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Argomento presente: « DOSSIER: SCIOPERO MARITTIMI 1959 »
ID: 11561  Discussione: DOSSIER: SCIOPERO MARITTIMI 1959

Autore: camillo scala  - Email: doncamillo57@libero.it  - Scritto o aggiornato: giovedì 16 marzo 2017 Ore: 14:40



 
 

ID: 17287  Intervento da: camillo scala  - Email: doncamillo57@libero.it  - Data: giovedì 16 marzo 2017 Ore: 14:40

Storia. R. Minotauro. Il compagno Giordano Bruschi, racconta di se, del Compagno Segretario Generale della Film Cgil Renzo CIARDINI e dello sciopero dei Lavoratori del Mare del 1959


GIORDANO BRUSCHI già Segretario nazionale FILM CGIL
Questa è una storia che mi ha sempre visto a fianco al compagno ricordato in tutti gli interventi di oggi: Ciardini. Chiederei alla Fondazione di Vittorio di fare la ricerca su quello che ha significato, tra gli anni quarantacinque e cinquanta, l’attività dei Consigli di Gestione nel nostro paese. Renzo Ciardini nel 1946 venne a Genova dalla sua Livorno e diventò il coordinatore regionale dei Consigli di Gestione: a Milano c’era l’ingegner Leonardi e a Napoli protagonista dei Consigli di gestione un certo Giorgio Napolitano, diventato poi Presidente della Repubblica. Ci fu un tentativo nel dopoguerra di fare assumere alla classe operaia un ruolo nazionale, un ruolo dirigente come lo fu politicamente nella Resistenza. La resistenza è stata un fatto nuovo perché l’immensa partecipazione popolare ha tolto alle vecchie classi dirigenti l’esclusività delle scelte politiche e nel dopoguerra, il mio incontro con Ciardini fu proprio alla San Giorgio una delle grandi fabbriche genovesi. Era il 1947 quando egli venne a costituire il Consiglio di gestione di una fabbrica che doveva essere riconvertita da produzione bellica a produzione di pace; la stessa sorte che toccò all’ILVA e all’Ansaldo. Ciardini mi chiese di entrare nel Consiglio di gestione della San Giorgio. Fu la nostra prima collaborazione. Io vi entrai all’età di 24 anni; i nostri ispiratori e maestri furono due personaggi della Cgil Vittorio Foa e Bruno Trentin. C’è sempre stato questo filo di continuità che noi applicammo nella vertenza della San Giorgio a cui ci tocco’ di partecipare. Lui venne a fare una assemblea, era un ironico toscano, quando raccontava di Borgo Cappuccini del filone anarchico. I livornesi sanno di cosa si tratta. Venne in questa assemblea a fare una proposta: frigoriferi e lavatrici al posto dei cannoni. Genova dovrebbe ricordare queste vicende e i personaggi come Franco Antolini, che era il dirigente ispiratore dei consigli di gestione, un grande economista, consigliere comunale e provinciale scomparso purtroppo il 4 luglio 1959 nel pieno della lotta dei marittimi. Genova ha avuto un gruppo dirigente politico di stampo burocratico ma anche una serie di compagni che hanno anticipato i tempi. Questo discorso serve a capire perché nel 1959 i marittimi ebbero questa capacità di ribellione per le giustizie subite, che era contemporaneamente accompagnato da una proposta nuova. Vorrei che si ripubblicasse un libro scritto da Renzo Ciardini “Un sindacato di classe dei lavoratori del mare italiani”; si tratta della relazione del congresso costitutivo del 3 aprile 1959 con una impostazione di una politica sindacale unitaria della Cgil Porti, flotta e cantieri questa è stata la costante della nostra azione, non la difesa della categoria ma una visione generale di un settore fondamentale, Genova sa quanto patisce oggi la mancanza di una politica economica di questo tipo. L’esperienza dei consigli di gestione è stata determinante per tutta una serie di compagni dell’Ansaldo, dell’Ansaldo San Giorgio perché ci siamo formati con questa idea che noi dovevamo esprimere sia le rivendicazioni immediate dei lavoratori ma anche le prospettive di un’altra società. C’è insomma un periodo di storia che andrebbe ancora approfondito. Ciardini nel 1958 si ricordava di me, delle lotte della san Giorgio. Quando Di Vittorio, che era il più ostile nella Cgil alla fondazione del sindacato dei marittimi della Cgil (aveva una passione storica per CapitanGiulietti in quanto erano stati insieme nel sindacalismo nazionalista con Corridoni nel 1910 – 1915) Di Vittorio aveva questa ossessione dell’unità e diceva che la Film è l’unica categoria italiana non ancora divisa, potrebbe essere il nucleo di una nuova unità sindacale. Ma poi Rinaldo Scheda, Fernando Santi, Brodolini, che furono gli amici che ci aiutarono moltissimo nel primo congresso, lo convinsero che dopo la morte di Giulietti, nel marasma, il disastro, l’abbandono dei lavoratori, la Cgil doveva innalzare la sua bandiera anche sulle navi. Ciardini mi disse “abbiamo fatto tante cose insieme, vuoi tentate l’avventura dei marittimi?”. Allora eravamo molto obbedienti, venivamo tutti da militanza di partito, non era facile però per un metalmeccanico come me, ma anche come Ciardini, entrare in una categoria assolutamente nuova, diversa come quella dei marittimi. Le vertenze sindacali possono nascere anche in modo strani. In quel periodo facevamo i viaggi a Roma. Non usava l’aereo per i dirigenti sindacali. Andavamo in macchina; Ciardini era un bravo guidatore e ricordo che mi pose, andando al Direttivo della Cgil, se con la mia esperienza di lotte sindacali potevo affrontare due problemi cruciali: primo, lo sciopero all’estero, io non ci avevo mai pensato; nessuno di noi aveva mai pensato ad una iniziativa del genere. Fermare le navi nei porti stranieri? Lungo i tornanti del Bracco, in quel famoso viaggio in macchina, arrivammo ad una soluzione: io mi ricordo sempre delle mie esperienze della Resistenza, rammentavo i famosi me
ssaggi in codice. A bordo c’era la censura e l’autoritarismo. Sulle navi c’era la galera perché il comandante poteva mettere in galera il marittimo disubbidiente. Dico questo per ricordare il clima in cui eravamo. Il comandante aveva il diritto di leggere prima tutte le lettere, la Corrispondenza che arrivavano ai lavoratori. Abbiamo così ripetuto la storia dello sbarco in Normandia, cioè ci inventavamo i messaggi, esempio “Giovanni ha vinto il concorso”. Il comandante si complimentava con il marittimo, bravo hai trovato il posto di lavoro per tuo figlio e invece era l’ordine di sciopero; perché il “fermi al primo approdo” era quello. Oggi anche Antonio Gibelli dalle pagine del Secolo XIX racconta molto bene quei fatti: come è possibile che contemporaneamente in tutti i porti del mondo da New York a Dakar le navi si fermassero? Abbiamo messo sulle spalle di quei lavoratori un peso enorme: hanno dovuto combattere con i consoli, con gli ambasciatori, con la polizia. Pensare ad uno sciopero della Bianca C. di 5 giorni nel Porto di Barcellona con il Presidente Segni che telefonava a Francisco Franco e diceva tagliate i cavi, questo sciopero non s’ha da fare, era come un novello Don Rodrigo italiano. È stata, ed è la cronaca che lo dice, una cronaca eccezionale. La seconda cosa che mi chiese Renzo fu “se vogliamo vincere la battaglia dobbiamo colpire Costa. Devi trovare il modo di fermare le navi di Costa”. Non ce l’avremmo fatta se non ci avesse aiutato Angelo Costa. L’unica cosa che mi sono sentito di fare è stata la comunicazione. Ho stampato un giornaletto, famoso, era il “lavoratore del mare” fondato da Giuseppe Giulietti. Sul giornale c’era una parte dedicata a una inchiesta: l’inchiesta di una nave di Costa, vecchia senza più ammortamenti la Anna C., e il giornale diceva ai marittimi perché bisognava fare il contratto per avere migliori condizioni di lavoro. Angelo Costa si arrabbiò Moltissimo e fece una cosa che forse oggi non ripeterebbe più: prese il giornale della Film Cgil ne ristampò 6 mila copie e lo inviò non solo sui bordi ma lo mandò anche nelle case tra i famigliari dei marittimi perché c’era il convincimento, c’è ancora oggi in qualche grande imprenditore, io sono il Dio, ti do il lavoro e tu devi fare quello che dico io; allora c’era questa concezione paternalistica dell’aiuto che il padrone dava al lavoratore, il quale doveva ringraziare il proprio datore di lavoro. Quello che non eravamo riusciti a fare e cioè dare il giornale a tutti i marittimi, lo fece l’armatore. E poi mi domandò
una volta “ma perché hanno scioperato proprio le navi?”. Sulla Federico C. avevamo 10 iscritti su 290 marittimi non avevamo un iscritto sulla Bianca C. e nemmeno sulla Anna C. Ma se lei fa di queste diffusioni straordinarie, probabilmente i lavoratori capiscono da che parte bisogna muoversi. Da allora il binomio Ciardini Costa ha funzionato. Costa voleva raggiungere un raccordo e i Fassio e i Lauro erano i più oltranzisti. Eravamo a metà di luglio, era una estate torrida. Eravamo al 37esimo giorno di sciopero e Ciardini convocò, il direttivo: bisognava trovare una mediazione, un com
promesso. Non potevamo andare ad oltranza. Convenimmo che non era fondamentale, anche se ci aspiravamo molto, l’aumento salariale. Quello che contava era la prosecuzione della lotta nei nuovi rapporti di forza e allora la cosa che sorprese Costa, sorprese anche i Ministri. Ciardini si rese
disponibile a firmare un contratto solo con una clausola che non ci sarebbero state rappresaglie sindacali. Lauro Achille disse subito di no, però Costa alla fine lo convinse. Gli stava più a cuore il livello salariale. Scalfari sull’Espresso disse che la vertenza si era rivelata una catastrofe per i lavoratori: fu ottenuto solo l’1% in più dopo 40 giorni di sciopero. Però la verità venne subito a galla. All’arrivo a Genova la famiglia Costa prese una posizione dura cancellando, licenziando 115 marittimi della Anna C., la nave che si era fermata in Spagna a Las Palmas, Costa si giustificava con le motivazioni di oggi. Si trattativa di contratti a viaggio. È finito il viaggio, non c’è rappresaglia sindacale, tutto va secondo le regole normali. Angelo Costa accettò di ascoltarci. Per noi era una cosa tremenda perché aver fatto uno sciopero di quel genere e trovarsi sulle spalle questi licenziamenti significava la sconfitta vera della vertenza. Il fatto quale era? C’era la precarietà. Nei marittimi come succede oggi in tante categorie di lavoratori, c’era la precarietà: ecco l’attualità della vertenza di allora, dei valori che oggi la Cgil con Epifani sa difendere. Insomma andammo da Costa con la documentazione: questi marittimi infatti da 10/15 anni si imbarcano sempre sulle sue navi. Ci fu un conflitto in famiglia. La domanda che facemmo a Costa era questa “Peppino Di Vittorio ci ha raccontato che quando lei firma un accordo, lo rispetta sempre perché è un uomo corretto e leale” e lui rispose immediatamente “io sono sempre lo stesso uomo descritto da Giuseppe Di Vittorio”. Alla vigilia del ferragosto del 1959 c’era Graziella Torrini la segretaria del sindacato che riceve una telefonata “Giordano, c’è Angelo Costa al telefono”. Ci comunicò che aveva deciso di reintegrare i marittimi cancellati dal turno e di riscriverli a turno. Ecco la svolta di quella vertenza, la vittoria del sindacato, il cambiamento dei rapporti che c’erano tra il padrone del vapore, come li descriveva Scalfari, e i disperati dei porti, come li descriveva Vittorio Emiliani. Costa chiese un incontro con Ciardini. E da allora per 17 anni c’è sempre stato un patto di consultazione, ognuno difendendo le proprie posizioni però nel rispetto reciproco e questo è stato il grande cambiamento. Ci abbiamo messo 17 anni; però il programma del Congresso Cgil del ’59 l’abbiamo realizzato. Abbiamo realizzato la riconversione, non abbiamo avuto timore di mettere ai voti il disarmo della Michelangelo, l’ho fatta io l’assemblea a Gibilterra conclusa con 665 voti a favore, 5 contrari, 6 astenuti. Avevamo trovato una soluzione generale complessiva e cioè la continuità del rapporto di lavoro, la conquista storica con la quale cessava ufficialmente la precarietà e i lavoratori anche durante il periodo di attesa imbarco i lavoratori percepivano il salario. Oggi possono sembrare utopie, sogni. Abbiamo ottenuto l’ordinazione di 65 navi ai cantieri. Fu la grande operazione di una riconversione mai più verificatasi. Pensate, alle navi container, ai traghetti e all’attività delle crociere. Avevamo indicato una nuova prospettiva nazionale di prosperità per il porto e per le città marinare. Poi le cose sono andate come sono andate, perché le aziende pubbliche, la Finmare l’Iri non sono state in grado di realizzare quello che i marittimi, con quella nostra vertenza, avevano creato. Quella con Ciardini era una grande squadra. A me piace tanto la canzone che parla dei mediani, perché ci sono nelle squadre le punte che fanno goal però se non gli passano i palloni buoni. Noi a Ciardini abbiamo passato tanti palloni buoni. Ricordo i marittimi Sironi e Carotenuto, che vanno a Karadu davanti all’ambasciatore e ascoltano gli articoli del codice della navigazione che proibisce lo sciopero. Questi operai dal taschino tirano fuori
la Costituzione della Repubblica Italiana e all’ambasciatore leggono l’articolo 39 che garantisce il diritto di sciopero. Questi sono stati alcuni degli straordinari protagonisti di quelle lotte; così a New York i compagni del Vulcania, del Giulio Cesare riuscirono ad arrivare sino ad a Eisenhower Presidente degli Stati Uniti. La Società Italia aveva mandato a New York un vecchio rottame fascista per chiedere dopo 29 giorni, l’applicazione della legge per l’immigrazione che stabiliva che le navi andavano allontanate. I compagni, i fratelli di Brooklyn ottennero un decreto speciale per salvaguardare il diritto di sciopero dei marittimi italiani. Sono cose che ai giovani andrebbero raccontate. A Dakar c’erano due navi. Il Conte Grande e Conte Biancamano Noi li tenevamo sorretti da continue telefonate, ma erano soli laggiù. Eppure hanno resistito per 40 giorni. Pensate a cosa è stata questa battaglia, il valore che ha ancora oggi. Così come sono ancora attuali le nostre proposte: abbiamo detto nel ’59 di seguire anche per Genova l’esempio di Rotterdam, di Anversa per l’autofinanziamento dei porti attraverso le entrate fiscali che derivano dal traffico marittimo. Purtroppo siamo ancora dopo cinquanta anni ai tentativi di ottenere questo riconoscimento. Ringrazio profondamente la Fondazione Di Vittorio, i relatori che ci hanno reso più meriti di quelli che forse meritiamo. Mi auguro che a questa iniziativa ne seguano altre. Questi valori di lotta di cinquanta anni fa sono attuali. Non è retorica: veramente questi compagni marittimi, questa squadra di mediani, ha realizzato un pezzo di storia del nostro Paese.


ID: 16657  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: venerdì 14 novembre 2014 Ore: 19:49


QUI LE FOTO DAI GIORNALI 1

QUI LE FOTO DAI GIORNALI 2


ID: 16656  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: venerdì 14 novembre 2014 Ore: 17:30

L’orma profonda
Lo sciopero dei marittimi di cinquanta anni fa è ignorato. Anche
dagli storici. Eppure è stato un grande sciopero mondiale. L’unico,
a mia conoscenza, che, partito dall’Italia, ha avuto come palcoscenico
l’intero pianeta, i porti dei cinque continenti e tutti i grandi mari
e che ha visto la partecipazione di 118 navi di cui più di metà in
porti stranieri, dove quasi ovunque ha incontrato la solidarietà non
soltanto delle marinerie locali, ma anche da parte della popolazione.
Le navi si fermarono al primo approdo – questa la parola d’ordine –,
oltre che in tutti i porti italiani, nelle Americhe: a New York, a Vancouver,
a Cristobal (Panama), a Buenos Aires. In Africa sei furono i
porti interessati: Dakar, Dar es Salam, Alessandria e Suez, Port Sudan,
Orano. Due in Australia, Sydney e Melbourne. Due in Asia,
Karachi e Calcutta, e uno in Turchia, a Istanbul. In Europa lo sciopero
avvenne nei porti di Las Palmas e Barcellona, Marsiglia e Nizza,
Anversa e Atene.
La sua importanza è storica. Infatti è parte integrante, per certi
versi anticipatrice, di quel moto di popolo che pose fine agli anni
cinquanta e che ebbe il culmine a Genova il 30 giugno e poi a Reggio
Emilia, Palermo e Roma nel luglio 1960. Terminò così la stagione
politica del centrismo, che durava da oltre un decennio e che si
era caratterizzato per la repressione del movimento dei lavoratori
soprattutto delle campagne, ricorrendo spesso alla violenza e all’eccidio,
e, dopo la caduta del Governo Tambroni, fu dato il via al
centrosinistra, con l’ingresso del Psi nell’area di governo. Questo
moto ebbe al centro l’attuazione della Costituzione, a partire dal suo
∗ Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
L’orma profonda
della lotta dei marittimi del 1959
di Iginio Ariemma
valore fondante, l’antifascismo, e vide come protagonista una nuova
generazione che nelle fabbriche, nelle campagne e nella scuola riscoprì
a modo suo, come fa ogni generazione, l’antifascismo e affermò
il diritto alla libertà di manifestare, di esprimere la propria
opinione, di scioperare (i giovani dalle magliette a strisce).
Tutti questi «segni» sono già presenti nello sciopero dei marittimi
del 1959 e nel ruolo assolutamente decisivo che svolsero la città e il
movimento operaio di Genova. È stato uno sciopero ad oltranza
che è durato oltre 40 giorni e ha richiesto un grande spirito di sacrificio
e di solidarietà da parte dei lavoratori, come è documentato
dalle relazioni di Fabrizio Loreto e di Paolo Arvati e dall’antologia
dei verbali, delle lettere e dei telegrammi spediti dalle navi alla Federazione
italiana dei lavoratori marittimi della Cgil (Film). Allora i marittimi italiani erano oltre 120 mila, ma soltanto 40-45 mila erano
imbarcati su navi nazionali e straniere. Sebbene la maggioranza del
naviglio fosse in mano pubblica, i due grandi cosiddetti «padroni del
vapore» erano Angelo Costa, che fino al 1955 era stato anche il leader
della Confindustria, e Achille Lauro, esponente monarchico ed
ex sindaco di Napoli.
Tutti i giornali ne parlarono diffusamente, cogliendone la portata
e la novità. Ovviamente la stampa filogovernativa, in maggioranza,
condannò lo sciopero e le rivendicazioni dei marittimi, considerate
assurde e spropositate, benché il contratto precedente risalisse
al 1931. Soltanto i giornali di sinistra, e con loro «L’Espresso», al
quarto anno di vita, difesero le ragioni degli scioperanti. Se ne occupò
anche il Parlamento, in risposta a interpellanze le quali mettevano
in luce il comportamento repressivo e di parte del Governo
Segni.
La lotta, come è stato detto, sembra quasi una sceneggiatura di
un film, con tanto di canovaccio, un regista e attori e navi sparsi in
un mappamondo ideale. Ancora adesso mi chiedo come sia stato
possibile dirigere uno sciopero di tale portata e complessità. Va infatti
tenuto presente che i marittimi non potevano scioperare in mare
aperto, in quanto, per il codice di navigazione di allora, sarebbe
stato un reato grave di ammutinamento. Di qui il «fermi al primo
approdo». Inoltre tutte le disposizioni passavano attraverso il telegrafo
e quindi prima di ogni altro venivano lette dal comando della
nave. Ma la creatività, specialmente se sorretta dalla volontà politica,
non ha limiti: «Giovanni ha vinto il concorso», «Piero è stato pro9
mosso» e così via diventarono i messaggi in codice per dare il via
allo sciopero. Nemmeno la massiccia azione per reclutare nei porti
il crumiraggio o le azioni da fronte del porto, o da «Pace e Libertà»
dei vari Sogno e Cavallo, come avverrà negli anni successivi nelle
fabbriche, di fantomatici comitati antisciopero, fomentati e sostenuti
dagli armatori e dal Ministero dell’Interno, come il comitato di
difesa marinara diretto dall’ex ufficiale Angelo Anfosso di Genova,
riuscirà a debellare la lotta. La repressione raggiunse il suo culmine
il 29 giugno a Torre del Greco, dove la polizia sparò e ferì alcuni lavoratori
che manifestavano. Quella Torre del Greco dove ogni abitante
nasce marittimo, dove «il mare è la tradizione e la condanna di
noi giovani», come scrive sul diario di bordo un marinaio.
Il lungo sciopero si concluse con un accordo non esaltante sul
piano monetario, cioè della panatica, l’appannaggio giornaliero che
veniva dato ai marinai (Eugenio Scalfari in un articolo su «L’Espresso
», a dire il vero, un po’ supponente, criticò il Pci e lo stesso Togliatti
per i magri risultati ottenuti), ma certamente molto importante
sul piano della libertà e dei diritti, perché i marittimi conquistarono
il diritto di sciopero, il diritto di contrattazione e il riconoscimento
del sindacato sulle navi. Tutti diritti che portarono in seguito
ad avere sicurezza di lavoro e di reddito tra un viaggio e
l’altro, e nel 1969-70 a conquistare il diritto all’assemblea sulle navi e
i delegati di bordo.
In questa vicenda, insieme a Giordano Bruschi, che poi ha avuto
anche il merito di averne scritto la storia (La sfida dei marittimi ai padroni
del vapore. Lo sciopero di quaranta giorni del 1959, Genova, Fratelli
Frilli editori, 2006), emerge la figura di Renzo Ciardini. Sua la leadership
del movimento, dall’inizio, nell’unificare la categoria e dare
ad essa una vera e propria strategia politica al di là della rivendicazione
sindacale, fino alla fine, concludendo la lotta al momento opportuno
e guadagnando il rispetto e la stima da parte di un avversario
per nulla arrendevole e difficile come Angelo Costa. Ciardini,
quando diventò segretario della Film-Cgil, aveva già alle spalle
una notevole esperienza: la lotta partigiana, i consigli di gestione, la
segreteria della Camera del lavoro di Genova. Anche lui, come il
gruppo dirigente che guiderà la Cgil negli anni seguenti, era stato
scelto da Di Vittorio ed era a lui molto vicino. Vittorio Foa ricorda,
ne Il cavallo e la torre, che Ciardini era stato uno dei sostenitori della
svolta del «ritorno in fabbrica» e del ripartire dalle condizioni di la10
voro dopo la sconfitta Fiom del 1955 alla Fiat; accanto a Lama,
Trentin, Garavini, Santi e non molti altri. Con la sua direzione i marittimi
fanno un vero salto di qualità non soltanto sul piano rivendicativo,
ma anche su quello politico più generale. Ne è testimonianza
la relazione del 1959, presentata nel volume, in cui viene sviluppata
in modo puntuale l’analisi della condizione lavorativa dei marittimi
italiani e vengono affrontati lo stato, a dir poco critico, della politica
marinara italiana e le misure necessarie per il suo rinnovamento, facendo
del sindacato un soggetto politico di primo piano.
Il convegno «Panatica e libertà: fermi al primo approdo. 1959-
2009: sciopero mondiale dei marittimi italiani», svoltosi a Genova il
3 luglio 2009, di cui pubblichiamo gli atti, insieme al libro di Bruschi
prima accennato, ha il pregio di tirare fuori dai cassetti, dove era
stata dimenticata, questa lotta veramente straordinaria. In questi decenni
si è verificata una frattura tra generazioni, tra vecchi e giovani.
Una frattura non soltanto generazionale, ma a mio parere ben più
profonda e pericolosa, perché colpisce la mente, il linguaggio, il costume,
il modo di vedere la realtà. Il nostro sembra sempre più un
paese senza storia, in cui la trasmissione del passato è fragile, parziale,
limitata. Prevale la rimozione, non la ricerca di una radice comune
per distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto o meglio ciò
che deve essere conservato da ciò che invece va buttato via. Io sono
convinto che per capire la società di oggi ci vogliono categorie più
moderne e corrispondenti alla realtà attuale, ma senza conoscere le
vecchie categorie, senza conoscere il passato e la storia si resta alla
superficie, non si trova il nuovo e tanto meno le nuove chiavi del
futuro. E soprattutto non si sedimenta una coscienza pubblica e civile,
che deve accomunare. Il messaggio del convegno di Genova è
dunque molto chiaro: doveroso omaggio ai lavoratori e alle loro
famiglie che hanno partecipato alla lotta dei marittimi di cinquanta
anni fa e nello stesso tempo ricordare alle nuove generazioni che,
per costruire l’avvenire, non va dimenticata, ma «riflettuta» l’orma
profonda della nostra storia passata.


ID: 14806  Intervento da: camillo scala  - Email: doncamillo57@libero.it  - Data: mercoledì 21 marzo 2012 Ore: 18:14

Al carissimo Gigi il mio plauso per la bella pagina web compilata nel prezioso scrigno di sua invenzione quale è TORREOMNIA Grazie

ID: 11564  Intervento da: camillo scala  - Email: doncamillo57@libero.it  - Data: giovedì 25 giugno 2009 Ore: 01:46




La centralità di Genova nella lotta dei marittimi alla fine degli anni Cinquanta

di Paolo Arvati


Un passaggio di fase

1
La centralità di Genova nella lotta dei marittimi alla fine degli anni Cinquanta
di Paolo Arvati
Un passaggio di fase
I dati sulle ore di sciopero fotografano un passaggio di fase nella storia del
conflitto sociale e politico a Genova. Nel 1954 le ore effettuate in provincia sono
4.972.867 e nel 1955 salgono a 6.561.753. Il 1954 è l’anno della crisi definitiva della
San Giorgio: la lotta dura tre mesi, in un’atmosfera “da 25 aprile”, con la
partecipazione di tutta Sestri. La conclusione è pesante: la vecchia San Giorgio viene
“spacchettata” in cinque pezzi e di fatto scompare, mentre 1.300 lavoratori sono
subito licenziati. Il 1955 è l’anno che vede il porto al centro dello scontro sociale e
politico più acuto. L’obiettivo delle controparti è rompere la gestione monopolistica
della forza lavoro portuale da parte delle Compagnie, reintroducendo criteri di “libera
scelta”. L’offensiva viene portata sull’anello ritenuto più debole, il ramo industriale
del porto, con il tentativo di sottrarre alla Compagnia del settore l’avviamento al
lavoro, affidando i lavori più lunghi a bordo delle navi non più ai portuali, ma allo
stesso personale delle officine meccaniche titolari delle commesse di riparazione. Lo
sciopero che coinvolge sia i portuali, sia gli stessi metalmeccanici del settore (che
lottano contro il proprio interesse immediato), dura 120 giorni e si conclude con un
accordo che corregge parzialmente i criteri di libera scelta imposti all’inizio della
vertenza. Delle 6.561.753 ore di sciopero dell’intera provincia di Genova, ben
4.537.033, quasi il 70%, vengono “spese” nei 120 giorni del porto.
Due anni dopo, nel 1957, le ore di sciopero crollano a 1.395.645 e nel 1958 sono
2.382.570. Nel 1959, anno di rinnovi contrattuali delle categorie dell’industria e
soprattutto anno della vertenza dei marittimi, le ore di sciopero in provincia di
Genova balzano nuovamente a 5.811.080. Si tratta però di conflitti molto diversi da
quelli delle grandi lotte di difesa della prima metà degli anni Cinquanta. Quelle
grandi lotte erano riuscite a contenere, ma non ad impedire la prima drammatica fase
di deindustrializzazione di Genova. Alla fine del 1946 le aziende IRI occupano a
Genova oltre 50.000 dipendenti, di cui 30.000 negli stabilimenti Ansaldo, quasi 9.000
alla San Giorgio, quasi 10.000 in siderurgia tra Siac e Ilva. Il peso dell’industria
pubblica nell’economia ligure è enorme: alla fine del 1951 l’occupazione in aziende
pubbliche è stimata pari al 60,5% del totale dell’occupazione metalmeccanica.
Nessuna regione italiana raggiunge all’epoca una tale percentuale. Alla fine del 1955,
cioè alla conclusione del ciclo di lotte per la difesa dell’occupazione industriale, le
aziende IRI in provincia di Genova contano circa 32.000 dipendenti, di cui 9.000 in
siderurgia. In dieci anni, tra il 1946 e il 1955, vengono espulsi oltre 20.000 lavoratori.
L’unica novità positiva sul piano occupazionale è rappresentata dallo stabilimento a
ciclo integrale di Cornigliano, avviato nel 1953, che nel 1955 conta già 4.300 addetti,
poi raddoppiati nei successivi cinque anni.1
1 Sulle lotte operaie a Genova negli anni Cinquanta: P.ARVATI e P.RUGAFIORI, Storia della camera del Lavoro di
Genova: dalla Resistenza al luglio 1960, Roma 1981; Gli operai di Genova 1950 – 1970, in <>, 1981, n.19;
2
Le trasformazioni di Genova
Nel giro di un decennio, tra il 1951 e il 1961, mutano i caratteri dell’economia e
della società genovese. In anni di grande sviluppo industriale del Nord, in provincia
di Genova l’occupazione terziaria ormai supera quella industriale. L’incremento dei
settori terziari è elevato (+42.266 unità, pari a + 39,1%), in particolare nei servizi
pubblici (+ 56,2%), nel settore commerciale (+ 41,7), nei trasporti (+ 33,8) e nel
credito (+ 32,9). Aumenta anche l’occupazione industriale (+ 14.320, pari a +
11,2%), ma solo grazie al raddoppio degli addetti del settore delle costruzioni (da
oltre 15.000 ad oltre 30.000 unità), mentre l’occupazione manifatturiera resta ferma
(circa 106.000 unità) con una marcata tendenza alla flessione.
Il forte incremento dell’occupazione edile è legato allo sviluppo urbanistico senza
precedenti della città e di tutta la provincia. Per rimanere alla città, tra il 1951 e il
1961 il patrimonio abitativo aumenta del 44,8% (da 160.865 a 232.924), tanto da
assorbire gradualmente il grave problema della coabitazione che affligge Genova
negli anni del dopoguerra e nei primi anni Cinquanta. Occorre inoltre ricordare le
numerose opere pubbliche realizzate tra il 1951 e il 1965 che mutano il volto
urbanistico di Genova: dall’ente fiera alla pedemontana tra S.Martino e Nervi, dalla
sopraelevata all’aeroporto Cristoforo Colombo. Per quanto riguarda il Porto, dopo il
blocco dei traffici legato alla guerra e al successivo periodo di ricostruzione, nel 1950
le merci movimentate raggiungono nuovamente il massimo pre-bellico degli otto
milioni di tonnellate. Dieci anni dopo sono superati i venti milioni e nel 1963 i trenta
milioni di tonnellate. L’aumento vertiginoso è però dovuto in gran parte allo sbarco
di prodotti petroliferi che nel 1953 incidono per il 30,2%, mentre nel 1963 superano
la metà del traffico complessivo (53,4).
La crescita demografica della città – pure meno elevata di quella di Torino e di
Milano – è tuttavia imponente. Tra il 1951 e il 1961 Genova aumenta di quasi
100.000 abitanti (da 688.447 a 784.194), per toccare il massimo storico di 848.121
nel 1965. L’incremento complessivo in quindici anni (+159.674) per quasi il 95% è
attribuibile all’immigrazione. Tra il 1951 e il 1965 l’incremento migratorio netto
supera infatti le 150.000 unità: il fenomeno nuovo è quello dell’immigrazione dal Sud
attirata dallo sviluppo edilizio, siderurgico e terziario del capoluogo ligure.
L’immigrazione netta dalle regioni meridionali e insulari sale dalle circa 2.900 unità
medie annue nel periodo 1951 – 1957 alle 5.000 del periodo 1958 – 1960, alle quasi
11.000 dei primi anni Sessanta. Tra il 1958 e il 1963 arrivano a Genova 56.750
persone provenienti dal Sud. L’incidenza sul totale degli immigrati nel capoluogo
ligure nello stesso periodo sfiora il 37%, con punte del 41,9 nel 1961 e del 45,6 nel
1963. Le forti correnti migratorie creano seri problemi sociali, il più urgente dei quali
riguarda le abitazioni. Genova sino ai primi anni Sessanta pullula di bidonville.
A.GIBELLI, I grandi costruttori: etica del lavoro, miti produttivistici e lotte operaie a Genova (1949 – 1951), in
A.MICHELI, Ansaldo 1950, Torino 1981.
3
L’altro grave problema riguarda l’inserimento nel contesto produttivo e sociale
cittadino.2
Gli anni del muro contro muro
In questo quadro di intense trasformazioni della città il movimento operaio rimane
a lungo imprigionato negli schemi dello scontro frontale delle grandi lotte dei primi
anni Cinquanta, dall’occupazione di 82 giorni della San Giorgio nel 1950 a quella di
72 giorni degli stabilimenti Ansaldo sempre nel 1950, a quella di nove mesi dell’Ilva
tra 1950 e 1951. Nel movimento operaio prevale la convinzione che il
ridimensionamento industriale sia soprattutto attacco politico, tentativo di
pregiudicare l’esistenza di una classe e quindi di un’intera comunità. Questa tesi si
radica come diffuso senso comune nella cittadella operaia assediata, nei quartieri
rossi del ponente cittadino. La resistenza operaia è rappresentata come battaglia di
avanguardia, di valore e rilievo nazionali, contro i disegni di distruzione del
patrimonio produttivo e quindi contro l’assenteismo e la subalternità dell’industria
pubblica ai grandi monopoli privati. Il produttivismo del movimento operaio è
tutt’altro che neutrale, al contrario è duramente antagonista. Antagonismo tanto più
radicale quanto più è alta la convinzione che la posta in gioco non è solo la difesa del
posto di lavoro, ma è soprattutto la difesa della propria identità individuale e
collettiva. Un’identità inconciliabile con le linee di trasformazione di Genova in una
“città di camerieri”.
Negli anni della guerra fredda la rocciosa resistenza delle fabbriche e dei quartieri
operai produce isolamento e arretramento del consenso politico. Il PCI passa dal
32,4% dei voti ottenuto nelle elezioni amministrative del 1951 al 27,5 delle politiche
del 1953, al 24,9 delle amministrative del 1956, al 24,7 delle politiche del 1958. In
valori assoluti il PCI scivola dai 138.081 voti del 1951 ai 124.603 del 1958,
nonostante che nel periodo l’elettorato cresca di circa 50.000 unità. Non è certo un
caso che nello stesso periodo la DC si consolidi tra il 33,5% e il 33,7, conquistando
circa 27.000 voti, e il PSI avanzi dal 13,4% al 20,8 con circa 47.000 voti in più.3
Anche la CGIL subisce colpi durissimi. I 197.000 iscritti del 1946 si riducono ai
185.000 circa del 1950, ma nel 1952 tornano ad essere più di 200.000, assorbendo
apparentemente gli effetti della scissione. In effetti le statistiche della Camera del
Lavoro comprendono tra gli iscritti anche le adesioni dei disoccupati, per un certo
numero di anni ancora organizzati dalla CGIL. Il 1952 è tuttavia l’ultimo anno di
tenuta. Nel 1953 si contano 13.000 iscritti in meno, nel 1955 le adesioni sono poco
più di 169.000, nel 1956 la frana: 121.167 iscritti, 80.000 in meno rispetto a quattro
anni prima. Altri 33.000 iscritti in meno si contano nel 1959, in soli tre anni. La
FIOM da 69.500 iscritti nel 1952 passa a 17.256 nel 1959. Non a caso la FILM è
2 Sulle trasformazioni economiche, sociali e demografiche di Genova negli anni Cinquanta e Sessanta:
G.GIACCHERO, Genova e Liguria nell’età contemporanea, Genova 1980; Trent’anni di vita della Provincia di
Genova (1951 – 1981), Milano 1984; M.E.TONIZZI, La storia e i numeri del Porto di Genova, in COMUNE di
GENOVA, I numeri e la storia del Porto di Genova, Genova 2004; P.ARVATI, Mezzo secolo di censimenti in
COMUNE di GENOVA, Novecento genovese: Genova attraverso i censimenti (1951- 2001), Genova 2007.
3 COMUNE di GENOVA, Il voto a Genova (1946 – 2001), Genova 2001.
4
l’unico sindacato di categoria a risalire la china. Dopo il tracollo della FILM di
Giulietti che porta l’organizzazione dei marittimi dai 12.169 iscritti del 1953 ai 1.850
del 1957, la rimonta è forte proprio nel 1959: si registrano 5.213 iscritti che salgono
ancora a 5.800 nel 1960. Nonostante questo gravissimo arretramento organizzativo, a
Genova la forza e il prestigio della CGIL rimangono elevati perché nelle elezioni di
commissione interna non si registrano tracolli simili a quelli di Torino. Secondo i dati
della Camera del Lavoro, nelle consultazioni del 1955 in 139 aziende la CGIL
complessivamente raccoglie il 74,5% dei voti operai e il 29,8 di quelli impiegatizi.
Ciò nonostante la svolta del IV° Congresso del 1956 pesa molto, anche a Genova.4
La svolta del IV° Congresso
Come è noto, il IV° Congresso della CGIL (27 febbraio – 4 marzo 1956)
rappresenta lo sviluppo coerente della famosa “autocritica” di Giuseppe Di Vittorio
dopo la sconfitta della FIOM nelle elezioni di commissione interna della Fiat del
1955. Il valore di quell’atto è ben evidenziato da Aris Accornero: “Questa autocritica
qualifica il movimento operaio italiano in un periodo nel quale, altrove, il
procedimento è piuttosto raro. L’autocritica…riconosce che non i lavoratori si sono
allontanati dall’organizzazione operaia bensì questa si è staccata dalla realtà della
loro condizione di fabbrica.”5 Un anno dopo lo stesso Di Vittorio nel corso della
tragedia ungherese non esiterà a scegliere ancora una volta i lavoratori, schierandosi
contro i carri armati. Lo sviluppo congressuale di quell’autocritica contiene una vera
e propria “rivoluzione copernicana” che consiste, osserva ancora Accornero, nella
“…contrattazione di tutti gli elementi del rapporto di lavoro”, innanzi tutto
riportando il sindacato nei luoghi di lavoro. L’altra importante novità del IV°
Congresso è la proposta dell’ “economia del lavoro”, una strategia di politica
economica che abbandona i vecchi schemi catastrofistici, fa i conti con la ripresa
dello sviluppo in Italia, tenta di saldare gli obiettivi per un diverso indirizzo
economico con la battaglia fondamentale per migliori condizioni salariali e di lavoro.
La proposta assegna un importante ruolo alternativo all’industria pubblica, strumento
decisivo per una politica di sostegno della piccola e media impresa e per una politica
di industrializzazione del Mezzogiorno.
In questo quadro di rielaborazione strategica Genova, quasi naturalmente, si trova
ad assumere un ruolo importante. Non è un caso che il Convegno dell’Istituto
Gramsci su “I lavoratori e il progresso tecnico” 6 tenutosi nel luglio 1956, a pochi
mesi dalla conclusione del IV° Congresso e con larga partecipazione di dirigenti
sindacali, assegni una delle quattro relazioni introduttive 7 ad un genovese. La
relazione di Mario Quochi, allora responsabile dell’Ufficio Economico della Camera
4 P.ARVATI e P.RUGAFIORI, Storia della Camera del Lavoro, cit.
5 A.ACCORNERO, Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, in Problemi del movimento sindacale in
Italia (1943 – 1973), Milano 1976.
6 I lavoratori e il progresso tecnico, Roma 1956.
7 Le altre tre relazioni vennero svolte da Silvio Leonardi, allora responsabile dell’Ufficio Economico della Camera del
lavoro di Milano, Sergio Garavini della FIOM di Torino e Giuseppe Levrero, segretario della Camera del Lavoro di
Napoli.
5
del Lavoro di Genova, propone una revisione critica dell’analisi delle tendenze del
capitalismo italiano e della realtà di fabbrica. Applicata alla realtà genovese, la
revisione supera la distorsione ideologica che, con l’attribuzione di una linea
“malthusiana” al capitale privato, aveva impedito al movimento operaio di cogliere
l’intreccio organico tra processi di smobilitazione di settori meccanici e di intere
aziende di siderurgia tradizionale e processi di trasformazione e di modernizzazione
(come la realizzazione dell’impianto a ciclo integrale di Cornigliano).
Per quanto riguarda l’iniziativa, Genova diventa un importante laboratorio per la
sperimentazione di rivendicazioni a livello di settore e di fabbrica. La
sperimentazione è guidata da un nuovo gruppo dirigente camerale, la cui figura di
maggiore spicco e responsabilità è proprio Renzo Ciardini che nei primi mesi del
1958 sarà chiamato a ricostruire la FILM a livello nazionale. Il sindacato genovese
per altro, come si è ricordato, pur essendo fortemente indebolito, è ancora in piedi,
come mostrano i risultati delle elezioni di commissione interna. Tra le iniziative più
rilevanti è utile ricordare la vertenza dei siderurgici per la riduzione dell’orario di
lavoro che nel maggio del 1957 porta all’effettuazione del primo sciopero unitario dei
lavoratori del settore. A Genova lo sciopero registra buone percentuali di adesione, ad
eccezione dello stabilimento di Cornigliano che viene esentato dall’agitazione perché
la direzione aziendale decide di aprire subito le trattative per evitare un pericoloso
precedente di conflittualità interna.
Nell’autunno del 1957 viene impostata dalla FIOM la vertenza per il premio di
produzione nei diversi stabilimenti del gruppo Ansaldo, in considerazione dei forti
incrementi di produttività registrati negli ultimi anni. La vertenza e le lotte si
trascinano per mesi sino alla primavera del 1958, finendo così per saldarsi con
l’ennesima emergenza occupazionale che si apre nell’estate dello stesso anno e che
riguarda due storici stabilimenti genovesi, l’Ansaldo Fossati e l’Ansaldo San Giorgio.
Nell’ottobre del 1958 l’IRI formalizza la chiusura del Fossati e un pesante
ridimensionamento dell’Ansaldo San Giorgio. A quel punto lo scenario sindacale
genovese è nuovamente dominato dall’obiettivo principale della difesa
dell’occupazione. Si arriva così alla primavera del 1959.
Le giornate di giugno e luglio 1959
La nuova emergenza occupazionale determina una generale levata di scudi, di cui
si rende protagonista anche l’Amministrazione Comunale guidata dalla DC, nella
persona del Sindaco Vittorio Pertusio. Le forti pressioni su Roma portano ad una
novità che negli anni successivi s’imporrà come vero e proprio modello di relazioni
centro – periferia. Il modello è quello dei “pacchetti compensativi”, inaugurato
dall’allora Ministro delle Partecipazioni Statali Ferrari Aggradi che nel maggio del
1959, nel corso di un incontro con le autorità locali, annuncia una serie di misure per
rilanciare l’economia cittadina. Nel confermare la liquidazione del Fossati e il
licenziamento di 500 lavoratori dell’Ansaldo San Giorgio, il Ministro assume
impegni per un “pacchetto” di opere pubbliche, dal bacino galleggiante per le
industrie di riparazione navale, alla costruzione di un oleodotto, al raddoppio della
6
camionale per Serravalle, al completamento della Genova – Savona. Sono inoltre
preannunciati ammodernamenti del Cantiere di Sestri e potenziamenti del centro
siderurgico di Cornigliano, con la costruzione di un terzo altoforno. Il “pacchetto” di
Ferrari Aggradi taglia le gambe al movimento unitario sviluppatosi intorno alla difesa
del Fossati e dell’Ansaldo San Giorgio. Le istituzioni locali, evidentemente
soddisfatte, si ritirano in buon ordine, mentre al sindacato non rimane altro che
proclamare per il 20 maggio uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha le
caratteristiche della testimonianza di un’ultima e impotente protesta.
Venti giorni dopo, l’8 di giugno, inizia la lotta dei marittimi.8 Da subito Genova è
epicentro: nei primi giorni dello sciopero vengono bloccate la Federico C.,
ammiraglia dell’armamento privato, l’Augustus, il Roma e il Campidano. La polizia
interviene il 12 giugno, occupando con la forza la Federico C. e le altre navi. I
marittimi “sgomberati” inscenano una manifestazione davanti alla Società Italia e alla
Società Costa. Il 15 giugno viene bloccata anche la Cristoforo Colombo, ammiraglia
dell’armamento pubblico. Il 19 giugno la Celere interviene sui marittimi della
Federico C. Il 30 giugno e il 1° luglio si verificano nuovi scontri, dopo quelli
durissimi del 29 a Torre del Greco. E’ a questo punto che la vertenza dei marittimi
entra in una fase diversa che vede il coinvolgimento delle principali categorie di
lavoratori e alla fine di tutta la città.
Il 2 luglio la FILP decide l’entrata in lotta dei portuali al fianco dei marittimi. L’8
luglio FIOM, FIM e UILM, in base alle decisioni nazionali di categoria, decidono di
effettuare uno sciopero di cinque giorni, dal 10 al 14 luglio, per il rinnovo del
contratto di lavoro. Contemporaneamente la FILP proclama per gli stessi giorni lo
sciopero dei lavoratori portuali del ramo industriale. Si delinea così in tutta la sua
compattezza lo schieramento che sarà protagonista a Genova di uno dei momenti di
più intensa e aspra lotta del dopoguerra. Il sindacato decide di mettere in campo il
massimo di forza organizzata con un duplice obiettivo: incrinare l’intransigenza delle
controparti in tema di rinnovi contrattuali, ma anche lanciare un forte segnale politico
a livello nazionale contro i rischi di svolta autoritaria legati agli indirizzi e alle
difficoltà del Governo Segni.
La prima giornata, il 10 luglio, è forse la più dura: i diversi cortei operai vengono
ripetutamente caricati, prima in Via S.Lorenzo, poi in Via Balbi. Gli scontri si
susseguono sino al primo pomeriggio, perché la resistenza dei lavoratori è sempre
meno passiva. L’11 luglio entrano in sciopero anche i siderurgici, con la solita
eccezione dello Sci, ove ancora una volta FIM e UILM si accontentano di un accordo
aziendale separato. La seconda manifestazione è conclusa da un comizio di Fernando
Santi. Il 13 luglio la Camera del Lavoro proclama per il giorno successivo lo sciopero
generale di tutte le categorie: “Genova solidale sostiene incondizionatamente la lotta
dei marittimi, affiancando nello stesso tempo quella dei metallurgici, affinché si
possa addivenire ad una rapida e soddisfacente soluzione delle due vertenze”. Lo
sciopero generale del 14 luglio ha una buona riuscita, con punte di partecipazione tra
l’80 e il 100%. Un grande corteo, mentre si reca in Prefettura, è duramente caricato:
8 Sulla vertenza dei marittimi: Fermi al primo approdo! Roma 1960; G.BRUSCHI, la sfida dei marittimi ai padroni del
vapore, Genova 2006.
7
un dirigente sindacale, Marino Mora, viene aggredito e bastonato, tre operai
dell’Ansaldo Meccanico sono arrestati. Otto giorni dopo lo sciopero generale di
Genova, il 22 luglio, si raggiunge l’accordo che conclude la vertenza nazionale dei
marittimi.
Luglio 1959, una prova generale
E’ evidente il ruolo decisivo delle giornate di Genova – e in particolare dello
sciopero generale del 14 luglio – per la conclusione della vertenza dei marittimi. Ma
c’è di più. Alla luce degli eventi successivi, l’intera vicenda dell’estate 1959 appare
come una “prova generale” del giugno – luglio 1960. Buona parte dei protagonisti del
30 giugno 1960 sono già in campo un anno prima, come un anno prima è già presente
una forte volontà di riscatto, dopo un decennio di sconfitte. Da questo punto di vista
la rivolta antifascista del 30 giugno appare caratterizzata da una peculiare
“doppiezza”. Da un lato infatti la paternità del 30 giugno deve essere ricercata nelle
lotte sociali e politiche degli anni Cinquanta, con in più l’apporto determinante del
movimento partigiano e il richiamo ideale e organizzativo alla lotta di Liberazione.
Dall’altro sono in gran parte nuovi i protagonisti. Secondo le fonti del tempo e le
testimonianze dirette, almeno metà delle centomila persone affluite in piazza il 30
giugno 1960 sono giovani tra i 17 e i 25 anni, i ragazzi dalle “magliette a strisce”. Dei
cinquanta arrestati durante gli scontri - pur sempre un campione indicativo – la metà
ha meno di 25 anni e l’età media complessiva è di 28 anni. Un altro dato interessante
tratto dall’elenco dei cinquanta arrestati è che solo una piccola minoranza è costituita
da operai metalmeccanici e portuali. La maggioranza è di manovali, piccoli artigiani,
commessi e disoccupati, quasi a dimostrare la dimensione sociale molto più ampia
della partecipazione e il ruolo decisivo assunto dalla mobilitazione dei giovani, specie
quelli colpiti dalla progressiva contrazione delle opportunità occupazionali della città.
Esiste quindi, incontestabilmente, un filo rosso che lega la vertenza dei marittimi e
la partecipazione di tutta la città a questa lotta alle giornate di giugno – luglio 1960.
Per il movimento operaio – non solo quello genovese – le due estati di lotta
rappresentano un vero e proprio spartiacque tra un decennio di ripiegamento e di
declino e la progressiva ripresa sindacale e politica degli anni Sessanta e Settanta.
Sempre alla luce degli avvenimenti successivi, la vicenda dei marittimi appare
esemplare per tre aspetti. Per la prima volta a Genova i protagonisti sociali di una
grande lotta – che funziona da “detonatore” e da traino per un movimento più ampio
– non appartengono alle figure sociali egemoni di riferimento per il movimento
operaio organizzato, da un lato gli operai professionali delle grandi fabbriche
metalmeccaniche, dall’altro i portuali. A Genova questa lezione non verrà sempre
tenuta presente nei decenni successivi. Il secondo aspetto è che si apre una nuova e
lunga stagione di ripresa sindacale dopo una radicale revisione strategica, a partire
dall’autocritica di Giuseppe Di Vittorio nel 1955. Si tratta di un percorso esemplare
di fuoriuscita “a sinistra” da una grave crisi politica del movimento operaio di
dimensioni nazionali e internazionali, dopo i fatti di Ungheria. Anche in questo caso,
8
purtroppo, quella straordinaria lezione in tempi più recenti non è stata tenuta molto in
considerazione, specie dalle organizzazioni politiche della sinistra.
Il terzo aspetto riguarda i contenuti più profondi della vertenza dei marittimi. Una
lotta così lunga e così impari, con una partecipazione così straordinaria e una tenuta
così eroica nei porti di mezzo mondo, non sarebbe stata possibile se gli obiettivi
fossero stati solo quelli salariali di un normale rinnovo contrattuale. Gli obiettivi veri
riguardavano qualcosa di più decisivo. Riguardavano la libertà e la dignità di uomini
e di lavoratori, la ribellione al sopruso, la volontà e la speranza di un riscatto. Questo,
in fondo, è l’elemento principale di una “continuità” che lega questa grande lotta a
quelle che la precedettero e a quelle che la seguirono: la libertà, sia che essa venga
cercata e affermata con i tratti classisti dell’operaio professionale che occupa la
fabbrica e dimostra di potere e di sapere produrre anche senza il padrone e le sue
burocrazie. Sia che essa venga cercata e affermata dal mozzo che a bordo non può più
accettare di rimanere una pedina in balia del suo comandante. Per questo terzo
aspetto esemplare, diversamente dai primi due, è possibile e necessario essere
ottimisti nel ribadire la stringente e tutt’altro che retorica attualità, pur in condizioni
storiche profondamente mutate.
L’ultima osservazione, poco più di uno spunto di riflessione, riguarda ancora
Genova. Nell’estate del 1959 e, ancor più, nell’estate del 1960 la città si trova al
centro della storia italiana, al crocevia di due fasi storiche. Non è la prima volta. Era
già successo sessant’anni prima con i cinque giorni al porto del dicembre 1900, il
primo sciopero generale che cambiò l’Italia, che costrinse alle dimissioni il presidente
del consiglio Saracco, alla guida di una maggioranza reazionaria e che aprì così una
diversa stagione politica dominata dalla figura di Giovanni Giolitti. Succede di nuovo
sessant’anni dopo e il 30 giugno 1960 conferma il ruolo nazionale della città
medaglia d’oro della Resistenza. Il 30 giugno chiude la stagione centrista e avvia una
nuova stagione dell’evoluzione politica e civile del Paese. Ancora una volta la molla
decisiva è la libertà. Ancora una volta i protagonisti principali sono i lavoratori e le
loro organizzazioni, a partire dalla Camera del Lavoro.


ID: 11563  Intervento da: camillo scala  - Email: doncamillo57@libero.it  - Data: giovedì 25 giugno 2009 Ore: 01:42

La ricerca di Camillo Scala attinge da notizie di prima mano legate ai ricordi, da Torreomnia e da un dossier cartaceo fornito dal maresciallo Peppe D'Urzo
Qui sotto il link diretto al sito dei marittimi Torre d'Amare


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