MEZZO
SECOLO FA
Fatti e parole al vespro
di ANTONIO ABBAGNANO
Racconti tra il
vero e
l'immaginario in forma veristica
DOMENICA
D'AGOSTO
(senza verbi).
Dopo l’olio di fegato di merluzzo, i tre giorni
dell’olio di ricino per la prima domenica al mare.
Nemmeno un bicchiere d’acqua per la Messa delle otto.
La predica di Don Rocco, la comunione e nel palazzo in attesa la
carrozzella per il mare.
Pasta imbottita e mozzarella in carrozza, gassosa nel vino e bottiglia
nel sacco di iuta con la stecca di ghiaccio.
Don Umberto il vetturino per la spiaggia del Cavaliere.
Fino al ponte della ferrovia, attraverso il vicolo del cimitero, a piedi
tra le canne e il tunnel del Lido.
Cabina, ombrellone e acqua limpida. Odore del nostro mare.
I raggi del sole: le carezze di una persona cara.
Sotto gli scogli le carnumme con le mani e i gamberetti col fazzoletto.
Il pranzo sulla sabbia cocente e pura e all’una in carrozzella a casa.
Per la strada, noccioline americane e "cazzabbocchio" dall’acquafrescaio.
In casa il sale del mare sulla pelle: sensualità e forza.
Il vecchio Don Peppe col secchio per la "posa del caffè",
il caffè per i vecchi dell’ospizio.
Radio a basso volume per Spaccanapoli.
Controra sul pavimento. Il venticello sotto la porta.
Ogni piccola "refola" una gioia. Qualche refola in più e il
sonno.
Alle sei vestito buono e Villa Comunale per il gelato al Belvedere.
La sera dal balcone lo spettacolo del teatro "Tina Di
Lorenzo". Francesco Albanese o Trottolino, 12 gambe 12 o Operetta.
Domenica d’Agosto.
Antonio Abbagnano
I MERZUNI
Il figlio del ragioniere Sammarco da giorni non stava
bene. Aveva avuto un terribile mal di gola, accompagnato da spossatezza
e dolori per tutto il corpo.
Delle ghiandole si erano gonfiate alla gola ma il medico, più volte
chiamato, aveva sempre detto che ci voleva tempo per guarire, perché la
pomata d’ittiolo, che aveva prescritto, aveva un effetto molto lento
se non accompagnata da una cura di antibiotici, di recente giunti in
Italia al seguito degli Americani.
Purtroppo tali medicinali non erano ancora in commercio e si potevano
trovare solo al mercato nero, a costi proibitivi per il povero
ragioniere.
Passarono un paio di giorni, poi Maddalena, moglie del ragioniere
nonché madre di Peppuccio, il bimbo ammalato, decise di andare da
Cristenella sulla Via Nova.
Coprì ben bene il bimbo, passò da Lucia "a panettera" a
comprare zucchero e caffè e olio d’oliva e si presentò a casa di
Cristenella. Dovette attendere un po’ perché nella casa c’erano
già altre persone, ma quando fu il suo turno, entrò decisa e piena di
speranze.
Consegnò lo zucchero e il caffè all’"assistente",
chiamiamola così, e l’olio d’oliva a Cristenella, una donna di circa
novant’anni, quasi cieca ed ormai relegata su una poltrona per le
gambe che non la reggevano più. Pregò Maddalena di scoprire le braccia
del piccolo e nel contempo diede ordine all’assistente di riscaldare l’olio
d’oliva. Toccò ripetutamente la gola al piccolo Peppuccio, poi
sentenziò in torrese strettissimo: "ci stanno perlomeno dieci merzune che si devono trovare e togliere, dobbiamo lavorare tutte e tre
insieme. Tu, Cuncè, rivolta all’"assistente", devi passarmi
un po’d’olio ogni volta che te lo chiedo…e deve essere bollente.
Tu, rivolta a Maddalena, che sei la mamma, devi mantenere il bambino ben
fermo e con le braccia scoperte e anche se piange…..lascialo
piangere".
Intingendo il pollice nell’olio bollente, incominciò a strofinarlo
sul braccio del piccolo Peppuccio, cercando di scovare i misteriosi
"merzuni".
"Ecco qua, qui ce ne sta uno grandissimo" mostrando a
Maddalena una specie di pallina, tipo ghiandola. Col pollice intriso di
olio bollente, incominciò allora a massaggiare questo merzone con
inaspettata energia e nello stesso tempo incominciò a dire delle
preghiere a San Biagio; dopo pochi minuti, la pallina incominciò a
rimpicciolirsi, fino a sparire del tutto. E così continuò per un’ora
e più, fino a che non ebbe scovato e distrutto tutti i merzuni dalle
braccia del piccolo.
Con un sorriso congedò Maddalena, rassicurandola che l’indomani il
piccolo sarebbe stato bene.
Così avvenne. La mattina dopo Peppuccio, alla faccia degli antibiotici,
ritornò ad essere il vispo e rompiscatole bambino di sempre.
Antonio Abbagnano
I RACCOGLITORI
DI CICCHE
Da pochi mesi aveva finito la quinta elementare e d’allora
non aveva più letto una riga. Le mancavano le lezioni di geografia
della maestra, che lei seguiva attentamente sulle cartine geografiche;
lezioni che parlavano di altri continenti ,dove nascevano persone di
razza e colori diversi, perché il colore nero della sua pelle,
incominciava a farle venir voglia di porre delle domande ai suoi
genitori.
Viveva in un basso con la mamma e il padre adottivi ed uno zio
ciabattino di nome Salvatore. Forse era "figlia della guerra",
ma non si sa.
"Rusella" gridò la mamma" gli spaghetti per zi’
Salvatore sono pronti. Portaglieli che così ce ne andiamo".
Rusella corse in casa, prese il piatto di spaghetti ed invece di
portarli subito a zi’ Salvatore, andò a fare l’ultimo salto con le
amiche al gioco della "settimana". Saltò col piatto in mano e
gli spaghetti finirono a terra.
Rusella li raccolse, li sgrullò, li rimise nel piatto e tremante li
portò a zi’ Salvatore.
"Ah, fece zi’ Salvatore, finalmente tua madre ha messo un
po’ di pepe negli spaghetti!" E se li mangiò avidamente e con
gran gusto sotto lo sguardo prima impaurito, poi divertito di Rusella.
Dal basso uscirono i genitori e, Rusella e la madre ai lati ed il padre
al centro della strada, pronto ad avvisarle dell’arrivo di qualche
veicolo, incominciarono il giro giornaliero per raccogliere mozziconi di
sigarette.
Itinerario fisso. Da "‘ncoppe e fierre", salivano Via
Antonio Luise, Piazza S. Croce, Via Colamarino.
Qui i commercianti del posto uscivano sull’uscio dei loro negozi per
osservare questo strano e colorato trio che con metodica accortezza non
si lasciavano sfuggire una cicca. Il fischio potente di Luigi, figlio di
Baldassare Savastano che funzionava meglio di un messaggio sui
telefonini, avvertiva gli altri negozianti del "passaggio".
Enzo Zignago, il farmacista Alessio D’Aniello, don Vincenzo
Sacchetiello nel suo negozio "Ada", il professor Costabile nel
suo negozio "Avam" (articoli vari Albergamo Maria dal nome
della moglie) uscivano ed "aiutavano" il trio buttando per
strada le cicche che avevano conservato apposta nei posacenere dei loro
negozi.
Solo don Peppino D’Aniello, fratello del farmacista, non partecipava
all’offerta perché fumava sigarette Mentola col filtro.
Il trio si spingeva oltre la Villa Comunale, fin fuori le sedi del
Circolo Sociale "Guido Mazza" e della polisportiva Turris, dove
abitualmente facevano un buon bottino.
Finivano il giro ritornando per Via Roma e Via S. Noto.
Giunti al basso, svuotavano le tasche colme di cicche sul tavolo e dopo
aver sbriciolato i mozziconi, col tabacco recuperato, preparavano
sigarette "miste" e molto economiche per la gente del posto,
che, poveri come loro, non potevano permettersi nemmeno un’"alfa"
o una "tre stelle".
Così camparono per molto tempo, fino a che le sigarette col filtro non
li rovinarono.
Nessuno li vide mai più, si sa solo che zi’ Salvatore non mangiò per
tutta la vita "spaghetti al pepe".
Antonio Abbagnano
IL
MISTERO
DELLE VERRUCHE
E DEI PORRI
Verso i quattordici anni, le dita di Chiara
incominciarono a infettarsi di verruche e porri. Aveva un porro molto
grande, più o meno quanto un cece, in mezzo al palmo della mano e tra
le punta delle dita e le unghie, erano cresciute, inarrestabilmente,
delle schifosissime verruche.
Potete immaginare la disperazione di una ragazza in fiore, dai capelli
neri corvini e due occhi da saracena, che d’improvviso dovette
vergognarsi di salutare gli amici, stringere mani a persone care o
andare a scuola.
Incominciò ad indossare guanti anche in estate e, benché fosse di
natura espansiva ed ottimista, si chiuse in se stessa ed incominciò ad
evitare la gente.
Il padre Alfonso, persona colta ed intelligente, capì che doveva
risolvere questo problema al più presto, perché altrimenti Chiara
avrebbe rischiato seri disagi esistenziali che potevano sfociare in
nevrosi.
Fissò perciò un appuntamento con un dermatologo
per Policlinico di Napoli, un luminare della materia, che sentenziò
trattarsi di una virosi e che doveva essere subito aggredita con raggi
x, perché essendo di natura infettiva, mettendo Chiara le dita in
bocca, poteva evolversi anche internamente con conseguenze gravi.
Spiegò che avrebbe agito estirpando prima tutte le unghie, in modo da
aggredire coi raggi x questi porri alla radice; in due mesi di
trattamento, disse, queste escrescenze sarebbero state distrutte e pian
piano anche le unghie sarebbero ricresciute. Fissò un nuovo
appuntamento per la settimana successiva e li accomiatò.
Alfonso e la figlia Chiara tornarono a Torre del Greco frastornati.
Chiara singhiozzò per tutto il tragitto mentre Alfonso chiamò a
raccolta tutti i Santi del Paradiso con parole irripetibili.
Scesero dal treno della Vesuviana in piena controra e si avviarono verso
la salita dei Cappuccini; oltrepassarono i viali Cristoforo Colombo e
Armando Diaz e sempre più tristi, imboccarono Via Curtoli per
raggiungere poi via Scappi, dove abitavano. Oltrepassato il ponte dell’Autostrada,
dalla stradina a sinistra uscì un bel vecchio contadino con la zappa a
tracolla. Don Alfonso sapeva che questo vecchietto era il padre di una
suo amico proprietario di un’autoscuola; lo saluto con cortesia ed il
vecchietto si avvicinò chiedendo con l’intercalare tipico dei
contadini dalle scarpe grosse e cervello fino:
" …e chi si tu ? Tieni ‘na faccia cunusciute, ma nun m’arricordo
bbuone. Chi sì, comme te chiamme?".
Alfonso e la figlia Chiara si fermarono, anche per riprendere fiato
perché via Cappuccini e via Curtoli fanno insieme una bella salita.
"Mi chiamo Alfonso e sono amico dei vostri figli" rispose
"stiamo venendo dal Policlinico perché questa mia figlia ha
questo problema alle mani e non riusciamo a trovare un rimedio."
Il vecchio guardò le mani di Chiara e le disse:
" Guarda se ne tieni altri dietro il collo, sotto 'sti belli capille
neri".
"Si, rispose subito Chiara "ne ho altri anche sotto i
capelli, dietro la nuca".
"Contali, disse il vecchio, devono essere tredici". Chiara,
come stordita, ficcò le mani sotto i capelli e contò i porri dietro il
collo.
"Si , disse meravigliata, sono tredici!"
"Tredici, come Sant’Antonio, disse il vecchio. "Venite nella
mia stalla, due minuti, faccio una cosa e poi ve ne andate"
Padre e figlia entrarono col vecchio nella stalla e questi , dopo aver
preso alcuni grani di sale, li passò dietro al collo di Chiara, dicendo
delle litanie o delle preghiere o chi sa che cosa.
"Tutto a posto. Adesso andatevene perché devo completare il
lavoro, disse il vecchio, "tra tredici giorni non avrai più né un
porro né una verruca…..e non li avrai mai più per tutta la tua
vita."
Alfonso e Chiara salutarono affettuosamente il vecchio….per l’interessamento
mostrato e, un po’ scettici ma anche illogicamente speranzosi,
ripresero il cammino verso casa.
La settimana dopo padre e figlia decisero di non andare al Policlinico
dal dermatologo; aveva Chiara l’impressione che i porri e le verruche
si stessero riducendo, in special modo quello al centro del palmo della
mano sembrava ridotto alle dimensioni di un chicco di riso.
Dopo tredici giorni Chiara era completamente guarita.
Ritornarono padre e figlia dal vecchio contadino, lo abbracciarono e gli
chiesero che cosa dovevano dargli.
"Niente, rispose il vecchio," bevete con me nu bicchiere ‘e
vino. L’ho fatto con le mie mani e quest’anno il vino del nostro
Vesuvio è ‘na ‘nchiostra".
Antonio Abbagnano
Antonio
Abbagnano
ha
partecipato in questo sito
al
completamento della stesura
della
"Storia
della Turris"
di
Giuseppe Picciano |
Antonio Abbagnano qualche anno fa
RACCONTO
Sposata con due figli piccolissimi, Anna era stata
assunta presso la Filiale della Banca con contratto stagionale part-time
per la sua ottima conoscenza dell’inglese, avendo vissuto fino ai
diciotto anni in Australia dove era nata.
Adesso aveva circa trent’anni ed era una donna bellissima.
Il direttore della filiale, Guido, un quasi sessantenne ancora
prestante, la prese subito sotto la sua protezione ed in poco tempo le
cambiò tipo di contratto trasformandolo da stagionale a tempo
indeterminato, dandole così una parziale sicurezza economica e
paventando il passaggio del contratto da part-time a tempo pieno, se
solo lei avesse…..voluto.
Il matrimonio di Anna era da tempo in crisi e le attenzioni sempre
pressanti del direttore Guido e la promessa indipendenza economica
convinsero Anna ad accettare.
Così Anna e Leandro, il marito, si lasciarono consensualmente ed i
giudici affidarono i due bimbi, Sincera, otto anni e Paolino, tre anni,
alla mamma.
Anna accettò di andare a vivere con entusiasmo nella casetta di Guido,
che da tempo viveva solo perché separato dalla moglie e padre di
quattro figli, di cui uno con gravi problemi psichici ed un altro
tossicodipendente.
Per un anno circa Anna si prodigò tra il lavoro, la casa, i figli e
Guido, incurante dei pettegolezzi dei colleghi di lavoro e dei vicini di
casa. Anna era decisa e sicura di questa scelta; cercava sicurezza nella
vita e nel lavoro e pensò di aver fatto una cosa saggia.
La sera Anna era distrutta dal ritmo che aveva preso la sua vita:
sveglia presto la mattina per preparare i figli ed accompagnarli a
scuola, poi di corsa al lavoro in banca. Ritornare a casa per cucinare e
ritirare i bambini dalla scuola, aspettare Guido e cenare con lui.
Qualche volta Anna già alle nove la sera cascava dal sonno e se i bimbi
erano ancora svegli, pregava Guido di metterli a letto.
Una di queste sere, dopo essersi di colpo addormentata, Anna si svegliò
di soprassalto per una gran sete che stranamente le era venuta ed
aprendo gli occhi vide Guido che accarezzava Sincera nelle parti intime.
Anna si sentì cadere il mondo addosso. Gridò!, gridò!, gridò! Prese
un coltello dalla cucina e tentò di accoltellare Guido, che
vigliaccamente tremante non riusciva nemmeno a trovare una scusa banale.
Poi Guido fuggì ed Anna prese fra le braccia Sincera e con tutto il
tatto possibile , benché fosse terrorizzata, si fece raccontare tutto
dalla bimba. Ringraziando il Cielo la faccenda era incominciata solo
dalla sera prima e non aveva ancora preso una piega irreparabile e la
bimba in apparenza non sembrava aver subito alcun trauma.
Anna il giorno dopo andò in banca a lavorare ma non appena rivide
Guido, gli sputò in faccia tutta la rabbia e lo schifo che provava. In
breve in banca si fece un capannello di colleghi e dai piani alti scese
il Direttore Generale.
Questi, sentito l’accaduto, pregò Anna di prendersi una settimana di
ferie, per…. calmarsi e poi avrebbe preso provvedimenti disciplinari
verso Anna per questa chiassata.
Anna, uscì dalla banca e tentò di ritornare a casa, dove però Guido
aveva già cambiato serratura e non poté entrarci.
Prese allora la decisione di agire. Andò a scuola a prendere i bambini
e si recò al Commissariato a denunciare l’accaduto.
Uscendo dal posto di Polizia sul telefonino le arrivò una telefonata
della moglie di Guido, che aveva già saputo tutto fra lacrime di
coccodrillo dal marito e le spiegò, con malcelata perfidia, che questo
era stato il motivo per cui ella tempo fa lo aveva lasciato e per lo
stesso motivo aveva un figlio con problemi psichiatrici ed un altro
tossicodipendente.
Anna portò sconvolta i figli a casa di Leandro, l’ex marito e gli
raccontò piangendo e disperata ogni cosa.
Il marito chiamò il Giudice della separazione consensuale e Anna fu
costretta "per qualche giorno", le disse il Giudice, "a
non frequentare i figli, fino a che ogni cosa non fosse stata bene
chiarita".
Andando in macchina a casa dei genitori per chiedere ospitalità, Anna
non frenò e andò giù dal cavalcavia dell’autostrada.
Volò per
centocinquanta metri.
Antonio Abbagnano
P.S. Fatti e personaggi sono inventati. Ogni
riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Il fischio alle orecchie
Erano ormai più di venti giorni che Salvatore era
afflitto da un terribile sibilo alle orecchie, che, specialmente di
notte, quando i rumori esterni si placavano, diventava insopportabile.
Appena poggiava il capo sul cuscino questo fischio diventava assordante
e Salvatore incominciò ad avere problemi psicologici. Non voleva più
sentire questo rumore, che violentemente si inseriva nel suo cervello e
non potendo rifiutarlo, si sentiva violentato nell’anima, nella sua
libertà di sentire quello che voleva, inibito nel suo libero arbitrio.
Ateo, comunista, libero pensatore, salvatore era disperato! Era andato
ad un comizio del compagno Aniello Cuciniello, grande avversario dei
democristiani per la carica di sindaco di Torre, ma non riuscì a
concentrarsi, non esultò non alzò al vento la bandiera della camera
del lavoro, come abitualmente faceva, non cantò nemmeno "bandiera
rossa" in coro cogli altri.
Passò per piazza Santa Croce, ove l’On. Crescenzo Mazza stava
ultimando il suo comizio tra un tripudio di bandiere bianche
scudocrociate e non sentì nemmeno gli scherni dei presenti che lo
beffeggiavano vedendolo passare con la bandiera sulle spalle.
Tornò a casa e si decise a chiamare il famoso otorinolaringoiatra che
un amico medico gli aveva consigliato; famoso e purtroppo carissimo per
le proletarie tasche di Salvatore.
La mattina dopo prese il tram di fronte al bar di "Porpettone"
ed arrivò alla riviera di Chiaia dove era lo studio del medico.
"Subì" una visita accuratissima e poi fu fatto entrare in una
cabina per la misurazione audiometrica. Alla fine la diagnosi fu
spietata: "Egregio don Salvatore, sentenziò il dottore, lei e’
affetto da un’infezione interna al condotto auditivo ed al momento ha
soltanto il trenta percento delle capacità auditive. Tra un mese
perderà completamente l’udito ed andrà via anche il fischio che
adesso la tormenta. Purtroppo è destinato alla sordità e non ci sono
rimedi farmaceutici. Quando fa sera, tenga sempre accesa una radio per
evitare problemi psicologici dovuti al fischio".
Salvatore da quel giorno si chiuse completamente in se stesso e
prese l’abitudine di camminare tutto il giorno, fare chilometri e
chilometri, per arrivare a sera e crollare nel sonno per la stanchezza.
"Don salvatore come state?" Gli chiese don Peppino
Sequino, vedendolo passare mogio mogio davanti al suo negozio "ce’
qualcosa che non va?". "..Eh, lasciatemi stare",
rispose don Salvatore e gli raccontò la storia del fischio e
della diagnosi spietata.
"Ma come tu sei di Torre e non sai che il Beato Vincenzo Romano
toglie il fischio dalle orecchie?" Il compare Martorelli ha
avuto anch’egli questo problema ed il Beato glielo ha risolto.
"Vai nella Parrocchia, parla col Beato, digli che pure tu sei
di Torre e se ha tolto il fischio al compare Martorelli, che abita al
Ponte Della Gatta, lo deve togliere anche a te, torrese di via Piscopia,
a quattro passi dove abitava Lui"
Salvatore, come già detto ateo e miscredente, accennò un sorriso di
cortesia e continuò il suo girovagare.
Quando la sera tornò a casa, ne parlò alla moglie Rosaria, con tono
quasi di scherno ed andò a dormire esausto e con la radio accesa.
L’indomani la stessa storia, la stessa interminabile camminata con la
faccia a terra, il ritorno a casa. Radio accesa per dormire e non
sentire il fischio.
Verso le tre del mattino, balzò in mezzo al letto, gridando "Rosaria,
non ho più il fischio, non l’ho sento più. Parla, parla, voglio
vedere se sono diventato sordo".
"Lo sapevo che non avresti più avuto il fischio, rispose la
moglie, "stamane sono stato dal Beato a pregare, gli ho acceso
una candela e lui mi ha sorriso".
Salvatore la guardò, commosso da tanta fede e finalmente pianse,
pianse tanto che per un istante si fermò temendo di aver risentito il
fischio, che invece non tornò mai più.
Due anni dopo, Salvatore incontrò Pasquale d’Angelo, un amico di
vecchia data di Marano. Salutandosi affettuosamente, Pasquale gli
raccontò della sua disperazione dovuta ad un maledetto fischio che
aveva alle orecchie e che lo stava distruggendo psicologicamente e
fisicamente….. E naturalmente Salvatore gli raccontò della sua
esperienza.
Il giorno dopo, alle sei di mattina, il cattolicissimo Pasquale d’Angelo
partì con la sua 850 scassata da Marano ed alle sette arrivò nella
parrocchia di Santa Croce. Si inginocchiò davanti al Beato e restò lì
fino a sera tardi.
Benché non fosse di Torre del Greco, non ebbe mai più fischi alle
orecchie.
Antonio Abbagnano
La storia è vera. Miracolo o suggestione? Dipende
dal modo di pensare di ciascuno. Ma la nota più bella del racconto è l’ultima:
Benché non fosse di Torre del Greco, non ebbe mai più fischi alle
orecchie.
Si evince da questa frase il concetto di estrema umanizzazione del
divino nella forma mentis dei napoletani. Come se un Santo per i suoi
miracoli preferisse il compaesano ad uno extra moenia. E' proprio questa
estremizzazione della logica che genera l'ateismo.
L. M.
Le lave d’acqua
Enrico, dieci anni, balzò dal letto e, tremando per
il freddo che entrava dalle sgangherate finestre di casa, si vestì in
fretta, ingozzò la ciotola di latte ed orzo con alcune molliche di
pane, prese la cartella più grande di lui e si avviò per andare alla
Scuola Elementare 'Nazario Sauro'. Aveva cinque lire in tasca,
raggranellate vincendo una grande gara coi tappi di birra "sotto il
muro" il giorno prima con Michele, figlio di un funzionario della
dogana (a ruana) di Piazza del Popolo. Con quelle cinque lire non
riusciva a decidersi se comprare finalmente il mitico pennino a forma di
Torre Eiffel, che ormai tutti i ricchi della sua quinta classe del
professor Ascione possedevano o un "coppetto di sorbe
pelose" (corbezzoli) da quel signore col carrettino, che si
posizionava provocatoriamente e tutte le mattine all’ingresso della
Scuola.
Appena fuori il portone, si rese conto che
poco prima un temporale si era abbattuto nella zona. Da via De Bottis,
da via Piscopia e dal vicolo del Carmine scendevano tre fiumi di acqua
piovana, che si congiungevano all’inizio di Via XX Settembre, il Rio
appunto, formando, con un fragore enorme, una lava di acqua
pericolosissima. L’acqua che usciva da vico del Carmine, sbattendo
contro la statua di Garibaldi, aveva ormai distrutto l’edicola dei
giornali e il chiosco dell’acquafrescaio "’u sceriff ", per
infrangersi poi contro il negozio di scarpe all’inizio di Via XX
Settembre.
L’acqua che scendeva da Via De Bottis, già carica di carretti e
suppellettili, andava ad infrangersi contro il muro della pasticceria di
Don Leone. Quella da via Piscopia, che conteneva anche la lava scesa
dalle scale dell’Annunziata, trasportava anche ortaggi, frutta ed
altre cose portate via dai vari negozi che aveva sventrato nel suo
percorso.
Un fiume in piena che si incanalava verso San Giuseppe alle Paludi. L’acqua
entrava ed usciva dai palazzi sfondando bassi e portoni, portandosi a
mare le pire di fascine accatastate sul marciapiede dal panettiere
Vartummeo Garofalo, la merce della salumeria Di Lecce, distruggendo la
sartoria Falanga ed accompagnando questa furia devastatrice da un cupo
rombo, portandosi a mare purtroppo anche persone che non erano riuscite
a ripararsi in tempo. Cosciente di questo, dalle finestre dei primi
piani, la gente prendeva reti e funi e si teneva pronta a lanciarle per
aiutare chi annaspava in questo fiume.
Tutto confluiva a mare attraverso il ponte della ferrovia alla fine di
via XX Settembre e quando questo si intasava di suppellettili, auto,
carretti, carogne di animali e alberi, la furia dell’acqua rimbalzava
indietro ed invadeva i palazzi circostanti ed i binari, impedendo anche
il passaggio dei treni.
Quando tutto era passato, la gente usciva fuori nel fango alla ricerca
delle persone care.
A volte mancava qualcuno ed allora si correva al mare tra le carcasse
accatastate sotto il ponte o tra le onde per cercare i corpi. Non c’erano
oggi come allora i Pompieri nella nostra Città e persone coraggiose,
con grande pericolo per la loro stessa incolumità, temerariamente si
calavano fra le onde agitate per cercare tra gli scogli.
Poi, armati di ramazza, il popolo del "Rio" spalava il fango
dai bassi, dalle botteghe, dai portoni, i negozianti cercavano di
recuperare il recuperabile. Tutti con le lacrime agli occhi.
Via XX Settembre rimaneva completamente sventrata dallo scoppio delle
inadeguate fognature e sarebbero occorsi mesi per rimetterla in sesto.
Fino al prossimo temporale, quando ricominciava tutto daccapo.
Enrico, che avrebbe dovuto imboccare vicolo del Carmine uscendo dal
palazzo della Pretura dove abitava, di fronte alla "Ruana", si
vide costretto a risalire via del Purgatorio, passando davanti al
negozio già pieno d’acqua dei "Mezzoni", commercianti all’ingrosso
d’olio, e da lì imboccare via Circumvallazione per raggiungere la
scuola.
Al cancello della Scuola, malgrado il maltempo, il contadino col
carrettino dei corbezzoli era sempre lì. Con orgoglio diede le cinque
lire e finalmente poté comprare, dopo cinque anni d’attesa, le sorbe.
Acerbe, pelose, amare e sporche di fango e terreno; le buttò via ed
entrò in classe. Senza il pennino a forma di Torre Eiffel.
Antonio Abbagnano
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