NARRANDO
SOTTO IL VESUVIO
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TORRE MODERNA
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Seguono interi
capitoli tratti dal libro "Da Magonza a Torre del Greco" di
Luigi Mari 1980 - Editore di me stesso. Per...mia gentile
concessione...
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Cade sotto il Vesuvio, la realizzazione individuale nel lavoro a misura
d'uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie ed aleatorie, il
famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di un domani
migliore. Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale.
Le speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono
smorzate sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli,
vanno lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene
neppure accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente
dopo la loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi.
Si estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali,
cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un'area geografica. Le
evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai
settori giusti. Le bottegucce dell'angolo, neglette e tapine, che in
passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare,
dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là
dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, certo degenerante e
abominevole in una società moderna.
Con la tradizione artigiana in crisi, in passato così connessa e
amalgamata nel costume del popolo partenopeo, insieme all'acutizzarsi
della crisi esistenziale individuale dell'uomo, si dissolvono tutte
quelle forme comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo,
in una frase, quelle di un popolo d'amore, per dirla con Luciano De
Crescenzo.
Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa
adulto, perde l'immaturità e la salutare incoscienza del passato che lo
faceva guappo d'onore o santo. Si avvicina alla teoria dello struzzo,
assume sembianze megametropolitane, si allontana dall'idea di Dio dentro
l'uomo, della sua enorme potenzialità d'amore. Non disdegna i
tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta nella storia,
resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l'angoscia del suo
nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali
effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il bisogno
di comandare e di obbedire. Dimentica di lasciare in pace se stesso, che
è l'unica maniera per lasciare in pace gli altri. Oblia il sesso come
puro atto d'amore, pur se lo ripete dieci, cento, mille volte, nella sua
foga passionale di meridionale virile. Egli inizia a mitizzare i
plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro incomincia a nutrire qualche
sospetto sulla propria atavica virilità, dietro il cogitare freddo dei
dottrinarismi divulgati.
Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e
decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Citta-regno che muoiono
nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel sincretismo di
povertà e gioia di vivere. L'adolescenza, nella terra vesuviana d'oggi,
prostrata anch'essa sotto gli ideali effimeri dello sport mitizzato e
della musica importata, certa di genere paranoicale, quale coerente
colonna sonora delle nevrosi, e trasformata nei romantici congeniali
turbamenti post-puberali, dietro una precoce problematica esistenziale.
Dov'è finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del
Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile
dalla letteratura d'arte e d'informazione post-bellica?
E prima di proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo
alle smorfie rinitiche di qualche progressista. Qui non se ne fa una
questione di componenti nostalgiche esasperate o di pessimismo
progressista a copertura di carenze psichiche personali. Mettere sul
tappeto i malesseri di un'epoca vuol dire tentare di rimuoverli. Se
avessero ascoltato Leopardi nel secolo scorso, invece di rivalutare la
sua filosofia solo oggi, forse molti mali si sarebbero prevenuti. La
vita è bella in se stessa, ma la teoria dello struzzo guasta questa
realtà. Già la cultura ci ha insegnato: dipartire per morire, amplesso
per coito, così non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la
morte e il sesso, e li sentiremo sempre misteriosi.
Viviamo in una società senza dubbio più comoda, rispetto al passato,
meno cruenta e, tirando le somme, politicamente tollerabile in confronto
alle angherie politiche della storia, ma la nevrosi di massa planetaria
odierna, dovuta a svariati fattori di evoluzione o involuzione, va
risolta né con le rivoluzioni né con la violenza, ma con la
riflessione. Perché non ci troviamo, come al solito, di fronte ad una
crisi politica quanto a cospetto dell'esasperarsi dell'antico insoluto
esistenziale dell'uomo, sostenuto in passato da molti sostegni psichici
a misura di razionalità umana. Spero tuttavia, malgrado l'apparente
caotica babele dei giorni nostri, che molte persone si sentano fuori da
questa orbita, e che sappiano indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco
plausibile. In aggiunta dirò, a qualche barbassoro-culturalista, che ho
superato la fase relativa al famoso aneddoto freudiano: Quanta fatica
letteraria fa costui per coprire i problemi personali.
1980
Luigi Mari
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LE ARTI APPLICATE
SOTTO IL VESUVIO
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Luigi ficasecca è un anziano tipografo del capoluogo
campano. Lavora ancora e da solo, malgrado le 80 primavere, perché,
come me, dice di avere il piombo nel sangue, non, però, nel senso del
saturnismo. A dire che nel dopoguerra aveva un organico di cinque camici
neri, sei tute blu e due grembiuli bianchi, quest'ultimi, tiene a
sottolineare, coprenti molta opulenza.
« Ma cosa vuoi, caro Luigino, - mi disse - figlio mio, ca
figlio mi puoi essere, anzi nipote, se non pronipote, cosa vuoi, una
vertenza sindacale oggi, una domani e sono finito in mutande»
Il boom economico incominciava a dissolversi negli anni 60-70, ma le
botteghe sorgevano ad ogni angolo. Le amministrazioni imbandivano spesso
gare fittizie. In poche parole transitava un periodo di crisi ancora
oggi per nulla risolto. Spesso rivedo Luigi ficasecca nel suo
monolocale, angusto, fuligginoso, unto dappertutto. Stanco, emaciato,
curvo sotto quell'aria affettatamente esuberante di sedicente direttore
tecnico.
A lutamme, rispondeva al mio fugace saluto formulato sull'uscio
della sua bottega, con l'aria derisoria e beffarda quanto puerile che
assumono i candidi quando vogliono apparire sarcastici, allo scopo di
saziare gli occhi del mondo, l'opinione altrui.
'A munnezza, contrabbattevo io, ricusando il doppio senso di a
lutumme, che non sta per salutamme con aferesi della s, ma
come a lutamme: il letame. Altre volte adoperava come intercalare
in risposta ad un cenno di stupore: E tu che te credive ca ch'era ?,
dove gli ultimi lemmi non stanno per cos'era, ma cachera,
ora più esplicito; e via dicendo.
L'ultima volta che mi recai a Napoli per rifornimenti presso il Corpo di
Napoli, dove si concentrano diversi fornitori per arti grafiche, decisi
di fare una scappata pure da Luigi ficasecca, magari sfrocoliandolo sul
non aver mai capito un fico dell'arte nera. Era raggiante nel suo
tugurio. Mi disse che aveva ripreso l'hobby di essiccare i fichi al sole
per le ciociole di Natale.
Facevo finta di non accorgermi che aveva, almeno apparentemente, assunto
un apprendista. Alla fine sbotto: « Ma 'o vide 'o guaglione, o no?
».
Aveva gli occhi lucidi. Sembrava un regnante detronizzato e
diseredato che, sul lastrico, dopo mesi di stenti, ripiegava con uno
scranno in luogo del trono. Al mio sorriso solidale non trattenne le
lacrime. Le pressioni nostalgiche premevano troppo dal basso.
Ed io gli volevo bene, amavo la scimmia umana, mio simile, che impazza
da adolescente con l'ardore, l'impetuosità, l'azione. Poi sorge, gode,
folleggia la gioventù, indi lotta e difende la sua posizione, poi cade,
poi annaspa, difficilmente si risolleva definitivamente, anche perché
incombe la drammatica fase senile. Luigi ficasecca si terse col
fazzoletto quel viso villo e grinzoso e riprese a parlare del più e del
meno. Discutemmo sul lavoro clientelare, la crisi economica, le
pressioni fiscali. Dopo che avemmo centellinato una bibita il ragazzo
sbirciò l'orologio da polso e senza fiatare raccolse una banconota
dalle mani del vecchio ed in piena mattinata guadagnò l'uscio. Mi
balenò l'ipotesi di una settimana supercorta, ma l'uomo dissipò subito
le mie congetture:
«Caro Mari, tu sei giovane, certe cose le puoi e non le puoi capire.
Ciccillo non lavora qui... Insomma... lavora e non lavora... Oggi
l'apprendista prende la paga di un operaio, tanto vale metto a lavorare
mio genero che si puzza dalla santa fame. Il ragazzo... sì Ciccillo,
viene qui tre o quattro volte la settimana, giusto un'oretta... A me la
nostalgia mi uccide, figlio mio: rimpiango i miei bei tempi, malgrado le
due guerre e gli anni ruggenti... Ero un piccolo signore, mi mangerei le
mani a morsi. Mannaggia a Garibaldi e gli americani, mannaggia!
...Ciccillo sta qui giusto il tempo per potergli fare una cazziata, che
so: una tirata d'orecchi, qualche volta pure un calcio nel sedere, senza
cattiveria, però, in buona fede, Alla fine prende diecimila lire e se
ne và. Così restiamo soddisfatti tutti e due».
Quando, divertito, gli dissi che aveva escogitato un ottimo sistema,
rispose che era sorto un altro problema incalzò:
«La mattina, fuori la bottega, faccio folla folla di scugnizzi. E
chi mi chiede tremila lire per uno schiaffo, chi quattromila lire per
una carocchia. Uno ieri mattina mi ha chiesto centomila lire per una
mazziata generale, dicette: vi concedo pure la lavarella di sangue. Io,
prima che mi arrestano per sadicità piglio 'a mazza e scopa e 'e corro
appriesse così abbuscano lo stesso e senza 'na lira".
Cade sotto il Vesuvio, la realizzazione individuale nel lavoro a misura
d'uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie ed aleatorie, il
famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di un domani
migliore. Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale.
Le speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono
smorzate sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli,
vanno lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene
neppure accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente
dopo la loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi.
Si estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali,
cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un'area geografica. Le
evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai
settori giusti. Le bottegucce dell'angolo, neglette e tapine, che in
passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare,
dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là
dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, certo degenerante e
abominevole in una società moderna.
Con la tradizione artigiana in crisi, in passato così connessa e
amalgamata nel costume del popolo partenopeo, insieme all'acutizzarsi
della crisi esistenziale individuale dell'uomo, si dissolvono tutte
quelle forme comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in
una frase, quelle di un popolo d'amore, per dirla con Luciano De
Crescenzo.
Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa
adulto, perde l'immaturità e la salutare incoscienza del passato che lo
faceva guappo d'onore o santo. Si avvicina alla teoria dello struzzo,
assume sembianze megametropolitane, si allontana dall'idea di Dio dentro
l'uomo, della sua enorme potenzialità d'amore. Non disdegna i
tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta nella storia,
resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l'angoscia del suo
nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali
effimeri e precari.
Non spera più nella libertà, che esclude il bisogno
di comandare e di obbedire. Dimentica di lasciare in pace se stesso, che
è l'unica maniera per lasciare in pace gli altri. Oblia il sesso come
puro atto d'amore, pur se lo ripete dieci, cento, mille volte, nella sua
foga passionale di meridionale virile. Egli inizia a mitizzare i
plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro incomincia a nutrire qualche
sospetto sulla propria atavica virilità, dietro il cogitare freddo dei
dottrinarismi divulgati.
Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e
decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Città-regno che muoiono
nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel sincretismo di
povertà e gioia di vivere.
L'adolescenza, nella terra vesuviana d'oggi, prostrata anch'essa sotto
gli ideali effimeri dello sport mitizzato e della musica importata,
certa di genere paranoicale, quale coerente colonna sonora delle
nevrosi, e trasformata nei romantici congeniali turbamenti
post-puberali, dietro una precoce problematica esistenziale.
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Dov'è finita la confusione faccendiera urbana della
mia Torre del Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di
volte, attingibile dalla letteratura d'arte e d'informazione
post-bellica? E prima di proseguire in questo stralcio di sapore
retorico rispondo alle smorfie rinitiche di qualche progressista. Qui
non se ne fa una questione di componenti nostalgiche esasperate o di
pessimismo progressista a copertura di carenze psichiche personali.
Mettere sul tappeto i malesseri di un'epoca vuol dire tentare di
rimuoverli. Se avessero ascoltato Leopardi nel secolo scorso, invece di
rivalutare la sua filosofia solo oggi, forse molti mali si sarebbero
prevenuti.
La vita è bella in se stessa, ma la teoria dello struzzo guasta questa
realtà. Già la cultura ci ha insegnato: dipartire per morire, amplesso
per coito, così non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la
morte e il sesso, e li sentiremo sempre misteriosi. Viviamo in una
società senza dubbio più comoda, rispetto al passato, meno cruenta e,
tirando le somme, politicamente tollerabile in confronto alle angherie
politiche della storia, ma la nevrosi di massa planetaria odierna,
dovuta a svariati fattori di evoluzione o involuzione, va risolta né
con le rivoluzioni né con la violenza, ma con la riflessione. Perché
non ci troviamo, come al solito, di fronte ad una crisi politica quanto
a cospetto dell'esasperarsi dell'antico insoluto esistenziale dell'uomo,
sostenuto in passato da molti sostegni psichici a misura di razionalità
umana.
Spero tuttavia, malgrado 1'apparente caotica babele dei giorni nostri,
che molte persone si sentano fuori da questa orbita, e che sappiano
indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco plausibile. In aggiunta dirò,
a qualche barbassoro-culturalista, che ho superato la fase relativa al
famoso aneddoto freudiano: Quanta fatica letteraria fa costui per
coprire i problemi personali.
Dove sono le strade palcoscenico, l'umorismo delle
logorroiche meliche voci popolari? Ben venga la retorica oleografica,
rivogliamo i tepidi soli, gli eterni tepori di primavera. Rivogliamo gli
usci con le fornaci fumanti al posto dei cancelli automatici con
videocitofono; le capère in luogo dei giornali di pettegolezzo; le
tinozze o le braci con le rigogliose spighe bionde al posto dei pub con
gli hamburger e i crauti. Agogniamo la sinuosità delle forme del più
salubre eterno femminino e non le mascoline silhouette delle manequin.
Ben ritornino le camicette di seta sui seni floridi. Vadano a farsi
benedire gli stilisti miliardari moderni con le loro felpe sintetiche
firmate, le borse policrome ad armacollo ed i pantaloni casual unisex
variopinti e guallarosi.
Forse, però, i progressisti l'avranno vinta. La mia cittadina alle
falde del Vesuvio, amena e ridente, come leggo da secoli sui libri di
storia locale, non ridarà mai più alle fanciulle quelle labbra carnose
sulla bocca larga e voluttuosa senza il belletto, il roseo naturale alle
guance prive di fard, lo splendore ai denti d'avorio tersi con
bicarbonato, gli occhi luminosi privi di mascara.
Alcuni dedali sono stati risanati nella mia Torre del Greco. Falansteri
di cemento armato fagocitarono le romantiche magioni-giardino delle
costruzioni spagnole.
Mai più vedrò fanciulle alle finestre dagli infissi detti pezzi
d'opera, da lavare e lucidare nelle prossimità pasquali. Occhi
dolcissimi e sereni, mimetizzati tra vasetti di garofani e rose, le
nostre rose, i garofani di Torre del Greco, rossi come il fuoco del
Vesuvio. Immagini a mezza strada tra il mistico mariano e la
passionalità shakesperiana. La mente richiamava epos trovadorici e
cavallereschi che accendevano il meridionale ardore. Haimè, la
letteratura moderna analitica ed introspettiva aveva a mano a mano i
consensi popolari ed interessava pure gli editori campani. La retorica
alla gogna. Pure i giovani dei dedali erano suggestionati dai dialoghi
interiori di Joyce e di Svevo o dallo sconvolgente pensiero di Nietzsche. Ancora Fromm e Jung e tutti i neofreudiani, Il giovane
meridionale si accorge di aver addentato la mela. Determina che
l'attrazione intensa per la fanciulla del cuore e solo una condizione
mentale, un'elaborazione culturale dell'idea dell'amore. E sospetta, con
amarezza, che quella folle passione che intende placare, non è, in
fondo, amore per lei, ma per se stesso, attraverso lo specchio di lei.
La vecchia Napoli dei guantai, dei ciabattini, dei dolcieri, degli
ambulanti, dei tipografi del piombo fuso tramonta inesorabilmente.
1980 Luigi Mari
GIOVANNI
PAPERINO
TIPOGRAFO SVENTURATO
Giovanni Paperino, era un tipografo artigiano provetto, coscienzioso,
esemplare, onesto fino allo scrupolo, per questo, da piccolo, in
collegio, passava il suo tempo a curarsi ecchimosi, contusioni, ed
ematomi vari poiché spesso le prendeva.... Ma reprimeva ripetitivamente
le sue idee anticonformiste bruciando molte energie. Allo scopo di non
confermare gli epiteti o le ingiurie di asociale e disadattato Giovanni
stipulò il contratto monogamico.
Veniva spesso nella mia bottega di Torre del Greco per commissionare
timbri di seconda mano. Giovanni Paperino, sosteneva, tra l'altro, che i
nuovi problemi esistenziali dei circumvesuviani facevano perno sulla
sperequazione dell'economia. E' un dramma, affermava, vivere nello
stesso condominio con una differenza di introiti da uno a dieci. Il
danaro, persino a Napoli, è divenuto l'unico parametro che determina il
valore di un individuo, e via discorrendo. Paperino era tipografo da
sempre. Aveva dato i fondelli, come lamentava lui, prima ai gestori del
corso di formazione professionale, in collegio, poi ai padroni degli
anni cinquanta. Finalmente aprì bottega ad est del Vesuvio, senza il
beneficio di rivendicazioni sindacali, ma attraverso il centesimare dei
suoi risparmi. Ma da quel momento, da paria mediocre del mondo del
lavoro divenne un potenziale buon partito per l'occhio particolare di
certe donne, non molte per fortuna, che ancora oggi ricercano
l'affermazione accovacciandosi sotto l'egida di un marito portapane.
Avvenne uno dei tanti matrimoni terapeutici dove l'illusione
dell'idillio durò giusto i nove mesi della gravidanza. Giovanni
Paperino, dietro un eccessivo possessivismo materno, da parte della
consorte, si vide escluso dalla sfera affettiva dei congiunti, in più
sentiva opprimente l'ingerenza della suocera. Non si rendeva conto di
alimentare da sé queste manovre inferme della consorte perché non
imponeva i suoi diritti e doveri rispettivamente di marito e di padre.
Finì che, per sentirsi accettato, si immerse nel lavoro, come si suol
dire, fino al collo. La donna, vittima del modello sociale capitalistico
si crogiolava sui sensi di colpa di Giovanni e, attraverso finissimi ed
eleganti ricatti morali, lo spingeva a sudare, come si suol dire (anche
questa volta), le sette camicie. (Perdonatemi le puntualizzazioni
stilistiche, ma sento sempre la presenza della buonanima di Croce che mi
fissa dal famedio).
Giovanni Paperino, come tutti gli adulti bambini era, tutto sommato, un
candido ossessionato. Il conflitto si consolidò quando, preso dal
bisogno della fuga, dovette lottare intensamente contro la rinuncia
affettiva dei suoi figliuoli. Una coppietta di pargoletti tenerissimi,
si confidava, due batuffoli di cotone idrofilo, l'uno rosa, l'altro
celeste, sebbene, secondo la moglie, lui avesse contribuito al loro
concepimento solo attraverso un meschino, scellerato semino.
La fetta di potere ottenuta dalla moglie di Paperino era insufficiente
secondo il parametro vigente, a stento riusciva a snobbare i condomini.
Sebbene fosse detentore di una posizione economica superiore alla media
nazionale, l'uomo si sentiva meschino, inottemperante, un poveraccio da
questua. Schiacciato dalle pressioni domestiche il tapino decise di
recarsi a visitare la famosa rassegna grafica del capoluogo lombardo
onde acquistare macchine rapidografiche, turbografiche e, come si suol
dire (per la terza volta), chi più ne ha più ne metta.
Il poveretto, stressato, esaurito, avvertì un malessere nell'aereo, ma
invece di prendere la direzione della toilette aprì per errore un
portello dell'abitacolo pressurizzato e precipitò. Non ebbe paura
perché non dirupava, ma veleggiava, ora cabrava, ora picchiava, su,
giù, a destra e a manca. Per la prima volta nella sua vita provò
l'ebbrezza della libertà. Ad occhi aperti agitava le braccia come un
volatile. Il suo cuore era inerte, non discerneva più la gioia e il
dolore, il riso e il pianto. Una dimensione senza principio né fine.
Poi il vento lo spinse sempre più oltre, raggiunse la velocità della
luce e confermò la teoria di Einstein, il tempo si arrestò quando
sentì il suolo dolcemente sotto la regione plantare.
Dischiuse le palpebre e non gliene importò un frego di essersi trovato
in un retorico immenso prato, illuminato da un rancido tepido
sole onde poter mirare, stagliato sull'orizzonte infuocato, la diafana
creatura dei suoi sogni.
Giovanni era precipitato in un altro mondo alternativo; in questo
singolare paradiso sentì scrollarsi di dosso la vecchiezza di millenni
di cultura inferma che gli aveva iniettato sotto l'epidermide la paura
di vivere e di morire. Quel mondo gli ricordava il candore
dell'infanzia, la fiducia e la sicurezza disgregata dal presente.
Scoprì l'epilogo della teoria spazio-tempo, non già l'eternità, ma la
vita a ritroso. A mano a mano che gli anni andavano, Paperino e la sua
meravigliosa compagna ringiovanivano sempre più fino a divenire due
pargoletti paffuti, due batuffoli di cotone idrofilo, l'uno rosa,
l'altro celeste, per poi addormentarsi dolcemente in una culla di
giunco, irradiati dai loro candidi sorrisi, nella consapevolezza soave
di un posto assicurato nel, cosiddetto (per la quarta volta) retorico
limbo.
1980
Luigi Mari
GIORGIO,
AVANGUARDISTA AUTENTICO
Quando ripenso a Giorgio, vero maestro del colore,
esperto di grafica artistica da riproduzione, mi prende il magone.
Rimembro i tempi andati del dopoguerra, quando noi ragazzi, per così
dire, vesuviani, venivamo coinvolti nei mestieri improvvisati dei
grandi. Una volta tentai di fare il madonnaro: fu un disastro, la
pittura non faceva al caso mio. Infatti non ho mai capito la pittura di
Giorgio. Amavo il suo entusiasmo, il suo credere ciecamente alla sua
opera.
Diceva che nelle sue super avanguardistiche tele vi era
concentrata tutta la travagliata storia di Napoli, un popolo clown.
Ricordo Giorgio nella sua grossa mole fisica, quando fece saltare la
serratura della porta d'ingresso di Via Purgatorio con una spallata. Si
difese subito dicendo che la nostra è un'epoca disonesta, perché fanno
le porte di ricotta... «Desidero cento visita - aggiunse. -
Lui', me li devi consegnare ieri ».
Giorgio mi osservava, con la testa altrove, mentre infilavo nel
gruppo di rulli della pianocilindrica dei fogli di prova stampati più
volte allo scopo di sottrarre inchiostro eccessivo. Mi fece notare che quelle scartine avevano fatto
tutte le guerre. Infatti erano fogli di avviamento, passati per la
macchina più volte in un arco di tempo lungo.
Dove compariva una scritta, dove un fondino carminio, più in là un
tono di colore indefinito, e tanti altri elementi frammentari e alla
rinfusa. Un risultato che a volerlo realizzare non bastava Picasso; una
di queste scartine di cartoncino rigido non si arrotolò, uscì
spontanea dalla macinazione e veleggiò intrepida per adagiarsi docile
ai piedi di Giorgio.
L'uomo dilatò le pupille e tentava di dischiudere le labbra nello
sforzo vano di profferir parola. Era in completa afasia, tanto che io
sospettavo i sintomi incipienti del grande male. Raccolse la scartina
con la cautela di un artificiere, la poggiò lentamente sul banco, indi
mi si avvicino e mi estorse dalla guancia l'adesione ad un bacio
vigoroso, per fortuna brevissimo. Lacrimava di cuore, poi si dimenava
nel corpo, batteva i piedi sul pavimento, indi faceva le fusa e
sorrideva ebete. Prima che incominciasse a rotolarsi per terra capii che
provava una gioia autentica, puerile.
Tra riso e pianto, tremante, in
pieno orgasmo fece il gesto di rilasciarmi un assegno, poi, per mia
sfortuna, si rimise il carnet in tasca dicendo che una tale opera non
aveva prezzo, il cui compenso non rientrava nelle sue possibilità. Il
suo conto corrente era sempre in rosso...
Quella scartina, per me, onestamente, insignificante, fu la vita per
Giorgio. Quando gli dissi, più dietro lo spavento che la generosità,
che poteva tenerla ricominciò con quei, devo confessarlo, disgustosi
baci a labbra piene. Fosse stato un russo o un mafioso, povero me!
Quella scartina fu l'emblema del suo genere artistico, che, nemmeno nei
momenti di pathos di più alta ispirazione, di maggiore follia creativa
aveva saputo realizzare. Prese a sbaciucchiare la macchina tipografica,
la fece lustra, (anche se un tantino maleodorante), come il gatto fa col
proprio corpo.
Malgrado le apparenze paranoicali, Giorgio era tanto buono, non solo,
pure culturalmente preparato, e di una intelligenza singolare. Si dirà:
non vuol dire, ma è mille volte preferibile un folle buono che un
equilibrato malvagio. Giorgio era quello che si suol dire un vero amico.
Egli sfatava l'assioma di Pierre Reverdy: L'amicizia è una complicità
e quando cessa l'amicizia svanisce. Giorgio fu amico sino alla fine.
Nel letto di morte cincischiava all'altezza dei precordi nel tentativo
vano di raccogliere un portafoglio che non aveva mai contenuto più di
tre o quattro banconote, voleva ripagarmi quella gioia che, senza alcuna
fatica, involontariamente gli avevo dato cinque anni prima in quella
negletta fucina di maestosi esempi di vita che è la mia bottega di via
Purgatorio. Pensai, in lagrime, quanto basta poco per rendere felice un
uomo rimasto lontano dall'affettata, adulta sedicenza, un uomo che aveva
provato l'ebbrezza di sentirsi grande in una dimensione bambina. Una
parte del mio smisurato amore per le arti grafiche è dovuta a lui.
1980 Luigi Mari
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