarpa e Sufenella
e’ scarpa ‘e figliola
‘a strada soja e’ bella
pecché va verzo o sole!"
….E sufenella, a bocca aperta:
"allora è overo ca facite u poeta".
"non sempre sono poeta" rispose don Giovanni" sono
artista pasturaro e sotto natale ci ho l’ispirazione. mo’
famme fa, si nò i scartielle de cammelle me vengono stuorte"
"Viene cca" tuonò Agnesina rivolta a Sufenella "firniscete
sta cumeta ca cu chiste pierde tiempe".
Mentre Sufenella ritornava al basso di Agnesina, arrivò un signore in
abito impeccabile ma irrimediabilmente liso e coperto da macchie d’unto,
camicia sfilacciata e fascicollo giallo. si tolse dalla cintola un
piattino per raccogliere monete, lo poggiò a terra ed incominciò:
"primo piano, secondo piano, terzo piano, sveglia!
Vi canterò "Vieneme ‘n zuonno" |
'E ggrariatelle d''a Ciucciara
Cantò senza alcun accompagnamento musicale stonando incredibilmente
mentre dall’alto piovevano fischi e bucce di mandarino, oltre a
qualche sparuta monetina. Mentre questi raccoglieva le poche monetine,
arrivò da lontano il suono del pernacchio prima accennato, poi più
deciso, poi sonorosissimo di "Vincenzo della chianca" artista
del pernacchio e castigatore con esso di chi non gli andava a genio.
Tutto il popolo delle "grariatelle" applaudì Vincenzo ma
questi, sdegnoso, andò via con la sua pesante e sinuosa mole "spernacchiando" anche
chi aveva permesso una così ignobile esibizione canora.
Sempre intento alla creazione delle comete, Sufenella ed Agnesina furono
distratte dal suono di un campanaccio.
Sufenella: "Maronne, sta passanno u campaniello pa’ torre,
zitte, famme sentì
che dice Luigi u scucciato", chille quanno sona ‘e chesta manera
porta sempe
guaie. Vuo vide’ che è u vesuvio".
Luigi: "Attenziò, attenziò! Regnite caccavelle, vacile e
butteglie che dalle quattro all’otto manca ll’acqua. Attenziò,
attenziò!".
Agnesina: "menu male, stavota m’ero proprio ‘mprissiunata.
eh’ camma fa, nun ce lavamme, tante chi c’adda’ addura’. Sufene’,
a te t’adda’ addura’ qualcune ? U solachianiello-pasturaro-poeta
hai voglia dò sciuscia’, nun te penza propito!"
"Eh chi è chiste mò ?" domandò Agnesina a
Sufenella mentre da via Fontana
saliva per le grariatelle un signore addobbato con grandissimi occhiali
finti, un cappello fatto di giornale, tipico dei muratori e col
pulcinella a "cuppolone" a mo’ di orchestra accompagnatrice.
Era:
U signore cu ‘e llente:
"Sta passanno u signore ch’e llente
invece ‘e na lire me dà una e trenta
sta passanno u signore elegante
invece ‘e ‘na lira me dà tre e quaranta
sta passanno ‘na bella figliola
invece ‘e na lira me mena ‘o scarpone.
Col motivetto tipico fatto col pulcinella a "cuppolone"
chiese l’elemosina e andò via, coi ragazzini che gli ballavano
intorno.
Intanto una cometa era pronta per volare nel cielo ed un bambino la
guardava estasiato e negli occhi un forte desiderio di averla; in tasca
manco un soldo.
Un vecchio pedofilo gli si avvicina: "te piace , peccerì ‘o
nonno t’accatte."
Senza rispondere il bambino scappò via nelle braccia di Agnesina,
che furente gridò: "vattenne,
rattuso!" poi rivolta al bambino:
"Quanno vide ‘e viecchie rattuso, fuje sempe, ca si no’ te
leveno ‘o grasso a sotto ‘e piede!"
Sufenella: "…e che significa" ?
Agnesina: "significa…significa chello che significa".
Prese il bambino in braccio, lo baciò e gli disse: "tie’! t’a
riale je a cumeta. Viene cu me, mò t’accumpagne a casa. ….Mise
il bambino a terra e, tenendolo per mano in modo fermo e rassicurante,
come se avesse al fianco la sua asina, lo accompagnò giù per le
grariatelle, passando addirittura davanti al basso di Matilde "a
lattara", sua acerrima nemica perché venditrice di latte di mucca,
e lo consegnò sdegnosamente alla madre: "Quanno nun ve sapite
riguarda’ e figlie, nun ‘e facite!"
La vita alle "grariatelle da ciucciara", ossia via
Gradoni e
Canali, andava avanti così.
Gli uomini quasi tutti erano imbarcati, le donne "rociavano"
il corallo, altre infilavano collanine, altre avevano piccoli commerci
nei bassi. Altre ancora svolgevano "l’attività più antica del
mondo", in modo rassicurante e familiare.
La cosiddetta "economia del vicolo" consentiva a tutti di
sbarcare il lunario in quest’ isola pedonale creata dai nostri
nonni.
Ci fu poi qualcuno che pensò di distruggere questi comodi gradini bassi
e larghi detti appunto "grariatelle" e ci buttò sopra una
colata di asfalto.
Oggi via Gradoni e Canali è diventata una sporca strada soffocata dal
traffico, dal degrado e dall’inquinamento. Gli abitanti sono
costretti a vivere tappati nelle proprie case e sembrano abbrutiti e
cattivi.
Ciro Adrian Ciavolino a proposito scrisse negli anni 80 dei bellissimi
versi sul giornale La Torre, parte dei quali vi invito a rileggere con
me.
Si rincorrevano laggiù stagioni
quando l’inverno era l’inverno
e primavera primavera.
Quella gialla, quella rossa,
no, voglio quella azzurra:
una lira in più anche le frange,
una lira in più quattro colori,
oh, le belle comete
ai dolci venti di quelle primavere,
poche lire alle vecchiette magre,
eterne come fossero scolpite
di stessa pietra come quella lava
eppure fragili come il fragile mosaico
che pareva quella casa
piene di carta veline colorate,
di figure di santi, di cose marinare.
rotolavano su quelle scale
i nostri mesi
lungo l’estate quando quasi ignudi
correvamo al mare,
sotto i nostri piedi sole e luna
e argento di maestrale e rosa di conchiglie.
Fino in fondo al tempo del presepe
quando incantati alla bottega del pastoraio
tintinnava la piccola moneta
per San Giuseppe e il cacciatore
e un altro giorno l’angelo,
mercanti, benino, l’asinello, suonatori.
Finì laggiù la mia innocenza,
su quelle scale frantumate d’azzurro
e d’amore di mia madre-paese
ora distrutte
dalle belle idee-danaro
delle teste lucide di smalto
piene di cervella a sei cilindri.
Muore così la mia città.
Antonio Abbagnano
Da questo racconto è stata tratta una sceneggiatura
a cura di Lello Ferrara.
Antonio Abbagnano |