Millennio addio!

LE ARTI APPLICATE,
SOTTO IL VESUVIO

UN TIPOGRAFO DI CAMPAGNA

Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per fare baldoria, compresi gli scioperi. Famoso l'aneddoto dello sciopero al Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto borghese si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti verbalmente e tramite scritte il diritto al lavoro:
«Ho un lavoro per te».
«Di che si tratta?». «Bisogna lavorare di vanga e di piccone».
«Ma come, con migliaia e migliaia di persone proprio da me siete venuto a cadere?».

I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e nemmeno l'austerità, sa di dominazione. Da secoli, hanno messo in pratica una citazione di Marc'Aurelio: Nulla accade all'uomo che la natura non l'abbia fatto capace di sopportare.
Ebbene, nessun popolo al mondo, in passato, è stato capace, come il nostro, di sopportare tanto spadroneggiare. Il popolo festaiolo di ieri si difendeva trincerandosi dietro l'ottimismo che dice: O mangi questa minestra..., o sotto l'egida della Divina Provvidenza. La frequenza, però, dei mutamenti gestionali di potere alimentavano la speranza di un definitivo riscatto. E' chiaro che oggi, economicamente e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel ventre della vacca, alienazione generale a parte. E sebbene i problemi dell'uomo moderno siano più di natura psicoesistenziale che politica, è sempre attraverso la politica che la massa pensa di uscirne.
Oggi la stasi politica internazionale stagnata dal deterrente atomico e la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali politico-religiosi, hanno incrinato l'atavica risorsa del popolo partenopeo di scivolare filosoficamente su tutti i problemi politico-sociali. La linfa vitale delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o dalla Mamma Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una cosa sola non fagocitano più l'angoscia.
L'equilibrio psichico secolare si incrina. Il fine settimana importato dall'estero, i party a base di alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del tempo libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente panacea rispetto alle evasioni di una volta, come le passeggiate salutari, le lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di rado da un omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove venivano favoriti gli ingenui contatti sentimentali, i quali costituivano il preludio delle unioni monogamiche vecchia maniera, l'epilogo della maggiore commedia umana, la famiglia intesa, questa, come struttura formativa risalente alle più antiche culture.
E' insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni che sono nate con l'uomo, mai compromesse nei millenni.
La diffusione della stampa, come il resto dei mass-media, è colpevole della generale confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne relative al progresso materiale repentino e all'evoluzione delle scienze positive, per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato, hanno disfatto gli appigli ideologici, unico medicamento dell'universale, antichissimo interrogativo esistenziale dell'uomo.
Gli inviti e le partecipazioni, per fortuna, sono ancora numerosi nella terra vesuviana, dove, tra l'altro, le metastasi dell'incancrenimento edonistico di carattere commerciale sono ancora per il momento contenute, tranne che nei centri con alto reddito.
Da noi ancora non è diffusa in toto l'ipocrisia tipica di quel rogito notarile a cui assomiglia l'unione monogamica moderna che coglie in pieno l'assunto di tutte le regole negative delle famiglie destinate a disgregarsi sul nascere. Molte unioni legali sono basate su una convivenza di comodo di carattere egotistico o su effimere basi terapeutiche atte solo a compensare squilibri personali, quindi. destinate al fallimento. Ogni individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima analisi, sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già meno su quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e disadattamenti nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di nascere.
Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di decesso.
Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegnamo, chissà ancora per quanto, la massima di Mark Twain: Il dolore può bastare a se stessi, ma per vivere a fondo una gioia bisogna dividerla con gli altri. La solidarietà contro gli oppressori ci insegnava una volta a fare tutto insieme.
Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule e cioncate pure sui cigli delle strade; di abbuffate di taralli con sugna e pepe, di frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o arachicli tostate ('o spassatiempo), di torrone d'Ospedaletto e di castagne di Montevergine. E così vola tutto dall'alto, intorno al Vesuvio, oltre alla cenere vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti la gloria dei santi, oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti domestici dietro il «vigore» della pigrizia. La carta starnpata, anche minuta, rappresenta la modesta alternativa alla logorrea dei campani. Il cosiddetto non sputare mai e per noi, ricambio d'ossigeno. Se vuoi uccidere un napoletano condannalo al mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non respirerà più neppure col naso.
La parola stampata, invece, un po' esotica ed aulica, associata all'atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l'enorme quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le consultazioni elettorali. V'è una sorta di meccanismo inconscio, nel mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un editore diceva: La composizione di un libro senza nessun errore equivale ad un'opera d'arte.
Oggi l'errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso zeppi di errori, ma data la società consumistica, chi volete che esibisca un documento di prodotto guasto al posto del certificato di garanzia?.

 

L'arrotino scomparso negli anni 60

A Napoli vi sono diverse tipografie editoriali, senza dubbio di numero parecchio inferiore a quelle del nord industriale. I complessi tipografici meridionali producono diversi libri, specie i testi scolastici.
Alcune minuscole tipografie artigiane, pure, talvolta, si cimentano in questa operazione. In questi casi interviene l'autore che monta le bozze realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida al tipografo impacciato. Accade, pero, che l'autore spesso non riesce ad ottemperare appieno questo compito per la scarsità di conoscenza di certe regole grafiche fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una pubblicazione alla maniera di Don Antonio.
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Don Antonio è un tipografo di campagna, alle falde del Vesuvio, che un giorno mi interpellò onde essere illuminato proprio sulla realizzazione di un volumetto religioso. Mi assicurò che il prete era pipì e un po' fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura. In più quando si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le più variegate scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale, giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi consentiti dal Signore.
«Una volta, caro Marittiello, (
da noi si vezzeggiano pure i cognomi), solo per scrivere culo, invece di culto, me ne disse tante che mi fece venire la diarrea. E' vero che in Chiesa ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo capo, urlava: devi fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattr'ore di terremoto con te all'epicentro; tu non morirai nel letto tuo, disgraziato, ciuccio matricolato; figlio di una meretrice (forse credeva che la buonanima di mia madre vendeva le merende), insomma mi fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi chiarì subito che il suo era un paese d'amatori d'uccelli. Gli feci intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel libro. Ad un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l'uscita in aperta campagna. «Quando esco dall'Alfa Sud - mi disse - il tempo che mi rimane lo passo un po' a stampare, un po' a zappare. Guarda che bella campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il fabbisogno personale... e di quello dei clienti». Lo fissai senza intendere. Mi scosse la falda della giacca con cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di rassegnazione nella voce «Quando sbaglio qualche lavoro - abbassò gli occhi, poi li puntò in alto, in un posto indefinito - e questo capita spesso, tu sei un caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui'. - Poi ribadì in tono perentorio, ma ironico - diciamo pure che non ne azzecco una, va!... O i fogli vengono troppo scagnati, o troppo 'nguacchiati... Il mio forte sono gli errori di grammatica. - Sorrise - Mi volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie'... Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so, due mazzi di ravanelli... Vedessi, dopo, il lavoro com'e buono!...». Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa aveva offerto al prete quella volta. "Offerto?" Quello se non lo fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva nutrirsi molto, perché le arrabbiature gli portavano l'insonnia e lo facevano dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la spesa per tre mesi... Vedi un « t » che mi costò... Ma che vuoi, caro Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima alimentare tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare 1'arte da Ciccio 'o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le scarpe e quelli dispari faceva i manifesti di morto. Quello sì che era un maestro. Aveva fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere neanche un anno».
Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre del Greco, ma sulla strada del ritorno m'imbattei in una bicocca diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a mano a mano che m'avvicinavo, piu articolati e distinti. Ora ascoltavo una singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco spiritual ed il vocalio ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti del concerto emettevano poi vagiti d'infante.
Decisi di non approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante, mi scontrai con lo sguardo enigmatico d'un bimbo paffuto, ma sudicio. Gli chiesi perché quei volatili emettessero quegli strani suoni. «Il nonno - disse con un sorriso d'ebete il fanciullo - acceca gli occhi di tutti con uno spillo, così cantano meglio ». Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto libro. A seguito di un'altra visita, infruttuosa, seppi che era andato a vivere a Modena con una figlia maritata.
                                                   Luigi Mari