Il Treno 8017 | |||
Balvano, 03 marzo 1944 |
|||
30 morti torresi |
Pagina 06 | ||
IL
DISASTRO DELL'8017 di Giulio Frisioli |
COMINCIA LA RICOSTRUZIONE DI UNA CATASTROFE IGNOTA Galleria di Balvano, 3 marzo 1944: la più grande tragedia ferroviaria di tutti i tempi
Il ferroviere dice: «Accadde là sotto» Balvano. Alle 0,50 del 3 marzo 1944 un treno merci, dopo aver sostato trentotto minuti a Balvano, si inoltrò lentamente nella galleria delle Armi di là dalla quale a sette chilometri c'è la stazione di Bella-Muro. Doveva percorrere la distanza in venti minuti. Non arrivò: 521 persone morirono asfissiate sotto la galleria. Il manovale Angelo Caponegro era in servizio a Balvano nel '44.
|
Prima
puntata
Si era in guerra. Sulla linea Battipaglia-Potenza un solo treno passeggeri alla settimana. Ai borsari neri ne occorrevano molti: quindi salivano sui «merci». Autorità e ferrovieri erano costretti a chiudere gli occhi All'una circa della notte fra il 2 e il 3 marzo del 1944, un treno merci in servizio sulla linea Battipaglia-Potenza entrò in una galleria, e non riuscì a percorrerla. Il lunghissimo convoglio, composto di 47 carri trainati da due locomotive del tipo 476 di alta montagna, una delle quali era stata aggiunta alla stazione di Romagnano, a metà strada circa fra Eboli e Potenza, dato che il peso del treno appariva eccessivo (470 tonnellate), era giunto alla stazione di Balvano-Ricigliano alle 0,12. Qui aveva sostato per trentotto minuti. Alle 0,50, il capostazione Vincenzo Maglio dette il segnale di partenza. Il merci, che era contrassegnato dal numero convenzionale 8017, si avviò lentamente. La stazione di Balvano dista da Potenza 39 chilometri; la stazione immediatamente seguente, quella di Bella-Muro, 32; fra Balvano e Bella-Muro la distanza è quindi di soli sette chilometri, che un treno, per quanto vada lentamente, non dovrebbe percorrere in più di venti minuti.
SOLO UN GIORNALE PARLÒ DELLA TRAGEDIA, IN POCHE RIGHE
Il merci 8017 non riuscì a percorrere questo brevissimo tratto né in venti minuti né in un'ora; la coincidenza di due fattori (il primo, quello che esso era sovraccarico, il secondo, che il carbone bruciato dalle locomotive non era di buona qualità) concorse a farlo fermare, circa trecento metri dopo che esso aveva imboccato la galleria detta «delle Armi». Quasi tutti coloro che si trovavano sul convoglio morirono per asfissia: se si pensa al poco personale che di solito si trova sui treni merci, si potrebbe dedurne che persero la vita nel drammatico incidente solo alcuni individui. Se le cose stessero così, queste rievocazione del disastro di Balvano non avrebbe ragione di essere. Ma le cose stavano, invece, in tutt'altra maniera: perché a bordo del merci 8017 avevano preso abusivamente posto circa seicento passeggeri, dei quali 521 compirono il quel treno l'estremo viaggio della loto vita, un viaggio la cui stazione d'arrivo aveva il nome «Morte». Quella di Balvano fu una tragedia allucinante e silenziosa; pur costituendo la più grave sciagura ferroviaria mai verificatasi nel mondo, la sua eco non giunse quasi all'orecchio del grosso pubblico; o, diremo meglio, vi giunse attenuata, tanto da non suscitare nessun moto sentimentale. Solo un giornale, il quotidiano napoletano Risorgimento, l'unico autorizzato dalle autorità alleate a vedere la luce, accennò vagamente al fatto, il 7 marzo del 1944, in poche righe della sua cronaca regionale, senza specificare né la località nella quale la tragedia era avvenuta né il numero delle vittime. La censura, in quel periodo, ostacolava il lavoro dei giornalisti; anche quando le cose tornarono normali, nessuno, per molto tempo, pensò di rievocare quel tragico accaduto. Fu solo nel 1951 che due giornalisti napoletani, i quali svolgevano quella forma di attività tipica di quei pubblicisti che nelle nazioni anglosassoni vengono definiti «free lance writers», vale a dire scrittori indipendenti, pubblicarono sulle catene di quotidiani italiani ai quali collaboravano un articolo sul disastro di Balvano, argomento che venne ripreso da alcuni settimanali. Ma anche stavolta i fatti furono narrati frettolosamente, senza entrare nei particolari, e quindi molti aspetti del tristissimo avvenimento rimasero oscuri. Che cosa accadde con precisione nella gallerie delle Armi? A chi doveva essere fatta risalire la responsabilità dell'accaduto? L'Europeo si è proposto di rispondere a questi interrogativi, al secondo dei quali, lo diciamo subito, non è possibile dare una risposta precisa, perché l'ingarbugliatissima vicenda giudiziaria che prese le mosse dalla tragedia di Balvano non giunse alla sua fine.
Prima di inoltrarci nella cronache del disastro, sarà bene ricordare un po' ai lettori, specie a quelli che vivevano nel 1944 al di sopra della Linea gotica, quali erano le condizioni in cui si viaggiava nell'Italia meridionale. Le comunicazioni erano ovviamente mal servite, dato lo stato di guerra. I treni partivano, ma non sempre, in orario, e giungevano sempre con un elevato ritardo alle stazioni terminali. Quanto alla linea Battipaglia-Potenza, che tuttora non gode della trazione elettrica, e in molti tratti è ad un solo binario, essa era stata dichiarata di interesse militare, e il Governo Militare Alleato la gestiva in proprio, con l'aiuto del personale italiano delle Ferrovie dello Stato, consentendo che su di essa transitasse un solo treno la settimana per passeggeri. A questo punto, è necessario ricordare quel tipico fenomeno del tempo di guerra che fu la borsa nera. Fosse esercitata su vasta o su piccola scala, la borsa nera metteva in condizione gli abitanti delle grandi città di rifornirsi di quei viveri dei quali si avvertì la deficienza negli ultimi anni di guerra. Napoli specialmente, la grande città che soffrì, dal 1942 in poi, una grande fame, era un mercato che si presentava, per così dire, stimolante nei riguardi di chi se la sentiva di sottoporsi alla corvée di recarsi a reperire dove fosse possibile generi alimentari, per poi rivenderli con un certo margine di guadagno. Migliaia di individui dei paesi circostanti, sui quali si abbatté la disgrazia della disoccupazione, si orientarono quindi verso la borsa nera; poco per volta, essi giunsero alla convinzione, esatta, che la località in cui si sarebbero potuti più facilmente fornire di quei generi che mancavano a Napoli, come la carne, l'olio, il grano, il tabacco, e perfino la verdura, oltre che i cereali e i legumi, era Potenza, il capoluogo di una provincia la cui economia si fonda proprio sull'agricoltura e sull'allevamento del bestiame.
I RIFORNIMENTI PER IL MERCATO NERO DI NAPOLI
Potenza dista da Napoli solo 166 chilometri; partendo la sera da Napoli era possibile giungervi all'alba, fare i propri acquisti, e tornare nella capitale della Campania nel pieno pomeriggio. Il piano di lavoro dei borsaneristi era semplice, se pur faticoso; ma, a stroncare la loro attività, venne la requisizione della linea ferroviaria Napoli-Potenza, effettuata dal Governo Militare Alleato subito dopo l'ingresso a Napoli delle truppe della 5ª armata americana, che avvenne alla fine del settembre del 1943. Come abbiamo detto, da allora fu autorizzato il transito di un solo treno settimanale per passeggeri, il mercoledì. Invece, i borsaneristi, specie quelli la cui attività potrebbe essere paragonata a quella dei commercianti al dettaglio, erano premuti dalla necessità di effettuare viaggi continui, e non potevano non servirsi delle ferrovie, data la requisizione di tutti i mezzi di trasporto azionati a benzina o anche a metano. Se davvero la militarizzazione della linea Napoli-Potenza avesse inferto un colpo mortale all'attività dei piccoli speculatori, non staremmo qui ora a stendere questa cronaca di un avvenimento di dodici anni fa; perché il merci 8017 non si sarebbe fermato nella galleria delle Armi, la cui pendenza, che non supera il 13 per mille, esso sarebbe riuscito a superare, tenuto conto del suo peso e della trazione effettuata da due locomotive. Invece, i borsaneristi non rinunziarono al loro lavoro; facendo giusto affidamento su certe qualità tipicamente meridionali, essi fecero in modo da adattare ai loro scopi la situazione, poiché non potevano adattarsi essi stessi alla situazione che l'ordinanza del GMA era venuta a creare; e nacque così una specie di «modus vivendi» sul quale, purtroppo, gli Alleati chiusero benevolmente gli occhi. In sostanza, avvenne questo: i borsaneristi trovarono rapidamente un accordo con il personale italiano di scorta ai treni merci che da Napoli si recavano ininterrottamente a Potenza; i conduttori dei treni, un po' per buon cuore, e qualcuno anche per speculare sulla situazione, consentivano che nei vagoni dei convogli, quando non erano stipati di merci, prendessero posto clandestinamente dei viaggiatori; quanto al personale alleato di scorta al treno, aveva capito la situazione, e fingeva di non rilevarne l'irregolarità.
ALMENO 320 QUINTALI DI VIAGGIATORI ABUSIVI
Questa specie di compromesso, comprensibile sul piano umano, funzionò a perfezione fino all'alba del 3 marzo del 1944, fino al momento in cui, cioè, il merci 8017 si fermò nella galleria delle Armi. Nei carri scoperti, in quelli coperti, e perfino sugli imperiali di questi ultimi, avevano preso posto circa seicento persone, che viaggiavano certamente molto peggio dei quaranta militari che dovevano per regolamento, una volta, stiparsi nello spazio di un vagone. Un facile calcolo fa stimare il peso di quei seicento viaggiatori irregolari sui trecentoventi quintali almeno. Se si tiene conto del carbone adoperato, che veniva fornito dagli Alleati, e proveniva dalla Jugoslavia, ed era, notoriamente, dotato di un insufficiente potere calorifico, mentre abbondavano in esso le scorie che, bruciando nelle caldaie, si trasformavano in gas di scarico, costituiti per lo più da monossido di carbonio, un terribile veleno ad azione rapida; se si tiene conto del fatto che, con questo carbone, le due locomotive avrebbero potuto trainare, in salita, non più di cinquecento tonnellate; se si ricorda che il peso del merci 8017 era, a vuoto, di 479 tonnellate, basterà sommare a queste tonnellate le 32 del peso dei passeggeri per notare come, sia pure di poco, il limite si sicurezza era stato superato. Naturalmente, queste considerazioni non furono fatte a Napoli, la sera del 2 marzo, prima che il treno partisse; se il capostazione che gli dette via libera si fosse preso la briga, di fronte al brulicare, nei carri, di persone che egli non poté fare a meno di vedere, di ragionare un po' sulla faccenda, il merci 8017 non sarebbe partito se non dopo che ne fossero scesi coloro i quali vi erano abusivamente saliti. Ma quello dei treni merci diretti in Lucania stracarichi di clandestini era ormai uno spettacolo consueto, per i ferrovieri napoletani. Perciò, dopo aver superficialmente controllato il «foglio di viaggio» del convoglio, sul quale era detto che il merci 8017 era destinato a Catanzaro, dove avrebbe dovuto caricare legname che «serviva per esigenze determinate dalla guerra e di competenza del Governo Militare Alleato» , quel capostazione si assicurò che il personale di scorta al treno avesse preso posto sui vagoni; poi agitò la mano verso i macchinisti, che, sporgendosi dal finestrino, attendevano il suo segnale, emise i regolamentari tre trilli dal suo fischietto. Non sapeva che, espirando con una certa violenza una minima quantità di aria dai suoi polmoni, avrebbe avviati 521 persone verso il posto dove i loro polmoni sarebbero stati rapidamente saturati dal monossido di carbonio, e ne sarebbero rimasti paralizzati.
Seconda puntata - 18 marzo 1956, pagine 52-55 Il più grande disastro ferroviario del mondo
OGNI VIAGGIATORE SEDEVA CADAVERE AL SUO POSTO
* Sotto la galleria delle Armi due locomotive emettevano fumo prodotto dalla combustione di cattivo carbone jugoslavo * Il treno 8017 si era appena fermato per insufficienze di calore * Un terribile errore: bisognava fare subito marcia indietro * Macchinisti e fuochisti asfissiati per primi * Cinquecentoventuno persone passarono nel silenzio dalla vita alla morte
I passeggeri «abusivi» del «merci» 8017 erano quasi tutti addormentati quando il convoglio si arrestò sotto la galleria. Le loro salme furono allineate sul marciapiede della stazione, a un centinaio di metri dalla galleria. L'identificazione delle vittime fu iniziato subito. Non fu un'impresa facile. Molte di esse, per lo più piccoli trafficanti in borsa nera, erano prive di documenti. Il treno fu rimorchiato all'aperto la mattina del 3 marzo 1944.
Angelo Caponegro è un manovale delle Ferrovie dello Stato; veste quasi sempre in borghese; un berretto col fregio che rappresenta due ali d'oro poggiate su un cerchio nel quale le lettere F e S sono ricamate l'una sull'altra indica la sua appartenenza alle Ferrovie; la visiera copre di una strana ombra i suoi occhi piccoli e acuti, sotto i quali un gran naso spicca sul volto onesto dell'uomo. Guarda lontano; si vede che, con la mente, si sforza di tornare indietro negli anni, che tenta di mettere a fuoco certi ricordi che vanno ormai, col trascorrere del tempo, diventando labili, imprecisi. La notte fra il 2 e il 3 marzo 1944 era di servizio alla stazione di Balvano-Ricigliano, insieme all'operaio di prima classe Vincenzo Biondi, il cui grado è rappresentato da una striscetta verticale d'oro che si trova ai due lati del sottogola del suo berretto. Quella notte, i due non avevano nessun motivo particolare per interessarsi più del consueto al treno merci 8017, giunto da Napoli alle 0,12. Per i ferrovieri, un treno non rappresenta, naturalmente, un fatto umano; esso è solo un convoglio, contraddistinto da un numero convenzionale, dalla sua qualifica di treno rapido o diretto o accelerato o merci, dal numero dei suoi vagoni, dall'orario di arrivo e di partenza. Nessun treno attrae in modo particolare la loro attenzione, e a questa regola non sfuggì il merci 8017. Il fatto che fosse gremito di passeggeri abusivi faceva parte anch'esso di una consuetudine che durava da più di un anno. Quando esso giunse alla stazione di Balvano, il suo carico umano era profondamente addormentato, in gran maggioranza. Adesso, può riuscirci difficile capire come si possa sprofondare nel sonno stando ammucchiati nei vagoni di un merci, nell'interno dei quali non v'è che il pavimento per adagiarvisi. Ma dodici anni fa la cosa era normale, o quasi,; ognuno di noi ricorderà di essersi addormentato in un rifugio, quando un allarme aereo si protraeva per lungo tempo: un fatto che oggi ci sembra impossibile. Nel treno merci che giunse, quella tale notte, a Balvano, tutti dormivano, meno i macchinisti delle due locomotive, i due fuochisti, e il frenatore del vagone di coda, Michele Palo. In questo fatto, è un altro segno della strana fatalità che si accanì sul lunghissimo convoglio. Se esso avesse dovuto percorrere di giorno i trentanove chilometri che separano Balvano da Potenza, senza dubbio il disastro non avrebbe assunto proporzioni tali da renderlo assolutamente eccezionale nella storia di tutte le ferrovie del mondo. In tal caso, quasi tutti avrebbero avvertito l'acre odore del monossido di carbonio che si sprigionava dai fumaioli delle due locomotive che trainavano i quarantasette carri; e avrebbero potuto tentare di raggiungere lo sbocco della galleria, che non distava più di duecento metri (quando il merci 8017 si fermò per sempre) dalla locomotiva di testa. Invece, i passeggeri del treno, che avevano abusivamente occupato i vagoni, dormivano della grossa. Quando, con il tipico sferragliare dei freni, l'8017 si fermò, dodici minuti dopo la mezzanotte, nella stazione di Balvano, il tenebroso silenzio della campagna circostante, punteggiata da colline sulla cui vetta si poteva distinguere, grigiastra nel lividore della notte, la neve dello scorso inverno che ancora non si era sciolta, non fu rotto dunque dal caratteristico vocio che contraddistingue i treni che viaggiano di giorno, nei quali i passeggeri chiedono che ora è, a che ora si arriverà; e molti di essi approfittano della fermata per scendere a procurarsi dell'acqua, o per sgranchire le gambe. Ruppero quel silenzio di morte (già una specie di sintomo, di premonizione) solo le voci dei macchinisti, del capostazione, del manovale e dell'operaio, che si avvertivano appena, sullo sfondo del collettivo, pesante respiro della gente che dormiva nel treno; uno strano, grosso rumore, paradossalmente anch'esso silenzioso. Il ricordo di questo singolare rumore fa rabbrividire ancora oggi Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi; perché esso assunse, dopo la sciagura, il lugubre significato di una introduzione alla morte, una specie di drammatica ouverture. A questo non pensarono i due allora, né lo pensò il capostazione Vincenzo Maglio, che sbrigò la pratica del merci 8017, e dette alle 0,50 il segnale di via libera verso Potenza, dove il lunghissimo convoglio non sarebbe mai giunto.
A questo punto, prima che il treno si avvii, sarà bene vedere come esso è composto con esattezza, chi lo aveva fatto comporre, e perché; tutte cose che, dato l'allora vigente regime di occupazione militare da parte degli Alleati, non erano a conoscenza nemmeno di tutti i ferrovieri italiani, e si appresero solo in seguito, nel corso del procedimento giudiziario che venne provocato dai parenti delle 521 vittime. Come gli altri treni circolanti sulla linea Battipaglia-Potenza, l'8017 veniva effettuato su ordini delle autorità alleate che specificavano il numero dei carri che dovevano comporlo. Le Ferrovie italiane, del materiale a loro disposizione, sceglievano quello adatto a quel percorso e al tipo di trasporto che doveva essere effettuato. L'8017 del giorno 2 marzo venne costituito con 47 carri e due locomotive in testa, del tipo a quattro assi accoppiati. Dai calcoli effettuati prima di comporre il treno, venne rilevato, come dicemmo nella scorsa puntata, che esso poteva «tirare», tenuto conto del carbone scadente, che veniva fornito dalle autorità alleate, 600 tonnellate e non più (e abbiamo anche visto che questo margine di sicurezza fu superato, se pure di poco, dato il peso complessivo dei seicento viaggiatori abusivi). Il carbone era di provenienza iugoslava. Esso non sviluppava un calore sufficiente per il tipo di locomotive di cui disponevano le Ferrovie italiane; ed emanava dalla combustione gas tossici che spesso stordivano i macchinisti.
IL TRAFFICO SULLE LINEE REQUISITE DAGLI ALLEATI
Questo inconveniente fu fatto rilevare alcune volte agli Alleati dal capo del deposito del personale viaggiante di Salerno, Francesco Mittiga, come egli stesso dichiarò in una deposizione resa il 25 maggio 1948; ma, per esprimerci con le sue parole, «senza nulla ottenere, perché gli Alleati si rifiutarono di prendere qualsiasi provvedimento». Lo stesso Mittiga ci fornisce preziose indicazioni sul come si svolgeva, nel 1944, il traffico sulle linee requisite dagli Alleati. Formalmente, la direzione del movimento nelle stazioni era tenuta da funzionari italiani; in realtà, le disposizioni erano impartite dagli Alleati, che stabilivano la composizione dei treni e l'orario di partenza; per cui l'attività dei capistazione era solamente esecutiva, diretta a rendere possibile l'adempimento di quanto veniva stabilito dagli Alleati, i quali si servivano di un loro personale tecnico composto di capistazione, capitreno e deviatori, che impartivano gli ordini. Il personale viaggiante dei treni era, però, italiano. Il merci 8017 del 2 marzo 1944 venne costituito in tal modo. Esso avrebbe dovuto viaggiare vuoto: solo un ufficiale italiano e sette soldati, regolarmente autorizzati dal Comando alleato, avrebbero dovuto prendervi posto. Ma abbiamo visto invece che il convoglio era gremito di passeggeri abusivi, per lo più piccoli borsaneristi, dei quali il personale italiano e gli stessi Alleati fingevano di non accorgersi, essendosi compenetrati dei bisogni di tanta povera gente per la quale era necessario, per i loro piccoli traffici, raggiungere quelle località dove potevano rifornirsi di generi richiesti in città. Formalmente vuoto, in realtà pieno zeppo di gente, il merci 8017, scortato dal regolamentare «foglio veicoli» che gli Alleati redigevano in duplice copia, partì da Napoli diretto a Potenza; e di qui, come già dicemmo, doveva proseguire per Catanzaro a caricarvi del legname. Pesava più delle seicento tonnellate che le locomotive potevano in teoria trainare. Giunse a Balvano poco dopo mezzanotte, e ne ripartì dieci minuti prima dell'una, con il suo carico di passeggeri (tutti abusivi, meno l'ufficiale e i sette soldati autorizzati) che dormivano.
LE RUOTE GIRARONO A VUOTO SUI BINARI UMIDI
Il capostazione Vincenzo Maglio, l'operaio Vincenzo Biondi e il manovale Angelo Caponegro lo videro avviarsi lentamente, mentre dai fumaioli delle locomotive si levavano alti bioccoli di candido fumo, e imboccare la prima galleria che si trova sul tratto da Balvano a Bella Muro, che dista non più di duecento metri dalla stazione di Balvano. Il buio della galleria lo inghiottì; per un po', si vide brillare il fanalino di coda, sito all'esterno della garitta dove si trovava il frenatore Michele Palo; poi, anche quel lume sparì dietro la prima curva. Nella stazione di Balvano, il telegrafista dette al suo collega di Bella Muro il segnale di «partito». Subito dopo Balvano, il terreno incomincia a salire. Il merci 8017 superò facilmente la prima, breve galleria; anche la seconda fu attraversata senza che, evidentemente, i macchinisti si rendessero conto di qualche difficoltà. Il convoglio procedeva lentamente, in un paesaggio orrido, fatto di rocce che assumono strane forme per la nebbia. Dopo l'uscita dalla seconda galleria, i binari fanno una curva, su un viadotto lungo un trecento metri, prima di inoltrarsi nella galleria delle Armi, che si profila a sinistra, e il cui imbocco è contraddistinto da una S segnata sulla parete di sinistra. I macchinisti forse notarono (nessuno poté raccogliere le loro disposizioni, perché furono i primi a morire) che la velocità dell'8017 non corrispondeva alla pressione delle caldaie; ma dovettero pensare di potercela fare, e proseguirono la corsa. Forse le loro supposizioni non erano del tutto errate. Nonostante il limite massimo di peso fosse stato superato, però non di molto, essi dovettero avere la netta sensazione di poter superare anche la pendenza che presenta il terreno nella galleria delle Armi, pendenza che raggiunge il 13 per mille. Ma un altro imprevisto coefficiente si coalizzò con il peso, con il sonno dei passeggeri e con la cattiva qualità del carbone, per trasformare in una lunga bara il merci. Durante tutto il giorno 2, in Lucania aveva piovuto, una di quelle fastidiose pioggerelle che scendono monotone, come costrette, da uno spesso banco di nubi basse. Alle ventidue circa aveva smesso di piovere; ma l'aria era rimasta impregnata di umidità, una umidità che era penetrata nelle gallerie fra Balvano e Bella Muro, e aveva steso sui binari una specie di micidiale, viscido manto scivoloso. Il dramma avvenne rapidamente. Le locomotive avevano percorso di slancio non più di duecento metri all'interno della galleria delle Armi, quando i macchinisti si avvidero che le ruote trovandosi a dover girare proprio nel posto dove la pendenza raggiunge il suo massimo valore, non «mordevano» più i binari, e cominciavano a girare a vuoto, con una velocità sempre maggiore, mentre il convoglio non avanzava più di un metro. I due macchinisti ed i due fuochisti del merci 8017 del 2 marzo furono i primi a morire, lo abbiamo detto. Di fronte alla morte, un senso di pietà dovrebbe sommergere ogni altra considerazione. Ma noi stiamo facendo una rievocazione di un fatto, e la commozione non deve velarci gli occhi. È indubbio (bisogna dirlo, se pure con rammarico) che il personale di macchina commise un grave errore. Risultò dalle perizie condotto dopo il disastro, che le caldaie, quando i macchinisti ed i fuochisti si abbatterono, esanimi, sulle leve di comando, erano al massimo della loro pressione. Dal fatto si può dedurre che essi, invece di invertire immediatamente la marcia, e tentare di portare il treno all'aperto, manovra che avrebbe richiesto non più di tre o quattro minuti, commisero invece la grave imprudenza di aumentare la pressione delle caldaie, nella speranza di riuscire forse a scuotere il pesante convoglio dalla sua mortale inerzia. In quei tremendi attimi, essi dovettero dimenticare o trascurare il gravissimo pericolo costituito dal monossido di carbonio che si sprigionava dal carbone combusto, e la tragedia si compì, sotto il segno di una fatalità tale dal lasciare increduli, stupefatti. Il monossido di carbonio è un veleno ad azione rapida. I macchinisti ne aumentarono, certo senza volerlo, la produzione, alzando la pressione. L'ovattato fumo che usciva dai fumaioli entrò nel loro abitacolo; il veleno li prese alla gola, penetrò nei loro polmoni, li strozzò in qualche minuto. Poi la nube mortale cominciò a stendersi, come una specie di mostruoso serpente, nella galleria delle Armi, e si insinuò nei carri dove i passeggeri dormivano; qui entrò a far parte del meccanismo della loro respirazione, e li avvelenò senza scampo.
|
«LÀ SONO TUTTI MORTI» RIUSCÌ A DIRE IL FRENATORE
La drammaticità della tragedia è adesso acuita, ai nostri occhi, da un altro elemento: il silenzio. Un naufragio, uno scontro, un crollo, una battaglia sono rumorosi. La gente grida, impazzisce, si lamenta. Nella galleria delle Armi questo pathos che precede di solito un dramma fu del tutto assente. Nemmeno una voce commentò l'accaduto. Tutti passarono dal sonno alla morte, tutti quelli che morirono, perché non morirono tutti. L'ultimo vagone, infatti, non fu sommerso anch'esso dalla nuvola di fumo, per fortuna; non lo fu, perché rimase per metà all'aperto, come in bilico fra la vita e la morte, in parte dentro e in parte fuori della galleria. Che
cosa avvenne dei suoi passeggeri, che quando si svegliarono, più tardi,
quasi impazzirono per il terrore, non siamo riusciti a saperlo. Essi
rientrarono nella vita di ogni giorno, con quel pesante ricordo nel
cuore; poiché non esisteva ovviamente una lista di nomi che potesse
metterci in condizioni di rintracciarli, non abbiamo potuto raccoglierne
le testimonianze. Abbiamo tentato di metterci in contatto con chi visse,
magari in uno stupefatto dormiveglia, quegli attimi in cui stavano per
varcare la soglia dell'ignoto; ma inutilmente; ci deve essere, in
costoro, un sentimento che deve portarli a fuggire quanto più è
possibile dal ricordo di quei momenti di incubo. L'unico degli occupanti l'ultimo vagone che non poteva estraniarsi alla tragedia, per la sua funzione, fu il frenatore Michele Palo. Egli non aveva certo azionato i freni, cosa che viene effettuata quando, con una richiesta convenzionale, espressa con un fischio dai macchinisti, i frenatori vengono avvertiti della necessità di manovrare la ruota che serve a bloccare la vettura in cui si trovano. Michele Palo stava riscaldandosi, quando avvenne il disastro, con un fuocherello fatto accendendo alcuni giornali strettamente strizzati, un artifizio messo in atto di solito dai frenatori per far durare il fuoco più a lungo. Non pensava assolutamente a niente, tranne che a combattere il freddo umido della notte con quel fuocherello sul quale si era come accartocciato. Non pensò nemmeno a guardare l'orologio, quando si avvide che il treno si era fermato, e perciò non possiamo conoscere l'ora esatta in cui la tragedia ebbe inizio. Egli rimase tanto stupefatto dell'inconsueto accaduto (non si era potuto rendere conto di quello che era avvenuto nelle due locomotive) che non pensò ad altro se non a scendere per vedere che diamine era successo, perché fosse stato necessario arrestare, senza chiedere la sua opera, il treno. Si avviò, quindi, verso l'interno della galleria. Percorso che ebbe qualche metro, si sentì aggredire alla gola dall'aspro odore del monossido di carbonio. Barcollò per un attimo, sopraffatto dalla nausea e dalla tremenda rivelazione, si voltò verso l'imbocco del budello, e si mise a correre. Tornato all'aria aperta, le gambe gli si paralizzarono sotto. Rimase, così, fermo, per qualche istante, mentre una massa di confusi pensieri gli sconvolgeva la mente. Il tremendo silenzio di morte che gli era alle spalle gli parve dovesse raggiungere, implacabile, anche lui. Il pensiero della morte evocò per contrasto subito, nella sua mente, quello della vita: a Balvano era la vita, qui alla galleria delle Armi, la morte; doveva raggiungere al più presto Balvano. Michele Palo riuscì a scuotersi dal torpore che lo aveva come irrigidito. Emise un terribile grido, e si precipitò, seguendo i binari, verso Balvano. Nel 1944, Michele Palo era ancora giovane: dalla galleria delle Armi, non doveva percorrere, per raggiungere Balvano, più di quattro chilometri e per di più in discesa. In meno di un'ora di marcia, a buon passo, la cosa è possibile. Invece, di ore egli ne impiegò due: pure, gli parve di correre, di volare. È chiaro che il povero frenatore doveva essere tanto sconvolto, quasi privo di sensi, che credeva di correre, ed invece si trascinava. Esausto, con gli abiti a brandelli (non capì mai come avesse potuto lacerarseli), alle tre del 3 marzo 1944 Michele Palo vide finalmente, uscito che fu dalla prima galleria, quella che dista un duecento metri da Balvano, le luci della stazione. Come attraverso un'ombra, i suoi occhi videro che sul binario stava, sotto pressione, una locomotiva; capì che a Balvano avevano saputo, se non proprio del disastro, qualcosa. Percorse gli ultimi metri carponi, con una stanchezza nelle membra quale mai aveva avvertito; quando giunse vicino a Vincenzo Biondi e ad Angelo Caponegro, non ebbe la forza di pronunciare una frase compiuta. Tremava, emetteva suoni sconnessi dalle labbra. «Che è successo, che è stato?» gli gridarono l'operaio e il manovale. Prima di venir meno Michele Palo riuscì a proferire: «Là, là, sono tutti morti, tutti morti». Poi, cadde sul marciapiede mentre l'eco delle sue parole giungeva all'orecchio del capostazione Vincenzo Maglio e del vice capostazione Giuseppe Colonia.
Terza puntata - 25 marzo 1956, pagine 37-41 Il più grande disastro ferroviario del mondo
IN PUNTA DI PIEDI I FERROVIERI SI AVVICINARONO AL TRENO DEI MORTI
* Nessuno si preoccupò del ritardo: in quei tempi accadeva spesso che per percorrere sette chilometri fossero necessarie più di due ore * Cosa succedeva nelle stazioni di partenza e di arrivo mentre 521 persone morivano sotto la galleria delle Armi * Il «merci» fu raggiunto alle quattro del mattino, tre ore dopo la sua partenza da Balvano. Del gas omicida non rimaneva alcuna traccia * Soltanto sull'ultimo vagone, fermo a metà fuori della galleria, qualche viaggiatore respirava ancora. Il resto del treno era immerso nel silenzio * Abbiamo potuto rintracciare due superstiti. Uno ha perso la ragione, l'altro, da allora, ha i capelli bianchi.
Domenico Miele è uno dei superstiti. Deve la vita alla sciarpa di lana, che porta sempre al collo, come un portafortuna. E' un giovane: nella notte della tragedia i suoi capelli incanutirono. Che cosa accadeva nelle stazioni di Balvano-Ricigliano e di Bella-Muro mentre il merci 8017 era fermo sotto la galleria delle Armi, dove il monossido di carbonio sprigionato dal carbone iugoslavo stava asfissiando quasi tutti i viaggiatori che avevano preso irregolarmente posto nel convoglio? Alle 0,50 del 3 marzo del 1944, subito dopo la sua partenza, il telegrafista della stazione di Balvano trasmise a Bella-Muro il regolamentare avviso di «partito» relativo al treno 8017. Esso avrebbe dovuto giungere a Bella-Muro al più tardi in una mezz'ora: non vi giunse, abbiamo già visto perché. Nonostante questo fatto, Bella-Muro non entrò in allarme; e nemmeno entrò in allarme la stazione di Balvano, che non ebbe da Bella-Muro il segnale di «giunto». Un giornale che, nel 1951, fece una breve cronaca del disastro scrisse che questo fu, in un certo senso, l'aspetto più fosco ed inspiegabile della sciagura; e asserì che il personale delle due stazioni non si preoccupò di chiedere in qualche modo notizia del «convoglio fantasma». Un fatto gravissimo, secondo quel giornale. E davvero lo sarebbe, se non ci fosse una qualche spiegazione della cosa; davvero il fatto getterebbe una luce sinistra sui ferrovieri delle due stazioni, i quali avrebbero preferito andarsene tranquillamente a riposare, senza pensare, dato il grave ritardo, alla possibilità di un disastro. Ma
in realtà, come ricordammo nella prima puntata di questa nostra
rievocazione, dodici anni fa, nell'Italia meridionale, i treni partivano
forse in orario, ma per la strada perdevano di vista questo orario, e
accumulavano ritardi assolutamente incredibili. Come risultò durante il
procedimento giudiziario che seguì la tristissima vicenda, il tratto
Balvano-Bella-Muro, benché la distanza fra le due stazioni fosse solo
di sette chilometri, veniva compiuto talvolta, dai treni che lo
percorrevano, anche in 120 minuti. Questo è un dato di fatto che può
spiegare l'apparente disinteresse dei funzionari delle due stazioni, un
disinteresse che solo per un caso assunse, più tardi, l'aspetto di una
trascuratezza colpevole. A Balvano, la notte fra il 2 e il 3 marzo 1944, il capostazione titolare Vincenzo Maglio, dopo aver dato il segnale di partenza al merci 8017, se ne andò a casa a dormire, nella massima tranquillità di spirito. Non v'era motivo perché fosse turbato; non ebbe nessuna premonizione. Si accertò che il capostazione Giuseppe Salonia sarebbe rimasto al suo posto, per assicurare il regolare svolgimento del servizio; salutò tutti, e se ne andò a casa. Il capostazione Salonia si sedette dietro la sua scrivania, e si mise ad attendere: da Battipaglia doveva giungere, alle 2,40, un altro treno diretto a Potenza; egli doveva aspettarne l'arrivo, e «istradarlo». L'8025 giunse stranamente in orario. E fu allora che, dovendolo avviare, Giuseppe Salonia incominciò a pensare che bisognava sapere qualcosa circa l'eccessivo ritardo del merci 8017; infatti, essendo la linea Battipaglia-Potenza servita in quasi tutto il suo percorso da un solo binario, non poteva far partire l'8025 se non quando avesse accertato che la linea era sgombra. Quasi contemporaneamente, anche il capostazione di Bella-Muro pensò le stesse cose: perché potesse entrare in stazione il treno 8025 occorreva che, prima di esso, il merci 8017 continuasse la sua corsa. Dopo aver atteso anche lui senza troppo preoccuparsi fino alle 2,50 (da dieci minuti l'8025 era giunto, intanto, a Balvano), telefonò al collega Giuseppe Salonia.
FINALMENTE SI DECIDE DI ISPEZIONARE LA LINEA
Attualmente i due funzionari non lo ricordano, perché i loro ricordi furono sommersi dalla terribile realtà alla quale si trovarono di fronte in seguito: ma forse, nel corso di quella telefonata, mentre gli occupanti dell'8017 erano già freddi cadaveri, essi scherzarono sull'inefficienza del materiale rotabile allora in funzione, attribuendo il ritardo a qualche guasto. In ogni caso, poiché del merci non si erano avute notizie, si rendeva necessaria una ispezione della linea, per vedere se, dove e perché l'8017 si era fermato; perciò Giuseppe Salonia disse al collega che avrebbe provveduto lui ad un sopraluogo; e, per effettuarlo, dette ordine ad Angelo Caponegro e a Vincenzo Biondi, rispettivamente manovale ed operaio di prima classe, di staccare dal treno 8025, giunto alle 0,40, la locomotiva, sulla quale sarebbe salito per una ricognizione. Poiché ancora non sapevano niente del disastro, i ferrovieri di Balvano apparvero più seccati che altro per il fatto che li costringeva ad un lavoro straordinario piuttosto noioso. Brontolando, essi staccarono la locomotiva del treno 8025, e si dettero alla ricerca di attrezzi e di lanterne. Sulla locomotiva salì il capostazione Salonia. Già la macchina stava per avviarsi, e Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si erano un po' scostati da essa, sul marciapiede della stazione, quando dall'ombra emerse, come una specie di fantasma lacero, Michele Palo, il frenatore della vettura di coda dell'8017, il quale partito dalla galleria delle Armi a piedi, verso l'una, aveva impiegato due ore per giungere a Balvano. La sua apparizione fece capire che qualcosa di drammatico era avvenuto; le sue parole: «Là, là, sono tutti morti!» lo confermarono. Giuseppe Salonia scese dalla locomotiva. Con una freddezza della quale lui stesso si stupì in seguito, prese in mano la situazione; ordinò ad un guardasala di svegliare il capostazione titolare Maglio, e di recarsi subito dopo in paese (Balvano dista tre chilometri dalla stazione) per avvertire i carabinieri, il pretore ed il sindaco ingegner Alessandro di Stasio, che adesso vive a Potenza. Poi risalì sulla locomotiva, mentre Angelo Caponegro e Vincenzo Biondi si prodigavano per soccorrere Michele Palo; e si avviò verso il posto (che ancora non si sapeva quale fosse) dove avrebbe dovuto trovare i morti di cui il frenatore aveva parlato. L'8017 stava fermo lì, all'imbocco della galleria delle Armi, in un innaturale silenzio. Dei suoi 47 vagoni, solo l'ultimo era fermo a metà fuori dalla galleria; di essi, 41 erano vuoti, perché chiusi con un catenaccio applicato alle serrande scorrevoli; gli altri sei erano quelli in cui si erano ammucchiati circa seicento passeggeri in un certo senso clandestini, più un ufficiale e sette soldati autorizzati a viaggiare sul merci. Come scrivemmo in un'altra puntata, quasi tutti i viaggiatori erano piccoli borsaneristi che si recavano in Lucania per rifornirsi di generi alimentari che poi vendevano a Napoli. Ma c'era anche chi non aveva niente a che fare con l'ambiguo mondo dei piccoli trafficanti, tipico di quel periodo. Molte persone le quali, per la loro attività, dovevano forzatamente spostarsi fra Potenza e i centri della Campania si vedevano costrette a servirsi anch'esse di qualsiasi mezzo pur di non trascurare i propri interessi. Si trattava di commercianti, di studenti, di professori, di medici; tutta gente munita magari di regolare biglietto, o anche di un abbonamento settimanale, come ad esempio il professor Vincenzo Iura, dell'università di Bari. Il professor Iura si trovava in un carro di cui divideva le scomodità con novanta studenti della sua facoltà, costretti, per recarsi a Bari dal centro della Campania dove risiedevano, a raggiungere la città presso la cui università erano iscritti per la via di Potenza. Il
professor Vincenzo Iura, un noto chirurgo, era con loro perché non
aveva voluto, durante quei difficili anni, benché vivesse nella
capitale della Puglia, abbandonare il suo lavoro di consulente
dell'ospedale San Carlo di Potenza e dell'ospedale Sant'Anna di Eboli.
Alle spalle di Vincenzo Iura era tutta una carriera in cui l'attività
scientifica si era sposata ad un profondo senso di umanità. Ad Eboli,
dove ci siamo recati per raccogliere qualche testimonianza, tutti lo
ricordano ancora con commozione. Le suore dell'ospedale, i dottori
Imperato, Cassese e Paesano ricordano che il più delle volte operava
gratuitamente. Dopo quel 3 marzo del 1944 l'università di Bari, dov'era
ordinario di patologia chirurgica e di propedeutica clinica, promise ai
suoi familiari che egli sarebbe stato ricordato con una lapide di marmo,
lapide che sia detto per inciso non fu eseguita. Quando il capostazione Giuseppe Salonia giunse, con la locomotiva dell'8025, sul viadotto che precede di poche centinaia di metri l'imbocco della galleria delle Armi, erano le quattro circa del 3 marzo 1944. Una luce livida, quella dell'alba grigiastra, incominciava a rischiarare il paesaggio lunare, denso di rocce e di cespugli che ancora l'ultima neve screziava di bianco. L'ultimo vagone del merci 8017 si intravedeva a stento. In punta di piedi, religiosamente, Giuseppe Salonia, il macchinista ed il fuochista della macchina che li aveva portati sul luogo della sciagura si avvicinarono al treno.
IL TRENO RITORNA A BALVANO CON I MORTI
A tre ore di distanza dal momento in cui si era compiuto il tragico destino dei viaggiatori dell'8017, nessuna traccia rimaneva dell'accaduto. Il fumo saturo di veleno che aveva ucciso 521 viaggiatori si era ormai diradato. Giuseppe Salonia ripeteva tra sé, in una specie di monotona cantilena: «Ma è impossibile, ma è impossibile». Come tre automi, lui, il macchinista ed il fuochista sbloccarono i freni del merci, lo agganciarono in coda con la loro locomotiva, lo rimorchiarono alla stazione di Balvano. Qui trovarono ad attenderli il titolare Maglio, il pretore, il sindaco ed i carabinieri. Qualcuno salì sui carri gremiti di «abusivi»; nei primi cinque giacevano morti compostamente, come se ancora dormissero, tutti i loro occupanti; nell'ultimo, il silenzio non era così completo ed agghiacciante: i viaggiatori stipati in esso erano rimasti fra la vita e la morte; qualcuno aveva ceduto; i più, invece, erano rimasti semiasfissiati, per la benefica azione esercitata dall'aria pura che si respirava all'ingresso della galleria delle Armi. I morti vennero scaricati sui marciapiedi della stazione di Balvano; i vivi furono ammucchiati nella piccola sala d'aspetto e nelle stanze degli uffici. Si tentò in ogni modo di rianimare questi ultimi, ma lo stato di stupefatto torpore nel quale si trovavano non sparì che qualche ora più tardi, quando grossi autocarri giunti da Potenza li trasportarono nell'ospedale civile di quella città. Coloro che sopravvissero al disastro non riuscirono, negli anni seguenti, a ricostruirlo nella loro memoria. Prima di cadere in quella specie di torpore quasi mortale, Luigi Cozzolino, un piccolo trafficante di Resina, dovette accorgersi che un suo figlioletto di otto anni, che viaggiava con lui, era morto, perché lo ritrovarono abbracciato al corpo esanime del bambino. Forse, come tutti gli altri, Luigi Cozzolino dormiva. Si svegliò quando si sentì aggredire alla gola da un sapore aspro; e vide che già suo figlio era morto. In quell'attimo terribile, il suo cervello si svuotò di ogni pensiero ragionevole, e divenne preda di una benigna follia. Lo rinvennero abbracciato al bimbo, dimentico di tutto. Tornò a casa, a Resina, e qui lo abbiamo rintracciato e fotografato. È rimasto, di lui, un uomo incapace di fare un discorso coerente; nei suoi occhi è una pena inenarrabile, della quale per fortuna lui stesso non si rende conto.
UNO CHE DEVE LA VITA A UNA SCIARPA DI LANA
Abbiamo scritto, nella scorsa puntata, che non eravamo riusciti a rintracciare nessuno dei superstiti del disastro ferroviario più impressionante del mondo; dobbiamo modificare questa affermazione. Infatti, abbiamo potuto vedere Luigi Cozzolino; e dopo una lunga e difficile indagine siamo anche entrati in contatto con Domenico Miele, di Roccarainola. Guardatene la fotografia, quella che lo riproduce mentre, seduto al bordo del suo campiello con quattro suoi conoscenti, racconta quello che avvenne. Vedrete l'immagine di un uomo anziano, dai capelli bianchi, con una sciarpa alla gola e una sigaretta fra le dita della mano sinistra. È senz'altro, all'apparenza, il più vecchio dei cinque individui ritratti. Invece, ha la stessa età del giovane coi baffi che si trova alla sua destra. I capelli bianchi di Domenico Miele sono un ricordo del merci 8017. Egli si recava sistematicamente, nel 1944, a Potenza, dove comperava olio, che rivendeva nei dintorni di Napoli. Avrebbe dovuto morire, perché prese posto nel quinto carro del merci 8017. Per un puro caso, era però ben sveglio, quando il monossido di carbonio si sparse all'interno della galleria delle Armi. A Balvano scese un momento dal vagone ed ebbe salva la vita. La sciarpa che si è messa al collo prima di essere fotografato, gli fu anche d'aiuto. Appena il monossido di carbonio lo aggredì, Domenico Miele si fasciò la bocca con la sciarpa. Barcollando, col fiato mozzo, scese dal suo vagone, e si diresse verso l'uscita della galleria delle Armi. Quando giunse all'ultimo carro, le forze gli vennero meno. Sentì dei lamenti, e invece di compiere altri pochi metri, e mettersi definitivamente in salvo allo scoperto, salì su quel carro, e cadde svenuto sui corpi abbandonati di chi l'occupava. Quando si riebbe, dopo qualche ora, gli capitò di trovarsi, per ravviarsi nervosamente i capelli, davanti ad uno specchio. Guardò esterrefatto la sua immagine riflessa. I suoi capelli erano diventati tutti bianchi come la neve. Anche lui venne deposto sui marciapiedi della stazione di Balvano con gli altri occupanti dell'8017. Mentre alcuni autocarri si dirigevano velocemente verso quella stazione, da Potenza, ferrovieri e carabinieri effettuavano il macabro lavoro di separare i morti dai vivi, e di identificare tutti i colpiti. Nell'orgasmo con cui questa operazione vene compiuta, non fu fatto nemmeno un esatto calcolo numerico dei viaggiatori dell'8017. Possiamo però affermare, in contrasto con quanto sostiene qualcuno, che i morti furono 521, dei quali 193 non identificati. Era
pieno mattino quando giunsero gli autocarri da Potenza. Dopo le
constatazioni di rito, il pretore dispose per il seppellimento dei
morti. Il cimitero di Balvano è piccolo; venne perciò scavata una
grande fossa comune, e qui furono ammucchiati i cadaveri, sui quali fu
gettato uno strato di calce. Più tardi, per l'intervento di qualche
parente alcune salme furono sistemate in una tomba a parte. Gli scampati
vennero avviati all'ospedale di Potenza: ne furono dimessi dopo pochi
giorni. Trascorse qualche anno. A un certo momento, ci fu chi pensò di citar per i danni le Ferrovie dello Stato. Un certo numero di vedove, di orfani, di genitori privati dei figli si rivolsero ad alcuni avvocati napoletani; ed ebbe così inizio una lunga vertenza giudiziaria, che non giunse alla sua conclusione. Nel corso di essa, le Ferrovie dello Stato sostennero che, dato l'allora vigente regime di occupazione militare da parte del governo alleato, e dato il fatto che agli occupanti dell'8017 non poteva essere riconosciuta la qualifica di viaggiatori regolari, nessuna responsabilità poteva essere addebitata all'amministrazione. Il
governo alleato aveva condotto intanto un'inchiesta sull'accaduto,
concludendola con l'esclusione di ogni responsabilità da parte del
personale delle Ferrovie. I giudici italiani, però, non espressero
recisamente lo stesso pensiero. Se era vero che i viaggiatori dell'8017
erano tutti «abusivi», come la cosa poteva conciliarsi con
l'esibizione, da parte degli avvocati, di alcuni biglietti rilasciati
dal personale di scorta al treno? D'altra parte, si affermò nel corso
della vertenza, non è vero che un viaggiatore non possa assolutamente
prendere posto su un merci. Se la cosa accade, egli deve pagare il
biglietto ed una penale, e scendere alla prima stazione. Però può
risalire sullo stesso merci, pagare ancora un biglietto ed una penale,
scendere alla stazione seguente; e poi ancora risalire e pagare
biglietto e penale e così via fino alla fine del viaggio. Non si può
dire, però, che la cosa si sia verificata sul «treno della morte» di
Balvano. Così come non si poté provare che l'esercizio della linea
Napoli-Potenza era stato affidato alle Ferrovie italiane il 15 febbraio
del 1944. Una circolare in tal senso venne diramata effettivamente dal
compartimento di Napoli. Ma forse essa non era ancora entrata in fase di
esecuzione al tempo della sciagura.
MOLTE OMBRE CHE NON SONO STATE DIRADATE
In sostanza, sul piano giudiziario il disastro ferroviario di Balvano rimase avvolto da alcune ombre, che non si son potute diradare; perché, a un certo momento, nella questione intervenne, con un senso di umanità raro nella burocrazia, il ministero del Tesoro, che propose di risarcire le famiglie dei morti in base alla legge sui danni di guerra. Il procedimento giudiziario venne così sospeso. Ma la burocrazia riscattò la sua precedente benemerenza con il ritardo nelle liquidazioni. Esse, infatti, non sono ancora state versate a coloro i quali debbono godere di questo beneficio, che è un fatto materiale, non sufficiente in ogni caso a compensare quel terribile fatto che è la morte. Intanto, il ministero dei Trasporti ha ordinato, per la modernizzazione della linea Battipaglia-Taranto, la costruzione di venticinque locomotive Diesel di tipo americano. Quando esse entreranno in esercizio, disastri come quello che abbiamo rievocato non ne potranno più accadere. È da sperare che la loro immissione sulla linea non preceda la liquidazione dei danni alle famiglie delle vittime. Se così sarà, in un certo senso potremo dire che la tragedia di Balvano sarà finalmente un fatto definitivamente compiuto. Giulio Frisoli
Finirono di vivere tutti alla stessa ora e nello stesso buio
L'8017 fu rimorchiato fino a Balvano da una locomotiva di soccorso. I cadaveri furono deposti sulla banchina della stazione e accanto ai binari. Con gli autocarri arrivati da Potenza, le salme furono trasportate al cimitero di Balvano, che dista tre chilometri dalla stazione, e subito sepolte. I 521 morti dell'8017 furono sepolti in una fossa comune, che fu ricoperta di calce viva. Soltanto più tardi, per desiderio dei parenti, alcune salme furono riesumate e sepolte più decorosamente. "Testo dell'articolo tratto da www.trenidicarta.it" |