Seguono interi capitoli tratti dal
libro "Da Magonza a Torre del Greco"
di Luigi Mari 1980 - Editore di me stesso. Per...mia gentile
concessione...
PAOLO
FRINGUELLI,
GIORNALISTA SUI GENERIS
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Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo
foglietto quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro
comunale o poeta della domenica. Egli è uno strano filosofo che tira
quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio.
Il contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non
si parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di
Paolo Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro
occhiali enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano
o ideal-politico cristiano, come meglio viene, che postula la giustizia
sociale attraverso le sole pacifiche (?) armi: carta, penna e calamaio.
Questa particolare forma di giustizia, pero, pretende un riscatto dei
brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il negativo
storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori materiali
universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad esempio, i
ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali, tutto
sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole diverse, un
classismo alla rovescia. Creare un' inversione di interessi, un modello
sociale di valori pratici piu vicino alla massa. Egli è convinto che
ciò sia possibile poiché la massa è più numerosa, e, da che mondo e
mondo, la maggioranza vince. Si dirà, ad esempio, alla vista di una
bella ragazza: Pussa via, bella e oca che non sei altro, che hai la
marmellata al posto del cervello? Oppure: Disgraziato di un possidente,
non ti avvicinare, sa, con la peste bubbonica della ricchezza, con la
tua solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati la
tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà
all'inferno te per primo, e via ciarlando.
Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica
sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la
diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei
vaneggiamenti filosofici, dall'illusione degli ideali politici,
eccetera, eccetera. «La cultura e l'informazione, caro il mio tipografo
conformista - mi disse - fraternizza il figlio del ricco con quello del
povero ed entrambi vanno nei fondelli ai genitori». Paolo Fringuelli si
desta puntualmente alle quattro del mattino, ciclostila in fretta tutto
ciò che rimugina durante la notte. Alle dieci in punto esce la sua
edizione quotidiana che distribuisce a mano personalmente, ogni giorno
in un paesel1o della provincia.
A Napoli non sarebbe mai più andato perché un paio di volte «Mi indofarono di mazzate, chilli chiaveche!
Fai bene, va'!». Gli risposi che il prezzo che pagano i messia è
caro. Ci sedemmo su di una panchina nella Villa Comunale di Torre del
Greco, e gli chiesi perché ce l'avesse in particolar modo con i
fondelli dei suoi nemici. Ed egli per tutta risposta mi accusò di
essere certamente un tipografo venduto al sistema, una pedina della
società capitalistica.
Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo,
era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma
qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed
utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire
la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene tutti,
prima o poi, con la mia passionale tendenza all'analisi, ma compromessa,
spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si può.
Dopo me stesso, vedo tutti come bambini cresciuti; in questo modo si
riesce ad intenerirsi a cospetto dei malvagi, dei pazzi, dei maniaci
pure cruenti.Veder le loro carcasse
d'adulti, non richieste, come scafandri sui loro corpi minuscoli, con
quei ditini mirmicolanti; quasi sempre bimbi vessati, soffocati dalle
angherie forse inconsapevoli dei genitori e degli educatori. Poveri
assassini, poveri maniaci, poveri malvagi, (si fa per dire) quanto male
hanno ricevuto le loro testoline in formazione, quanta indifferenza ed
incuria, per essere condannati a divenir tali, a vegetare nella loro
irreversibile maledizione. Forse noi sani che giustamente li condanniamo
dovremmo espiare la nostra piccola parte di colpa, non altro la
diffusissima politica dello struzzo, proprio quella che da noi talvolta
fa pensare: Ad un palmo del mio sedere faccia chi vuole!
Ma noi genitori, meno degli educatori, non siamo psicologi, e
soprattutto molti di noi siamo degli incoscienti bambini cresciuti,
quindi agiamo in buona fede pur quando commettiamo errori gravissimi.
Per fortuna i casi gravi sono ancora contenuti, pure nella mia terra. La
maggioranza, male che vada, pecca solo di connivenza, forse allo scopo
di non peggiorare situazioni scabrose. E va bbuo- no, nun fa niente;
chiurimme 'n'uocchio; E' cos' 'e niente; Scurdammece 'o ppassato.
Questa è la filosofia del popolo vesuviano buono, pacifico, ma lontano
dal concetto di codardia, una maggioranza di popolo inquieta, che anela
il convivere sereno e civile, ma che si disorienta sempre più. Il
negativo nella nostra terra è rappresentato da una minoranza più
esigua di quello che si pensa, ma lo sanno pure i neonati cosa provoca
una pera marcia in un paniere di pere buone.
Dissi a Paolo Fringuelli: «Non ricordo chi ha detto:
l'illusione di ogni ideologo è quella di lusingarsi di cambiare il
mondo, ma esso e fatto non gia di deliri mistici di tante idee separate,
ma di tanti istinti separati, i quali, quando fraternizzano finiscono
sempre, in un modo o nell'altro, col farsi male a vicenda».
1980 Luigi Mari
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MARIO
ESPOSITO,
IL ROBESPIERRE DELLA CARTA
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Lo stesso Mario Esposito, detto il Robespierre, mi ha
dato conferma di quanto appena esposto, durante un colloquio avuto con
lui dopo la sua morte (sic). Mario viene spesso nella mia bottega di
Torre del Greco. Egli ama la mia città perché v'e vissuto un politico
onesto: Enrico de Nicola (Dio mio, come cambiano i tempi!).
In più il Robespierre usufruisce dei benefici terapeutici che Torre gli
elargisce. Sosta un po' nella mia bottega, rinnovando l'attributo di
chiodo al mio tagliacarte, quindi prosegue per la Nazionale e giù sulla
Litoranea, superba stazione termale, secondo lui.
«Quando mi immergo nelle acque inquinate, che dico, brodolose,
fecciose, pantanose e lutulenti, - mi disse Mario - io mi sento
rinascere. Che bisogno c'e di sottoporsi alla fangoterapia a Ischia. I
miei anticorpi sono i più virili del mondo, prima si pazzéano i
batteri, poi li fagocitano, perché i microbi, sappi, sono sempre
femmine, poiché se non stai attento ti fregano!».
Mario cesoia e uno di quei personaggi di cui e difficile stabilire
quando ironizzano e quando fanno sul serio. «Modestia a parte - aggiunse - io sono il più
grande tagliatore cartaceo del globo. Ai tempi della Rivoluzione
Francese avrei fatto affari d'oro. Oddio, non è che adesso teste non ce
ne sarebbero da tagliare... Durante le elezioni, una volta, ho tagliato
due miliardi e trecentomila tonnellate di carta; eppure, mi devi
credere, l'ultimo quintale mi fece il servizio... si, quando andai
all'altro mondo, ti ricordi?»
Mario Robespierre, malgrado i suoi inesorabili anticorpi si ritiene
un autentico ospedale ambulante e, chiaramente, attribuisce la colpa ai
padroni, quelli vecchi, precisa, perché i nuovi, o sono buoni o lo
devono essere per forza. Mario non si spiega come abbia fatto a prendere
lo zucchero (diabete) mentre nella vita gli hanno dato sempre veleno;
tanto meno sa capire come abbia preso l'acqua nella pancia (cirrosi
epatica) se ha sempre tracannato ettolitri di vino. Prodigi del
vernacolo!
La mattina di un gelido e grigio febbraio Mario cesoia, alias il
Robespierre, morò, per dirla con lui. Dopo 12 ore dall'accertato
decesso fu scovato in cucina, dagli addetti alle pompe funebri, mentre
strombettava una fanfara sul bevante di un fiasco di Barolo. Dichiaro
alla stampa:
«La catalessi è un tranquillo
sonno fetale. Se volete sapere se esiste l'altro mondo mi date sei o
settecento milioni ed io vi accontento. So bene che non me li date
perché non mi credete, ma se io lo sapessi davvero? ... Il risveglio -
concluse con una smorfia di disgusto Mario, sotto la luce violenta del
quarzo - è deprimente. Questo ve lo dico gratis. Perché ti ritrovi in
questa schifezza di mondo e rivedi le stesse facce, la stessa gente che
si agita, irrompe, si precipita per arrivare dove? E già, voi siete
giornalisti, sono frasi fatte, eh? Ma io faccio il tipografo da
cinquant'anni e qualche cosina l'ho imparata. Ha detto una volta Giorgio
Bassani: "Per capire veramente come stanno le cose a questo mondo
bisognerebbe morire almeno una volta". - Mi strizzò l'occhio. -
Che facciamo ? Il certificato medico parla chiaro. Va be' facciamo
cinque milioni e l'affare è fatto! Cinque milioni li spendete in un
giorno, all'inferno, per un poco di ghiaccio fetente che vi può passare
qualche diavolo corrotto».
Mario Robespierre non ottenne i cinque milioni, ma ha lasciato il
lavoro per la nuova professione di assistito. Chi più di lui può dare i
numeri, si è chiesta la gente. Il più delle volte le prende, specie
quando fa perdere poste alte, ma quando l'azzecca lo piazzano su di una
sorta di stallo pontificale aleggiandolo con due flabelli. L'ultima
volta che l'ho visto gli ho chiesto:
"A
me lo puoi dire, saro una tomba, l'inferno esiste o no?". Mi
fissa come per dire: povero grullo:
«E ti pare che se io fossi sicuro che
l'inferno non esiste sopportavo ancora quella strega di mia moglie e
quell'arpia di mia suocera? E da mo' che le avrei tagliate quelle teste,
sai il taglio che sogno tutte le notti, altro che risme. Le avrei
bollite e le avrei messe fuori il balcone appese con un limone in bocca.
Le lingue le avrei bruciate, cremate, perché quelle sarebbero capaci di
vituperare pure dopo morte».
1980 Luigi Mari
UN
TIPOGRAFO DI CAMPAGNA
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Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per
fare baldoria, compresi gli scioperi. Famoso l'aneddoto dello sciopero
al Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto
borghese si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti
verbalmente e tramite scritte il diritto al lavoro:
«Ho un lavoro per te».
«Di che si tratta?».
«Bisogna lavorare di vanga e di piccone».
«Ma come, con migliaia e
migliaia di persone proprio da me siete venuto a cadere?».
I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e
nemmeno l'austerità, sa di dominazione. Da secoli, hanno messo in
pratica una citazione di Marc'Aurelio: Nulla accade all'uomo che la
natura non l'abbia fatto capace di sopportare. Ebbene, nessun popolo al
mondo, in passato, è stato capace, come il nostro, di sopportare tanto
spadroneggiare.
Il popolo festaiolo di ieri si difendeva trincerandosi dietro
l'ottimismo che dice: O mangi questa minestra..., o sotto l'egida della
Divina Provvidenza. La frequenza, però, dei mutamenti gestionali di
potere alimentavano la speranza di un definitivo riscatto. E' chiaro che
oggi, economicamente e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel
ventre della vacca, alienazione generale a parte.
E sebbene i problemi dell'uomo moderno siano più di natura
psico-esistenziale che politica, è sempre attraverso la politica che la
massa pensa di uscirne. Oggi la stasi politica internazionale stagnata
dal deterrente atomico e la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali
politico-religiosi, hanno incrinato l'atavica risorsa del popolo
partenopeo di scivolare filosoficamente su tutti i problemi
politico-sociali.
La linfa vitale delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o
dalla Mamma Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una
cosa sola non fagocitano più l'angoscia. L'equilibrio psichico secolare
si incrina. Il fine settimana importato dall'estero, i party a base di
alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del tempo
libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente panacea
rispetto alle evasioni di una volta, come le passeggiate salutari, le
lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di rado da un
omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove venivano favoriti
gli ingenui contatti sentimentali, i quali costituivano il preludio
delle unioni monogamiche vecchia maniera, l'epilogo della maggiore
commedia umana, la famiglia intesa, questa, come struttura formativa
risalente alle piu antiche culture.
E' insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni
che sono nate con l'uomo, mai compromesse nei millenni. La diffusione
della stampa, come il resto dei massmedia, è colpevole della generale
confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne relative al
progresso materiale repentino e all'evoluzione delle scienze positive,
per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato, hanno disfatto
gli appigli ideologici, unico medicamento dell'universale, antichissimo
interrogativo esistenziale dell'uomo.
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Gli inviti e le partecipazioni, per fortuna, sono
ancora numerosi nella terra vesuviana, dove, tra l'altro, le metastasi
dell'incancrenimento edonistico di carattere commerciale sono ancora per
il momento contenute, tranne che nei centri con alto reddito.
Da noi ancora non è diffusa in toto l'ipocrisia tipica di quel rogito
notarile a cui assomiglia l'unione monogamica moderna che coglie in
pieno l'assunto di tutte le regole negative delle famiglie destinate a
disgregarsi sul nascere. Molte unioni legali sono basate su una
convivenza di comodo di carattere egotistico o su effimere basi
terapeutiche atte solo a compensare squilibri personali, quindi.
destinate al fallimento.
Ogni individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima
analisi, sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già
meno su quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e
disadattamenti nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di
nascere. Mi salva dal sentore messianico il sospetto autobiografico di
queste note.
Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di
decesso. Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegnamo, chissà
ancora per quanto, la massima di Mark Twain:
Il dolore può bastare a se stessi, ma per vivere a fondo una gioia
bisogna dividerla con gli altri. La solidarietà contro gli
oppressori ci insegnava una volta a fare tutto insieme.
Nella vasta gamma di lavori tipografici commerciali vi è quell'insieme
di stampati che rappresentano una sorta di messaggio popolare relativo a
gare sportive, manifestazioni folkloristiche, promozioni commerciali, e
via discorrendo. Dall'avviso murale alla locandina, dal volantino alla
cartolina pubblicitaria. Di questi stampati se ne fa largo uso nel
circondario vesuviano, nella metropoli e nei centri più densi di
popolazione.
Questi luoghi palpitano di iniziative culturali di livello popolare. La
produzione è favorita pure dal clima e dalla maggiore tolleranza sull'imbrattamento
urbanistico. E' probabile che la natura di questi stampati abbia avuto
origine proprio sotto il Vesuvio, dove le tradizionali feste popolari
hanno radici addirittura pagane.
L'ambiente colorito e climaticamente confortevole della strada
contribuisce al perpetuarsi di questi esternamenti dionisiaci, dove si
vedono planare sulle teste aligeri messaggi, là dove, quando sono di
carattere religioso, sembrano provenire, dedaleggiando, dai meandri del
cosmo, proprio dall'al di là.
Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule e cioncate pure sui
cigli delle strade; di abbuffate di taralli con sugna e pepe, di
frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o arachidi tostate ('o
spassatiempo), di torrone d'Ospedaletto e di castagne di Montevergine.
E così vola tutto dall'alto, intorno al Vesuvio, oltre alla cenere
vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti la gloria dei santi,
oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti domestici dietro il
«vigore» della pigrizia. La carta stampata, anche minuta, rappresenta
la modesta alternativa alla logorrea dei campani. Il cosiddetto non
sputare mai e per noi, ricambio d'ossigeno. Se vuoi uccidere un
napoletano condannalo al mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non
respirerà più neppure col naso.
La parola stampata, invece, un po' esotica ed aulica, associata
all'atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l'enorme
quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le
consultazioni elettorali. V'è una sorta di meccanismo inconscio, nel
mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un
editore diceva: La composizione di un libro senza nessun errore equivale
ad un'opera d'arte.
Oggi l'errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso zeppi di
errori, ma data la società consumistica, chi volete che esibisca un
documento di prodotto guasto al posto del certificato di garanzia?. A
Napoli vi sono diverse tipografie editoriali, senza dubbio di numero
parecchio inferiore a quelle del nord industriale. I complessi
tipografici meridionali producono diversi libri, specie i testi
scolastici. Alcune minuscole tipografie artigiane, pure, talvolta, si
cimentano in questa operazione. In questi casi interviene l'autore che
monta le bozze realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida
al tipografo impacciato.
Accade, pero, che l'autore spesso non riesce ad ottemperare appieno
questo compito per la scarsità di conoscenza di certe regole grafiche
fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una pubblicazione alla maniera
di:
DON
ANTONIO
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Don Antonio è un tipografo di campagna, alle falde
del Vesuvio, che un giorno mi interpellò onde essere illuminato proprio
sulla realizzazione di un volumetto religioso. Mi assicurò che il prete
era pipì e un po' fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura.
In più quando si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le
più variegate scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale,
giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi
consentiti dal Signore.
«Una volta, caro Marittiello, (da noi si vezzeggiano pure i
cognomi), solo per scrivere culo, invece di culto, me
ne disse tante che mi fece venire la diarrea. E' vero che in Chiesa
ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo capo, urlava: devi
fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattrore di terremoto con
te all'epicentro; tu non morirai nel letto tuo, disgraziato, ciuccio
matricolato; figlio di una meretrice (forse credeva che la buonanima di
mia madre vendeva le merende), insomma mi fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi
chiarì subito che il suo era un paese d'amatori d'uccelli. Gli feci
intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel libro. Ad
un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l'uscita in aperta
campagna
«Quando esco dall'Alfa Sud - mi disse - il tempo che mi
rimane lo passo un po' a stampare, un po' a zappare. Guarda che bella
campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il fabbisogno personale... e
di quello dei clienti». Lo fissai senza intendere. Mi scosse la
falda della giacca con cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di
rassegnazione nella voce: «Quando sbaglio qualche lavoro -
abbassò gli occhi, poi li puntò in alto, in un posto indefinito - e questo capita
spesso, tu sei un caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui'. -
Poi ribadì in tono perentorio, ma ironico - diciamo pure che non ne
azzecco una, va!... O i fogli vengono troppo scagnati, o troppo
'nguacchiati... Il mio forte sono gli errori di grammatica. - Sorrise -
Mi volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie'...
Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con
un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so,
due mazzi di ravanelli... Vedessi, dopo, il lavoro com'e buono!...».
Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa
aveva offerto al prete quella volta.
"Offerto?" Quello se non
lo fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva
nutrirsi molto, perché le arrabbiature gli portavano l'insonnia e lo
facevano dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la
spesa per tre mesi... Vedi un « t » che mi costò... Ma che vuoi, caro
Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in
paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi
chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima
alimentare tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare
1'arte da Ciccio 'o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le
scarpe e quelli dispari faceva i manifesti di morto. Quello sì che era
un maestro. Aveva fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere
neanche un anno».
Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre
del Greco, ma sulla strada del ritorno m'imbattei in una bicocca
diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi
dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del
pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a
mano a mano che m'avvicinavo, più articolati e distinti. Ascoltavo una
singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco spiritual ed
il vocalio ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti del concerto
emettevano poi vagiti d'infante.
Decisi di non approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante,
mi scontrai con lo sguardo enigmatico d'un bimbo paffuto, ma sudicio.
Gli chiesi perché quei volatili emettessero quegli strani suoni.
«Il nonno - disse con un sorriso d'ebete il fanciullo - acceca gli occhi di tutti con uno spillo,
così cantano meglio ».
Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto
libro. A seguito di un'altra visita, infruttuosa, seppi che era andato a
vivere a Modena con una figlia maritata.
1980 Luigi Mari
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NOSTALGIE
DI BOTTEGA
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Alla magia della stampa, sotto il Vesuvio, si associa
quella dell'espressione verbale colorita. Quelle locuzioni argute ed
ilari degli adolescenti post-bellici si diffondevano in ogni ambiente,
dalla scuola alla strada, ai sodalizi, alle botteghe. I miei ex
apprendisti, durante le visite odierne, mi rammentano queste gioiose
mattizie adatte per farla in barba alla monotonia d'una lunga giornata
di lavoro.
Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu
che faresti? Oppure le caricate traduzioni letterarie di nutriti
epiteti in vernacolo, le quali suonano: Vai ad operare in cio che sta sotto il
naso di colui che un giorno ti si spense, comunemente conosciuta
come:
Va' fa' mmocca a chi t' è mmuorto. O, ancora: All'alma di colui che a
te percosse i funerei rintocchi dei sacri bronzi, che sta per: All'anema
'e chi te sona 'a campana a mmuorto. Inoltre: Adesso piroetto sulle tue
guance una discreta dose di enzimi orali, cioè: Mo te sputo
'nfaccia. E via dicendo...
Le contumelie moderate si limitano a l'Eva t'amo tanto,
che faceva inviperire le ragazze d'allora. Ché, dire, oggi, al coetaneo
sessantottino: Levate 'a mutanda, equivale al dammi un bacio
d'una volta.
Noi anta ci scandalizziamo anche perché ignoriamo che i giovani si
sforzano a naturalizzare il linguaggio sessuale (il che non è
turpiloquio) allo scopo di esorcizzare l'ipocrisia bigotta del passato.
Infatti viene a cadere da noi la priorità della barzelletta col doppio
senso erotico. E, fateci caso, alla fine si finisce ancora col parlare
di morte e di sesso, quando c'e di mezzo la vita.
Molte di queste trovate attingono, pero, da una tale letteratura
popolare teatrale pre-alfabetismo, come la maggioranza dei proverbi e
delle locuzioni popolari partenopee. Le diffusero personaggi come
Pulcinella o Felice Sciosciammocca, i cui autori attingevano a loro
volta dal popolo.
Quando nella bottega annuncio qualche pubblicazioncella, la prima cosa
che mi chiede la gente è: Ma fa ridere?. Il bello e che essa
ride pure quando ho creduto di scrivere cose serie. Non sarà per
partito preso? Forse anche a Napoli, oggi, si insinua quel proverbio che
recita: Quante volte le bocche ridono ed i cuori non ne sanno nulla.
Abbiamo finito col dottrinalizzare pure le risate? Abbiamo fatto del
proverbiale buon umore napoletano un'altra elaborazione culturale? Se
così fosse, poveri noi!
On Lui' - dicono sovente gli ex apprendisti quando s'affacciano
all'uscio della mia bottega - All'alma di colui che a te percosse...
Ed io mi commuovo per stupidaggini del genere, perché tali non
sono. Esse sostituiscono i contatti umani d'un tempo, il senso
dell'amicizia, sempre più compromessi, per questo tronco la frase
dicendo: Curre,
cammina, va a fa' 'o duvere tuoie. Ed egli docile come un cagnolino
riconoscente si avvicina soddisfatto alla napoletana. Io noto
la prima stempiatura, gli incipienti segni della sua dissolta
giovinezza. Penso a quando, paternamente, lo dileggiavo dicendo mesci il
caffè, ed egli, invece, puerile ed ignaro lo zuccherava.
Ah, scarzuppulillo, non più imberbe, col tuo pomo d' adamo che va su e
giù, con qualche dente in meno e la consorte incinta ogni nove mesi
perché non si decide a fare il maschio. Ricordo quando dicevi al
cliente moroso che cinchischiava nelle tasche inventando mille scuse: Ma dicite ca nun tenita a «zuppa
».
Rieccovi a fare 'o duvere vuoste, come un tempo, con la napoletana,
dove il caffè scende. Ridico mesci, e voi, meno candidi, lo versate,
dietro un adulto sorriso sornione.
E' accaduto, l'ultima volta, appena un mese or sono. Un ex
scarzuppulillo centellinò con me quel nettare dell'amicizia e si
dileguò per l'ingresso borbottando di avere una fretta del diavolo. Un
attimo dopo ricomparve: « On Lui' - sbottò - me
scurdavo 'na cosa importante ». Pausa. «Dai, parla», ruppi.
E lui «Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il
berloffo, tu che faresti ?».
Fu molto più d'un abbraccio. Grazie, ragazzi, grazie perché mi
fate, talvolta, riassaporare la giovinezza. Grazie per aver tollerato i
miei sbalzi d'umore dovuti alle vostre inottemperanze, per aver saputo
sorridere a qualche mia verbale escandenscenza: 'Ata fa' 'e mmane
comm' e piede!
1980
Luigi Mari
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