Seguono interi capitoli tratti dal
libro "Da Magonza a Torre del Greco"
di Luigi Mari 1980 - Editore di me stesso. Per...mia gentile
concessione...
IL
PREZZO
DEL PROGRESSO
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Anche l'industria italiana e, per conseguenza, quella
napoletana, tende ad escludere la dimensione umana dalla produttività.
Per fortuna nel Napoletano è ancora possibile intravedere l'aspetto
umano del lavoro, nei centri storici, dominati dagli agglomerati di
bassi, dove gli ultimi artigiani svolgono il loro lavoro a misura
d'uomo, perché ancora operano in un contesto proletario e piccolo
borghese, che condiziona il modo di lavorare e di vendere secondo le
vecchie tradizioni, dove si ricusa l'impatto appena decennale di certi
repentini stravolgimenti tecnicistici e consumistici sotto casa propria.
Certi moduli edonistici tendono alla conversione, lentamente, come il
tarlo fa col legno, o la goccia con la pietra, facendo leva sul
martellamento pubblicitario legato al modello sociale planetario di
benessere illusorio, attraverso espedienti come il risparmio ottenuto
coi prodotti di serie, o l'adescamento dei supermercati, che eliminano
perdite di tempo prezioso, utilizzato, poi, per i giorni di lotta, atta
a procurarsi altro danaro, e ancora risparmiare al solo scopo di
rispendere. Un circolo vizioso come la tossicodipendenza, ma legale ed
istituzionalizzato da cui nessuno, non solo non può, ma non deve
sottrarsi. Qualcuno dei tipografi che è riuscito a costruire il
capannone, magari dietro un compromesso stipulato coi fiori
all'occhiello, e finito magari ghettizzato in un lussuoso appartamento
dei quartieri bene, europeizzato ed irrimediabilmente escluso dal calore
della Napoli oleografica dove i sostegni psichici essenziali di
solidarietà, di contatto umano, ancora si osservano nei mercatini
rionali o quelli domenicali di Piazza Ferrovia, o di Poggioreale, nelle
botteghe, nelle case giardino delle vecchie costruzioni spagnole
Le stesse officine industriali dei quotidiani della capitale del sud
hanno definitivamente visto dissolto il calore umano che esalava,
all'unisono, dai precordi dei giornalisti e tipografi e dai crogiuoli
delle linotype. Era l'ardenza del piombo fuso ad accomunare autori e
tipografi in una sola famiglia. Le notizie sprigionavano anch'esse la
soavità di una metropoli ancora lontana dalla giungla urbana, animata
dalle Piedigrotte, dalle serene periodiche domenicali e dallo
strabenedetto pane e ppummarole, e dal derivato sacrale ragù, o dalla
defilippiana ritualità di pasta e fagioli o caffè che scendeva.
Oggi pure i napoletani il caffè lo fanno salire per dimostrare che il
mondo, nell'arco di pochi decenni è cambiato da così a così, grazie
all'indomita, ma sgherra ascesa industriale. Nelle redazioni dei
giornali, anch'esse linde ed asettiche come gli ospedali, il giornalista
infreddolisce per l'assenza dei crogiuoli, per la nefandezza delle
notizie, per il suo esclusivo rapporto di lavoro con ...il terminale.
Chi ha le tempie canute ricorda che il tipografo delle botteghe, nel
dopoguerra doveva accontentarsi delle bruschette o delle marenne a base
di melanzane a funghetti e friarielli, mentre quello che faticava al
giornale poteva permettersi la fetta di prosciutto.
Spesso i compositori o gli impaginatori dei giornali davano il loro
diretto contributo ai pezzi di cronaca, perché facevano da tramite tra
ambiente popolare e redazione, suggerendo, tra l'altro, espressioni
gergali, peculiarità caratteriali e comportamentali del popolo,
sconosciute alla classe alto borghese dei giornalisti agiati di allora.
Chissà chi furono gli informatori della Serao, forse la masnada di
camici neri rattoppati e bisunti che la circondava.
Quale tipografo artigiano negli anta può dimenticare le rasserenanti
giornate di lavoro in queste officine grafiche. Lazzi, facezie, scherzi
da prete e soprattutto spiccava quella sorta di paradossale religiosità
nel turpiloquio, poetico, colorito, ilare, puerile ed innocente. Questi
erano i soli delitti che si confessavano la domenica in chiesa. Ci si
doveva pur farsi perdonare qualcosa, altrimenti i reverendi avrebbero
rischiato la cassa integrazione.
1980 Luigi Mari
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IL
SOGNO
DEL GIORNALISMO
Le tipografie artigiane vesuviane che ancora realizzano nella maniera
tradizionale le pubblicazioncelle locali pressate dalle ambizioni
letterarie degli oscuri docenti di lettere, o dei cultori di sogni nel
cassetto, o dei poeti del sabato sera di fama intercomunale, arrotondano
il fatturato in un contesto lavorativo molto compromesso dall'offerta
satura.
Ebbene, io appartengo alla categoria di questi sciagurati sognatori,
conscio, però, del carmina non dant panem, non solo, ma pure
del
nemo propheta in patria, poiché queste sporadiche mie esperienze
scrittorie desuetamente autofabbricate in tomi, sono destinate,
volutamente a non valicare il circondario regionale.
Nota: Questo discorso era valido 20 anni fa
quando è stato steso il capitolo. Oggi con la rete le cose sono
cambiate (N.d.R)
Sono comunque solidale con tutti gli sventurati come me, e quasi mi
rammarico del privilegio di poter prevalere, almeno quantitativamente,
sugli altri, che la sorte non li ha voluti nemmeno bottegai tipografi.
Comprendo, anche se non giustifico, coloro che non sanno valutare i
propri limiti, e continuano imperterriti in questo cammino spinoso,
attribuendo il loro insuccesso solo a fattori egemonici da circolo
chiuso. Oggi, più che mai, in tutti i settori culturali, l'estetica
prevale sul contenuto, questo tende a soffocare l'espressione popolare
nell'arte scrittoria, ed è una discriminazione. Chiunque ha il diritto
di esternare i propri sentimenti, anche al di fuori di virtuosismi
dottrinari. L'importante è riconoscere la propria posizione e non
ostinarsi ad apparire quello che si vorrebbe essere e non si è.
Non è la semplicità d'espressione che è nociva, quando c'è
contenuto, ma l'elaborazione culturale della povertà estetica che
alimenta il desiderio di abbarbicarsi verso i fastigi di castelli a cui
non si e provveduto, negli anni, a mettere su con tenacia e abnegazione,
dietro un allenamento estenuante, mattone su mattone.
1980 Luigi Mari
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TOTONNO
PALLAPPESE
Introdurrò l'episodio di Totonno pallappese con un argomento che solo
apparentemente sembra in antitesi, ma che è diverso solo per stile e
forma. Tratterò nientemeno che "un concetto dell'amore".
Anche questa volta non desidero postulare nulla a nessuno. Si tratta
sempre di osservazioni del tutto soggettive e non sottintendono nessuna
intenzione di tono scolastico. Vi è un abisso tra la natura dell'amore
e l'idea culturale dell'amore poliedricamente elaborata, a mio modesto
avviso, naturalmente. L'amore, purgato di volta in volta dalle mode
letterarie della storia lo conosciamo tutti.
La psicologia moderna un bel mattino ha deciso di spogliare l'umano da
molte croste culturali lasciandolo nudo nel suo stato primitivo di
istintualità. L'animale uomo è un istinto di conservazione
personificato, modificato dalla cultura. Alcuni sono concordi nel
supporre che tutte le invenzioni culturali sono delle difese
dall'angoscia, connaturata negli animali ragionevoli, coscienti del loro
destino di finibilità, non solo, ma di probabile assenza salvifica
post-mortale
Ma al di là delle affermate teorie speculative o
psico-scientifiche, il timore, o più semplicemente il senso di finire,
è presente in ogni forma cerebrale. L'animale, a mezza strada tra
l'uomo e la pianta, vessato o recluso presenta gli stessi sintomi
angosciosi dell'uomo ragionevole, che sfociano, a lungo andare, nel
disequilibrio. L'appassimento delle piante è un chiaro esempio di
deperimento fisiologico. Esse, istintualmente, (anche se la terminologia
è impropria) nei loro limiti compiono ogni sforzo per riprendere vita
e, nel caso di intervento dell'uomo o della natura, ce la mettono tutta
per risorgere.
Io suppongo che una forma iniziale di difesa, più comprensibile come
senso di conservazione, sia presente già nello stadio fecondo
pre-fetale. La prima reazione ovulo-cellulare e quindi la difesa
dall'estinzione, che si accentua mano mano con lo sforzo neo-fetale
contro la probabile minaccia abortiva. La lotta con la finibilità,
quindi, non è subito istintuale-cerebrale pre-post-natale, ma è gia
presente con la formazione delle prime cellule; diviene istintuale
durante la stadio fetale avanzato, e si consolida in quello neo-natale,
onde perpetuarsi nell'esistenza. Ma l'uomo, per sua sfortuna, è dotato
di ragione ed ha inventato la cultura che complica per subito
esorcizzare questi timori associati. Quindi alla difesa istintuale si
aggiunge l'elaborazione culturale dell'idea di morte, caratterizzata dal
timore di una probabile assenza salvifica. (Vedi: Scimmietta ti amo di
Luigi De Marchi).
La confusione umana è concentrata nel sincretismo Dio-Amore e
Dio-Punitore. In realtà l'amore non è il bene che dualizza il male,
quindi Dio-demonio, ma amore come esorcismo della paura, non solo di
finire, ma di rivivere, dopo, nella sofferenza. Diremo, allora: Dio =
idea della vita, demonio = idea della morte. A prescindere dalle teorie
teofilosofiche millenarie, l'idea di Dio come garanzia di continuità è
indispensabile agli animali dotati di ragione, sebbene la dottrinarizzazione di certi elementari concetti abbia generato maggiore
confusione. Senza nulla togliere ai Padri della Chiesa ed ai teologi, e
con tutto il rispetto per i credenti di ogni Confessione, i quali
trovano serenità e sollievo, bisogna ammettere che Diderot non aveva
tutti i torti quando disse che le religioni annunciate in passato da
ignoranti facevano milioni di credenti, predicate poi da dotti fanno
solo degli increduli.
A prescindere dai quindici miliardi di anni luce che ci separano
dall'ultima galassia sentita dalla terra (la Luna e a un secondo luce,
quindi una delle riflessioni che conducono a Dio), la Religione e una
grande realtà per tollerare l'orrore della morte, tranne due elementi
comuni a molte Confessioni, che alimentano l'angoscia umana : l'idea
dell'inferno e l'elaborazione culturale della sessualità ad esso
relativa. Metabolismo sessuale legiferato, quindi compromesso nella sua
biologica istintualità che, se non censurato o modificato nella sua
appetibilità, sarebbe tanto più naturale e moderato, ed uno dei più
idonei toccasana spontanei per scongiurare l'angoscia
istintivo-culturale di finibilità, in ragione di fantasie erotiche,
pulsioni pluridirezionali, fino all'omosessualità, senza contare le
pulsioni incestuose coatte, manifeste o inconsce; reati sufficienti per
annullare la garanzia salvifica al di là da venire
L'eterosessualità, intanto, non condizionata dall'idea di peccato, che
richiama subito l'inferno è e la più idonea equilibratrice della vita
cellulare-psico-metabolica, connessa all'idea di Dio-amore, così,
invece, irrazionalmente elaborata culturalmente, non altro che da
fantasiosi bisogni di espiazione terrena. Il suicida, molto spesso,
ammazza sé stesso per non morire! ... Egli annega negli angosciosi
sensi di colpa inconsci, cioe sempre indefiniti, quindi,
nell'immotivazione, attribuita spesso ad ingerenze demoniache, vorrebbe
uccidere un male senza volto, che in buona percentuale si rivela come
consapevolezza celata in cantina, dell'elaborazione culturale:
morte-inferno-sofferenza eterna, pregna di terrore, fulcro inconscio di
tutti gli stati depressivi più a meno gravi. Nell'impotenza ansiosa il
suicida ripiega, in alternativa, con il possibile annientamento della
debole carcassa cerebrale, portatrice da anni, con alti e bassi
l'angoscia oramai incancrenita, tanto più coatta ed ossessiva perché
inesplicabile in superficie, dietro l'esclusione di ogni possibilità di
risoluzione.
Il tema, sovente reiterato dell'insoluto esistenziale, non altro
l'angoscia umana che ha origine direttamente dalla consapevolezza di
finibiltà e probabile assenza salvifica, in base alle elaborazioni
culturali di millenni, fu magistralmente generato dallo psicoterapeuta
Luigi De Marchi, nel suo Scimmietta ti amo.
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Da questo saggio sono stato
sensibilmente illuminato e spinto a formulare qui alcune riflessioni,
che partono dall'assunto del suo geniale saggio.Le difese, (anche sotto le freudiane sublimazioni: artistiche,
politiche, religiose, professionali, ecc.) sono molto spesso
contrastanti, e vanno dall'annichilimento mistico alla violenza
criminale, quando le si sostituiscono all'unico antidoto diretto alla
paura esistenziale, cioè l'amore, (specie concretizzato nei contatti
fisici, continuità della difesa uterina) inteso come l'opposto
dell'angoscia, quando è esente dall'idea di peccato. Dio è anche
l'organismo che vive e bisogna sempre favorirlo nei legittimi appetiti,
foss'anche nell'atarassia epicurea. La morte - diceva intanto il
filosofo - non è nulla per noi, perché quando noi siamo essa non c'è,
e quando c'è noi non siamo più.
Sicuramente Epicuro non si poneva il problema dell'al di là. Dunque
amore non come opposto dell'odio, ma come inverso della paura. Più è
attenuato questo timore, più l'uomo è capace di amare. L'amore come
salute mentale, che stabilisce il giusto compromesso con l'infernizzazione della vita. L'idea di Dio anche in questa dimensione
è utilissima per vivere in modo più sereno possibile, senza per nulla
escludere la dimensione transumana.
L'amore come inverso della paura è essenzialmente quello per
antonomasia, cioè l'eterosessualità. La proverbiale sicurezza del
ventre materno avvezza specie l'animale uomo a scongiurare il timore di
finibilità nelle parti lubriche di questo grembo, che conservano tutte
le caratteristiche delle mucose erogene freudiane. Da questo tipo di
benessere-scongiuro si dipanano poi tutte le peculiarità della sfera
affettiva, tenerezza, attrazione, affetto, compassione e pietà,
quest'ultime proiettive e, talvolta, come la carità, prevedono un
tornaconto salvifico. L'amore nudo, naturale, legittimo, fuori d'ogni
elaborazione culturale, compresa quella che leggete..., perché s'e
asservita alla corruzione dottrinaria per stare coi tempi, per esprimere
concetti di un naturalismo pre-culturale
TOTONNO PALLAPPESE
Dopo tanto filosofare fa duopo, come diceva Totò, un po' d'evasione.
Credo che nessuno si scandalizzi con la storia di Totonne pallappese,
perché una cosa e la villania da portuale e un'altra l'umorismo
erotico, anche se licenzioso. E poi, come posso ovviare al dato di fatto
che tutti i colleghi tipografi della cintura vesuviana siano in un modo
o nell'altro avviluppati nella problematica psico-sessuale. La storia di
questo tipografo vesuviano, la cui virilità, appunto ignea, si rivelava
insufficiente, e patetica ed ilare nel contempo.
Un giorno, nella mia bottega di Via Purgatorio dichiarò pubblicamente
che la sua coglia fungeva da guanciale, oramai, alla sua mentula
logorata ed in avanzato stato di atrofia, e gli epididimi completamente
aridi come le dune del Sahara. Non sarebbe il caso di ironizzare,
dileggiando un momentino il povero Totonno, ma il sesso e il peto sono i
temi centrali dell'umorismo vesuviano, quindi prendiamo la cosa sotto
l'aspetto del beneficio sociale di carattere evasivo a base di
flatulenza e sessuomania.
Veniamo
al sodo, anche se non sarebbe proprio il caso di usare questa frase
fatta, perché Totonno pallappese era allo strenuo poiché veniva
insidiato dalla consorte ventiquattrore su ventiquattro, non escluso le
feste comandate, anzi. Lo possedeva sempre e dovunque, molto
spesso nella sua bottega, ad est del Vesuvio, contro le pianocilindriche, sulle pedane impilate, là dove definire ninfomania,
quella della donna, equivarrebbe ad aggettivare piccolo l'Universo.
L'ossessa, e non sono iperbolico, si rivelava un'autentica megagalassia
erotica in espansione. E poiché non rientrava nel suo ordine di idee la
trasgressione monogamica, essendo stata educata dalle teste di pezza,
pretendeva il legittimo dovere coniugale solo dal malcapitato,
minacciando, spesso, la richiesta d'intervento della Sacra Rota.
Quando, hailui, mi vidi apparire sull'uscio della mia tipografia Totonno, pallido, emaciato, bacucco che più non si può, venticinque
chilogrammi abito e scarpe compresi, prognosticai la, quando prima,
raccolta dei suoi resti dal suolo, col cucchiaino, per dirla in gergo.
Gli dissi che, purtroppo, era condannato a soccombere sotto un assioma
legislativo.
Nessuna normativa sociale planetaria si oppone all'ottemperanza del
dovere coniugale del maschio, da secoli detentore di priorità erotica
attiva, anche se in misura da sanatorio. Doveva agire d'astuzia. Una
volta falliti anche i tentativi, suggeritile, della pratica onanistica o
del bambolo gonfiabile, doveva inevitabilmente ripiegare con un cavillo
da paglietta, diventare, ad esempio, pazzo, a cui tutto e tollerato. «Con
I'aiuto di Santa Veronica, protettrice anche dei tipografi, caro
Totonno, dovrai divenire pazzo, e risolvi, tutto ti sarà consentito e
tua moglie si guarderà bene dall'usarti violenza». «Io sono l'unico
uomo al mondo - rispose Totonno con un fil di voce - che non saprei
simulare mai la pazzia, con tutta la debolezza che mi ritrovo addosso mi
scapperebbe a ridere... No, non e cosa».
«Non devi simulare la pazzia,
Totonno caro, devi diventare pazzo sul serio. Lo so che non è facile,
ma a parte il fatto che sei sulla strada, basta una spinta e ti verremo
a trovare a Capodichino o ad Aversa».
Totonno pallappese al solo udire la parola spinta si afflosciò su
di una sedia dietro il banchetto d'accettazione della mia bottega di Via
Purgatorio:
«Solo una spinta ci
vuole e poi esco dalla porta coi piedi avanti... No... io non discerno
piu, scambio i testicoli di ciuccio per lampadine elettriche e prendo le
sputazze per monete d'argento. Sono un uomo finito, ormai. Mi sono
rassegnato, mi piange il cuore, però, pensando ai ventidue figli miei,
potenziali orfanelli».
Io postulavo la mia tesi e gli suggerii di coricarsi per qualche
giorno, onde guadagnare la giusta energia per mettere in atto
l'espediente, ma alla parola letto reagì con un mancamento. «Allora fai una cosa - insistevo - va' in riva al mare e,
ravvivato dalla brezza, mettiti a pensare all'Universo. Quante sono le
galassie, Totonno? - L'uomo, o ciò che rimaneva d'esso, scosse la
testa. - Sono migliaia - ripresi - se non milioni, o miliardi, chi sa. A che
distanza da noi sta l'ultima galassia sperimentata dall'uomo? - Totonno
pallappese aveva dei lampi di luce negli occhi, poi delle contrazioni
maxillo facciali, quindi i primi sintomi frenopatici. - Milardi di anni
luce - aggiunsi. - Toto' la chiave per diventare pazzo a breve termine e
questa. Abbandonati a queste elucubrazioni, intensamente: cosa c'è
oltre l'Universo, ammesso che abbia una fine, e oltre l'oltre cosa c'è,
Toto', e oltre l'oltre dell'oltre cosa ci sarà mai? ».
Questo episodio rivela un inedito. Nessuno sa che la barzelletta del
pazzo e della mazza di scopa, fu ispirata dal caso di Totonno pallappese, che da quando, quel giorno, l'accompagnai al pronto
soccorso, non s'è piu ripreso. Ma non mi sento colpevole per avergli
insegnato il modo per imparare a volare, non già per tener fede al
luogo comune che la pazzia è più vicina alla verità, o per avallare la
tesi di Michel Foucault: Mai la
psicologia potra dire sulla follia la verità, perché è la follia che
detiene la verità sulla psicologia, ma perché è meglio, tutto
sommato, un pazzo vivo che un iper-eterosessuale morto.
Avrei voluto dire, pero, a Totonno, ma non feci in tempo, che avrebbe
dovuto spogliare il suo stato dall'elaborazione culturale dell'idea di
pazzia, che alimenta la stessa proprio con il timore diabolico
esorcizzante che la gente mostra nei confronti di essa e che si
riallaccia sempre al thanatos freudiano, quindi all'angoscia primaria
dell'uomo. Avrei voluto dirgli, antifreudianamente, che attraverso la
libertà della follia, senza, però, l'angoscia culturale ad essa
connessa, aveva adoperato la fuga dal sesso e non la sublimazione, per
scongiurare l'angoscia della morte. Avrei ancora voluto dirgli che anche
la solitudine, l'emarginazione, scevre da qualsivoglia elaborazione
culturale angosciante, sono tollerabili, anche se mai consigliabili,
perché eludono il concetto del sociale, quindi dell'amore come inverso
della paura.
Forse aveva ragione il filosofo quando diceva: Nulla accade a un
uomo che la natura (e non la cultura) non l'abbia fatto capace di
sopportare.
Appena Totonno pallappese cominciò la spola tra le case di cura,
secondo la legge 180, la moglie prese i voti, ritornando alle origini di
quelle che erano state le cause dei suoi disturbi sessuali. Ma se i
familiari non avessero guardato con sospetto e timore Totonno, egli non
avrebbe preferito il covo uterino dell'ospedale per una famiglia di
spaventati, perché ancora immersi nell'ignoranza culturale medioevale.
Totonno, per dieci anni, ha puntato un asse di scopa verso la Via Lattea
all'alba e al vespero. Non ho mai capito se la sua fosse pazzia
autentica o scaltrezza napoletana. Quando alla fine gli tolsi la scopa
di mano per imitarlo, come tutti sapete mi rispose: «Sono anni
che non vedo niente io, lui se ne viene fresco fresco e vuole vedere».
Luigi Mari
TOTONNO
PEZZE 'NCULO E VICIENZO PIERE PE' TTERRA
Tutti sanno che i soprannomi riflettono la personalità, il mestiere, la
condizione di un individuo, quindi potete gia farvi un'idea della morale
della favola. I due tipografi in questione erano ubicati sulla stessa
strada l'uno di fronte all'altro. La spietata lotta commerciale durava
da ben cinque lustri. Non si contavano le aggressioni fisiche, le
rappresaglie, i boicottaggi. Sulle due fazioni nacque un vero mercato
nero, giochi d'azzardo, ecc. Si scommetteva su chi rompeva prima la
testa all'altro, sul numero dei clienti che entravano in ciascuna
bottega nell'arco della giornata e via discorrendo.
Scrivani e assistiti lavoravano a tutto spiano, tra cabala e smorfia.
Insomma nacque un'attività economica che arrotondava i magri stipendi
del vicinato. Intanto i due durante le tregue lavoravano come turchi,
poiché a mano a mano che i costi si riducevano, la clientela diveniva
sempre più nutrita. Quando le prestazioni raggiunsero il costo zero
Totonne pezze 'nculo e Vicienzo piere pe' tterra dilapidarono tutte le
loro risorse e mandarono le famiglie sul lastrico.
Quella strada morì nel senso commerciale. I bancarellari tentarono
nuovi siti. Gli scommettitori ripiegarono con il toto nero. In tutto il
quartiere aleggiava un'aria di detrimento. I due ambulavano nel
quartiere, boccheggianti per l'inedia, dimessi e malnutriti, il viso
grinzoso ed emaciato. Un giorno si incontrarono. Non si azzuffarono, non
avevano altra forza che quella della disperazione. Non si sa bene se si
abbracciarono nel tentativo di non buscarle, come fanno i pugili, o se
si caddero addosso per il deperimento. Fatto sta che decisero
all'unisono di fare appello al buon cuore dei passanti.
Col viso smunto, non rasato, rattoppati e semiscalzi, puntualmente, ogni
mattina occupavano le postazioni dei sagrati di due chiese, guarda caso,
prospicienti l'una l'altra. Trascorsero alcuni mesi e, se pur non
navigavano nell'oro, li si vedeva più nutriti, rasati, con banchetto
con urna per ricevere l'obolo senza la mano tesa, il telone controvento,
la ceneriera, il mazzo di carte, il minibar nel banchetto, ed i
ringraziamenti formulati in locuzioni rivolte ai defunti, stampati in
cartoncino formato visita per le 500 lire, in pergamena per le 1000, in
papiro originale dell'antica Cina, made a Forcella, per le 10.000.
Ma un giorno l'uno notava maggiore affluenza sull'altro sagrato e decise
di scemare le tariffe. Dichiarare la guerra ad una grande potenza era
meno grave. Aggressioni. Parolacce. Boicottaggi. Teste rotte. E ancora:
bancarelle. Assistiti. Scommesse. Insomma un altro quartiere di Napoli
si risollevò dalla secolare indigenza. Totonne pezze 'ncule e Vicienzo
piere pe' tterra questa volta finirono in mutande, alla lettera.
Distrutti dalla fame, annichilati nel disonore perirono e furono
inumati, destino infame, l'uno dirimpetto all'altro in un povero viale
del camposanto, a pochi passi da un cenotafio e un famedio. Ma
accadde... (Intelligenti phauca)
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1980
Luigi Mari
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