NARRANDO
SOTTO IL VESUVIO
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Seguono interi
capitoli tratti dal libro "Da Magonza a Torre del Greco" di
Luigi Mari 1980 - Editore di me stesso. Per...mia gentile
concessione...
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Ma ritorniamo al caratteriale vesuviano. A giudicare
dall'evidente stato di degrado urbano e socioculturale della cintura
vesuviana, sembra che l'evoluzione etico-culturale e civica non sia mai
avvenuta e che il livello di questi valori sia stagnato nella misura in
cui era verso la fine del primo millenarismo della storia. Non v'è più
possibilità di "smottamento" e di sensibilizzazione. C'è,
oltre la buona volontà di alcuni, un muro di gomma. Pubblicai, anni or
sono un libro fotografico di Torre del Greco antica con relativa nutrita
introduzione, allo scopo di rispolverare il meglio di un passato appena
prossimo. A parte l'interesse legato alla componente nostalgica non ho
avuti altri riscontri. Nemo propheta in patria? O v'è il sospetto del
secondo scopo su iniziative che non beneficiano di contributi comunali?
Questo è un altro aspetto caratteriale drammatico che si è insinuato
nel mio popolo, che in fondo amo insieme alle pietre della città, la
certezza del secondo scopo, irreversibilmente.
Nella mia bottega di Via Purgatorio guai a consigliare un tipo di carta:
è perché lo si ha in eccedenza; un tipo di carattere: è perché non
se ne ha abbastanza. Tutte le buone opere, secondo la gente d'oggi,
dovrebbero avere un fine recondito legato al lucro. Ma se il danaro, in
fondo, non è che un mezzo per ottenere rispetto, stima, ammirazione,
perché non potrebbe essere l'opera buona lo strumento diretto per
ottenere ciò, senza mezzi venali? Ciò accade quando il capitalismo
impera col suo Vangelo: il consumismo con le sue chiese: le
multinazionali con il grande esercito di "operatori
pastorali": gli agenti di commercio, tutti avvinghiati alla massa
abbindolata dei consumatori, mai sazia, perché non si accorge di
comprare solo illusioni. Ciò accade, purtroppo, quando le arti grafiche
sono per il settanta per cento asservite alle spietate leggi di mercato;
quando le democrazie si crogiolano nella demagogia e numerose
incrinature di corruzione guastano come la malerba tutta la fioritura
etico culturale positiva di un'era.
Oggi c'e crisi di contenuto. Le ciarle messianiche ed idealistiche
potevano convincere nei secoli scorsi, nella mia Torre del Greco e nella
Campania tutta, sebbene prima dell'Unità d'Italia si registrasse il
novanta per cento di analfabetismo. Ancora più indietro negli anni la
cultura era esclusivo patrimonio dei pochi iniziati, per lo più
appartenenti alla casta clericale o a quella della gerarchia regnante.
Nessun figlio 'e Peppe 'o fravecatore de La Torre de lu Grieco, o di
Giuvanne 'o pisciavinnolo, di S. Lucia sognava una cattedra, non solo,
ma di fare il bidello negli «Studi Generali», tanto meno di avere la
potenzialità di uscire dall'epidemico analfabetismo medioevale.
Disordine e degrado erano di casa intorno al Vesuvio anche allora, ma a
causa dei frequenti mutamenti politici dovuti alle dominazioni.
Precarietà, inclinazione alla dissidenza e all'eslege che lasceranno
l'impronta caratteriale fino al popolo vesuviano d'oggi, sempre disposto
agli adattamenti ed ai ripieghi sregolati, alla tolleranza del
malcostume urbano e dirigenziale, dietro rassegnate reazioni di
malcontento, come si fa contro l'ineluttabilità del destino.
Forse è un'altra delle equilibrate forme di scaltrezza di fronte ad una
realtà difficilmente mutabile, allora perché consci di disporre della
fatua difesa dell'ignoranza, oggi ben consapevoli dell'irreversibile
stasi politica dei paesi allineati, dovuta al deterrente atomico. E'
forse una filosofia ancestrale che aiuta a sopravvivere e ad evitare
ulteriori annichilimenti come quello relativo all'ultima guerra
mondiale.
Intorno all'anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti
meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica,
grazie appunto alla Scuola Siciliana, la dove molte liriche destavano
interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un
motivo o per l'altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la
diffusione della cultura, con l'Università prima, con l'invenzione della
stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione.
Certo era ancora lontana l'epoca degli intellettuali laici. La poesia
siciliana risentiva dell'adorazione deistica dei cattedratici, la quale
pseudolaicamente adorava la donna in lamentose querimonie. Donna sacra
nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino, a cui
ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la
benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il
possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità
monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.
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Spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei
cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di
quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti
lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna
borghesia del business partenopeo vigente. Ho l'impressione che noi
vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica scarsa dimestichezza con
la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia
frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto
rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiaciamo a mezza strada
tra la passionalità deisticoverginale e quella femminomatriarcale. La
donna, nel napoletano, è da temere, da venerare e da punire. I ruoli
sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane);
oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale;
possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di
madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l'essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli
di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche
contrapposte come il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali,
ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di
essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli.
Gli scriptorum e le tipografie hanno in fondo diffuso queste concezioni
istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico relative alle
prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma, amanuensi e
prototipografi non hanno fatto altro che parlare prevalentemente di Dio
e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado gli sforzi ostinati per
distinguere un popolo dall'altro, grazie alla stampa, la diffusione
delle culture, che in fondo si combinano tra loro, come oggi le
religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
L'uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro il
mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come
nell'area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle
culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E' proprio là che
si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il globo
terracqueo. Si e sordi all'idea che per debellare ideologie culturali
durate millenni non bastano un centinaio d'anni, ma periodi altrettanto
lunghi. L'uomo vive mediamente l'arco di sessant'anni, ma sufficienti
per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie e credenze millenarie
non rimuovibili a livello inconscio.
1980
Luigi Mari
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L'ALFABETO
E IL POPOLO VESUVIANO
Quante lettere non abbiamo mai scritto! Noi "anta"
ancora trasogniamo il fragore delle ultime carrozzelle sull'asfalto di
Via Caracciolo o sui basalti del Miglio d'Oro che lega Torre del Greco a
Ercolano. Erano i tempi delle interiezioni, della pargolezza che sapeva
ancora di candore da Prima Comunione e non di puerizia pilotata da
dottrinarismi clinici che tutto prevengono, tranne la predisposizione
all'angoscia. Evoluzioni socio-scientifiche che hanno dato un taglio
netto a due epoche.
Le carrozze sui basalti non sonavano fragore o dirugginii, ma accordi
melici. Reminiscenze romantiche che hanno sentore nostalgico, d'accordo.
Ma l'asetticità dei giorni nostri non sa meno d'infermità. Una terra
ferace, quella vesuviana, che fa invidia alla motriglia del Nilo. Due
raccolti l'anno. Fertilità del terreno grazie anche all'
"ingerenza" delle sostanze eruttive dello sterminator Vesevo,
che si è accanito nei secoli a svellere in rovinose devastazioni ora le
mirifiche e sontuose ville vesuviane, ora i tuguri fatiscenti relativi
alla letteratura verista e neorealista. Sempre nel quadro della
napoletanità i nostri autori a cavallo dei due secoli mettevano
l'accento su di un personaggio ora grottesco, ora romantico, a mezza
strada tra il barbassoro e il fattucchiere, che si può definire, senza
tema di smentita, una sorta di derivazione dell'amanuense: lo scrivano!
Quando, imberbe, apprendevo i primi rudimenti dell'arte tipografica,
rammento con nostalgia un vecchio scrivano che, tra l'altro, ha tanto
colorito di lirismo la mia fantasia. Veniva a Torre del Greco, a piedi,
naturalmente, dall'allora Resina, e ambulava pacato e monacale puntando
frequentemente lo sguardo sulle architetture ora di Villa Favorita, ora
dell'Istituto S. Geltrude, fino al Palazzo Vallelonga del Vanvitelli,
che egli scandagliava lentamente, ponendo sulle costole a manca il
viluppo di scartoffie nella cartella di bazzana color porpora. Indi si
impancava presso il famoso Caffè Palumbo a centellinare una bibita,
procacciandosi, intanto, il lavoro tra i passanti.
Lo scrivano ha avuto risonanza storica, anche se aneddotica quando
partivano i bastimenti, dove diecine di sensali di carne umana trasferivano oltre oceano migliaia di italiani. Lo scrivano era il loro
tramite interiore, il loro poeta, colui che coglieva i sentimenti più
vivi e sanguinanti dal cuore delle madri, e forse un po' vizzi e
annacquati dall'animo delle mogli, trasmigrandoli nelle Americhe,
immortalati sulla carta spesso olezzante, come si diceva una volta, di
misteriose quintessenze. Lo scrivano adoperava l'alfabeto come un ponte
immenso sull'oceano.
So di ditirambeggiare i miei personaggi, ma opino che il tipografo
artigiano quello della bottega degli impresepiati centri storici, sia un
po' lo scrivano delle arti grafiche. Una buona parte del suo lavoro
sfrutta l'alfabeto come un macchinismo pro-socializzazione. Il bottegaio
tipografo napoletano, chissà fino a quando, sviolina i suoi caratteri
nel compositoio, concretizzando sentimenti ed emozioni franche ed
inaffettate, ora gaudiose o gongolanti, ora meste o austere. Forse nella
mia provincia, oggi come mai, tutt'altro che «addormentata», le vampe
del sottosuolo igneo ancora premono lo svisceramento dai precordi.
Esuberanza, azione, fremito eruttano dall'animo come reciticcio, a mo'
di materiale eruttivo. A questo gaudio spirituale si associa una
spiccata tendenza alla concezione epicurea della vita.
Questo spiega il pluralismo di una catena di piccoli ristoranti dalle
falde del Vesuvio, giù giù lungo tutta la Litoranea, purtroppo
devastata dall'urbanistica di fattura demagogica della mia Torre del
Greco, e poi di nuovo su verso le pendici a sud-ovest del Vulcano, sulle
abbarbicate pinete di Boscotrecase e Boscoreale di prischiano ricordo.
Nessun popolo al mondo sublima il banchetto nuziale come quello
Vesuviano. Il tripudio della gente semplice si manifesta in quelle
lunghe ore di abbandono epicureo dove il luculliano e bazzecola; dove le
crisi bulimiche quali smodate voracità d'affetti, si materializzano
nella crapula e nel cioncare.
Agape mistica, orgia dionisiaca e Convivio
dantesco sono tutt'uno.
Al culto gastroenterico nessun circumvesuviano
è dissidente, neppure l'intellettuale di grido. Anzi.
L'alfabeto immortala su partecipazioni, annunci ed inviti la
legittimità caratteriale partenopea dell'appagamento mistico,
spirituale e metabolico. Documenti che simboleggiano il tripudio delle
feste delle unioni (anche se un po' precarie, dopo); delle nascite
(anche se non tutte legittime); e purtroppo delle estinzioni, la cui
liceità è inopinabile, tranne, talvolta, durante le consultazioni
elettorali... E a proposito della morte, l'alfabeto è lo strumento che
più di tutti da l'idea dell'immortalità dello spirito umano.
All'ombra del Vesuvio, però, malgrado la scoperta del thanatos
freudiano, la morte viene sempre esorcizzata sotto un travestimento
faceto. In quei centri vesuviani con un reddito (sperequato) superiore
alla media nazionale, la morte è una trovata da propaganda religiosa,
è, cioè, il sonno quando si è scocciato di ridestarsi.
Torre del Greco è in declivio alle falde del Vesuvio prospicienti il
Tirreno. Essa è compresa da nord a sud tra Ercolano e Pompei e da est
ad ovest dal cratere al cimitero, sul mare. Ho dato priorità al
camposanto rispetto la costa perché la cittadina ha una positura
geografica, come dire, necrostorica, non già a causa delle ecatombe
degli stermini vesuviani, ma perché il mio popolo è uno dei pochi a
custodire così bene la concezione egittologa del trapasso, sebbene
qualcuno si ostini a guardare i cimiteri come materia promozionale
relativa alla propaganda religiosa: un reiterare costante, in pratica,
del memento mori.
«Sono di più le scese o le sagliute?» farfugliò un marmocchio col
viso impiastricciato di cippa e di moccio, affacciato all'uscio della
mia bottega di Via Purgatorio. Il moccioso sciolse una smorfia di gaudio
quando io gli risposi che non vi era differenza fra i due dati
topografici.
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«Ce sta 'na scesa 'e cchiù - bofonchiò
quegli - chella d' 'o
cimitero, quanno 'a scinne nun 'a saglie cchiù».
Il vesuviano è pigro con la lettura, così propenso all'evasione,
pressato da un ritmo di vita sempre più frenetico, quindi malproprio
alla lettura e alla sua prerogativa: la concentrazione. Questi nuovi
avvenimenti hanno ottenebrato non solo il fascino del prodotto delle
stamperie, ma la stessa forza espressiva del pensiero combinato in
parole attraverso l'alfabeto, uno dei maggiori strumenti capaci di
stimolare e fertilizzare la fantasia. Il processo di stimolazione
mentale della trasfigurazione artistica ha mutato i canoni compositivi
nella pittura, nella letteratura e nelle arti applicate ad esse affini.
L'ambiguità del reale è conforme al mistero della vita e della morte,
quindi all'insoluto esistenziale più intenso. Le pulsioni sessuali, ad
esempio, vengono alimentate dal «celato» o, meglio ancora
dall'immaginato, in molti casi. Le culture planetarie di stampo
religioso, dal canto loro, hanno allenato l'uomo per millenni ad
atteggiamenti comportamentali scaturiti dalle speculaziori teosofiche,
dove i composti lasciavano spaziare la fantasia con trasognamenti,
speranze, illusioni, delizie, meccanismi intellettivi che impegnavano la
mente e spesso conciliavano il sonno. In ultima analisi: sognare, di
giorno e di notte.
Un filosofo diceva: «Guai all'uomo quando smetterà di sognare!»
Cert'è che oggi non solo si sogna poco, ma si dorme pochissimo. Chissa
quali utilità arrecano all'uomo le scienze positive, a parte
l'apparente benessere fisiologico. Il corpo e analizzato e curato in
ogni cellula, ma al di là del cancro e dell'AIDS, la mente chi la cura?
La salute mentale collettiva e individuale, quale scienza o psicologia
la garantisce in maniera empirica. Pure la psicoanalisi, idonea per la
prevenzione dell'angoscia si rivela dubbia per la terapia. Le scuole in
materia si moltiplicano, come un tempo con la filosofia, polemizzano tra
loro, prevalgono dottrinarismi categorici ma teorici, spesso perentori e
sussiegosi. Le teorie non sperimentate non allettano nessuno. L'alfabeto
vecchia maniera spaziava, trasognava, sconfinava, ora si concentrava,
ora si rarefava, e la gente dormiva almeno otto ore per notte.
II piombo di Gutenberg basisce lentamente da più lustri, come
è romantico ma arcaico dire. L'elettronica, nella fattispecie
l'informatica, per non scomodare la cibernetica, ne sta praticando
l'eutanasia. Ma diversi noi "anta", in alternativa ai disagi
di uno squallido dopoguerra, fino ad oggi mai sanato per i nuovi
malesseri, abbiamo assorbito, sin da quell'infanzia travagliata, gli
ultimi vapori del romanticismo, che rasentava, certo, un genere
d'infermità, ma non esiziale o apocalittica come quella odierna. Quei
trasognamenti e suggestioni mistiche denominati valori etici ed ideali,
altrimenti detti sostegni psichici, erano atti a scongiurare ed
esorcizzare 1'insoluto esistenziale di sempre, ed in special modo le
pressioni negative di una società asettica e disumana come quella
odierna, che concentra nel sistema, al di là dei colori politici,
angherie di potere coercizioni consumistiche, vessazioni camuffate di
democrazia.
Ah, care, veetuste, fuligginose tipografie artigiane napoletane; oscuri
anfratti, ferite nere dei dedali infestati di bucato, gemme brune della
cultura partenopea, disposte a raggiera intorno al Corpo di Napoli o nei
vicoli delle antiche cittadine vesuviane, antri sgraziati, disadorni,
bizzarri; prestigio ideologico dei dedali fatiscenti, onore del
sottoproletariato urbano. Non scomparite nell'asetticità del cemento,
restate lì come diamanti ideali incastonate tra bassi e portoni
spagnoli, fra letti e fornelli. Ecco un seno nutre a ridosso di tomi
ancora intonsi nell'effluvio della resina. Bottega, dimora e strada, una
cosa sola. Nessun auto, oggetto o persona può sostare innanzi alle
botteghe artigiane perché e come soggiornare in casa altrui senza
consenso.
Certo, sa di anacronismo reiterare qui moduli veristi o neorealisti
della Napoli delle cartoline. Ma l'immagine dei dedali di Forcella o
della vecchia Resina, di Torre del Greco e Annunziata infestati di
bucato sciorinato sulle corde di canapa in un contesto di metropoli
giungla, la dove un quindicenne si buca dietro un portello e due
dodicenni scippano, non è retorica. E' la vecchia cintura vesuviana che
non regge più alle pressioni dell'europeizzazione edonistica. I ghetti
del sottoproletariato sono 1'altra faccia del progresso. Tuttavia,
malgrado lo squallore e le lordure volute anche dalla contaminazione
capitalistica, in questi siti si può ancora attingere un caratteriale
solare, calore umano e soprattutto una sorta di solidarietà, credo,
purtroppo, ancora per poco tempo.
I rioni dei Centri storici del napoletano somigliano alle piccole polis
del vecchio mondo, autocrate e solidali. Comunità un po' fuori dalla
storia, là dove certe forme comportamentali di solidarietà restano
istintuali, caratteriali, un sociale allo stato brado, mai
culturalizzato in pieno. La famigerata arte dell'arrangiarsi scaturisce
da un metodo autarchico di gestire la propria pelle, sia pure in maniera
eslege, nella inconsapevolezza ovvia e cronicizzata di un popolo, come
dire, storicizzato a metà. Un piccolo stato nello stato.
Il popolo vesuviano, quello originario dei bassi fatiscenti, è uno di
quelli che ancora disdegna l'operato di Garibaldi. Una comunità legata
alla strada, alla splendida costa, incapace di rinunciare all'elio e
talassoterapia buona parte dell'anno, ed ancor meno al culto
gastroenterico, alle vecchie strutture spagnole fitte di bassi e case
giardino, portoni, portelle, balaustrate ed ampi davanzali sempre
ingombri di opulenze femminili. E' gente, malgrado le apparenze,
emotiva, scrupolosa e tradizionalista, che si nutre di passato, di
retorica, di suggestioni mistiche. (a parte pochi balordi). La razza
che, pur pressata a rinunciare alla fede, non disdegna i tabernacoli e
confonde il rituale religioso con quello pagano in fusione totale alla
superstizione. E una volta che non riesce a rimuovere le parossistiche
crisi esistenziali preferisce ancora l'Apocalisse alla catastrofe
atomica.
Ma ecco che il progresso, lentamente come un tarlo, continua a strappare
questo popolo dal suo habitat. La strada da palcoscenico diviene giungla
urbana. L'equilibrio incomincia ad incrinarsi; l'artigianato secolare
soccombe. Gradualmente scompare il lavoro a misura d'uomo, il rapporto
di gomito, l'afflato del mercanteggiare. La Serao ci ricorda nella sua
dilogia i tipografi sottopagati della sua epoca; ma forse beneficiavano
di condizioni psichiche migliori rispetto a quelle dei giovani tipografi
mancati di oggi per ragioni che è superfluo reiterare; poveri figli di
mamma finiti inevitabilmente nella rete della malavita o incappati nella
ruota della tossicodipendenza. Ogni dieci artigiani che chiudono bottega
dovrebbero essere sostituiti da un centro di formazione professionale;
questi, invece, non solo non si moltiplicano, ma tendono a calare e ad
impoverirsi strutturalmente. I tipografi artigiani vecchia maniera,
dunque, sono ancora i soli, autentici sostenitori della romantica
tradizione gutemberghiana; singolari superstiti e testimoni veri della
riproduzione veloce degli scritti, quindi della diffusione della cultura
e quel che di benevolo, egregio, propizio essa ha dato all'umanità. Il
lavoro artigiano, se pure meccanizzato del secolo scorso, era nella
vita. La cibernetica sa di robotica extraterrestre, non ha nulla di
umano come le cellule. Conciliare il micro col macrocosmo è una grave
castroneria dell'uomo
1980
Luigi Mari
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L'ECONOMIA
VESUVIANA
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ARTURO
tipografo erudito
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Arturo è un collega tipografo di Portici. Quando ci
incontriamo, ogni anno, in occasione della Festa dei Quattro Altari, mi
parla spesso dei nuovi datori di lavoro.
«Non capisco perché - disse una volta - la gente si ostina
ancora a parlar male dei padroni. Non starei nei loro panni nemmeno come
pulce. Credono di conquistare la felicità col danaro, mentre, in pochi
anni, si ritrovano addosso tutti i disturbi psicosomatici contemplati
nei manuali di Franz Alexander. D'altra parte - sostiene Arturo -
padrone significa grosso padre, ora, caro Mari, parleresti così male di
tuo padre, anche se grosso e tesaurizzatore, anche se, spesso,
snaturato? Un padre, pure se ingiuria i propri figli, li sfrutta, li
aggredisce o li opprime, lo fa sempre a fin di bene... ama, come si suol
dire, a modo suo, ma sempre amore paterno è...».
Io ed Arturo avanziamo tra la ressa, abbacinati dalle luminarie
cinematiche, sostando entusiasmati innanzi agli Altari dipinti su
gigantesche tele, ed intanto gli dico che l'imprenditore del sud non e
né migliore né peggiore degli altri, ma sostanzialmente diverso. E'
dissimile la sua sfera emotiva, la sua base culturale, la sua natura
storica d'essere padrone. E' vero che abbiamo avuto casi di padronismo
acuto cronico, come, ad esempio il famoso imprenditore tipografo X. Y.
che spianava le banconote col ferro da stiro, ogni sera, puntualmente,
prima di obbedire al suo rituale apotropaico antinflazionistico e
rifugiarsi in una nutrita sequela di scongiuri cabalo-mistici, per
abbandonarsi, infine, tra le cosiddette braccia di Morfeo. La sua anima,
di notte, diveniva un batuffolo di bambagia soffice che rimbalzava tra
Belzebù, il fattucchiere e Nostro Signore.
Avevamo raggiunto il Porto di Torre per incrapularci, poi, in un
convivio luciano a base di mitili, taralli impepati e birra esotica,
indi assistere agli spari pirotecnici che concludono quella massiccia
rivelazione di folklore pregna di suggestione religiosa.
«Gli imprenditori del nord - chiacchiucchiava Arturo, con la
lingua ostacolata dalle lubriche cozze - perseguono il capitale
principalmente per sentirsi superiori a quelli del sud. Poveri ricchi,
emarginati nel loro potere, essi pretendono d'ottenere stima e
ammirazione, ma in fondo, alla base di questi desideri v'è solo un
bisogno d'amore, voglio dire l'antidoto alla paura esistenziale.
Purtroppo la ricchezza li divide dalla gente semplice, l'unica a poter
elargire il sentimento più utile alla vita. Ho detto gente semplice, ma
non distorta dall'idea culturale della povertà che presume invidia e
risentimenti. Da quelle parti - aggiunge Arturo, dopo aver
tracannato un intero tre quarti - hanno poca invidia tra di loro, vedono
irrealizzato il loro scopo. Che gusto c'è ad esse ricchi quando non ci
sono abbastanza poveri ad ossequiarti, a girarti sempre intorno, a
rodersi l'anima in segreto? I loro fratelli d'Italia poveri sono quelli
del sud, essi sono utili allo scopo.
Gli spari fantasmagorici coprono le teorie di Arturo. Ora aspira
ampie boccate di fumo. Dopo la botta finale, nel mentre ambuliamo
stirandoci le membra in piena fase peptica, conclude: Da noi il desiderio di emergere in maniera
consistente, e prevalere, si ripercuote non già su quelli più a sud
poiché, poveri africani, non hanno neppure la mazza per andare
mendicando, ma sui malcapitati che si hanno sotto mano, insomma i paria
delle gerarchie, industriali, commerciali, marziali, domestiche, sempre
molto numerosi. Ai lavoratori dipendenti, a prescindere dalle seconde
attività e dai doppi stipendi coniugali, è preclusa ogni possibilità
di ascesa in questo senso. Tale bisogno infermo, questa sorta di
prevaricazione a catena, è rappresentata e sostenuta dalle mogli, che
non hanno niente a che fare con le donne, degne di tutta la stima ed il
rispetto; le mogli, senza generalizzare, pretendono solo dalla forza
economica domestica il riscatto delle dominazioni del passato,
dell'antica condizione contadina».
Arturo prende fiato in cima al pendio di Via Cesare Battisti. Io lo
seguo con attenzione perché le nostre idee hanno diversi punti in
comune. Quindi prende posto al volante e lo ascolto dal finestrino
«La mania di fare soldi dei settentrionali è legata alla
problematica esistenziale planetaria, quella nostra in più prende
radici dalla storia locale. Quando questo bisogno si intensifica si
finisce con lo scendere a compromessi anche di natura eslege e
delittuosa. Il primo traguardo è il posto. E qui cominciano i problemi,
perché il posto ti mette nell'orbita, sebbene periferica,
dell'eliocentrismo del potere economico, indi il matrimonio, poi spinta
psicologica della moglie ed empirica dei bisogni (e non delle
necessità) legati al consumismo coercizzato. La corsa è irrefrenabile.
Non si rinunzia a nessun tentativo, altrimenti ci si sente emarginati.
Nessun circumvesuviano, caro Mari, non ha mai tentato di fare
1'imprenditore, almeno una volta nella vita, anche il bancarellaro, pur
di sentire l'ebbrezza dell'ascesa. Statte bbuono, Marittie' ». E
voltato la gavezza ...dei cavalli motore, naturalmente, punta verso
Portici, dileguandosi per il Miglio d'Oro dannunziano.
La finanza, col capitalismo prioritario, aggiungo, si depluralizza
concentrandosi nel potere oligarchico. Non già solo l'artigiano, ma
l'industriale medio rischia di uscire dal rango dei privilegiati. Gli
sforzi dell'industria tipografica campana sono sostenuti. E' difficile
tener testa ai continui progressi tecnologici. Molte aziende fanno
capriole per reggere il gioco del mercato e delle evoluzioni tecniche.
Ma spesso si sottopongono a ristrutturazioni e ridimensionamenti che
favoriscono l'aumento dei cassintegrati.
1980 Luigi Mari
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