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Argomento presente: « NARRATIVA TORRESE »
ID: 1163  Discussione: NARRATIVA TORRESE

Autore: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Scritto o aggiornato: martedì 22 febbraio 2005 Ore: 18:59

Questa sezione, come quella sulla poesia, nasce allo scopo di promuovere la narrativa a Torre del Greco.
Non esiste narrativa torrese, escluso pochi casi sporadici.
E' bene ricordare l'episodio "'A figliata" nel famoso e famigerato romanzo "La pelle" di Curzio Malaparte. Con luogo e personaggi torresi.
Chiunque avesse racconti, novelle, romanzi nel cassetto si prega inviarli a Torreomnia insieme alla liberatoria e all'autorizzazione dei dati personali. Saranno pubblicati gratuitamente. Torreomnia è totalmente senza scopo di lucro.

Seguono stralci di Argenziano, Raimondo, Abbagnano e C.A. Ciavolino
Le cui versioni integrali troverete tramite i link in Torreomnia:

SALVATORE ARGENZIANO
"RICORDI"
hwww.torreomnia.com/testi/argenziano/ricordi.htm

Uno dei brani di narrativa più belli mai scritti su Torre. Una summa della terminologia torrese mai letta, pasolinianamente sperimentata nella lingua. Un crogiolo di emozioni oniriche. Un poema delle nostre parti.

(...) Il mattino del Sabato Santo
alla Cappella di Portosalvo
festanti partecipi di riti e canti
nell'attesa della Gloria
e delle pagnottelle odorose
cotte nel forno di campagna
con la farina bianca
dal mulino mandata
in gran segreto
per il capo andato militare.
Settimana Santa
mute le campane
chierici festanti
di don Bernardino
percorriamo il Corso
con la taccarella ad annunciare le Funzioni
e scandire le ore canoniche.
Profumi di acqua di millefiori
e di grano cotto nel latte
per le pastiere
e di tortani e casatielli
dai forni di campagna
invadono la loggia
e i nostri giochi interrotti
ai richiami delle vecchie zie,
non fate vernia
il nipote sacerdote
custodi delle devozioni,
alla mestizia del Santo Giorno.
Fili esili paglierini
pallidi steli appena nati
di grano coltivato nell'ombra
della consolle ammantata
spiando curiosi e impazienti,
in ciotole e vasi smaltati
colmi di segatura,
per gli addobbi rituali
alla Cappella di Portosalvo.
Lo struscio tre, cinque, sette le soste,
bisogna dare la mano ai grandi
non perdersi nella folla,
vestiti a festa e compunti
ma non è festa,
dalla Cappella a sopra la Ripa
Santa Maria, l'Assunta, il Cappellone
drappi viola e meste orazioni
tra fumi e afrore di ceri,
storditi si ridiscende
alla freschezza del mare
ai profumi delle preparazioni
per il sabato di Gloria.
Per la Gloria a mezzogiorno
sul campanile aperto al mare
a suonare le campane
tra le cento voci delle barche
la pacifica sirena del mulino
alto sulla roccia
in fondo al porto,
il grigio bruco di lamiere
sul molo fino alla lopa il martellare dei calafati
dal cantiere sulla Scarpetta,
il su giù, su giù dei segatori,
uno gobbo sul pezzo in alto
e sotto in ginocchio a tirare l'altro.
Inebriati da tanti suoni
e dal familiare odore
di stoppa e catrame,
di mare e nafta del porto,
ci contendiamo le cordicelle
delle campane (...)


CICCIO RAIMONDO
"LA PRIMA VOLTA DI ENZUCCIO"
www.torreomnia.com/Testi/raimondo/enzuccio01.htm

E' un Ciccio desueto, lontano dalla sua storiografia riallacciata a quella paterna, distante ma ricucibile all'inimitabile e letterariamente ben messo "La prima volta di Enzuccio" che potete leggere in questa sezione. Più che un fatto d'arte l'autore ha inteso qui comunicare, lanciare un messaggio sociale, ampio, ad estuario: protesta, dubbio, domanda, risposta, grido, rabbia, gioia, rammarico, dolore ed in alcuni passi: preghiera.

(...) Umberto a modo suo aveva nel frattempo descritto ad Enzuccio la donna che avrebbe incontrato di lì a poco ricevendone il solito consenso di quelli che già "c'erano stati", e che ne dicevano un sacco di bene. "Ato che Peppenella 'a corta! Chella 'nzvosa!". Il prezzo era un poco più alto, ma ci avrebbe pensato 'u capuocchio a prestargli l'eccedenza. "Mo vide che bella patana!".
Lì, nell'agglomerato delle antiche costruzioni che da un lato affacciavano direttamente sul mare e dall'altro sul largo e dritto Corso Garibaldi, nei pressi di uno dei tanti "magazzeni" da sempre adibiti al riparo delle barche, delle reti, insomma della varia attrezzeria marinara, ve ne era uno più defilato, usato come abitazione. Si fermarono quindi in una specie di cortile assai largo e profondo ove troneggiava da un lato l'ossatura di una barca in costruzione lunga sette o otto metri e tutt'intorno tavole di pino per terra o appoggiate in orizzontale ai muri a stagionare assieme a tronchi di gelso, di quercia, di noce. In un angolo neri bidoni bucherellati. Un grosso e lungo tronco di pino, più discosto, giaceva su alti e massicci cavalletti dove aspettava l'opera dei segatori. La comitiva si aggirava tra questi oggetti quasi in una sorta di oscurità.
Dal vicino corso giungeva, infatti, una luce già smorzata che illuminava la scena di sbieco facendo risaltare le ombre delle tavole alle pareti, lo scheletro della barca, i bidoni coi buchi. Del mare pure così vicino, non si sentiva più la presenza, mentre nei nasi i ragazzi sentivano un forte odore di segatura, di bitume e di legno bruciato. Si stava tutti a guardare le due grosse ante semiaperte del "magazzeno" abitazione di Nannina 'a rossa e dalla quale si proiettava all'esterno una debole striscia di luce, quando, "Giggino 'u fil' 'i fierro" diede in un grido smorzato: "Maronna!!" Una grossa zoccola, come un'ombra nera gli era passata sui piedi schizzando improvvisa da sotto a un tavolone di pino su cui stava per sedersi.
Il trambusto che seguì fu chetato dalla comparsa sulla porta, ora aperta a metà, di un vecchio in bianca camicia a maniche corte, sbottonata, ed in pantaloni chiari molto larghi. Teneva una sigaretta accesa tra le dita, come fosse la bacchetta di musica, ed essa fendeva l'aria scura seguendo e segnando il ritmo delle sue parole. "Ohe! che sta succerenn' ccà ffor'?!!" - "'A fernit' 'i fa' 'sta 'mbricciat' ?!!" - "E jamm'!". Umberto subito gli si avvicinò e a voce bassa tentò di spiegare: "No, don Anto', nuie, simme venut' pe'... po' 'a zoccola..." - "Qua' zoccola?!" ribattè l'anziano che si stava quasi incazzando. "Ma no, 'a figlia vosta, Nannina, ce sta?". Il vecchio dovette finalmente riconoscerlo come uno dei nuovi giovani clienti e si rabbonì subito, chiedendo quanti erano a voler entrare. "Capuocchio", riprendendo tono, rivolto ai suoi fece segno di allontanarsi, poi gli presentò Enzuccio: "Chist' 'u giovine è amico mio e vuless'..." e senza finire la frase gli pose nella mano, che aveva gettato il mozzicone, le banconote necessarie. I tre entrarono e si socchiuse la porta.(...)


"GRARIATELLE D''A CIUCCIARA"
ANTONIO ABBAGNANO
www.torreomnia.com/Testi/abbagnano/ciucciara.htm


L'Autore, con mano felice, pur raccontando cose e figure ormai lontane nel tempo: la riffa di vicolo, i raccoglitori di cicche, i merzuni, la squilla del banditore, la lavorante del corallo, riesce qui, con rara maestria, ad evitare la trappola della nostalgia e allora, più che la tenerezza del ricordo e dei ricordi, viene fuori, viva e palpabile, la rabbia ed il rimpianto di quanto di vivo e stato brutalmente sprecato, sepolto e sacrificato in nome di una presunta modernità calcolabile in denaro sonante. E non basteranno, certo, le 4ve d'acqua che ancora scorrono, quando piove, nei vicoli in discesa, a lavare certi peccati.

I pensieri e i sogni delle due donne vengono improvvisamente distratti dalla voce di un femminiello evidentemente molto conosciuto, che vende numeri per la riffa degli oggetti che sono nel paniere sottobraccio. E' magrissimo, vestito con abiti dismessi e strettissimi ed ha ovviamente movenze effeminate. Appena riesce a liberarsi degli scugnizzi che saltellandogli intorno lo irridono, elenca gli oggetti che costituiscono il premio della riffa.
In modo teatrale incomincia:
"A mano è llibera! (agitando il panariello)
jamme ch'è l'urdemo! A mano è llibera!
o salame d'a vuzzulosa
v'o' magnate fella fella
e ve lasse a vocca bella!
A spina e Don peppino l'elettricista
tu 'a'n file e se schiara 'a vista
c'o cafè e Don Ciro Ignarra
o sapore nun se sgarra
ch'e deliziose 'e Filippiello
saglie 'o ddoce int'o cerviello
ddoje ove fresche 'e fiucchella
e te faje 'na bella frittatella
e pe' parià ch'ello e chest'ato
Don Vicinzino o farmacista
offre cremone e cetrato.
A mano è llibbera! Jammo ch'è ll'urdemo!!!"
Riesce a vendere due numeri alle donne e va via ancheggiando e gridando:" accattateve 'o nummero, che ve facce vencere 'o panaro mio".
Circa unìora dopo, il femminiello ritorna alle grariatelle col numero estratto tra le dita:"è asciute 'u 29, huè huè, chi ho tene 'u vintinove ?".
Purtroppo non riuscirà atrovare il vincitore della riffa e, malgrado sia contento che non abbia dovuto consegnare i premi del cesto, commenta amareggiato con le donne:" Signurì, ccà nun ho tene mai nisciuno u 29! Gnesì, comme se dice:" ciorte e...29 bbiate chi llave!".
"A chi u dicite a mme, giuvino', rispose Agnesina, c'haggio passato 'a vita cercannolo."
Intanto Giovanni il calzolaio stava uscendo dal basso , due "grariatelle" piu' giu', nel quale abitava e dove abitualmente svolgeva la sua attività di ciabattino . in quel periodo però non portava fuori gli arnesi di lavoro , perche', avvicinandosi il natale, la sua personalità' subiva come ogni anno la metamorfosi artistica per cui già da un mese aveva incominciato a costruire solo pastori per il presepe.
Su un tavolo accanto all'ingresso poggiava con delicatezza i San Giuseppe, le madonne, i buoi, gli asinelli, le lavandaie, i re magi, i benino, insomma tutti i personaggi del presepe già pronti per essere venduti e, con grande impegno e concentrazione , cominciava a rifinire quelli già abbozzati.
Quando Giovanni si affacciava all'uscio del basso, sufenella, evidentemente interessata a lui, cercava in mille modi di attirarne l'attenzione:
"don giuva'( disse una volta togliendosi una scarpa) 'cca 'nce vulessere 'ddoje centrelle".


CIRO ADRIAN CIAVOLINO
"COMETE"
www.torreomnia.com/Testi/abbagnano/ciucciara.htm


Si rincorrevano laggiù stagioni
quando l'inverno era l'inverno
e primavera primavera.
Quella gialla, quella rossa,
no, voglio quella azzurra:
una lira in più anche le frange,
una lira in più quattro colori,
oh, le belle comete
ai dolci venti di quelle primavere,
poche lire alle vecchiette magre,
eterne come fossero scolpite
di stessa pietra come quella lava
eppure fragili come il fragile mosaico
che pareva quella casa
piene di carta veline colorate,
di figure di santi, di cose marinare.
rotolavano su quelle scale
i nostri mesi
lungo l'estate quando quasi ignudi
correvamo al mare,
sotto i nostri piedi sole e luna
e argento di maestrale e rosa di conchiglie.
Fino in fondo al tempo del presepe
quando incantati alla bottega del pastoraio
tintinnava la piccola moneta
per San Giuseppe e il cacciatore
e un altro giorno l'angelo,
mercanti, benino, l'asinello, suonatori.
Finì laggiù la mia innocenza,
su quelle scale frantumate d'azzurro
e d'amore di mia madre-paese
ora distrutte
dalle belle idee-danaro
delle teste lucide di smalto
piene di cervella a sei cilindri.
muore così la mia città.


CLELIA SORRENTINO
"ZINGARA"
www.torreomnia.com/testi/cleso/zingara.htm

Direttrice del giornale "La Torre"da sempre. Nipote del Direttore fondatore Luigi Sorrentino. Tra le poche italiane insignite della Commenda della Repubblica, flegrea, pervasa dallo spirito di una terra che sa essere solo prodiga di creatività e poesia, vanta le sue origini puteolane, mentre continua a dividersi tra i tetti romani di Via dei Coronari e le pendici vesuviane di Torre del Greco.

(...) OSVALDO: Ora che ne sarà di me? Ho perduto il mio timone, il mio faro. (Parla al telefono, anzi grida perché sua madre Generosa e corta d’orecchie, tatt’intorno tek, pennelli) Se ne e andata! Eppure non le mancava niente... Che dici? Ma si, ha trascinato con sé tutte le cianfrusaglie, come le chiami tu; 1’armadio e vuoto, non aveva molta roba... Le solite manie tue... No, che non ha rubato niente! Donna essenziale non accumulava, non aveva bisogno di specchi, disdegnava gli orologi che schiavizzano 1’uomo, seguiva ritmi naturali, senza forzature e quando qualcosa era di troppo, via...
Anche le poche foto scattate da me, sparite con i negativi; documenti non ne possedeva. Certo, ha lasciato tutto in ordine, asettico come lei. Ora che ci penso era incapace di sentimenti, eppure tu lo sai, non le ho fatto mai mancar niente. Eppoi pareva soddisfatta del suo stato; faceva da padrona qui, entrava, usciva quando voleva; nessun controllo, io sempre fuori dai piedi. Direi che era felice.
Quando venne la prima volta non credeva ai propri oc- chi, quasi ci aveva i lucciconi, come a dirmi: - Te fortunato, e mai possibile che solo alcuni godano di questa pace? Ne avrei diritto anch’io! - (Rimira fuori dai balconi lo scenario della costiera dispiegato in tutta la selvaggia bellezza dinanzi alla sua disperazione).
Poi con l’andar del tempo, la routine... Ogni cosa scontata, come dovuta, fauana smorfia di scontento). Un posto di sogno, mare cielo silenzio. Sono io ora a non avere più la mia pace.
(Urla dalla cornetta) Da tutto il mondo vanno vengono, ci lasciano il cuore quando sono costrette ad abbandonare queste meraviglie, e lei che dava la caccia al sole, le ho offerto perfino 1’occasione di un corso di perfezionamento di violino col Grande Vegliardo, ma un’apprendista stregona e indocile ad insegnamenti, a regole, poi sfortuna volle che Lui si ammalasse, lo tengono in vita senno la Fondazione a suo nome addio, con quelle fottutissime dialisi e Hebo continue; lei che con il sole aveva incontrato me, giovane artista, 1’amore; viveva da gran signora in una casetta di campagna, con ingresso indipendente, servita no, ma certamente riverita: donna Miriam di qua, donna Miriam di la, come ad una grande dama, i miei omaggi, i miei rispetti, bacio le mani, e nessuno a chiederle dei suoi trascorsi, io, discretissimo, meno che mai.
Non conosceva neanche bene la nostra lingua all’inizio, lo strano e che non faceva il minimo sforzo per impararla, ci si comprendeva a sguardi, fra dialetti e slang napoletano ed americano, poi, d’un colpo, la conosce a menadito. L’unica persona che frequentasse: quella zitellaccia per vocazione, poco importa se qualcuno se la e filata per qual- che tempo, della mia inquilina, affittuaria nostra da una vita, quell’essere impossibile che occupa con la mole sua il casolare decine di scale più in su del nostro.
La snob maledetta, li arroccata estate e inverno, per settimane curva sulla macchina da scrivere, lei e le sue infernali spy-storie che chi ci capisce niente! Come si chiama? Boh, pure la memoria fa cilecca; ah, si, Angela Marini. (...).


 
 

ID: 1177  Intervento da: Torreomnia amministratore  - Email: info@torreomnia.com  - Data: martedì 22 febbraio 2005 Ore: 18:59

Purtroppo questa è un altra sezione destinata a rimanere deserta. La narrativa a Torre del Greco è agonizzante. Vedi pure discussione sulla poesia.
L'amministratore


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