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Id. 1679
L'ARCADIA TORRESE
Signori,
stamane un gruppo di componenti la "galassia Torreomnia" si è riunita
occasionalmente in un salotto letterario di fortuna presso il "Gambrinus
torrese", l'"Olimpiade, ex Casolaro prospiciente le Poste centrali a
Via Vittorio Veneto. Vedi foto: http://www.torreomnia.it/forum/bacheca/gruppo.htm
I componenti il "Convivio" sono stati Antonio Abbagnano, Peppe D'Urzo,
Paolo Di Luca, Carlo Boccia, Enzo Palomba e il sottoscritto e la platea
circostante che hanno finalmente "auscultato" argomenti diversi dal
calcio e dal Consiglio comunale.
Ed io ho subito ricordato il famoso Caffè Gambrinus del secolo scorso. Il bar
di antica origine. Molti sanno che dalla Turchia si estese a Napoli per la
particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime
spagnolo. Il primo bar fu proprio il "Caffè", dove persone di cultura
amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti
letterari.
Mentre discutevo con i cari torresi "letterati" ciascuno con
monodialoghi, (è tipico torrese), presso il "caffè" Olimpiade
rivedevo la Napoli, del 7-800, dove videro la luce più di cento
"Caffè" tra i quali segnalo per la loro importanza: il Diodati, il
Fortuna, il S. Apostoli, il Caffè dei Tribunali (ovviamente sempre pieno di
avvocati e "pagliette"), il Bar Starace (meta di Antonio Petito), il
Caffè Vacca (in Villa comunale), il Caffè d'Italia (in via Toledo, che
annoverava tra i suoi clienti Francesco Mastriani, autore di 100 lunghi
romanzi).
Per un po' la posta centrale di Torre si è dissolta, i nostri abiti sono
tornati di fattura ottocentesca Abbagnano con marsina, Boccia con parrucca
incipriata; carrozzelle e non automobili nella Via Veneto torrese. Sarò folle,
ma ero seduto innanzi al caffè culturale per antonomasia, il Gambrinus
all'angolo di via Chiaia, stamane ed è stato il 1850 e non 2005. Mi sono
trovato per incanto tra la nuova e la vecchia Napoli: la poetica e
l'industriale.
Altro che bar Olimpiade di Torre, ho goduto della magnifica struttura del famoso
salotto letterario all'aperto Gambrinus, affrescato per la maggior parte da
Caprile, intorno a me gli amici torresi si sono trasformati in personaggi
politici come Crispi, Nicotera, Bonchi, ecc. e l'élite napoletana dei
Filangieri, Colonna, Caracciolo, Pignatelli e Del Balzo, nonché artisti e poeti
da Di Giacomo a Serao, Dalbono, Gemito, Murolo, Bovio, Michetti, Russo, Bracco,
D'Annunzio.
Stamane, innanzi a me nei locali del Gambrinus-Olimpiade. a pochi passi della
scuola intitolata al gracolatinista Giovanni Mazza, sono nate le celebri canzoni
napoletane. E' accaduto stamane che "A Vucchella" di Gabriele
D'Annunzio e Paolo Tosti e sorta dai precordi di un mio collaboratore di
Torreomnia, il Dannunzio-Boccia.
A proposito di letterature e premi letterari. Quello istituito attualmente a
Torre del Greco è di buono spessore, ma è bene non ignorare che in Italia si
consumano ben 30.000 eventi culturali non meno nelle altre nazioni europee, con
la cosiddetta “semicultura” e con il “sottopensiero” oggi abbastanza
diffusi favoriti dal consumismo e dalla globalizzazione.
Come se fosse la desolante prefigurazione di un mondo ormai “postculturale”,
dove persone e libri sono diventati merci fungibili, dove la letteratura stessa
è continuamente scambiata con qualcos’altro: un gadget, un soprammobile, un
oggetto da status simbol.
Scorrendo le pagine di Internet l’elenco degli eventi in programma appare
fittissimo: festival letterari, giardini letterari, parchi letterari, maratone
letterarie, e poi cene filosofiche, colazioni con l’autore, recital di poesia
(in un caso perfino letture pubbliche di reportage narrativi. Senza parlare
delle tonnellate di zavorra scrittoria trita retorica, tracimante dalle pagine
web, dove ciascun pseudo-autore produce nella dimensione di una netta
sottocultura, sotto il vessillo di arte e di contenuti surrogati e
insignificanti.
Insomma, siamo in presenza di una pervasiva "culturalizzazione" della
vita quotidiana, e anzi di una sua estetizzazione.
E i moderni pub e caffé alla moda sembrano delle gallerie d'arte! Non sarà che
questa culturalizzazione sia l'ennesima versione dell'attacco
all'"individuo", alla sua autonomia critica, alla sua capacità di
formarsi da sé i propri giudizi, sferrato con più o meno consapevolezza dal
"Grande Animale", ovvero dal "sistema".?
Il futurologo Alvin Toffler osservava che il capitalismo del futuro sarà
"culturale", dato che le multinazionali hanno scoperto proprio la
cultura (non solo l'informazione) come business illimitato e capace di generare
alti profitti. Ma quale cultura? I temi di terza elementare lunghi chiamati
romanzi, le tiritere ametriche chiamate poesia?
Qual è l’alternativa? Il ritorno alla cultura d’élite, cioè non
massificata, quella dei salotti Europei del passato? No, la contrapposizione non
è tra élite e massa, ma semplicemente tra individuo e uomo-massa. E soltanto l’individuo
può davvero “fare cultura”, ricreando un itinerario conoscitivo personale e
trasformando incessantemente la propria esperienza in qualcosa di significativo
e di comunicabile agli altri, tutto ciò in modo lento, accidentato, e comunque
non garantito.
Quindi il salotto letterario è anticultura perché anti-individuale?.
Poi ho pensato agli anatemi e alle scomumiche di qualche dissidente di
Torreomnia ed il timore, per esorcismo, mi ha portato ancora più indietro a
Publio Ovidio Nasone, che per altro mi somiglia fisicamente, che fu il più
famoso poeta erotico dell’antica Roma. Nato a Sulmona nel 43 a.C.
Egli preferì la vita mondana e superficiale delle classi abbienti e la
compagnia dei poeti nei circoli letterari alla carriera politica. Divenne famoso
per i suoi componimenti erotici quali gli Amores, le Heroides, e soprattutto l’Ars
amatoria, l’Arte d’amare, composta tra l’1 a.C. e l’1 d.C. Glie lo
suggerirò di sicuro a Monica,
Ma predicare Libertà e Amore spinsero l’imperatore Augusto a a mandare l’amato
Ovidio in esilio a Tomi, sul Mar Nero.
Il poema ”L’arte di amare” venne immediatamente bandito dalle biblioteche
pubbliche come qualcuno vorrebbe bandire Torreomnia dalla rete con la scusa del
trasgressivo e della presunta dissidenza. Forse Ovidio fu il proverbiale capro
espiatorio punito da Augusto come istigatore della decadenza e del
libertinaggio. La prima ipocrisia perbenista della storia che si è perpetuata
in Oscar Wilde, Andre Gide, Anais Nan, Pasolini, Busi, ecc.
Il tempo però portò ad Ovidio la ben meritata rivincita post mortem. Il poeta
di Sulmona godette di una fortuna immensa soprattutto durante il medioevo,
quando i suoi componimenti erotici vennero presi come esempi d’amore dai poeti
europei. Infatti Ovidio influenzò moltissimo tutta la produzione poetica del
tempo, dai romanzi di Chretien de Troyes, al Romanzo della rosa e agli scritti d’Abelardo;
dal “dolce stil nuovo” di Dante al Canzoniere di Petrarca, dai Carmina
Burana agli scritti di Milton.
Si può dire senza paura d’esagerare che è soprattutto grazie a lui che la
poesia amorosa europea si è pienamente sviluppata.
Non mi sottopongo al "Nemo propheta in Patria". E' oggi che una
stretta di mano, un sorriso mi farebbe bene. La gloria a morte avvenuta è una
grande defecata solida.
A Via Vittorio Veneto di Torre del Greco, dopo sorbito il "caffè
letterario" con gli amici di Torreomnia ho sentito il filo della mannaia
solleticarmi il collo, mi son trovato a cavalcare il porco, mi hanno legato alla
berlina, infine.
Fortuna che Carlo Boccia mi scuote per la falda della giacca. Rinsavisco e ci
incamminiamo verso casa.
Peppe D’Urzo strada facendo ci ragguaglia sui "pomi bussanti", i
bassorilievi in legno dei portoni, i semi archi in ferro battuto dove gli
abitanti, spiega, scrostavano il fango dalle scarpe. E si duole perché sono
solo due le ville vesuviane da S. Giovanni a Teduccio a Castellammare che non ha
scandagliato con notizie di prima mano.
Ad un certo punto mi sono ritrovato circondato dai "covoni bancari". A
sinistra avevo la “banca dati” della Turris: Paolo Di Luca a destra la “banca
dati” dei fatti e personaggi torresi: Peppe d’Urzo, dietro di me la “banca
dati” storico-anagrafica torrese: Antonio Abbagnano e, innanzi, a me, la Banca
di Credito popolare di Palazzo Vallelonga. Eccolo il sincretismo, ma nella
quarta dimensione della mia postura ci sarebbe voluta una chiesa, per un
accomodamento totale. Ma c'era Dio dall'alto, stamattina, come sempre, che
sicuramente sorrideva sornione alla vista delle nostre sceneggiate umane dove
tremendi mass-media planetari trascinano masse anche in nome Suo.
Ecco formato una nuova Arcadia torrese, anche se all'acqua di rose o all’aroma
di caffé olimpidiano o casolariano, come vi pare; ma un Arcadia emendara
disidealizzata, fatta di danaro e di menti, un sincretismo da Dio e mammona.
Arcadia nuova maniera rispetto a quella fondata nel 1690 a Roma, da parte di un
gruppo di letterati Gravina, Crescimbeni, ecc, dove Guerra e imperialismi sono
assenti dall'Arcadia: l'avidità dell'avere è un disvalore, così come la
violenza d'ogni tipo, simboleggiata dalla figura del satiro libidinoso. Sono
quindi assenti, nella costruzione della sua utopica società anarchica, il
commercio e l'industria, ma anche l'agricoltura.
L'Arcadia infatti, essendo un movimento di intellettuali, affidava alle
astrazioni dell'amore platonico e dell'arte poetica e musicale il compito di
riconciliare l'uomo con la natura. L'Arcadia si era sempre sentita come
assediata da un mondo proteso verso il profitto e, dando per scontata la propria
sconfitta, preferiva rifugiarsi nel profondo delle foreste o fra montagne
inaccessibili o in isolette solitarie. Rispetto alla Nuova Atlantide baconiana e
alla Città del Sole di Campanella è meno filosofica e più
"ambientalista" (le idee-guida sono poche ma precise: l'albero,
l'animale, l'uomo, il corso d'acqua sono membri paritetici dello stesso
ecosistema).
Ma l'Arcadia torrese in seno a Torreomnia va ancora statutizata e si rivolge
innanzitutto alla carenza principe letteraria locale: la narrativa che non ha
mai trovato sbocco valido nella nostra città, quella dell'aneddotica e del
fatto domestico, delle famiglie, dove in fondo si forgiano gli uomini di domani.
La narrativa e rivealzione, confessione, sventramento, può conciliarsi col
perbenismo, col provincialismo, col salvare la faccie e filare sempre sul filo
della bravura e della perferzione?
E concludo con Peppe d'Urzo che ho appena lasciato, stamane, nella sua mole
turrita.
Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono
incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon
fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più
minuto. Non solo. Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente,
Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul
personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere
inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del
Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che
racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera
schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire
il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito,
va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della
storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al
tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico,
fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari,
dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e
mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi
l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli
emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché
scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente
inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso
si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica
vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente
non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo
alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo,
che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi
di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano
uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa
dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo,
per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti
tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici:
lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti
d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla
soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale,
dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del
Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa
e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora,
ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del
nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari
narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di
benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la
fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di
fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio
bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli
occhi...".
Luigi Mari
Id. 1802
A PROPOSITO DI EDUARDO
Buona notte a tutti, ORA DICO LA MIA
Desidero trasmettere un profilo del Grande Eduardo un po’ fuori le righe,
allineandomi allo spirito di questo forum. E’ una chiave di lettura nettamente
personale. La conflittualità tra l'essere e l'apparire è stata la vera fortuna
di Eduardo De Filippo. Da questa sorta di “predicare bene e razzolare male”
non per ipocrisia, beninteso, ma grazie alla prerogativa e alla natura del
commediante autentico, è sorto l’attore che è grande, appunto, quando l’apparire
non somiglia all’essere. Un grande attore non piangerà mai davvero sulla
scena, ad esempio. Se “buono” interpreta bene il “cattivo” e viceversa.
Recitare se stessi lo sa fare chiunque.
Negli anni 60 il grande Eduardo venne a Torre per assistere ad una
rappresentazione di "Natale in casa Cupiello" messa in iscena da una
Compagnia torrese, al Teatro Metropolitan, se non sbaglio: la “Loreto Starace”.
Correggetemi. Schivo e riservato, in sala, assunse un atteggiamento freddo e
distaccato che non lo dimenticherò mai, dove si leggeva chiara la
disapprovazione non già solo per giustificabili errori dilettantistici ma come
per una sorta di senso di profanazione da parte dei ragazzi.
Eduardo non era fondamentalmente cattivo, ma tormentato, Il suo carattere
spigoloso e complesso si impernia sulla consapevolezza di essere stato concepito
da un rapporto "irregolare". Questo tormento si sprigiona in lui
quando prende questa consapevolezza nell'età evolutiva sapendo di essere nato
da Luisa De Filippo e Eduardo Scarpetta, mai sposati, con il quale iniziò a
lavorare da piccolissimo, nel 1904, quando debuttò come giapponesino nella ‘Geisha’.
Conosceva bene il dolore umano e aveva in se, tuttavia, una profonda umanità.
Molti torresi professionisti hanno lavorato con Eduardo, attori, tecnici,
elettricisti. Ho raccolto una serie nutrita di aneddoti. Ai suoi plateali gesti
di generosità e di comprensione per i deboli a volte contrapponeva
atteggiamenti molto rudi e poco socievoli. Mortificava gli attori in scena
fermando la recitazione. Non veniva evitata qualche varbalità blasfema o
qualche calcio. Mi fermo qui per non guastarne la memoria, in rispetto della sua
persona umana, inoltre defunta, sottolineando, per contro, la sua indubbia
genialità nata, appunto, da questo particolare “pathos creativo”, pur non
avendo seguito studi regolari e non detenendo, infondo, una grande cultura, se
non una forte erudizione settoriale. Uno dei pochi casi al mondo nel dare tanta
importanza al suo personaggio da farsi chiamare solo col nome attribuendone
antonomasia nel mondo intero ad un nome comune di persona.
Tranne che per il Dott. D’Agostino che lo chiama carinamente, simpaticamente e
sicilianamente: “Edoardo”.
Quello, comunque, che risalta dall'opera complessiva del Nostro è una grande
esempio di morale e di giustizia. Quasi un trionfo della logica comune più che
del più caduco e fragile immaginario collettivo.
Ma il concetto, un po' astratto, sarà più esplicito dalle parole di Eduardo
stesso:
>“Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall'unione del più grandi perché
attore-autore-regista e capocomico napoletano di quell'epoca, Eduardo Scarpetta,
con Luisa De Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze
della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano 1a sveltezza e la
strafottenza di quelli d'oggi e quando a undici anni seppi che ero "figlio
di padre ignoto" per me fu un grosso choc.
>La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a
raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero
orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure
saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall'età di quattro anni
[...], d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità
mi opprimeva dolorosamente.
Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché
"diverso". Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa
strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si
sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata
"diversa" dalla società.
>Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le
sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico
non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che s'è prefissata.
Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia "diversità" mi
pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne
andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo
proposito di trovare la mia strada.
>Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da
sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me”.
(Nota autobiografica risalente ai primi anni Settanta).
Il merito di De Filippo, come autore, è quello di avere saputo elevare il
teatro napoletano a un livello di dignità e di risonanza nazionale, anche al di
fuori delle sue straordinarie capacità di interprete. Una mimica eccezionale,
scoperta e sottolineata dai primi piani del cinema, prima, e dalla televisione,
poi. Nonché di una fonìa vocale personalissima, accattivante. Eduardo ha
saputo a un certo punto innestare, inoltre, la tradizione ottocentesca sulle
istanze della poetica neorealista, sia per quanto riguarda l' uso del dialetto,
sia per la vivace rappresentazione della vita popolare, con gli ambienti di una
dolorosa miseria e i problemi di una
precaria sopravvivenza. Forse senza volerlo l'imbroccò sull' “identificazione
emotiva proletaria”, un immaginario collettivo planetario concorde, che fa
perno sulle emozioni domestiche, per così dire: il successo è stato capillare
e totale. L’influenza di Pirandello ha fatto il resto perché ha “culturalizzato”
la sua opera rendendola appetibile pure per la critica europea fino a quella
internazionale.
Per concludere, mai nella letteratura, prima di Eduardo, era stato imbroccato un
tema di carattere universale come quello di “Filumena”, tra l’antitesi
emotiva figli-prostituzione, entrambi concetti antichi come il mondo, (quasi un
dualismo), sempre trattati separatamente, ma questa volta uniti dal concetto
planetario di amore, dando un senso umano e solidale a tutta la vicenda, temi
assimilabili e condivisibili da buoni e cattivi insieme, appannaggio della
vittoria della "logica comune", il più grande sinonimo della parola
"giustizia".
Luigi Mari
Id. 2353
NARRATORI CAMPANI
Ribadisco! La letteratura vesuviana intesa come narrativa langue, anche perché
il veicolo della scrittura basisce sempre di più per fare posto al multimediale
e all'interattività.
Nel mio libro "Da Magonza a Torre del Greco" cartaceo autoprodotto e
distribuito gratuitamente nel 1998; scaricabile oggi in rete, in Torreomnia, si
trova questo testo.
"Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale che
caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta Europa. La
cultura napoletana in seno all’Università di Napoli vede, alla fine del
secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis,
personaggi come Settembrini, De Blasiis, Spaventa, ecc. Ma, a far ruotare a
tutto spiano le piano- cilindriche tipografiche vesuviane furono personaggi come
lo scrittore popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, Vittorio
Imbriani, che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso.
Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi famosi Ventre di
Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi
le orme del marito Edoardo Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di
Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli, fondò infine Il Giorno.
Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e varie prose.
Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto Bracco, valido critico e
giornalista, sprovvisto persino di licenza elementare. Esempio emblematico di
autodidatta, fu deputato e persino candidato al Premio Nobel.
Soprassedendo su Croce e Flora, Pasquale Villari, alla fine del secolo scorso
compose diverse opere di critica e di storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che
fondò, tra l’altro, La Stampa di Torino. Studi di Storia Letteraria
Napoletana e Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere
di Francesco Torraca".Nel Libro Magonza qui vengono citati i narratori, i poeti, i parolieri
vesuvuani:
"Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo, poeta
dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera più pacata,
Raffaele Viviani col suo teatro. Quindi Rocco Galdieri, che espresse nelle sue
opere quel suo triste umorismo nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra
i due secoli. Ernesto Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse
delle quali furono musicate. Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo
Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta, altrimenti detto E. A. Mario,
che scrisse La Leggenda del Piave e la canzone Balocchi e Profumi. Dopo la Serao
ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di narrativa. Negli anni trenta
Carlo Bernari pubblica I tre operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e
pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70"."Nel periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città
involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare non bagna Napoli, degli
anni 50. Intorno al secondo conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco
è Giuseppe Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli alunni del
sole, San Gennaro non dice mai no, ecc.
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Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di
Nocera Inferiore, con Spaccanapoli, Una vampata di rossore, ecc. Quindi Michele
Prisco, di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La provincia
addormentata, poi Figli difficili, ecc".
"Altro romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che esordì
con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata morte, ecc. Infine
Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero cinese, L’uccello nella cupola,
ecc. Vi sono molti altri intellettuali napoletani di rilievo nel campo della
filosofia, della critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me,
vanno citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica,
antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero saranno qui
tollerate.
Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di menzione, è il poliedrico
Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e scrittore di cristallina fattura, che
insieme a tutti gli altri intellettuali napoletani, citati o meno, ha
contribuito allo sviluppo dell’editoria non solo napoletana".
E in Magonza qoi finisco la rassegna di autori.
Vive ancora De Crescenzo, Prisco e qualche altro e che il Signore dia loro lunga
vita.
Ma le nuove leve quali sono?
Mi piange il cuore vedere di tanto in tanto qualche "testo stampato"
con la pretesa di appartenere alla narrativa partenopea, mentre langue nella
mediocrità e nella retorica più comune. Io li chiamo " I lunghi temi di
terza media".
Luigi Mari
Id. 1558
BREVE SAGGIO SUI RAPPORTI DI COPPIA NELLA PLAGA VESUVIANA
Non vi é unione monogamica autentica, a mio avviso, se non caratterizzata, già
nella fase prematrimoniale, dal noto dualismo odio-amore tradotto in bene-male,
cioè mono-sentimento positivo-negativo. Potrei calare qui 1’esempio
emblematico del famoso film ”Duello al sole”, di King Vidor con Jennifer
Jones, Gregory Peck, Joseph Cotten, Lionel Barrymore, laddove, a conclusione
della storia, i partener della coppia di amanti “si ammazzano vicendevolmente”
in un delirio maniacale di odio-amore struggente. Ma vado oltre.
Nella fase prematrimoniale il mono-sentimento dualistico amore-odio, cioè
bene-male (negativo-positivo) si trova nella sfera sensitiva di entrambi i
partners e paradossalmente: “contemporaneamente”. In questa fase prevale in
entrambi i soggetti, vicendevolmente, il desiderio di emulazione del modello
sociale ortodosso: “completezza nell’unione”, modello subdolo e
pseudo-etico dei mass-media rotti persino alla commercializzazione dei
sentimenti. Qui l’influenza materna e l’amor proprio patologico sono
affievoliti. Il dualismo bene-male e quindi mixato e ritrasmesso dai partners
vicendevolmente, in una sorta di illusorio “pseudo-dialogo”.
In seguito, pero, vuoi per l’insorgenza di squilibri relativi al richiamo di
fonti sessuali esterne, vuoi per l’influenza del suocerato (che risveglia l’amor
proprio difensivo originario), vuoi per l’ingerenza affettiva della prole
monoaccaparrato, il dualismo bene-male, comune e armonioso, si riscinde nelle
due entità separate. Una sorta di mantice di variabile sdoppiamento di
personalità, quindi di ruoli.
Ha voglia di ripetere Antoine De Saint- Exuperi ”Amare non significa guardarsi
incantati l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”.
Nella fase di rottura interiore del rapporto monogamico coatto, dunque, il
dialogo trasmissivo riconciliante si biforca in due monologhi unilaterali,
generalmente di uguale forza, che rimbalzano vicendevolmente sui partners, non
già solo in fase emissiva, ma anche in quella ricettiva, perché ciascun
coniuge viene assorbito, a cospetto dell’altro, dal proprio vortice
monologante logorroico, solo di tanto in tanto in pausa per deficienza di
vigore. Un meccanismo incontrollabile dalla ragione e dalla logica comune
perché crudamente istintuale, animale nel senso di antietico e
anticonvenzionale.
Cosicché il male, come negatività del dualistico sentimento bene-male, viene
attribuito solo al coniuge; il bene, come positività, solo a se stessi, e
viceversa, soggiogati dall’istinto di conservazione anomalo dell’amor
proprio patologico illimitato, quale, chiaramente, carenza, quindi difesa.
Questa negatività, vista tra l’altro anche come assenza di corresponsione
affettiva, non è altro che la parte negativa di se stessi (disistima)
proiettata sul partner per motivi di esorcismo dipanati dai sensi di colpa
inconsci.
Negatività, quindi, come disamore a causa della presenza soffocante dell’amor
proprio patologico illimitato, (disistima e non autostima) inibitrice della ”conoscenza”
come “amore”. Amor proprio patologico smisurato, abisso incolmabile, fissato
in ”cantina” dall’assenza di svezzamento dei timori istintuali di origine
prenatale fisici di finibilità, rincruditi nel complesso rapporto infantile
dell’età evolutiva per la consapevolezza dell’impotenza sul proprio destino
di annullamento finale con probabile assenza salvifica.
Insisto nel chiarire che per “amor proprio” non s’intende qui “l’autostima”
che è il legittimo propulsore della personalità. Equilibratore psichico che
consente di amare ed essere amati. Ci si riferisce, invece, all’amor proprio
ante litteram come egoismo ed egotismo istintuale pre-cultura fuori dalla
scienza e dalla storia, che comunque si dipanano da insidiose problematiche
esistenziali.
Nei rapporti affettivi spesso assolutistici e possessivi come quello
monogamico-legale, i dualismi amore-odio, bene-male fanno leva, dunque, su di un
unico perno: l’amor proprio patologico illimitato derivante, dicevo,
paradossalmente dalla conflittualità disistima-sedicenza, che sopprime ogni
transitività dare-avere affettiva e preclude qualsiasi positività di
messaggio.
Dietro un cambiamento lento ma radicale (come d’altra parte gia sta avvenendo)
si potrebbe veder sconfitto l’amor proprio patologico, per la prima volta
nella storia. Individuandolo si può debellare. L’amor proprio patologico,
nella sua poliedricità, detto anche: egoismo, egocentrismo, egotismo,
assolutismo, possessivismo, ecc., sconfitto a favore di una convivenza umana
finalmente armoniosa (atomica, e Vesuvio permettendo) soprattutto a beneficio
dei rapporti di coppia sia regolamentate che libere da vincoli legali.
Il celibato ed il nubilato coatto fanno ugualmente perno su questa
estremizzazione dell’amor proprio patologico, spesso compensato o sostituito
da sublimazioni parallele: lavoro, successo, danaro, beni materiali.
"L’amor proprio è il più potente ed il solo movente di tutte le azioni
degli uomini”, (dalla raccolta di Annarosa Selene).
Nella fase monogamica dell’unione matrimoniale l’amor proprio patologico
come difesa si amplifica in molti individui tramite il movente dell’azione
coatta relativa agli affetti-desideri sensuali, in quella dimensione ortodossa
di mono-direzionalità imposta. Il rischiamo esterno psico-fisico sessuale, come
tutti gli appetiti animali, viene sottoposto dalle leggi etiche ad una sorta di
strozzatura embolica cosi il vecchio detto ”il matrimonio e la tomba dell’amore”
denuncia in maniera esplicita lo squilibrio causato da culture millenarie all’uomo,
con la monogamia imposta. E non solo per il maschio. La donna ha solo sostituito
la propria sessualità (in quanto a pulsioni indiscriminate) con la maternità
come contrapposizione alla virilità esistente o presunta.
Rilke disse: ”Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l’altro
custode della sua solitudine”. E a questa solitudine il single antepone “Chi
non ha il partner coniugale e prole ha un dispiacere solo” ma senza successo.
Il celibato, intanto, non rappresenta la soluzione alternativa al problema,
prima perché esso assume carattere di eterodossia, in secondo luogo, perché
rinunciando alla sessualità ”omologata”, l’amor proprio patologico viene
sottoposto a tensioni negative diverse, sempre inconsce, prima di tutto la
trasgressione di una legge divina, poi la rinuncia mutilante della forma di
ortodossia affettiva più diffusa universalmente, quindi una scelta emarginante
che presumerebbe agli occhi del mondo libertinaggio e dissolutezza; che
prevederebbe solitudine senile ed assenza salvifica post-mortale per
trasgressione al concetto divino del matrimonio per una sessualità contro i
fini procreativi.
La quasi totalità delle culture occidentali concede di amare molti figli,
diversi parenti, disparati amici, ma un solo soggetto sessuale eticamente
legale. Sotto la consapevolezza dell’osservanza e dell’adempimento, relativa
al vincolo collettivo familiare, nel suo principio irriducibile di
indissolubilità, i coniugi si vedono costretti a strozzare, dalla censura
inconscia, i loro istinti stimolati dall’esterno, naturali e congeniali alla
natura umana (desideri spesso ipersentiti perché proibiti). Voglie istintuali
precluse, laddove, nel loro soddisfacimento libero da vincoli drastici,
avverrebbe la catarsi fisio-psichica; cosi come si manifesta funzionale 1’equilibrio
metabolico di un organismo sano (nel processo gastroenterico) non turbato da
diete dimagranti restrittive, alteranti l’efficienza fisiologica a causa della
parzialità delle sostanze nutritive assunte.
La soppressione, anche parziale, di qualsivoglia appetito animale, ostacola la
catarsi psichica relativa allo scarico di tensioni inconsce di natura
esistenziale, e di quelle relative al ritmo spasmodico della vita sociale
moderna. L’uomo, più che la donna, regola il suo equilibrio psico-fisico
attraverso la sua valvola sessuale virile, la donna spesso ripiega con la
maternità sublimata come alternativa dato il ruolo gregario assunto nei secoli
rispetto all’uomo.
La donna, come accennavo prima, avverte un po’ meno la pressione dei desideri
sensuali esterni, in primo luogo perché le culture millenarie l’hanno voluta
fin’ora oggetto passivo della sessualità; in secondo luogo perché il suo
equilibrio erotico viene anche “regolamentato” dal ciclo mestruale e
soprattutto dalla maternità. Ma la sessualità femminile è gregaria e dipende
da quella maschile in fatto di scala di valori solo per una componente culturale
e non fisiologica. Pulsioni, orgasmo, drenaggi biologici, contrazioni avvengono
ugualmente nell'organismo e nella psiche femminile.
Una zitella non sarà acida perché non ha avuto marito, ma perché non ha
beneficiato della sessualità e del surrogato della maternità sostitutiva.
Insomma, paradossalmente, la zitella conserva una intensità sensuale superiore
ad un partner di coppia. Molte donne sono cromosomicamente frigide, perché la
maternità sostituisce, rimpiazza la realizzazione del ruolo come riscatto al
grerarismo subito lungo la storia. Altro che frigidità dovuta solo all’ignoranza
sessuale del maschio.
Ma la parità dei diritti predicata, a torto o a ragione, dai movimenti
femministi di vario indirizzo, offusca oggi 1’importanza del rilassamento
psichico derivante dalla efficienza della funzione ovarica, non solo alterandone
la già compromessa varietà di umore per un a sessualità storicamente
gregaria, ma provocando, tramite il rapporto monogamico della coppia, guasti in
base alle nuove tendenze di parità, traumatizzanti ed equivalenti a quelli
maschili.
A soffocare molte trasgressioni extra-coniugali è anche la gelosia (riflesso
dell’amor proprio patologico), vale a dire non trasgredire per il timore di
venir pagati con la stessa moneta, di essere feriti mortalmente, di annichilare
la propria cara persona, e a ragione, laddove si è dato il cattivo esempio.
Nel meridione d’Italia, vi è pero una ulteriore deformazione del concetto di
trasgressione monogamica. Al maschio vengono consentiti se non privilegi
libertinari, certamente una sufficiente tolleranza alla violazione. Solo la
donna adotta come deterrente la trasgressione potenziale, la potenzialità della
trasgressione. ”Si ll’omme guarda ’e zzizze e ’o culo e pe’ nnatura;
si ’a femmena guarda ’nda vrachetta e pe’ ddifetto”. Vecchio detto
vesuviano.
L’amor proprio patologico illimitato è instaurato anche nelle madri che lo
trasmettono ai figli durante il rapporto possessivo della crescita e varia nel
corso degli anni modificando di volta in volta la logica comune. (Vedi varietà
di ruoli, ad esempio, nella donna: bimba, ragazza, sposa, madre, suocera). Una
volta adulti lo si sprigiona ad estuario nell’oceano umano, in maniera
vicendevole e riproduttiva, come una guerra batteriologica. L’essere adulto,
assorbito dall’amor proprio patologico illimitato e dalla repressione
monogamica, sente soffocata 1’energia necessaria sufficiente a dare parte di
se agli altri, e soprattutto alla consorte, durante la lunga fase coniugale che,
nella maggior parte dei casi interessa i tre quarti della vita di un individuo.
L’amor proprio, come istinto di conservazione inconscio, oppresso dalle
minacce terrene e post-mortali, si forma nella fase fetale ed è simboleggiato
dalla funzione nutritiva del cordone ombelicale (poiché il feto ha istinto e
non coscienza), quindi persiste sotto il bisogno protettivo della gabbana
materna nella fase infantile, fino allo svezzamento intorno alla fase puberale,
mai totale, a seconda dei costumi dei vari gruppi etnici, ma che raggiunge alti
livelli nelle società dove le norme civilizzatrici, contraddittorie ed
ipocrite, favoriscono il disadattamento nevrotico.
L’amor proprio patologico strepita a livello inconscio in difesa di tutte le
potenziali minacce punitive, specie post-mortali. Tutti i tipi di trasgressioni
sociali, che attingono da alcuni canoni religiosi pluriconfessioni vanno contro
la natura dell’uomo, con al centro l’amor proprio patologico, sempre
propenso, ma contrastato per ogni tipo di soddisfacimento, di appetito
psico-fisico. Perché il Dio del Vecchio Testamento castiga l'uomo col sudore
della fatica e la donna col dolore del parto, ma tiene fede all'
"etichetta" della sua prova di fedeltà: "il sesso da non
trasgredire perché scoperto", quindi mperpetuato nel suo insoddisfacimento,
laddove la fisiologia rimane "erotica" ma solo per consentore la
continuazione della specie, ma non per goderne i benefici dell'amplesso.
Benefici non più stimolati nel tempo dall'unione monogamica soprattutto perché
in alcune etnie il gregarismo sessuale della donna fa da scudo e ostacolo nel
contempo.
La condizione monogamica per unioni legali o meno è pertanto conflittuale. Se
si favorisse, non. solo con la tolleranza, la liberta sessuale in seno al
matrimonio, a prescindere dalla poliandria e dalla poliginia, è probabile che i
matrimoni sarebbero più solidi. Sembra un paradosso. Le regole comportamentali
sono comunque sempre infruttuose perché non si possono generalizzare modellare
addosso individualmente.
Ma agire a monte si può. Togliere, cioè, dalla galassia sesso l'idea ossessiva
di peccato, poi ciascuno agire secondo i suoi parametri mentali, secondo la
propria cultura, secondo la propria morale. decisioni che rientrano nella logica
delle scelte personali e non vanno generalizzate.
Peccato che le madri non si possano sostituire, almeno per una generazione, con
dei computers programmati con l’assenza totale dell’amore materno
possessivo. Il sesso, valvola primaria del ”metabolismo” psichico,
rivisitato e condizionato alle sue leggi biologiche, sarebbe, finalmente, nella
sua efficienza totale, il movente della gioia di vivere, alieno da minacce
punitive, libero di galoppare indomito nelle praterie della psiche, librante nel
cosmo infinito dell’eterosessualità incondizionata.
E' chiaro che non postulo assolutamente qui amplessi promiscui e incondizionati
o canoni erotici
lontani dalle norme etico-morali, che causerebbero, come dicevo, tensioni
diverse di inappagamento, ma soprattutto di colpa, come quelle che nutre l'idea
di poter spegnere il fuoco con la benzina. Sottolineo solo di
"asportare" dalla galassia sesso, come accennavo, l'idea di peccato.
L’amor proprio patologico illimitato, soggiogato dalla colpa atavica della
trasgressione, produce, in alternativa, soprattutto desideri sconfinati di
potere, quindi ricchezza (avarizia). Protagonismo e perbenismo, ipocrisia,
sopraffazione, prevaricazione. Tradimenti, gelosie ecc., rappresentano poi le
reazioni incontrollabili dell’appetito egoistico. L’amor proprio patologico
nato già sul grembo delle madri dei trogloditi, rimane, al secolo, l’unico
vero movente delle tragedie umane, da sempre.
La cultura e la civiltà. hanno solo modificato 1’aspetto di questo ”pozzo
senza fondo” dell’amor proprio patologico. Da bramosia di potere, espressa
in passato da esplicite, feroci barbarie a cupidigia di possesso, manifestata
poi dagli opprimenti regimi totalitari, spesso sostenuti da ideologie ipocrite,
camuffate nel migliore dei casi, come oggi, da false democrazie.
L’amore e conoscenza, ebbene, l’amor proprio illimitato non la consente! Nei
rapporti assolutistici e possessivi l’amor proprio vive di illogocità. Quando
Romeo si accendeva di fiamma per Giulietta, fino allo spasimo, tanto da
sopportare le angherie e le minacce della famiglia di lei, era persuaso di amare
alla follia colei che credeva fosse l’oggetto del suo amore. In realtà, da
buon nobile viziato, egli amava se stesso attraverso lo specchio di lei, facendo
dell’amor proprio illimitato il vero soggetto della vicenda. Altrettanto
Giulietta.
Nel caso di Renzo e Lucia, invece, il grande amore faceva perno sull’ostacolo:
”non s’ha da fare”. Onore, quindi amor proprio ferito a morte. L’affievolimento
delle tensioni sensitive dei due innamorati viene sottolineato dal Manzoni alla
fine della storia, a rapporto monogamico legale avvenuto. Persino la bellezza
angelica di Lucia si ridimensiona agli occhi di Renzo. L’avvento della prole,
infine, innaffia di banalità e mediocrità quell’amore cosi intenso e
sublimato. Qui, forse, si identifica una importante componente autobiografica
del grande scrittore.
Ho ipotizzato, in sintesi, che l’amor proprio smisurato, come istinto
patologico di difesa-offesa, causa della maggior parte dei mali sociali, dopo la
sua fase di incubazione prenatale si rafforza nella fase neonatale con i primi
impulsi sessuali. Sessualità, poi, vista a livello inconscio, legittima solo se
monogamica e proliferante, come suo fine precipuo. Nell’essere adulto tutto
ciò che trasgredisce questi canoni etico-religiosi implica traviamento, quindi
demerito. Ma se si antepone il principio che la vita è una prova irta e spinosa
con ostacoli difficili da superare, allora ogni tessera del mosaico prende il
suo posto.
Potrei dire che il matrimonio è contro natura perché la coppia con ordinamento
legale coatto non lascia alternative. Ma l'avvento delle separazioni legali e
dei divorzi in quasi tutto il mondo o lo stesso celibato rivela che il problema
sta a monte, perché la fuoriuscita dal vincolo coatto dell'unione legale non
limita né affievolisce i problemi sessuali a monte che si riallacciano
all'archetipo di trasgressione divina usando il sesso impropriamente come
piacere e non come atto procreativo. Come, ad esempio, la pena doi morte non fa
diminuire i delitti perché agisce a valle.
Liberando la sessualità dall’idea di peccato, la si spoglia da tutti quei
vincoli distorti da una cultura millenaria e stagnante. Persino Lutero che ha
liberato la cristianità dalla castità la tiene sempre legata all'ideo di
peccato, quindi di stampo demoniaco.
L’idea assiomatica del legame collettivo domestico indissolubile, suggerisce
insufficienti, inconsciamente, i palliativi partitici eterodossi ed eretici,
come dicevo, anche le separazioni legali ed i divorzi, anche perché, quest’ultimi,
lasciano poi i postumi e gli strascici a tempo indeterminato di diversità e
mutilazione morale.
Oggi, alla luce della scienza molte contrapposizioni vengono viste sotto una
ottica di sincretismo. Il sesso, uno dei maggiori imputati del peccato,
rivisitato da pionieri come Freud, viene visto soprattutto come uno dei maggiori
bisogni naturali dell’animale uomo, come una pura componente dell’equilibrio
naturale umano e non già più come ”ferri del mestiere del demonio”, per
dirla anche con gli accesi sostenitori della ”Teoria della Grazia”.
Non vedo il caso di scomodare ancora personaggi di grande levatura culturale
come Agostino o Lutero che però fanno troppo leva su questo binomio ossessivo:
demonio e sesso, ne sostengo i pensieri blasfemi di un Gide, disgustato di certe
considerazioni di annichilimento ed autocastrazione verso l'
"assolutismo-Dio" di S. Agostino. Personaggi come Wilde, Gide,
Nietzsche, ecc. fino al nostro Pasolini, in qualche modo vittime di queste
insistenze di stampo religioso, (teoria, però, che oggi si affianca a quella
dei "geni difettosi" causa dell’omosessualità) si sono votati alla
dissidenza, come, sebbene parzialmente, lo stesso Lutero per le palesi
motivazioni di dissidenza. Non risparmiava Lutero l’associazion e del sesso al
diavolo e ad una concezione scatologica di peccato. (Vedi il dialogo demoniaco
dove il peto sarebbe la vocalità del maligno, ecc).
Vecchi canoni mistici, a torto o a ragione, swe non sono stati rovesciati,
almeno vengono messi in discussione fino al paradosso. Anatole France disse: ”La
castità e la peggiore di tutte le aberrazioni sessuali”, perché la castità
cela una sessualità interiore senza sbocchi, contorta e repressa,
caratterizzata se non dalla pratica onanistica, da un erotismo platonico
sublimato nell’esaltazione artistica, nel fanatismo religioso, nella
sublimazione della professione.
La conflittualità: bisogno-corporale contrapposta al bisogno-spirituale, vista
in chiave psicanalitica sembra apparentemente conciliata. Vacillando, pero, ai
tempi nostri, il dogma religioso, quindi il sostegno salvifico post-mortale (a
causa della celerità con cui la scienza ha fatto traballare molte verità da
secoli assiomatiche) atte, se non altro a narcotizzare la paura dell’al di
là, l’uomo sente maggiore, a livello inconscio, il baratro post-mortale,
reagendo, in superficie, con atteggiamenti di apparente dissolutezza, una, sorta
di liberatorio scetticismo cinico ridimensionato anche in umorismo diplomatico o
clawnesco che attinge nella politica e nel sesso peccaminoso, i due bersagli di
dissidenza più in voga. Ma è solo una incerta reazione.
L’uomo solo, avvinghiato dalla piovra del suo sconfinato amor proprio
patologico, spesso incapace di amare, bersagliato di teorie e dottrinarismi
agnostici, senza più nessun appiglio salvifico (la vita, per lo inconscio non e
che una breve anticamera della morte), sotto le pressioni delle settiche leggi
delle scienze positive, le quali, per ironia della sorte, aggiungono al danno la
minaccia atomica che esclude ogni sorta di palingenesi. "Bisogna diffidare
dei tecnici, (per contro), incominciano con la macchina da cucire e finiscono
con la bomba atomica”.
Qui conviene prepararsi alla conclusione per non correre il rischio di
aggiungere altri nodi alla complicata matassa della letteratura universale,
suggerire, cioè, altri spunti che provocano inevitabilmente reazioni di
pensiero a catena, sebbene abbiano detto tutto già i greci e i latini.. Ciò
che l’uomo non potrà mai dire e nei meandri del cosmo, vale a dire al di la
della ragione umana, in una dimenzione che non conosciamo: la casa di Dio.
Giorgio Bassani dice che è possibile conoscere il mistero: ”Per capire
veramente come stanno le cose di questo mondo si dovrebbe morire almeno una
volta”. Il pensiero umano non ha mai tregua. La cultura, una volta retaggio di
pochi, e penetrata in tutte le fasce sociali. I linguaggi di una stessa lingua
si moltiplicano, le dottrine si riproducono, si complicano. La diffusione della
cultura ha provocato una nuova Torre di Babele?
Luigi Mari
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