Da "L'APPUNTAMENTO"
SEMBRA IERI, E' QUASI TRASCORSO UN TRENTENNIO! Su una piazzola della Tangenziale di Napoli, nella direzione di marcia Napoli-Salerno, subito dopo l'uscita Arenella, un poco dopo le dodici del 18 settembre 1982, si fermarono un'autoambulanza seguita da un'auto civile. Il traffico era intenso data l'ora e la giornata assolata. Dalla vettura uscirono delle persone che si abbracciarono vicendevolmente e sommessamente piangevano.
Nella foto a lato: Il nonno Raffaele
Il loro pianto era di quelli liberatori, di quelli che seguono a mesi di una sofferenza costretta, nascosta, dissimulata, senza speranza! E, in effetti, solo un miracolo avrebbe potuto salvare Raffaele Raimondo dal suo destino di morte. Quel tumore maligno di cui si seppe nel giorno della festività di s. Pasquale, a maggio dello stesso anno, e che aveva attaccato il lobo superiore sinistro del suo polmone compromettendo anche la trachea, non gli aveva lasciato scampo. Lo stavano riportando a casa da Villa della Quercia al Vomero dopo che gli era stata praticata una iniezione di morfina. Durante il percorso i figli, Raffaele e Maria, in autoambulanza si erano accorti dell'avvenuto trapasso. Per questo si erano fermati e lì assieme agli altri che seguivano in auto davano sfogo al loro dolore. L'ineluttabile destino si concludeva così su una autoambulanza lungo una strada assolata di Napoli, nella calura e tra i rumori del traffico veloce. Era venerdì 18, s. Sofia. I familiari allestirono la camera ardente al pianterreno del palazzo di via de Bottis 62. Da poco tempo il figlio Francesco aveva fatto ammodernare quei locali e ne aveva ricavato un appartamento in cui v'era una capace sala dell'ampiezza di due stanze. Parlando alla figlia Maria il giorno onomastico di quest'ultima, 12 settembre, di mattina, aveva espresso il desiderio con una sorta di pacata malinconica ironia o rassegnazione di essere posto a terra proprio in quel nuovo saloncino in occasione della sua prossima fine. Con i capelli rasati quasi a zero, all'americana, benchè sciupato e dimagrito e martirizzato dalle "cure" contro il terribile male, manteneva la sua mente lucida, il suo cuore e i sentimenti gentili, se non sempre nella forma, sempre tuttavia, nella sostanza.
Ed in effetti, sicut agnus, aveva affrontato gli estremi tempi della sua vita percorrendo il calvario della malattia con dignitosa, ammirabile compostezza. Circondato dalle premure degli addolorati familiari, intuendo o presagendo la sua prossima fine si lasciava condurre mansueto come non lo.era mai stato e se pure talvolta lo si era visto assorto nella penombra della sua camera, tristamente assorto nei suoi pensieri che si potevano intuire assai malinconici, tuttavia lo si era visto anche con il desiderio e con la grinta affrontare il male che lo minacciava. In quei momenti il suo pensiero costante e il suo impegno erano volti alle sue "carte". Vi aveva lavorato molto negli ultimi tempi e quei fogli dattiloscritti con le innumerevoli cancellature, che si notano in controluce, stanno ancora lì a dimostrare il lavoro a cui si era sottoposto non essendo dattilografo. E tuttavia per quelle cancellature si può capire la natura dell'uomo, o la sua puntigliosa ed esigente abitudine alla precisione, alla pulizia, alla chiarezza e soprattutto il suo anelito alla verità. In questo suo solitario itinerario storico-letterario, in una età già avanzata, aveva posto l'energia, l'entusiasmo, l'amore di un ventenne.
Nella foto a lato: Raffaele Raimondo, mons. Salvatore Garofalo e Padre Salvatore Loffredo. Un bel trio di storici. Tale foto fu scattata nel pomeriggio del 2 febbraio 1976.
E così mentre il male inesorabile in quella lunga estate poco per volta lo trascinava verso il giorno fatale, tra i silenzi, gli sguardi, le premure dei familiari non aveva mancato di lavorare alacremente per chiudere, per finire il libro, il suo libro su Torre del Greco. Medici ed infermieri sia negli ospedali che in casa avevano potuto notare quell'uomo dimagrito e quasi distrutto nel fisico, mostrare una forza intellettuale e morale che trovava la sua origine in una educazione severa ricevuta in tempi lontani, nell'infanzia, da genitori entrambi esemplari l'uno per il suo eroico attaccamento al lavoro, l'altra per la profonda cristiana religiosità. Per chi solo superficialmente lo conosceva l'aspetto religioso della sua personalità era arduo intravedere. Egli non era solito frequentare chiese e funzioni religiose. Professava ad ogni occasione la sua "laicità" non volendo, forse per una sorta di pregiudizio rivelare a se stesso, quasi avendone pudore, la sua appartenenza allo innumerevole cristiano gregge.
Una pecorella ribelle che invece di rimanere tra le altre ubbidiente al pastore ed ai suoi cani, si era mantenuta libera a scorrazzare un poco più, un poco meno lontano dal grosso del gregge. Ma che cosa era quel suo anelito, quel suo desiderio di verità storica se non la sua intima religiosità seguendo e ricordando gli antichi materni insegnamenti? Erano stati insegnamenti a dire il vero un poco terrifici, con scene di diavoli, di Inferno, di Purgatorio concreti e ben visibili alla fantasia infantile e di un Paradiso inimmaginabile per menti mature figuriamoci per piccini. In quel tempo così si usava e lui stesso ne raccontava divertito le dispute pedagogiche tra i genitori di quell’unico figlio venuto in tarda età. Tuttavia, torrese, nato quasi sulle sponde del mare, li nel palazzo che guarda via Agostinella e che ancora viene indicato come “u palazzo ru cavciaiulo” essendo stato costruito pietra su pietra da suo padre “u russ u cavciaiulo” non gli era mancato a parte gli spetti esteriori di assorbire dai suoi la religiosità concreta che lo seguirà per tutta la vita e basata sulla solidarietà, sul senso del dovere, sull’amore per la verità sempre ricercata pur se con umana fragilità.
Nel suo portafogli furono trovate la foto di Errico Taverna e una “figurella” del Venerabile Don Vincenzo Romano. Dell’uno era stato allievo prediletto, dell’altro devoto filiano. In quella settimana di metà settembre 1982 proprio le spoglie del nostro Beato in Peregrinatio erano state poste sull’altare della S.S. Annunziata. E fu così che il pomeriggio di sabato 19, festa di S. Gennaro, caratterizzato da un sole quasi estivo, la bara di Raffaele Raimondo fu posta a pochi metri dalla teca del Beato. Chi scrive ricorda di avere avuto un sussulto nel vedere questa cosa e, silenziosamente ,di aver pianto con un sentimento quasi di consolazione. Fu allora che nel pensiero mi rivolsi a mio padre : “Anche Lui, anche Lui, di cui abbiamo parlato per tanto tempo e di cui hai scritto una bella biografia è venuto, è su quell’altare e ti sta vicino e certamente ti accarezza e ti sorride benevolo e pieno di compassione perché egli ti conosce nel profondo. ” Vidi allora mio padre in ginocchio ai piedi del sant’uomo mentre gli baciava con fervore la sinistra che la destra il Beato la teneva alta nel segno benedicente del Cristo.
Francesco Raimondo
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