PINOCCHIO:               37
SCUGNIZZO
NAPOLETANO

di Francesca Mari

Pinocchio, il burattino di legno più famoso del mondo, si veste da scugnizzo e parla napoletano. Ancora una variante dello strafamoso libro di Collodi," Le avventure di Pinocchio", che in poco più di cento anni ha fatto il giro del mondo, si è prestato a molteplici interpretazioni, variazioni, rappresentazioni fino a diventare un mito nell’immaginario collettivo. La nuova interpretazione nasce proprio in casa nostra, dalla penna geniale di una poetessa napoletana, Adriana Fiore, che ha voluto proporre una "riscrittura" dell’opera collodiana, tradotta in vernacolo napoletano.
Il libro "O cunto ‘e Pinocchio" è stato presentato giovedì scorso presso la Libreria Alfabeta, per iniziativa dell’Università Popolare di Torre del Greco, dalla stessa autrice e da alcuni personaggi influenti del mondo culturale torrese, come il Prof. Armando Maglione e il Poeta Giovanni Damiano.
Una traduzione integrale, in prosa e versi, con l’uso di endecasillabi, che ricalca l’intramontabile lirica di Salvatore Di Giacomo, offre al capolavoro di Collodi un colore intenso ed uno slancio di passionalità e folclore, tipici della tradizione partenopea. Il burattino incosciente, bugiardo, "combinaguai" che compie il suo viaggio di formazione, fino a diventare un bambino bravo, rimane lo stesso anche nell’opera della Fiore: le vicende sono le stesse e i personaggi pure, ma ciò che dà un tono diverso al racconto è l’uso del dialetto napoletano che enfatizza le caratteristiche già proprie del personaggio originale. O’ Pupo (Pinocchio) è uno scugnizzo napoletano, e il fatto che le sue vicende siano ambientate proprio a Napoli, il suo linguaggio, le espressioni in vernacolo antico, gli conferiscono un aspetto più brillante, quasi più divertente. Anche gli altri personaggi, in veste partenopea, sembrano eccedere nei loro pregi e difetti: mastu Peppe (Geppetto) sembra ancora più apprensivo, a’ rilla saputella (il Grillo parlante) più saggia, a vorpa zoppa e a jatta cecata (il Gatto e la Volpe) ancora più maliziosi e millantatori e a’ Fatella (la Fata Turchina) ancora più materna, secondo una formula tipica del temperamento dei napoletani.

 Ad incrementare la spiccata napoletanità dello scritto è l’introduzione di una canzone classica partenopea, " Te voglio ‘bbene assaje" di R. Sacco, interpretata dal coro che accompagna i bambini a "o paese de’ pazzielle, che Collodi, a suo tempo, ha inserito nel racconto, tradotta in italiano, e che ora riacquista la sua forma originaria.
"L’idea di tradurre il capolavoro di Collodi in dialetto napoletano- spiega l’autrice- nasce dalla convinzione che il simpatico burattino di legno abbia tutte le caratteristiche di uno scugnizzo napoletano. Un birichino sveglio, simpatico, trasgressore delle leggi ma che poi paga in prima persona tutti gli errori commessi da se stesso e dai personaggi in cui si imbatte. La napoletanità di Pinocchio consiste nella sua lotta per la sopravvivenza, negli errori commessi a causa delle cattive compagnie e della sua testardaggine, e la redenzione finale che tocca a chi riesce a capire che bisogna rispettare l’ordine sociale. Tra l’altro, il mio è anche un messaggio di pace, rispetto alla violenza dei nostri tempi, che incita a ritornare bambini, a fantasticare un po’ di più".
"O cunto 'e Pinocchio", quindi, ha anche un intento pedagogico, rivolto particolarmente al popolo napoletano, un po’ come il messaggio che il Collodi rivolgeva, a suo tempo, all’Italia intera:
" Il libro della Fiore- dice il prof. A. Maglione- non ha lo scopo di diffondere la conoscenza dell’opera di Collodi, che non ha bisogno di presentazioni, ma offre una nuova chiave di lettura piuttosto originale. Se negli anni 80 dell’800, Collodi offriva all’Italia post-unitaria, in fase di crescita ed alla ricerca di identità, un racconto che, in chiave fantastica, rappresentasse la situazione contemporanea, con il geniale espediente di un burattino che sbaglia e poi alla fine si redime e trova il suo equilibrio, così la Fiore vede in quel burattino un po’ le caratteristiche del popolo napoletano, che in parte è ancora in cerca della sua identità."
Un intento pedagogico ma anche linguistico poiché l’uso del dialetto antico e di termini, ormai, inusuali, incita anche a non perdere la cultura della lingua napoletana:
"La traduzione di Pinocchio- dice il Poeta Giovanni Damiano- è stata sicuramente un’impresa ardua, a causa della difficoltà di formulare un linguaggio ormai poco usato nel parlato comune. Ma ciò che fa onore all’autrice è di aver prodotto un vero gioiello che entrerà nelle case senza difficoltà, per la semplicità dell’ormai nota storia, e in più contribuirà a mantenere intatta la preziosità del dialetto napoletano, quello dei grandi poeti dell’800, quello che ormai è una vera e propria lingua, da conservare e salvaguardare."