TOTO'
SEMPRE A TORRE DEL GRECO
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Qui sotto: Totò a casa del Conte Gaetani Villa Olivella - Torre del Greco

    


TOTO’ SI CONFESSO’ A CUORE APERTO CON LA
FALLACI, DISSE COSE CHE NON HA MAI PIU’ RIPETUTO.

Di: Gabriella Cundari
Da «L’Europeo», 1963

25 luglio 2015
Totò disse alla Fallaci: Sì, due ne ho di amici: il conte Paolo Gaetani che sta a Torre del Greco e il conte Fabrizio Sarazani.
Il Conte Gaetani a Torre con i suoi cani. Totò allevava 200 cani

Il Conte Paolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona, celebre 
gentiluomo di rara eleganza, riceveva i suoi ospiti (Noel Coward, Totò, i Duchi di Kent, la Principessa Isabel Colonna) nella sua splendida villa “L’Olivella” sotto il Vesuvio a Torre del Greco.
A Margine un capitolo del veterinario torrese Sandon

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TOTÒ INTERVISTATO DA ORIANA FALLACI

“Non si piace”, dice. Ma si vuole bene da sé. È altezza imperiale, e tante altre cose. Ma deve tutto al personaggio di Totò.
Si sarebbe pure fatto frate, se non ci fosse il piccolo impedimento della castità.
Tra tristezze e una grande ironia, il più grande comico italiano si racconta.

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 O. F. Principe, Le porgo i miei rispetti e i miei omaggi… Lei è proprio principe, vero? (Sorride, un po’ imbarazzata, al gentiluomo dall’aria nobile e triste, che la ossequia da alcuni minuti come se fosse l’imperatrice Teodora).

TOTO': “SUA ALTEZZA IMPERIALE IL PRINCIPE ANTONIO DE CURTIS (TOTÒ).

Signorina mia, vuol scherzare? Non crederà mica anche lei che i ritratti degli antenati li ho presi dagli antiquari? I titoli non si comprano, li danno i sovrani.

Vi sono due specie di titoli: quelli nativi, i quali vengono da famiglie che hanno regnato, e quelli dativi, i quali vengono dati dal re a qualcuno che ha fatto qualcosa… Il mio è nativo.

E ce l’ho dal giorno in cui venni al mondo: come mio padre, mio nonno, mio bisnonno, mio trisnonno, su su fino al 362 avanti Cristo.

Sì, questo sul mio anello è lo stemma. Come vede, sullo stemma sono incise la data, 362 a.C., l’araba fenice che guarda il sole nascente sotto le colonne di Ercole, la mezzaluna con tre stelle che sarebbe l’Oriente…”

O.F.  Il volto bizantino ce l’ha.

TOTÒ: “Me l’hanno già detto. Ricorda quelli di certi mosaici a Ravenna. Me l’hanno già detto. Vengo da Bisanzio, per forza.

Signorina mia, sono altezza imperiale, son principe e anche molte altre cose: conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, ufficiale della Corona d’Italia, cavaliere della Gran Croce dell’Ordine di Sant’Agata e San Marino, marchese di Tertiveri, questo però non lo uso. (Con lo stesso tono di voce) Dick, il mio cane lupo, era invece barone.

Peppe, il mio cane attuale, è visconteVisconte di Lavandù.Gennaro, il mio pappagallo, è cavaliere. Li ho investiti io. 

Caligola non fece senatore il suo cavallo? Troppo giusto, però non deve dirlo. Altrimenti concludo che non gliene importa, d’essere altezza imperiale.

Signorina mia, me ne importa: quel tanto che basta a onorare gli avi, la famiglia che ha avuto questa roba… Sarebbe come dire che il pronipote di Marconi non ci tiene a esser pronipote di Marconi.

Ci tiene. Ma il mio più bel titolo resta Totò. Con l’altezza imperiale io non ci ho fatto nemmeno un uovo al tegamino, con Totò ci mangio dall’ età di vent’anni. Mi spiego?”

O.F. Ma le altre altezze imperiali e non come La trattano?

TOTÒ:  “All’ inizio mi snobbavano, si capisce. Poiché lavoro, poiché faccio il pagliaccio, mi guardavano con la puzza al naso.

A ogni modo, sa, io me ne infischio di come mi trattano: perché il mio titolo è più forte del loro. E poi su queste cose la penso come lo spazzino della mia poesia ‘A livella: quella del marchese che è seppellito accanto allo spazzino e vuol mandarlo via. 

O.F. Lei dice sempre bene. E poi Lei è un divo, un artista.

TOTÒ: “Macché artista, venditore di chiacchiere.Un falegname vale più di noi artisti: almeno fabbrica un tavolino che rimane nei secoli.

Ma noi, dica, che facciamo? Quanto duriamo? Al massimo, se abbiamo molto successo, una generazione.

Se chiedo al mio nipotino chi era Petrolini, chi era Zacconi, risponde boh!”

O.F. La Sua modestia mi lascia smarrita. Lei sta recitando.

TOTÒ: “Io le giuro sulla tomba di mia madre, l’ unica cosa cara che ho al mondo, che sono sincero, non recito.

Sto per confessarmi, anzi, come non ho mai fatto con nessuno. Io sono un misantropo, un timido, pensi che quando entro in un ristorante abbasso gli occhi perché mi vergogno che la gente mi guardi, e non ho mai amato rivelare chi sono.

Stavolta ci provo, però deve credermi: sennò tanto vale andarci a bere un caffè. Signorina, io recito solo nei miei brutti film”

O.F. E allora mi dica: perché recita in quei brutti film?

TOTÒ: “Signorina mia: io non prendo i 100, i 70, i 50 milioni di lire che prendono gli altri.

E ciò di proposito, perché se sento dire che il tale o la tale hanno preso 600 milioni per la parte in un film, resto inorridito, schifato.

Io non ho mai voluto prendere grandi cifre perché ho sempre pensato che il produttore deve guadagnare, col film.

Se non guadagna, fallisce. Se fallisce, io non faccio più film. E se un po’ alla volta falliscono un po’ tutti, dopo che faccio? I film dove recito io son commerciali, son filmetti arraffati, destinati alle sale di seconda visione, e costano poco: anche come film.

Quando son lì, non posso mica dire no, questo io non lo fo, non mi piace, non va… Sarebbe scorretto, scortese… Senza contare che io non posso vivere senza far nulla: se vogliono farmi morire, mi tolgano quel divertimento che si chiama lavoro e son morto.

Poi sa: la vita costa, io mantengo 25 persone, 220 cani… I cani costano…”

O.F. Duecentoventi cani?!? E perché? Che se ne fa di 220 cani?

TOTÒ:  “Me ne faccio, signorina mia, che un cane val più di un cristiano. Lei lo picchia e lui le è affezionato l’istesso, non gli dà da mangiare e lui le vuole bene l’istesso, lo abbandona e lui le è fedele l’istesso. Il cane è nu signore, tutto il contrario dell’ uomo.

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O.F. Lei non ha una gran stima degli uomini. Una buona opinione del Suo prossimo. E forse non ha nemmeno molti amici.

TOTÒ:  “No. No. No! Io mangio più volentieri con un cane che con un uomo. Di amici… ne avrò due, forse. Sì, due ne ho: il conte Paolo Gaetani e il conte Fabrizio Sarazani. A parte il titolo, due che lavorano, come me: umili operai, come me.

Perché vede quella mia battuta «siamo uomini o caporali» non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi.”

O.F. quando nacque questo Suo odio per i caporali, principe?

TOTÒ: “Sotto le armi, con un caporale di Alessandria che nella vita faceva lo spazzino. Caporali, vede, son quelli che voglion essere capi. C’è un partito e sono capi.

C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature, le botte, la malacreanza, la sciatteria nel vestire, la villania nel parlare e mangiare, la mancanza di puntualità, la mancanza di disciplina, l’adulazione, i ringraziamenti…

Quelli, sa: sempre meglio dell’ingratitudine… All’ingratitudine io ci sono abituato e la accetto: con divertimento. Io non mi arrabbio mai per l’ingratitudine.

Una volta feci scarcerare un ladro di polli che aveva rubato il pollo, diceva, per fare il brodo alla figlia tubercolotica.

I ladri di polli mi son sempre rimasti simpatici, anche se non hanno la figlia tubercolotica: così chiamai il mio avvocato e lo feci scarcera’. Bene. Sa cosa fece? Uscì e rubò la valigia dell’avvocato. Non è divertente? Per me, sì. Per Lei, meno: suppongo. Anche per me.

Un’altra volta avevo un amico: un giornalista. Veniva sempre a mangiare da me, mattina e sera, ed era proprio un amico, non un caporale. Mi chiese in prestito una macchina da scrivere e io gliela comprai. Nuova nuova.

Lui disse grazie, andò a casa con la sua macchina e la inaugurò scrivendo un articolo contro di me. L’articolo più feroce che mai sia stato scritto sopra di me: il più crudele, il più cattivo.

Divertente, no? Per me, sì, per Lei, un po’ meno. Anche per me. E, in questo caso, più che divertente: bello. Pensi che pena, che mancanza di dignità, se avesse inaugurato la macchina scrivendo bene di me. Infatti il giorno dopo tornò a mangiare e ci ridemmo su.”

O.F.  Principe: io non La ho mai vista ridere. A parte il fatto che esser triste è la legge dei comici, io temo che Lei abbia sempre riso pochissimo: che non conosca il sapore di una bella risata.

TOTO': “Pochissimo, niente. Io non rido, sorrido. E, anche quello, raramente. Sorrido a lei, per esempio, perché è una donna: non si può mica parlare a una donna con il musone.

Però vede: non è esatto nemmeno dire che io sia triste: son calmo, privo di ansia. Io l’ansia non la conosco. Deve influire, in questo, il mio residuo di sangue orientale, bizantino. Non so… starei ore e ore fermo a guardare il cielo, la luna.

Io amo la luna, assai più del sole. Amo la notte, le strade vuote, morte, la campagna buia, con le ombre, i fruscii, le rane che fanno qua qua, l’eleganza tetra della notte. È bella la notte: bella quanto il giorno è volgare. I

l giorno… che schifo! Le automobili, gli spazzini, i camion, la luce, la gente… che schifo! Io amo tutto ciò che è scuro, tranquillo, senza rumore. La risata fa rumore. Come il giorno.”

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O.F. Lei è un animale notturno, lo so: non va a letto prima dell’alba e si sveglia quando il sole è già alto. Ma come passa la notte?

TOTO': “Nulla e tante cose. Ora le spiego. La servitù va a dormire alle 11. Franca, mia moglie, resta con me fino alle 2: mi parla, mi legge i giornali perché come lei sa io son mezzo cieco… Poi anche lei va a dormire e io resto solo.

Giro per la casa, sto seduto, penso, io penso molto, mi affaccio alla finestra, vado in cucina a controllare che il gas sia chiuso, che le valvole della luce elettrica siano a posto, spengo le cicche perché ho sempre paura dell’incendio, vuoto i portacenere perché non sopporto l’odore delle cicche…

E poi, siccome ho una radio che prende tutte le stazioni e in più la radio marina, mi metto lì e mi sento tutti i discorsi che si fanno le navi, i telegrammi dei pescherecci, «Partito da Gibilterra, caricato 6 quintali di banane», e ci trovo l’ alba. Ridicolo, eh? Una scena da uomo ridicolo.”

O.F. No!: una scena da uomo solo. Lei dev’essere un uomo terribilmente solo, principe. Solitario e solo.

TOTO': “Molto solo, non terribilmente solo. Perché io amo esser solo. Ho bisogno di essere solo: per contemplare, per pensare… A volte mi danno noia perfino le persone che amo: mia figlia, mia moglie…

E, quando accade, zitto zitto, mi alzo e vado in camera mia. Sì, è difficile viver con me: questo è un rimprovero che le mie compagne mi hanno sempre rivolto, che all’ inizio mi rivolgeva anche Franca.

Ora Franca vi si è assuefatta, trova questa vita normale sebbene sia giovanissima. Pensi: ha solo 32 anni… Prima invece… La capivo, sa? Capivo che le sarebbe piaciuto andare nei posti, nei night. Ma a me non piace, non è mai piaciuto. Io, quando vedo quel divertimento falso non posso fare a meno di pensare che dietro a ciascuna di quelle persone v’è un dramma: il pianista magari ha le scarpe rotte, l’industriale ha le cambiali che scadono, l’entraineuse ha il figlio ammalato…

Gliel’ho detto: sono un misantropo, la base della mia vita è la casa. La casa, per me, è una fortezza, quasi una persona.

Quando vi entro la saluto sempre come una persona: «Buonasera, casa». Oggi, per esempio, Franca è a Lugano e in casa son solo. Be’: ci sto benissimo. Sì, è molto difficile viver con me. Eppure, matrimoni a parte, non ha mai fatto lo scapolo.”

O.F. La sua casa è stata vuota ben poco, e la si è sempre vista a braccetto di splendide donne.

TOTO': “Poco, guardi, poco: in un modo o nell’altro son stato sempre accoppiato, pardon, accompagnato. Non posso stare, io, senza una donna. Prima, quando viaggiavo senza una donna, portavo sempre con me una vestaglia femminile e un paio di scarpine col tacco. Sempre.

Così, prima di andare a letto, appendevo la vestaglia accanto alla mia, mettevo le scarpine accanto alle mie, e mi sembrava di aver la donna. Che vuol farci: amo troppo le donne. Sarà perché sono meridionale, sarà perché odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore.

Io le amo tanto, le donne, che riesco perfino a non essere geloso. Tanto a che serve esser geloso. Se una donna ti vuol bene, è felice.

Se non ti vuol bene, ne prendi un’altra. Sì, lo so cosa pensa. Che dalle mie canzoni risulta tutto il contrario. Ma quelle cose si scrivon così perché fanno comodo… “

O.F. E Lei, principe, sa esser fedele?

TOTO': “Ora sì. Prima no. Ma per l’uomo è diverso. L’uomo è poligamo. Ha mai visto cento pecore e cento montoni, dieci galli e dieci galline? Io ho sempre visto cento pecore e un montone, dieci galline e un gallo.

Se fossi musulmano… Dica: ma come fanno quegli uomini cui non piacciono le donne? Io non li capisco.

Io, quando dicono sì, quello è, no, quello ci fa ma non è, mi sento malato. Cielo. Che schifezza! Ma come fanno?! Lei lo sa? “

O.F. Giuro di no, principe. Giuro di no.

TOTO': “Senta: quand’ero soldato, nella prima guerra mondiale, mandarono il mio reggimento sul fronte francese e ci dettero a tutti un coltello. In treno chiesi al sergente: «Sergente, permette, a che serve u’ curtiello?».

E lui: «Ai marocchini, soldato. Devi sempre portarlo con te perché là ci stanno i marocchini i quali fanno certi servizi». Gesù! Mi prese tanta paura che mi sentii male. Aspirai lo zolfo di tutti i fiammiferi del reggimento e mi sentii male. Così svenni e mi feci ricoverare in ospedale. Signorina mia… io la penso così. Forse son rimasto all’antica, ma la penso così. “

O.F. Vuol dire, principe, che la Sua epoca non La interessa? Che ci si sente a disagio?

TOTO': “Esattamente, signorina mia. In questa epoca io ci vivo per sbaglio. Pensi che non sono mai salito in aereo: in materia di aeronautica, sono rimasto ai progetti di Leonardo da Vinci. Non concepisco i mezzi veloci: viaggiare svelti, a che serve?

Io ho l’automobile ma tengo un autista pieno di figli: così pensa alla pelle e non corre. Andiamo pianissimo, non superiamo mai i 40 all’ora, non prendiamo mai l’autostrada. Capisce bene che a me piacerebbe avere una carrozza, un cavallo: per dargli lo zuccherino, sa, le manate sul popò…

E se non lo tengo è perché non posso andare in carrozza, perché mi sfotterebbero. Cosa dice? Viaggiare? Che m’importa viaggiare? Un po’ più bianchi, un po’ più neri, un po’ più freddi, un po’ più caldi, gli uomini son tutti uguali, i caporali son tutti uguali.”

O.F. Chissà che fastidio, allora, quando Sua moglie Le legge degli astronauti e delle cosmonavi…

TOTO': “Disinteresse e fastidio. Ma via! Le pare giusto andare da Roma a Napoli in un’ora e mezzo?

Pensi che bellezza quando ci si metteva ben 7 ore, una notte intera col vagone letto! La luna, la luna! Signorina mia, in quella gente io non vedo nemmeno il coraggio.

Ad andar sulla luna con l’aeroplano, quale coraggio mi ci vuole? Forse posso difendermi dall’ aeroplano?

Farci a cazzotti? Sarebbe come dire che mi difendo dal 13, dal 17, dal gatto nero, dalla coppia di monache, dalla gobba, dalla civetta, dal sale che cade, dall’olio che si versa, dallo specchio che si rompe, dal viola… Non so se ha capito che son superstizioso”

O.F. Dica: è superstizioso?

TOTO': “Maledettamente superstizioso. Io, quando è martedì e venerdì, 13 o 17, può cadere il mondo: mi chiudo in casa. “

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O.F.Perché, principe? Ha paura di morire?

TOTO': “No, di morire no. La morte è una cosa naturale e averne paura è da fessi. Io, la prima cosa che ho fatto quando ho guadagnato nu poco di soldi, è stato comprarmi una cappella a Napoli: per andarci ad abitare da morto.

C’è già la tomba e sopra c’ è incisa già la data di nascita e il nome. Il giorno della morte è in bianco. No, non mi importa morire. Mi importa, ecco, invecchiare.

Quello proprio mi disturba, mi secca. Sapesse che dramma sentirsi giovani e poi guardarsi allo specchio, vedersi un volto pieno di rughe, una testa di capelli grigi… Gesù! Che schifezza! Cosa dice?! Maturità?! No, no, bella mia: lei non mi incanta coi discorsi sulla maturità.

Io vorrei essere immaturo e aver 18 anni. Che dice?! Povertà?! No, no: io me ne infischio della povertà. Io vorrei essere povero e aver 16 anni. Macché 16! Quindici. Tredici. Nove!”

O.F. Dica, principe: ma Lei, quando invoca i santi, lo fa per abitudine o per fede? Insomma, Lei è religioso o no?

TOTO': “Religioso?! Religiosissimo! Vado a messa, mi comunico, e ci credo. Pensi che volevo fare il prete, da giovane… Ho studiato, da prete. E le dico di più: se i frati potessero avere le donne, mi farei subito frate, e sarei un ottimo frate. Non bevo, non bestemmio, non sono geloso, i dolci non li mangio mai, non conosco le carte… Infatti abbandonai l’idea di diventar prete proprio quando scappai con una canzonettista, a vent’anni.

Ma che ci vuol fare: io, quell’affare della castità, non lo capisco. Lo trovo così disumano, innaturale. Il cielo, tuttavia, guai a chi me lo tocca. È dunque per questa religiosità che ha preso tanto filosoficamente la disgrazia degli occhi? Mi accorgo ora che non mi ha mai parlato degli occhi: che sono molto ammalati, lo so. Per raziocinio, direi. Io sono un uomo molto logico, vede. Sono un ragionatore. Non per nulla vengo da una città di avvocati, credo anzi che sarei stato un meraviglioso avvocato.

E secondo logica, dico: stabilito che le disgrazie sono fatte per gli uomini, perché arrabbiarsi contro le disgrazie? Sarebbe come arrabbiarsi perché piove, o perché c’ è il sole, o perché si muore. La morte esiste, la pioggia esiste, la cecità esiste: e ciò che esiste va accettato. Disperarsi a che serve? A vederci meglio? Bisogna adattarsi: prima per esempio scrivevo a mano, ora detto al magnetofono. Prima leggevo molto. Ora mi faccio leggere. E poi proprio cieco non sono: da un occhio, sì, non vedo quasi nulla, ma dall’altro vedo la periferia. Cioè, se mi metto di profilo, io frego l’occhio e la vedo come se stessi di faccia.

Posso anche recitare e, infatti, vede: continuo a lavorare, lavoro. Né questo mi rende infelice. Signorina mia, ciascuno ha da portare una croce e la felicità, creda a me, non esiste. L’ho scritto anche in una poesia: «Felicità: vurria sapé che d’è / chesta parola. Vurria sapé che vvo’ significà».

Forse vi sono momentini minuscolini di felicità, e sono quelli durante i quali si dimenticano le cose brutte. La felicità, signorina mia, è fatta di attimi di dimenticanza.”

O.F. E quando recita, non Le capita di essere un pochino felice? A vederLa si direbbe di sì.

TOTO': “Quella non è felicità, è un’altra cosa: che non so spiegare. Recitare, vede, per me è come una droga. Meglio: un ossigeno. E se lei tenta di intervistarmi su questo, non ne ricava risposta. Per esempio, se mi chiede: come fa a esser tanto snodabile? Io le rispondo: non lo so. Non sono mai stato ginnasta, l’ unico sport che ho praticato è stato il ciclismo: quand’ero ragazzo.

Ciclismo!… Andavo in bicicletta. Se lei mi chiede: come fa a far le capriole, ad arrampicarsi sui muri come una mosca? Io le rispondo non so: dicono che dipenda dai muscoli allungati, quindi flessibili. Ma cosa voglia dire, boh! Se lei mi chiede: come fa a inventare quelle espressioni buffe, quelle smorfie? Io le rispondo non lo so. Non è una disciplina, non è uno studio. È un istinto. Una roba che succede da sé, quasi indipendentemente dalla mia volontà. Sicché è inutile che i critici mi rimproverino perché faccio sempre le medesime cose da decine di anni, perché sono sempre lo stesso.

Le medesime cose non le faccio: sono passato con disinvoltura dalla commedia dell’ arte alla prosa, all’operetta, al varietà, al cinema, alla rivista, alle canzoni, e ora giro un film, Il comandante, che è un film serio: quindi diverso. Ma che io sia quello e non altro, non v’è dubbio. Perché non sono io che comando la mia faccia, è la mia faccia che comanda me.”

O.F. Principe, posso farle una domanda?

TOTO': “Prego, si accomodi.”

O.F. Ecco: ma a Lei… a Lei piace Totò?

TOTO': “Le rispondo una cosa che non ho mai detto a nessuno, una cosa cui non crederà: ma vorrei ci credesse perché gliela dico col cuore in mano, signorina mia, glielo giuro sulla tomba di mia madre.

Non mi piace neanche un po’. Anzitutto non mi piace come uomo: fisicamente. Signorina mia… ma l’ha visto, lei, quant’ è brutto? La faccia, signorina mia… ma l’ha vista? Tutta torta, tutta asimmetrica.

La parte di sinistra, passi: è una faccia lunga, una faccia triste. Ma la parte di destra, Gesù! Maria! che roba è? Buffa, dice lei. Senza dignità, dico io. Ah, come odio quella parte destra, quel mento!

Dunque: anzitutto Totò non mi piace fisicamente. Poi non mi piace come personaggio… Perché, dice lei. Perché… non lo so: mi sta antipatico. Io quando mi vedo, o meglio quando mi vedevo al cinematografo, il che capitava assai raramente perché ho sempre detestato guardarmi allo specchio o sullo schermo, io mi guardavo e pensavo: Gesù, quanto è antipatico, quello.

E poi Totò non mi piace come attore, come recita. Perché?, dice lei. Perché non lo so, perché non mi fa ridere.

E badi che i film umoristici a me piacciono, divertono. Mi diverte Alberto Sordi, mi diverte Ugo Tognazzi, mi divertiva Charlot. Ma questo Totò, parola d’onore, non mi diverte per niente.”

O.F. Per questo, principe, quando lavora, chiede sempre: «Sono stato bravo?», «Posso continuare così?». Per questo m’ha accolto così gentilmente ed è tanto modesto? Per questo.

TOTO': “Io, signorina mia, sono afflitto da un brutto complesso: il complesso di inferiorità. Inferiorità fisica, inferiorità intellettuale, inferiorità culturale.

Per esempio: non sono un uomo colto, e questo mi pesa. Vorrei aver studiato di più, aver letto di più, aver guardato di più… Vorrei esser stato più curioso, io non sono mai stato curioso.

Osservatore, sì, tutti i miei personaggi nascono dall’ osservazione, ma curioso mai. E ora che sono mezzo cieco e non posso curiosar più, legger più, studiar più…”

O.F. Si consoli, principe: al vocabolario c’è arrivato lo stesso. Guardi. (Gli porgo, disattentamente, un giornale). Lo legga. Che dice? Dice che è uscito un libro, Storia linguistica dell’Italia, dove Lei vien citato come esempio di efficacia linguistica e dove le Sue espressioni “fa d’uopo”, “quisquiglie”, “pinzillacchere”, son riportate come espressioni ormai entrate nell’uso comune. Quindi nel vocabolario.

TOTO’: “Oh! Oh! Oh! Che bello! Questa sì che è una gioia, un onore, un piacere. (Afferra il giornale, tenta inutilmente di leggerlo, e i suoi occhi sono lucidi). Cara, quanto è cara! Chi glielo ha dato?”

O.F. Un Suo ammiratore coltissimo: il quale ha saputo che venivo da Lei. Era molto eccitato all’idea che venissi da Lei. Anzi, Le dirò principe: tutti coloro cui ho detto che venivo da Lei erano molto eccitati. Lei è molto amato dagli italiani, sa?

TOTO': “Ah, sì? (Si stringe impercettibilmente nelle spalle e i suoi occhi cessano di colpo d’essere lucidi). Forse. Visto che mi faccio i fatti miei e non do mai fastidio. (Guarda intorno, distratto).”

O.F. Principe… mi viene un sospetto.

TOTO': “Quale, cara?”

O.F. Che non le importi un fico d’essere amato. Proprio niente. (Mi avvicina le labbra a un orecchio).

TOTO': “Detto fra noi, non me ne importa un bel niente. E non mi importa nemmen di piacere. Nell’uno o nell’altro caso, io tiro a campà. Tanto, il bene, me lo voglio da me.”

Totò disse alla Fallaci: Sì, due ne ho di amici: il conte Paolo Gaetani che sta a Torre del Greco e il conte Fabrizio Sarazani.
Il Conte Gaetani a Torre con i suoi cani.
Totò allevava 200 cani

(Capitolo tratto dal volume Animal Garden di Lucio Sandon, per gentile concessione dell'autore)

“Post Fata Resurgo”, è il motto inciso sullo stemma di Torre del Greco.
Fosse dipeso dalla protezione civile, la ridente cittadina non sarebbe mai sorta oppure sarebbe stata trasferita da secoli: troppo il pericolo del vulcano.
Gli indigeni però non mollano: il paese è stato ricostruito cinque volte nello stesso posto, è un monumento mondiale alla caparbietà.
Nel 1794 i danni provocati dall’eruzione furono tali che il re Borbone impietosito offrì ai torresi nuovi spazi a San Giovanni a Teduccio, ma essi imper-territi riedificarono sulle rovine.
Perché si rimane in un luogo simile? Mah…
“Villa Olivella” fu negli anni cinquanta la cornice dell’amore tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, nelle sue stanze, giardini e boschi vennero girate diverse scene del film “Viaggio in Italia” che vale la pena di vedere anche se in bianco e nero e privo di effetti speciali, tranne quelli regalati dai paesaggi del luogo. Ospite e amico dei due divi del cinema era il conte Don Paolo Caetani Cortez D’Aragona dell’Aquila, proprietario della suddetta stupenda dimora sul golfo di Napoli, la cui dependance che ospita gli spogliatoi della piscina, era molto più grande della casa del veterinario chiamato dal conte a visitare i suoi cani.
La terrazza si affaccia su Capri e la penisola sorrentina, la lava la assedia ma genera un rigoglio botanico incredibile e diventa essa stessa straor-dinario materiale di costruzione.
La Montagna le copre le spalle e la difende dal vento di  terra, l’aria che arriva è uno zefiro divino.
Nei quadri che arredano le sale, il vulcano è sempre un dio bifronte portatore di vita e di morte, e così il mare: c’è il naufragio ma anche la festa con i fuochi d’artificio… L’accettazione di una natura double face diventa la base stessa della vita, una montagna di fuoco può essere un capitale inestimabile se quel pericolo oltre a darti vigne e pomodori stupendi ti insegna a giocare d’astuzia con la natura e con la vita, ti educa a ricominciare da zero e ti toglie la paura del mare tempestoso che porta via.
Il conte, chiamato dai vicini ed in verità in sua augusta assenza, anche dal maggiordomo “il conte Gaetano”, era indiscutibilmente un bell’uomo anche se aveva passato gli ottant’anni.
Impeccabile blazer blu doppiopetto, camicia imma-colata aperta sull’ascot di seta su cui spiccava il blasone della casata, sfavillanti scarpe inglesi. Ma il tratto dell’uomo che colpiva maggiormente era la sua gentilezza. Chinandosi quasi dall’alto della sua statura, spiegava allo spaesato veterinario come fosse difficile e delicato il compito di capire e curare le malattie degli animali, mentre lo squattrinato professionista si guardava intorno cercando di capi-re se stesse sognando:
dopo aver superato l’arcigno controllo dei custodi al cancello d’ingresso, aveva vagato attraverso una fitta boscaglia percorrendo la stradina che portava alla villa, poi attraversato una grande piazza lastricata di porfido ove aveva parcheggiato il furgone azzurrino ben lontano da un’abbagliante Bentley che un autista con una cinerea divisa stava accarezzando con un panno per far in modo che fosse impossibile guar-darla senza rimanere accecati, e aveva raggiunto il belvedere sul lato nord della villa. Qui, sotto una volta di querce secolari, alcuni giardinieri erano intenti ad aspergere con un delicato getto d’acqua e con scrupolosa cura un terrazzo sopra il cui pavimento era cresciuto un perfetto tappeto di morbido muschio tale che nessun artista orientale sarebbe mai riuscito a tessere, e su cui troneggiavano tavoli di marmo e panchine di ghisa scolpita. Uno stuolo di valletti strofinava con protervia lo scalone doppio di forma circolare che dalla piazzetta portava al terrazzo superiore della villa e sui cui immacolati gradini riposavano sdraiati mollemente i nobili quadrupedi di casa.
Ice era un bellissimo esemplare di husky siberiano, razza all’epoca quasi sconosciuta alle falde del Vesuvio.
«Lui,» diceva l’augusto vegliardo «è affetto da una malattia molto rara, la leishmaniosi… sembra che sia stato infettato durante un soggiorno sull’isola d’Ischia, dove è molto comune. Il professor Sirin-ghino, che è il suo medico curante, dice che sarebbe il caso di sopprimerlo per evitare il contagio agli altri cani ed anche alle persone: ecco, lei potrebbe gentilmente occuparsi di questa dolorosa incom-benza?»
Il giovane professionista osservò lo splendido ani-male, i suoi occhi di ghiaccio, la folta pelliccia ridotta a brandelli dalla malattia, la testa puntata fieramente verso di loro che parlavano della sua morte e mormorò:
«Signor conte, il professore è un luminare della scienza, ma con il suo permesso io farei un tentativo per curare questo cane, che mi sembra giovane e robusto… Esiste un medicinale, si chiama Glucantin, e sembra dia ottimi risultati se somministrato alle giuste dosi unitamente ad altri medicamenti. È però molto difficile da reperire in Italia, si riesce a trovare in Gran Bretagna o alla farmacia del Vaticano ed a prezzi esorbitanti, ma sei lei riuscisse a reperirne qualche scatola, con il suo permesso potrei pren-dermi la responsabilità di tentare la cura presso il mio ambulatorio».
Gli occhi del nobiluomo s’illuminarono di gioia.
«Ma dice sul serio? Lo può curare lei? Come si chiama questo medicinale, me lo scriva qui sopra, adesso faccio una telefonata».
Dopo pochi minuti il gentile vegliardo ridiscese con passo elastico lo scalone che aveva salito con relativa difficoltà, la gioia stampata sul volto.
«Dottore, il medicinale che lei richiede sarà qui non più tardi di dopodomani, un corriere è stato inca-ricato di spedirlo da Londra, il costo non mi inte-ressa. Mi ascolti, lei prenda con sé Ice e lo curi, poi se il cane guarisce e me lo riporta, le sarò grato per sempre, in caso contrario dovrà provvedere all’ eutanasia come consigliato dal professore. Per tutte le spese si rivolga pure a Raimondo. Grazie di tutto».
Il maggiordomo, che osservava discretamente in disparte e non perdeva una sillaba distillata dalle labbra del suo augusto titolare, si avvicinò osse-quiosamente e, Dio abbia in gloria la sua anima immortale, messa mano alla tasca dei pantaloni, estrasse un grosso rotolo di banconote, che appog-giò sul palmo dell’attonito giovanotto.
«Sono cinquecento, le conti!»
«Grazie, mi fido».
Anche se fossero state la metà, lui non aveva mai ricevuto una parcella così alta, e volò via nel tiepido sole di primavera con Ice che sbavava allegramente sul cruscotto del furgone azzurro: gli era riservato il posto d’onore, un cane che viaggiava in Bentley non avrebbe mai potuto accomodarsi nel puzzolente cassone del Renault 4! Cinquecentomila all’epoca erano ben più dello stipendio mensile di un impiegato, calcoliamo che allora una vaccinazione costava seimila lire… arrivato in ambulatorio il veterinario mostrò tutto orgoglioso il piccolo tesoro alle sue collaboratrici Alessandra e Marisa, promet-tendo uno sfarzoso regalo se si fossero prese cura di Ice con maggiore attenzione del solito. Mai offerta fu più inutile: le belle colleghe si innamorarono a prima vista di quel lupo grigio dagli occhi di ghiaccio e cominciarono immediatamente a sottoporlo senza soluzione di continuità a coccole, prelievi di sangue e dolorose iniezioni, cui la povera bestia si sotto-poneva stoicamente ma non senza mugolii di dolore, che venivano consolati con carezze, prelibati boc-concini e passeggiate in giardino.
Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, ecco che il diavolo ci mise lo zampino. Il diavolo era un pittbull nemmeno tanto grosso anzi decisamente segaligno, che era stato portato da uno strano ener-

gumeno tatuato e con grossi occhiali da sole neri sempre a nascondere gli occhi: dottore, mi raccomando… ci tengo più che a mio figlio. Pensa! La povera bestia era coperta di ferite infette, evidentemente frutto di svariati combattimenti tra cani, che all’epoca non erano ancora stati messi fuori legge: durante l’ultimo combattimento aveva evidentemente lottato all’ultimo sangue ma aveva avuto la peggio.
«Però Devil è bravo sa, l’ho comprato in Croa-zia, costa come un monolocale».
Lo sfortunato animale non riusciva a sostenersi sulle zampe e dovette essere portato dentro in braccio dalle due collaboratrici che non riuscivano a trattenere lo sdegno verso quell’ uomo, il quale invece interpretò le occhiate fulminanti a guisa di sguardi appassionati e commentò rivolto al titolare.
«Fortunato lei, con due aiutanti così… che paio di occhi quella bruna» mimando degli organi diversi «la bionda poi è il paradiso in terra!».
Nemmeno il gelido silenzio e lo sguardo sprez-zante del veterinario riusciva a scalfire l’entu- siasmo dell’energumeno, solo la richiesta di un congruo anticipo per le spese ottenne l’effetto di deprimerne la logorrea per qualche istante. 
«Ma, ma, ma e se poi muore?».
«Pazienza, vuol dire che avremmo fatto del nostro del nostro meglio per salvarlo, dopo che qualcuno ha fatto del suo meglio per ridurlo in fin di vita».
Sottoposto non meno di Ice alle amorevoli cure delle professioniste, ed in verità di tutto lo staff, il buon diavolo cominciò a migliorare dopo qualche giorno, dopo essere stato però vicino a raggiungere il suo aldilà canino, iniziò poi addirittura a mantenersi in piedi e a muovere i primi passi: dopo una settimana era in grado di mangiare da solo e fare una passeggiata e fu così che avvenne il patatrac.
Dopo un mese di cura anche l’husky si era ripreso in modo evidente, il suo pelo era tornato folto e lucido, le croste sparite, gli occhi limpidi, il passo svelto tipico della sua razza, e di buon passo stava passeggiando in giardino al guinzaglio di Marisa, quando incontrò Alessandra che accompagnava l’altro conva-lescente. Il pittbull era un animale di una dolcezza disarmante: alla vista dei veterinari con una pinzetta o una siringa in mano si sdraiava supino e leccava la mano che gli provocava dolore, questo però non poteva cancellare il tragico allenamento cui era stato sottoposto da quando era nato e di cui le ragazze non avevano tenuto conto, nonostante l’avvertimento del proprietario.
Fu un attimo: senza un ringhio di avvertimento, Devil che in piena forma pesava meno della metà di Ice, si lanciò contro il pacifico husky, azzannandolo alla gola e trascinandolo nella polvere.
Le urla di Marisa e Alessandra si mischiarono a quelle di Ice, richiamando l’attenzione del titolare, che abbandonando il tavolo da visita con un cucciolo da vaccinare, si catapultò in giardino, e intuendo la gravità dell’accaduto, abbrancò una scopa di saggina e percuotendo la testa e il corpo di Devil, cercava di fargli mollare la presa: inutile, la belva si era risvegliata in lui, stringeva sempre di più le poderose mandibole sul collo dell’altro cane, che ad ogni secondo perdeva le forze rassegnandosi alla morte.
Questione di tre secondi: abbandonata l’idea di colpire il pittbull, il veterinario mollò la scopa e corse a gambe levate nello studio, afferrò un flacone di anestetico, ne aspirò un po’ a casaccio in una siringa e, alla cieca, la immerse nel gluteo del killer a guisa di banderilla: qui entrò in gioco la fortuna.
L’ago entrò in una vena perché Devil mollò subito la presa e si accasciò al suolo, non solo, ma sopravvisse alla dose rivelatasi eccessiva ad una misurazione a posteriori.
Ice si salvò grazie alla ricrescita della sua folta pelliccia.
Se la cavò con quattro fori dei canini, un grosso ematoma alla gola, un principio di soffocamento ed una paura tremenda… per due giorni non toccò cibo e si guardava intorno terrorizzato tremando come una foglia.
Devil si risvegliò dopo qualche ora scodin- zolando lievemente alla vista di tre persone che lo guardavano sbalordite e chiese abbaiando la sua razione di cibo; dopo un paio di giorni fu dimesso con totale sod-disfazione del proprietario, che ne uscì un po’ più povero ma molto più consapevole, dei veterinari, e del cane stesso, pronto purtroppo per continuare la sua sanguinosa carriera, ma mai più visto né sentito. Ice invece restò ricoverato per molti giorni ancora: le sue ferite non sarebbero state facilmente spiegabili al nobiluomo, anche se erano ben nascoste dalla rigogliosa criniera. Dopo diversi controlli si appurò che la sua malattia era entrata nella fase cronica, i valori ematici stabilizzati, i sintomi spariti e si poteva assegnare una terapia da fare a casa. Così, un bagno triplo, una phonatura professionale ed una generosa spruzzata di spray al borotalco completarono l’opera.
La riconsegna venne effettuata con l’ausilio di Alessandra in veste di autista. Era rimasta estasiata ed incredula della descrizione di villa Olivella, del conte e del maggiordomo, e volle assolutamente vedere con i suoi occhi, ma restò di stucco quando fu accolta perso-nalmente dalla contessa (o principessa, a quel punto le presentazioni presero una brutta piega). Era un’affascinante signora di oltre ottant’anni dritta come un fuso e vestita come lady D., con una stretta di mano da sergente e l’acconciatura violetta… il veterinario dovette dare di gomito all’assistente per far sì che richiudesse la mascella.
«Ci era giunta la voce che il dottore avesse delle graziose collaboratrici» il camerlengo era venuto spesso a controllare i suoi investimenti ed era evidentemente rimasto favorevolmente colpito dal personale «e così ci siamo permessi di far venire dalla fabbrica qui vicino un piccolo segno della nostra riconoscenza».
La contessa (o principessa) porse alla ragazza due scatolette che contenevano delle stupende miniature in corallo lavorate in oro che rap-presentavano un cagnolino stilizzato, sospese ad una catenina che sarebbe potuta servire per portare a passeggio Devil, al che la bionda meritò la seconda gomitata nelle costole per indurla a far scattare la mandibola e rin-graziare, ma Alessandra riuscì solo a spez-zarsi in due e boccheggiare in cerca d’aria.
La nobildonna ed il consorte si congedarono con un sorriso gentile.
«Ah, Raimondo… paga il dottore».
Che Dio tenga sempre al suo cospetto le anime del conte e del suo ciambellano: questi, con un accenno di inchino rivolto alle spalle del suo padrone, porse una busta al veterinario
che aveva portato con sé una fattura per l’importo già incassato con la speranza che non gli venisse chiesto di detrarre il costo del medicinale fatto arrivare e pagato dal nobile. Intuendo dal peso del plico una cifra ragguardevole, guardò negli occhi Raimondo e disse a bassa voce:
«Vi mando la fattura...»
La temperatura si abbassò di diversi gradi ed il sibilo fu inequivocabile:
«Dottò, non nominate mai più questa parola al cospetto del conte Gaetano… quando la sente gli girano tutte e cinque le palle del blasone!».

granatine al marsala

 

Il Conte Paolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona, celebre gentiluomo di rara eleganza, era solito far preparare le straordinarie “granatine”, accompagnate da una soffice purée di patate, quando riceveva i suoi ospiti (Noel Coward, Totò, i Duchi di Kent, la Principessa Isabel Colonna) nella sua splendida villa “L’Olivella” sotto il Vesuvio a Torre del Greco.