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Argomento presente: « GRANDE SCRITTORE SCRISSE SU TORRE »
ID: 1354  Discussione: GRANDE SCRITTORE SCRISSE SU TORRE

Autore: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Scritto o aggiornato: lunedì 30 aprile 2012 Ore: 22:22

SCRITTORI FAMOSI
AMBIENTARONO A TORRE DEL GRECO EPISODI  INQUIETANTI

DAL FAMOSO LIBRO "LA PELLE"

'A FIGLIATA
DI CURZIO MALAPARTE


L’identificativo di risposta 1350 alla discussione "Torre del Greco, malgrado tutto ti amo", ha mosso un paio di e-mail sulla mia posta privata dove mi si chiede uno stralcio del tremendo, caustico capitolo "la figliata" di Malaparte, ambientato a Torre del Greco.. Ho trovato una copia del 67 ed ho scannerizzato la parte saliente del capitolo e poi convertito in ASCII col l’OCR..
Ma perché, benedetti!, non scrivete sul forum direttamente?. Non ci sono Lupi, qui! Forse agnelli o anielli, ma nessuno vi sbrana.

(Se ne SCONSIGLIA la lettura ai BAMBINI se non insieme ai genitori).

"La pelle" è stato tradotto in tutte le lingue, in tutto il mondo. Malaparte è stato uno dei maggiori scrittori italiani del XX secolo.
Pubblico solo questo stralcio del capitolo "Il Figlio di Adamo" de "La pelle" soprattutto perché è totalmente AMBIENTATO A TORRE DEL GRECO, "ABBACIAMMARE". Pubblico solo la seconda parte del capitolo, il clou, perché l'opera è ancora coperta dai diritti di autore, poiché la morte di Curzio non ha ancora raggiunto i settant'anni e un giorno perché ne decada il copyright del 1949 Vallecchi editore - Firenze. Edizione del 1987.

Curzio Malaparte era un parlatore squisito e un grande ascoltatore pieno di tatto e di eucazione. Un uomo di cultura eccezionale, conosceva molte lingue. Da un pamphlet letterario Kurt Erick Suckert scelse lo pseudonimo di Curzio Malaparte e mai pseudonimo fu più appropriato.
Nelle introduzione dei suoi numerosi libri . tutti di grande successo mondiale si legge che Curzio cambiò “parte” frequentemente, tanto da essere considerato da molti un voltagabbana a causa delle diverse scelte ideologiche che intraprese. Dal repubblicanesimo al fascismo, dall’antifascismo al comunismo e in ultimo alla conversione verso il cattolicesimo.
Personaggio complesso, come solo l’intelligenza, la genialità può essere. Incoerente, stravagante ma allo stesso tempo dotato di una gran logica e una grande passione. Uomo di gran gusto, dai gesti paradossali e bizzarri come sono tutti i “maledetti toscani”.
Uno degli scrittori italiani più indipendenti del XX secolo, «la più bella penna del fascismo» lo definì Piero Gobetti.
Malaparte, di padre tedesco e madre italiana, nacque a Prato il 9 Giugno 1898. Morì nel 1957.
Nehgli anni 80 fu realizzato anche un film del libro interpretato, tra lì
Questo capitolo mette in risalto la maestrìa stilistica dello scrittore. ‘altro, da Marcello Mastroianni e Burt Lankaster.
In questo capitolo ambientato a Torre, eccelle il linguaggio figurato, le metafore, egli costruisce la "pagina", adulta è straordinaria, come in tutti i suoi libri. "La Pelle" fu messa al "bando morale" dalla città di Napoli.
Il libro è un crescendo di doglianze e miserie della Napoli del dopoguerra. Oggi, a freddo, le ferite della guerra si sono rimarginate e la cosa viene vista da un'ottica diversa. “La pelle”, insieme a “Kapput” e altri rimane un capolavoro della letteratura universale del 900.
Quasi tutti i libri di Malaparte sono autobiografici, infatti egli narra sempre in prima persona. Davvero era un ufficiale italiano alleato agli americani liberatori e ne faceva da cicerone e da guida condividendone moltissimi eventi.
(Mi raccomando i bambini).

IL FIGLIO DI ADAMO

II giorno dopo, il Colonnello Jack Hamilton mi portò con la sua macchina a Torre del Greco. (Torre viene citata e descritta con particolari urbani più volte nelle prima parte del capitolo N.d.r,). L’idea di assistere a una «figliata, l’antica cerimonia sacra del culto uraniano, lo divertiva e, al tempo stesso, lo turbava. La sua coscienza puritana lo metteva in sospetto, ma io avevo finito per addormentare i suoi scrupoli. Non era forse un americano, un vincitore, un liberatore. (...)

(...) Era una povera stanza di pescatori, ingombra di un immenso letto nel quale, sotto una coperta di seta gialla, giaceva, uomo o donna, un vago essere umano: la testa, affondata in una candida cuffia orlata di merletti e stretta sotto il mento da un largo nastro azzurro, posava in mezzo a un ampio e gonfio guanciale dalla lucida federa di seta bianca, come una testa mozza in un piatto d’argento.
Nel viso bruciato dal sole e dal vento splendevano gli occhi grandi e scuri. Aveva la bocca larga, dalle labbra rosse ombreggiate da un paio di baffetti neri. Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni.
Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e la sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una femminile camicia da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambo le mani, cantando: « ohi! ohi misera me! » il ventre stranamente gonfio, proprio il ventre di una donna incinta.
Intorno al letto, Jeanlouis e i suoi amici si agitavano premurosi e spaventati, come in preda all’angoscia che stringe il cuore dei familiari intorno al capezzale di una partoriente: e quale rinfrescava con pezzuole bagnate la fronte del paziente, quale, versati in un fazzoletto aceti e aromi, gliel’accostava alle nari, quale preparava asciuga- mani, garze, bende di lino, quale si accendeva intorno a due catinelle dove una vecchia dal viso grinzoso, e dai grigi capelli arruffati, con gesti lenti e studiati, in contrasto con 1’angoscioso dondolar del capo, con i sospiri affannosi che traeva dal petto, con gli sguardi imploranti che alzava al cielo, andava versando acqua calda da due brocche che sollevava e abbassava ritmicamente.
Tutti gli altri correvano senza posa qua e la per la stanza, incrociandosi, urtandosi, stringendosi il capo fra le mani, e gridando: « Mon Dieu! mon Dieu! » ogni volta che il partoriente gettava un urlo più acuto, o un gemito più straziante. In piedi in mezzo alla stanza, con un enorme pacco di cotone idrofilo stretto fra le mani, dal quale con gesto solenne veniva traendo larghi fiocchi di bambagia. Era una povera stanza di pescatori, ingombra di un immenso letto nel quale, sotto una coperta di seta gialla, giaceva, uomo o donna, un vago essere umano: la testa, affondata in una candida cuffia orlata di merletti e stretta sotto il mento da un largo nastro azzurro, posava in mezzo a un ampio e gonfio guanciale dalla lucida federa di seta bianca, come una testa mozza in un piatto d’argento.
Nel viso bruciato dal sole e dal vento splendevano gli occhi grandi e scuri. Aveva la bocca larga, dalle labbra rosse ombreggiate da un paio di baffetti neri. Era un uomo, senza dubbio, un giovane di non più di vent’anni. Si lamentava cantando a bocca aperta, e dondolava la testa qua e la sul guanciale, agitava fuor dei lenzuoli le braccia muscolose strette nelle maniche di una femminile camicia da notte, come se non potesse più sostenere il morso di qualche sua crudele doglia, e ogni tanto si toccava con ambo le mani, cantando: « ohi! ohi misera me! » il ventre stranamente gonfio, proprio il ventre di una donna incinta.
Intorno al letto, Jeanlouis e i suoi amici si agitavano premurosi e spaventati, come in preda all’angoscia che stringe il cuore dei familiari intorno al capezzale di una partoriente: e quale rinfrescava con pezzuole bagnate la fronte del paziente, quale, versati in un fazzoletto aceti e aromi, gliel’accostava alle nari, quale preparava asciuga- mani, garze, bende di lino, quale si accendeva intorno a due catinelle dove una vecchia dal viso grinzoso, e dai grigi capelli arruffati, con gesti lenti e studiati, in contrasto con 1’angoscioso dondolar del capo, con i sospiri affannosi che traeva dal petto, con gli sguardi imploranti che alzava al cielo, andava versando acqua calda da due brocche che sollevava e abbassava ritmicamente. Tutti gli altri correvano senza posa qua e la per la stanza, incrociandosi, urtandosi, stringendosi il capo fra le mani, e gridando:
« Mon Dieu! mon Dieu! » ogni volta che il partoriente gettava un urlo più acuto, o un gemito più straziante.
In piedi in mezzo alla stanza, con un enorme pacco di cotone idrofilo stretto fra le mani, dal quale con gesto solenne veniva traendo larghi fiocchi di bambagia che, lanciati in aria, gli ricadevano intorno lentamente come una tiepida neve da un cielo luminoso e caldo, Georges pareva la statua dell’Angoscia e del Dolore.
« Ohi! ohi! misera me!” cantava il partoriente picchiandosi con ambo le mani nel ventre gonfio, che risuonava come un tamburo, e il tonfo profondo di quelle forti dita di marinaio in quel ventre di donna incinta suonava crudelissimo a Georges, che chiudeva gli occhi, smorto in viso e tremante, e gemeva:
« Mon Dieu! ah! mon Dieu! »
Non appena Jeanlouis e i suoi amici si accorsero di noi, che, fermi sulla soglia, contemplavamo quella scena straordinaria, ci furono addosso con un grido solo: e con timidi gesti, con violenza pudica, con cento specie di smanie e di mossette graziose, con leggere toccatine che parevano carezze, con sospiri che parevan di spavento, ed eran quasi, di piacere, tentavano di spingerci fuor della porta.
E sarebbero forse riusciti nel loro intento, se all’improvviso un grido altissimo non fosse risuonato nella stanza. Tutti si voltarono, e con un mugolio di dolore e di spavento si avventarono al letto. Pallido, gli occhi sbarrati, le due mani strette intorno alle tempie, il partoriente sbatteva il capo qua e la sul guanciale, gridando con voce acutissima. Una bava sanguigna gli schiumava intorno alle labbra, e grosse lacrime gli solcavano il bruno e maschio viso, imperlandogli i neri baffi.
« Cicillo! Cicillo! “ grido la vecchia gettandosi sul letto, e, ficcate le mani sotto le lenzuola, soffiando, facendo schioccar la lingua, sconciamente rumoreggiando con le labbra, stralunando gli occhi, e traendo su dal profondo del seno gorgoglianti sospiri, andava travagliando intorno a quel gonfio ventre, che ora si alzava, ora si abbassava, don- dolando goffamente sotto la coperta di seta gialla.
Ogni tanto la vecchia urlava: « Cicillo! Cicillo! non aver paura, ci songo io acca! » e pareva che, afferrata con le due mani qualche schifosa bestiaccia nascosta sotto le coltri, tentasse di strozzarla. Cicillo giaceva a gambe larghe, schiumando dalla bocca, invocando:
« San Gennaro! San Gennaro aiutatemi! » e sbatteva la testa qua e la con cieca violenza, invano trattenuto da Georges che, piangendo e con soavissima tenerezza abbracciandolo, badava a impedire che si ferisse il capo contro i ferri del letto. A un tratto la vecchia si mise a tirare a se con ambo le mani qualcosa fuor del ventre di Cicillo, e finalmente con un grido di trionfo strappo, sollevo in alto, mostro a tutti una specie di mostriciattolo di colore scuro, dal viso grinzoso sparso di macchie rosse.
A quella vista, tutti furono invasi da una gioia furiosa, si abbracciavan l’un l’altra lacrimando, si baciavano in bocca, e saltando e gridando si stringevano intorno alla vecchia che, ficcate le unghie nella scura e rugosa carne del neonato, lo andava sollevando al cielo, quasi 1’offrisse in dono a un qualche Dio, e gridava:
« Oh benedetto! oh benedetto dalla Madonna! o figlio miracoloso! ». Finche tutti, come invasati, si misero a correre qua e la per la stanza, a fare il verso del bambino appena nato, a frignare, a piangere con voce acutissima allargando la bocca fino agli orecchi e stropicciandosi gli occhi con i pugni chiusi: « Ih! ih! ih! ih! ih! ».
Strappato alle unghie della vecchia, e passando di mano in mano, il neonato giunse finalmente al capezzale di Cicillo: che, drizzandosi a sedere sul letto, il bel viso maschio e baffuto illuminato da un dolcissimo sorriso materno, apriva le muscolose. braccia al frutto delle sue viscere.
« Figlio mio! » grido, e afferrato il mostriciattolo se lo strinse al seno, se lo strofino contro il villoso petto, gli coprì il viso di baci, se lo cullo a lungo fra le braccia, canterellando, e alla fine, con un bellissimo sorriso, lo tese a Georges. Quel gesto, nel rito della « figliata », significava che 1’onore della paternità spettava a Georges: il quale, accolto nelle aperte mani il neonato, si mise a palleggiarlo, a vezzeggiarlo, a baciarlo, mirandolo con occhi ridenti e lacrimosi. Io guardai il bambino, e inorridii.
Era un’antica statuetta di legno, un feticcio rozzamente scolpito, e pareva uno di quei simulacri fallici dipinti sulle pareti nelle case di Pompei. Il capo aveva piccolissimo e informe, le braccia corte e scheletriche, il ventre gonfio enorme, e dal basso del ventre sporgeva un fallo di grossezza e di forma mai viste, quasi la testa di un fungo velenoso, rossa e sparsa di macchioline bianche. Dopo aver mirato a lungo il mostriciattolo, Georges se lo accostò al viso, appoggio le labbra sulla testa di quel fungo, e l’andava baciando e mordendo.
Era pallido, sudato, ansante, e gli tremavan le mani. Tutti gli si strinsero intorno squittendo, sollevando e agitando le braccia, e facendo a gara per baciare quello schifoso fallo, con un furore che aveva del meraviglioso e dell’orribile. In quel momento, dal fondo delle scale, una voce forte grido: « I spaghetti! i spaghetti » e un odore di pasta cotta e di salsa di pomodoro entro con la voce nella stanza.
A quel grido Cicillo getto le gambe fuori del letto, e appoggiata una mano sulla spalla di Georges, quasi abbracciandolo, con 1’altra pudicamente stringendosi al petto i lembi della camicia, si sollevo, poso i piedi sul pavimento: adagio adagio, con gesti graziosi, con flebili sospiri, con languidi sguardi, sorretto e sospinto da dieci braccia amorose, si mosse, e avvolto in una vestaglia di seta rossa, che la vecchia gli aveva gettato sulle spalle, si avvio gemendo verso la porta. E tutti gli tenemmo dietro.
Il pranzo incomincio. Prima vennero gli spaghetti, poi il fritto di triglie e di calamari, poi il manzo alla genovese, e da ultimo la « pastiera » dolce, che e una torta napoletana di pasta all’uovo ripiena di ricotta. Jack ed io, seduti in fondo alla tavola, osservavamo in silenzio, assai più turbati che divertiti, gli atteggiamenti dei varii personaggi di quella singolare commedia, aspettandoci da un momento all’altro che qualcosa di straordinario accadesse.
Tutti mangiavano e bevevano lietamente, invasi da un’ebbrezza che, dapprima languida, a poco a poco prendeva fuoco, diventava furore amoroso, gelosa rabbia. A un’incauta parola di Georges, che, rosso in viso, la fronte appoggiata sulla spalla di Cicillo, fissava i suoi amici, e rivali, con sguardo cattivo, Jeanlouis a un certo punto si mise a piangere, cosi mi par- ve, di dispetto: e quale non fu la mia meraviglia, quando mi accorsi che il suo dolore era vivo e sincero, e che vera- mente soffriva. Lo chiamai per nome, e tutti si volsero verso di me sorpresi e irritati, quasi avessi turbato una scena sapientemente architettata e recitata. Jeanlouis continuo a piangere a lungo, e non mostro di rasserenarsi se non quando Cicillo, alzatosi languidamente dalla sua sedia, gli si accosto, e baciatolo dietro 1’orecchio prese ad accarezzargli i capelli, parlandogli a voce bassa con uno straordinario accento di tenerezza, visibilmente mosso, tuttavia, più che dal desiderio di lenire il dolore di Jeanlouis, dal perfido piacere di eccitare la gelosia dei suoi rivali. Visto in piedi, e da vicino, Cicillo appariva assai più giovane di quanto non paresse disteso nel letto.
Era un ragazzo di non più di diciotto anni, e bellissimo. Ma quel che mi turbo, fu la perfetta naturalezza dei suoi modi e dei suoi accenti, quella sua aria di attore espertissimo d’ogni gioco scenico. Non solo non pareva intimidito, o vergognoso, della sua strana acconciatura, ne della parte che recitava, ma quasi si mostrava fiero del suo travestimento e della sua arte. Dopo aver alquanto vezzeggiato Jeanlouis, torno a sedersi in capo alla tavola, e in breve, fosse il calore del cibo, Fosse il fuoco del vino, o 1’aria viva del mare, pareva a poco a poco perdere alcunché della sua, se cosi si può dire, femminile pudicizia.
I suoi occhi si accendevano, la sua voce veniva facendosi forte, si arricchiva di timbri maschi e sonori; sotto la pelle, bruciata dal sole, i muscoli si sveglia- vano, e gia guizzavano per le spalle e per le braccia; le mani a poco a poco diventavan virili, le dita si facevan nodose e dure. Quel fatto mi dispiacque, sembrandomi che un tal cambiamento accentuasse in modo troppo scoperto ciò che di sgradevole aveva quella commedia, e i sottintesi che essa proponeva, o celava. Ma, come poi seppi, anche quel- la inattesa metamorfosi faceva parte della « figliata », era anzi il momento più delicato del rito: e non v’era «figliata” che non terminasse con la cerimonia, diciamo cosi, del babiamano. Cicillo, infatti, si mise a un certo punto a eccitar con la voce e coi gesti i commensali, alle parole e ai gridi affettuosi mescolando insulti e lazzi scurrili, finche, levatosi in piedi e con ampio gesto regale toltasi la cuffia dalla fronte come se si togliesse una corona, si guardo fieramente intorno, dischiuse le labbra a un sorriso di trionfo e di disprezzo, scotendo la testa dai neri capelli ricciuti, e all’improvviso, rovesciata con un calcio la sedia, si diede a fuggire verso , la casa, infilo la porta, lancio un riso stridente, e sparì. Tutti si alzarono, e con acuti gemiti di dolore e di rabbia lo inseguirono, scomparvero nell’interno della casa. « Come on! x mi grido Jack afferrandomi per un braccio e trascinandomi con se. Mi accorsi che era pallido, e che grosse gocce di sudore gli imperlavan la fronte. Salimmo di corsa le scale, e ci affacciammo alla porta. Cicillo era rovesciato sul letto a gambe larghe, e sollevato sui gomiti fissava Georges con uno sguardo nel quale luc- cicava qualcosa d’ironico e, insieme, di minaccioso.
Georges stava in piedi davanti a lui, immobile, ansando forte, quasi appoggiato con la schiena al gruppo dei suoi amici, che gli facevan forza col petto contro le spalle. A un tratto, con un grido che suono meravigliosamente orribile al mio orecchio, Georges cadde in ginocchio davanti a Cicillo, e con un mugolio d’amore e di dolore gli immerse il viso fra le cosce.
Con un moto lento, pesante, quasi cattivo, il giovane si volse, si stese con la faccia sul letto, offrendo le natiche magre e muscolose: selvaggiamente gridando e piangendo, Georges gli baciava, gli mordeva le natiche, e intanto si andava spogliando in furia, si sbottonava, si calava i calzoni, e tutti, gridando e piangendo, si sbottonavano, si calavano i calzoni, si buttavano in ginocchio, si baciavano, si mordevano 1’un 1’altro le natiche, trascinandosi carponi per la stanza con un mugolio puerile e feroce. Jack mi stringeva il braccio con forza terribile, tutto sbiancato in viso. Gli vedevo tremare le labbra, appannarsi gli occhi, gonfiarsi le tempie.
« Go on, Malaparte, go on! - balbettava, « oh! go on, Malaparte! prendilo a calci, prendilo a calci nel sedere, oh, Malaparte! non ne posso piu, Malaparte, prendilo a calci nel sedere, oh, go on, Malaparte, go on! »
« Non posso, Jack, » rispondevo, « proprio non posso, Jack, non sono che un italiano, un povero vinto, non pos- so prendere a calci un eroe. Georges è un eroe, Jack, un eroe della liberta, Jack, io non sono che un povero disgraziato, un povero vinto, non ho il diritto di prendere a calci nel sedere un eroe della liberta, Jack, non ne ho il diritto, ti giuro che non ne ho il diritto, Jack! ».
« Oh, go on, Malaparte! » balbettava Jack, tutto sbiancato in viso e tremante, « je m’en fous des heros, Malaparte, oh! je t’en supplie, jette lui ton pied dans le derriere, oh, Malaparte! jette ton pied dans le derriere a tous ces heros, io non posso, sono un Colonnello americano di Stato Maggiore, non posso fare uno scandalo, ma tu, Malaparte, oh, Mala arte! toi, tu peux, tu es un Italien, tu es chez toi, oh Malaparte, go on, Malaparte, go on!
« Non posso Jack, » gli dicevo, « non posso prendere a calci nel sedere quegli eroi della liberta, anch’io me ne fotto degli eroi, ma non posso, Jack, proprio non posso!
« Ah, tu hai paura! » balbettava Jack, stringendomi il braccio con forza.
« Si, ho paura, Jack, lo confesso, ho paura. Tu non sai di che cosa sia capace quella bella razza di eroi! tu non sai com’e vigliacca e malvagia quella razza d’eroi! Si vendicherebbero, mi manderebbero in galera, mi rovinerebbero, Jack, tu non sai come son vigliacchi e malvagi i. pederasti, quando si mettono a far gli eroi! »
« Hai paura! Anche tu sei un vigliacco! go on, you ba- stard! » balbettava Jack fissandomi in faccia con gli occhi scintillanti.
« Ho paura, Jack, lo confesso, ma non sono un vigliacco, Jack, sono un povero disgraziato, un vinto, Jack, e ho paura.
Anch’io muoio dalla voglia di pigliarli a calci nel sedere, Jack, ma ho paura. Tu non sai, Jack, com’è carogna quella razza d’eroi! »
”Oh, go on, Malaparte, go on!” - balbettava Jack ficcandomi le unghie nel braccio,
« oh, je t’en supplie, Malaparte, go on, go on! » « Non posso, Jack, non posso, ho paura. Tu sei un americano, sei un Colonnello americano, tu puoi far tutto quel- lo che vuoi, Jack, ma io non sono che un italiano, un povero italiano, vinto e umiliato, e non posso, Jack! Tu non sai quanto sono carogne e vigliacchi i pederasti, quando si mettono a far gli eroi della liberta! Oh, perdonami, Jack, ma non posso, proprio non posso, Jack! »
« Go on, Malaparte! Je t’en supplie, go on! » balbettava Jack. E a un tratto, buttandomi da parte con un pugno nel fianco, si getto su Georges, gli avvento un terribile calcio nelle grasse e rosee natiche.
« Salauds! cochons! » gridava Jack, e menava calci all’impazzata, roteando per 1’aria, come una clava, il mostriciattolo di legno che egli aveva strappato dalle mani di Cicillo. Jack appariva in- vaso da un cosi cieco furore, che io ebbi paura per lui. Mentre Georges e i suoi amici, con acuti strilli femminili, e con alti gemiti, s’erano ammucchiati per terra ai piedi del letto (il solo che non mostrava ne stupore ne paura era Cicillo: che, seduto sulla sponda del letto, guardava Jack con uno sguardo pieno di ammirazione, esclamando: « che bell’uomo! che bell’uomo! »), io afferrai Jack per le spalle, lo strinsi fra le braccia, e quasi sollevandolo di peso mi sforzavo di trarlo indietro, di spingerlo verso la porta.
Finalmente riuscii a dominarlo, a trascinarlo giù per le scale, a infilarlo nella macchina. Mi misi al volante, accesi il motore, voltai, imboccai la stradetta, e via di corsa.
« Oh, Malaparte! » gemeva Jack coprendosi il viso con le mani, « on ne peut pas voir ces chosesla, non, on ne peut pas! »
« Beato te, » gli dissi, « beato te che sei un uomo onesto, Jack! I like you, I like you very much. Sei proprio un bra- vo, onesto, innocente americano, Jack! You are a wonder-ful American, Jack! » Jack taceva, guardando fisso davanti a se. Mi accorsi che stringeva nel pugno qualcosa di nero e di rosso. « Che cos’hai in mano? » gli dissi. Jack apri il pugno: e sul palmo della mano aperta apparve 1’enorme, mostruoso fallo del neonato.
« I’m sorry, Malaparte, » disse Jack arrossendo, « non avrei dovuto fare quel che ho fatto. » « Hai fatto benissimo, Jack, » dissi, « sei un bravo ragazzo, Jack.
« Forse non avevo il diritto di far quel che ho fatto, » disse Jack, « non avevo il diritto d’insultarli. x « Hai fatto benissimo, Jack, » dissi. « No, non ne avevo il diritto, » disse Jack, « non avevo il diritto di prenderli a calci.
« Tu sei un vincitore, » dissi, « sei un vincitore, Jack. A winner! » « A winner? » disse Jack scagliando fuor del finestrino la cosa orribile che stringeva in pugno, « un vincitore? Non mi prendere in giro, Malaparte. A winner! ».

Curzio Malaparte

 
 

ID: 4392  Intervento da: gianni panariello  - Email: giogio13@hotmail.it  - Data: domenica 17 settembre 2006 Ore: 21:36

Non so,
con l'ingresso di Vito D'Adamo nel forum vedo una svolta. Io sono colpevole di scrivere poco e di leggere moltonel forum, ma questo personaggio mi solletica dal punto di vista sociale oltre che letterario. In più mi fa salire delle narici l'odore di crauti e di kartoffen che mi riporta al mio periodo di lavoro tedesco degli anni 60.
Ma c'è un gemellaggio tra la cultura tedesca e quella italiana e chissà per quale motivo accosto Curzio Malaparte a Vito D'Adamo.
Con questo presupposto ho ricordato che nel forum avevo letto questo pezzo di Curt de "La pelle" ambientato a Torre del Greco.
Scusatemi ma non sono loquace.
Un saluto a tutti.


ID: 3748  Intervento da: Veronica Mari  - Email: veronicamari@libero.it  - Data: domenica 9 luglio 2006 Ore: 23:53

GLI ULTIMI VERI NARRATORI VESUVIANI PROFESSIONISTI

Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale che caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta Europa.
La cultura napoletana in seno all’Università di Napoli vede, alla fine del secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis, personaggi come Settembrini, De Blasiis, Spaventa, ecc.
Ma, a far ruotare a tutto spiano le piano-cilindriche tipografiche furono personaggi come lo scrittore popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, poco valutati dalla critica, ma di larga diffusione e Vittorio Imbriani, che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso.
Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi famosi Ventre di Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi le orme del marito Edoardo Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli, fondò infine Il Giorno.
Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e varie prose. Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto Bracco, valido critico e giornalista, sprovvisto persino di licenza elementare. Esempio emblematico di autodidatta, fu deputato e persino candidato al Premio Nobel.
Alla fine dell’Ottocento Benedetto Croce partorisce la Critica Estetica, provocando una vera rivoluzione di pensiero filosofico-letterario. Fondatore della rivista La Critica, compose centinaia di opere tra cui spiccano La Letteratura della Nuova Italia, Poesia e non Poesia, Storia d’Italia..., ecc. Pasquale Villari, alla fine del secolo scorso compose diverse opere di critica e di storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che fondò, tra l’altro, La Stampa di Torino.
Studi di Storia Letteraria Napoletana e Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere di Francesco Torraca,
Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo, poeta dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera più pacata, Raffaele Viviani col suo teatroà.
Quindi Rocco Galdieri, che espresse nelle sue opere quel suo triste umorismo nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra i due secoli.
Ernesto Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse delle quali furono musicate.
Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta, altrimenti detto E. A. Mario, che scrisse La Leggenda del Piave e la canzone Balocchi e Profumi. Dopo la Serao ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di narrativa.
Negli anni trenta Carlo Bernari pubblica I tre operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70. Nel periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare non bagna Napoli, degli anni 50.
Intorno al secondo conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco è Giuseppe Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli alunni del sole, San Gennaro non dice mai no, ecc. Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di Nocera Inferiore, con Spaccanapoli, Una vampata di rossore, ecc.
Quindi Michele Prisco, di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La provincia addormentata, poi Figli difficili, ecc.
Altro romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che esordì con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata morte, ecc.
Infine Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero cinese, L’uccello nella cupola, ecc. Vi sono molti altri intellettuali napoletani di rilievo nel campo della filosofia, della critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me, vanno citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica, antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero saranno qui tollerate.
Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di menzione, è il poliedrico Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e scrittore di cristallina fattura, che insieme a tutti gli altri intellettuali napoletani, citati o meno, ha contribuito allo sviluppo dell’editoria non solo napoletana.

Tratto dal Libro: Da Magonza a Torre del Greco" qui in rete


www.stampatipografica.it/magonza/pagine/set_fra_magonza.htm


Dopo di che abbiamo avuto solo scrittori della domenica da dopolavoro rionale che imbrattano la rete di solenni scopiazzature abilmente manovrate per farle apparire inedite. Ma di creatività non se ne parla neppure.

La moderatrice


ID: 3747  Intervento da: Giovanni Raiola  - Email: raiolagiovanni@virgilio.it  - Data: domenica 9 luglio 2006 Ore: 23:39

Ho ripescato questa vecchia discussione che è parimenti interessante di quella in cui si riporta la descrizione di Malaparte dell'eruzione del 1944.
Tramite questo forum ho scoperto lo scrittore tedesco italianizzato e ho acquisatato sia "La pelle" che "Kapput".
son o straordinario dal punto di vista della libertà linguistica e dello stile per non parlare dei contenuti caustici.
Certo nel dopoguerra questi libri scandalizzarono i torresi. Parliamo di quando in RAI non si poteva usare la parola "piede" che doveva essere tassativamente sostituita con "estremità"; o la parola "sudore", sostituita con "traspirazione".
Ora tutto à cambiato. La TV il cinema, i media tutti sono aperti a qualsiasi linguaggio. La libertà e la schiettezza ha vinto sull'austerità bigotta.
Tranne che nella provincia vesuviana. Che bisogna c'è di dire certe cose in pubblico? Basta farle e tutto va bene.

Giovanni


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