Millennio addio!

Economia torrese ieri e oggi
IL PREZZO DEL PROGRESSO

ARTURO, TIPOGRAFO ERUDITO
Arturo è un collega tipografo di Portici. Quando ci incontravamo, ogni anno, in occasione della Festa dei Quattro Altari, mi parlava spesso dei nuovi datori di lavoro.
«Non capisco perché - disse una volta - la gente si ostina ancora a parlar male dei padroni. Non starei nei loro panni nemmeno come pulce. Credono di conquistare la felicità col danaro, mentre, in pochi anni, si ritrovano addosso tutti i disturbi psicosomatici contemplati nei manuali di Franz Alexander. D'altra parte - sostiene Arturo - padrone significa grosso padre, ora, caro Mari, parleresti così male di tuo padre, anche se grosso e tesaurizzatore, anche se, spesso, snaturato? Un padre, pure se ingiuria i propri figli, li sfrutta, li aggredisce o li opprime, lo fa sempre a fin di bene... ama, come si suol dire, a modo suo, ma sempre amore paterno è...».
Io ed Arturo avanziamo tra la ressa, abbacinati dalle luminarie cinematiche, sostando entusiasmati innanzi agli Altari dipinti su gigantesche tele, ed intanto gli dico che l'imprenditore del sud non e né migliore né peggiore degli altri, ma sostanzialmente diverso. E' dissimile la sua sfera emotiva, la sua base culturale, la sua natura storica d'essere padrone.
E' vero che abbiamo avuto casi di padronismo acuto cronico, come, ad esempio il famoso imprenditore tipografo X. Y. che spianava le banconote col ferro da stiro, ogni sera, puntualmente, prima di obbedire al suo rituale apotropaico antinflazionistico e rifugiarsi in una nutrita sequela di scongiuri cabalo-mistici, per abbandonarsi, infine, tra le cosiddette braccia di Morfeo. La sua anima, di notte, diveniva un batuffolo di bambagia soffice che rimbalzava tra Belzebu, il fattucchiere e Nostro Signore.
Avevamo raggiunto il Porto di Torre per incrapularci, poi, in un convivio luciano a base di mitili, taralli impepati e birra esotica, indi assistere agli spari pirotecnici che concludono quella massiccia rivelazione di folklore pregna di suggestione religiosa.
«Gli imprenditori del nord - chiacchiucchiava Arturo, con la lingua ostacolata dalle lubriche cozze - perseguono il capitale principalmente per sentirsi superiori a quelli del sud. Poveri ricchi, emarginati nel loro potere, essi pretendono d'ottenere stima e ammirazione, ma in fondo, alla base di questi desideri v'è solo un bisogno d'amore, voglio dire l'antidoto alla paura esistenziale. Purtroppo la ricchezza li divide dalla gente semplice, l'unica a poter elargire il sentimento più utile alla vita. Ho detto gente semplice, ma non distorta dall'idea culturale della povertà che presume invidia e risentimenti. Da quelle parti - aggiunge Arturo, dopo aver tracannato un intero tre quarti - hanno poca invidia tra di loro, vedono irrealizzato il loro scopo. Che gusto c'è ad esse ricchi quando non ci sono abbastanza poveri ad ossequiarti, a girarti sempre intorno, a rodersi l'anima in segreto? I loro fratelli d'Italia poveri sono quelli del sud, essi sono utili allo scopo. Per questo si accaniscono a propinarci tutto quello che producono; devo forse delucidarti sulla natura della rivalità fraterna?».
Gli spari fantasmagorici coprono le teorie di Arturo. Ora aspira ampie boccate di fumo. Dopo la botta finale, nel mentre ambuliamo stirandoci le membra in piena fase peptica, conclude: «Il bisogno di potere-danaro dei fratelli imprenditori del sud, invece, scaturisce da un'atavica brama di volersi svincolare dalle grinfie feudali, dal vassallaggio (oggi clientelismo). Il sentimento infermo di alcuni imprenditori, compreso commercianti ed artigiani ambiziosi, è conflittuale, perché il soggetto si dibatte tra un antico desiderio di riscatto, la coercizione consumistica e l'economia malata del sud, subordinata a quella più razionale del nord. Da noi il desiderio di emergere in maniera consistente, e prevalere, si ripercuote non già su quelli più a sud poiché, poveri africani, non hanno neppure la mazza per andare mendicando, ma sui malcapitati che si hanno sotto mano, insomma i paria delle gerarchie, industriali, commerciali, marziali, domestiche, sempre molto numerosi. Ai lavoratori dipendenti, a prescindere dalle seconde attività e dai doppi stipendi coniugali, è preclusa ogni possibilità di ascesa in questo senso. Tale bisogno infermo, questa sorta di prevaricazione a catena, è rappresentata e sostenuta dalle mogli, che non hanno niente a che fare con le donne, degne di tutta la stima ed il rispetto; le mogli, senza generalizzare, pretendono solo dalla forza economica domestica il riscatto delle dominazioni del passato, dell'antica condizione contadina».
Arturo prende fiato in cima al pendio di Via Cesare Battisti. Io lo seguo con attenzione perché le nostre idee hanno diversi punti in comune. Quindi prende posto al volante e lo ascolto dal finestrino. «La mania di fare soldi dei settentrionali è legata alla problematica esistenziale planetaria, quella nostra in più prende radici dalla storia locale. Quando questo bisogno si intensifica si finisce con lo scendere a compromessi anche di natura eslege e delittuosa. Il primo traguardo è il posto.
 E qui cominciano i problemi, perché il posto ti mette nell'orbita, sebbene periferica, dell'eliocentrismo del potere economico, indi il matrimonio, poi spinta psicologica della moglie ed empirica dei bisogni (e non delle necessità) legati al consumismo coercizzato.

         
Musicanti ambulanti - Inizio secolo XX

 La corsa è irrefrenabile. Non si rinunzia a nessun tentativo, altrimenti ci si sente emarginati. Nessun circumvesuviano, caro Mari, non ha mai tentato di fare 1'imprenditore, almeno una volta nella vita, anche il bancarellaro, pur di sentire l'ebbrezza dell'ascesa. Statte bbuono, Marittie' ».
E voltato la gavezza ...dei cavalli motore, naturalmente, punta verso Portici, dileguandosi per il Miglio d'Oro dannunziano. La finanza, col capitalismo prioritario, si depluralizza concentrandosi nel potere oligarchico. Non già solo l'artigiano, ma l'industriale medio rischia di uscire dal rango dei privilegiati. Gli sforzi dell'industria tipografica campana sono sostenuti. E' difficile tener testa ai continui progressi tecnologici. Molte aziende fanno capriole per reggere il gioco del mercato e delle evoluzioni tecniche. Ma spesso si sottopongono a ristrutturazioni e ridimensionamenti che favoriscono l'aumento dei cassintegrati.

IL PREZZO DEL PROGRESSO
Anche l'industria  vesuviana, quel poco che c'è,tende ad escludere la dimensione umana dalla produttività. Per fortuna nel Napoletano è ancora possibile intravedere l'aspetto umano del lavoro, nei centri storici, dominati dagli agglomerati di bassi, dove gli ultimi artigiani svolgono il loro lavoro a misura d'uomo, perché ancora operano in un contesto proletario e piccolo borghese, che condiziona il modo di lavorare e di vendere secondo le vecchie tradizioni, dove si ricusa l'impatto appena decennale di certi repentini stravolgimenti tecnicistici e consumistici sotto casa propria. Certi moduli edonistici tendono al convertimento, lentamente, come il tarlo fa col legno, o la goccia con la pietra, facendo leva sul martellamento pubblicitario legato al modello sociale planetario di benessere illusorio, attraverso espedienti come il risparmio ottenuto coi prodotti di serie, o l'adescamento dei supermercati, che eliminano perdite di tempo prezioso, utilizzato, poi, per i giorni di lotta, atta a procurarsi altro danaro, e ancora risparmiare al solo scopo di rispendere.
Un circolo vizioso come la tossicodipendenza, ma legale ed istituzionalizzato da cui nessuno, non solo non può, ma non deve sottrarsi. Qualcuno dei tipografi che è riuscito a costruire il capannone, magari dietro un compromesso stipulato coi fiori all'occhiello, e finito magari ghettizzato in un lussuoso appartamento dei quartieri bene, europeizzato ed irrimediabilmente escluso dal calore della Napoli oleografica dove i sostegni psichici essenziali di solidarietà, di contatto umano, ancora si osservano nei mercatini rionali o quelli domenicali di Piazza Ferrovia, o di Poggioreale, nelle botteghe, nelle case giardino delle vecchie costruzioni spagnole.
Le stesse officine industriali dei quotidiani della capitale del sud hanno definitivamente visto dissolto il calore umano che esalava, all'unisono, dai precordi dei giornalisti e tipografi e dai crogiuoli delle linotype. Era l'ardenza del piombo fuso ad accomunare autori e tipografi in una sola famiglia.
Le notizie sprigionavano anch'esse la soavità di una metropoli ancora lontana dalla giungla urbana, animata dalle Piedigrotte, dalle serene periodiche domenicali e dallo strabenedetto pane e ppummarole, e dal derivato sacrale ragù, o dalla defilippiana ritualità di pasta e fagioli o caffè che scendeva. Oggi pure i napoletani il caffè lo fanno salire per dimostrare che il mondo, nell'arco di pochi decenni è cambiato da così a così, grazie all'indomita, ma sgherra ascesa industriale.
Nelle redazioni dei giornali, anch'esse linde ed asettiche come gli ospedali, il giornalista infreddolisce per l'assenza dei crogiuoli, per la nefandezza delle notizie, per il suo esclusivo rapporto di lavoro con ...il terminale. Chi ha le tempie canute ricorda che il tipografo delle botteghe, nel dopoguerra doveva accontentarsi delle bruschette o delle marenne a base di melanzane a funghetti e friarielli, mentre quello che faticava al giornale poteva permettersi la fetta di prosciutto. Spesso i compositori o gli impaginatori dei giornali davano il loro diretto contributo ai pezzi di cronaca, perché facevano da tramite tra ambiente popolare e redazione, suggerendo, tra l'altro, espressioni gergali, peculiarità caratteriali e comportamentali del popolo, sconosciute alla classe alto borghese dei giornalisti agiati di allora.
Chissà chi furono gli informatori della Serao, forse la masnada di camici neri rattoppati e bisunti che la circondava. Quale tipografo artigiano negli anta può dimenticare le rasserenanti giornate di lavoro in queste officine grafiche. Lazzi, facezie, scherzi da prete e soprattutto spiccava quella sorta di paradossale religiosità nel turpiloquio, poetico, colorito, ilare, puerile ed innocente. Questi erano i soli delitti che si confessavano la domenica in chiesa. Ci si doveva pur farsi perdonare qualcosa, altrimenti i reverendi avrebbero rischiato la cassa integrazione.
                                                              Luigi Mari