ID: 1429 Discussione: Il giudice genio e idiota
Autore:
gennaro francione
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Email:
adramelek@tin.it
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Scritto o aggiornato:
mercoledì 16 marzo 2005 Ore: 16:37
IL GIUDICE GENIO E IL GIUDICE IDIOTA
recensione
inoltro l'invito di pubblicazione e diffusione di Andrej Adramelek
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"All'Aurora va in scena la giustizia"
Rappresentato un dramma dello scrittore-magistrato Gennaro Francione
Domenica 20 febbraio, presso il teatro Aurora di Velletri, (per la regia di
Filippo Bubbico con Giuseppe Alagna e Vincenzo Sartini) è andato in scena un
dramma di Gennaro Francione i cui protagonisti, come suggerisce, lo stesso
titolo, "Il genio e l'idiota" sono due magistrati, uno è Oziero, il genio, l
'altro Pannone l'idiota, che si incontrano nei corridoi del tribunale e
danno vita ad un dialogo dai toni beffardi e drammatici, che conducono lo
spettatore nei meandri della realtà della giustizia in una disamina della
situazione, precisa, senza chiaroscuri ed assolutamente impietosa. I due
giudici, infatti, che a buon diritto, si debbono considerare l'uno il doppio
dell'altro, prendendo le mosse dalla notizia riguardante un delitto commesso
all'università, conducono un esame severo, ma sincero della loro personale
condizione, che, naturalmente, diventa il simbolo della triste condizione di
tutti i magistrati, o, almeno, di tutti coloro che cercano, pagando
personalmente in termini di carriera innanzitutto, di sottrarsi al terribile
ingranaggio, nel quale si finisce per diventare "la copia della copia
burocratica di un uomo". Praticamente "un nulla", un nulla infinito capace
di fagocitare tutto e tutti e nel quale non può esserci posto per chi cerca
di capire in silenzio, non i meandri delle leggi, per promulgare sentenze
ineccepibili dal punto di vista formale e logico, ma l'umanità sofferente
che passa davanti ai giudici, per tentare di scoprirne non semplicemente il
delitto, ma qualcosa che va oltre le apparenze, qualcosa capace, magari, di
fornire vere prove, mentre, e l'affermazione non può non essere avvertita in
tutta la sua drammaticità, nella realtà la più parte delle condanne manca
di vere ed inoppugnabili prove.
Perché nella visione che l'autore presenta non è importante, secondo i più,
perseguire la giustizia, ma condannare, condannare sempre, arrogandosi il
ruolo stesso delle terribili divinità primitive pronte a punire l'uomo con
ogni sorta di mali, quasi novelli Minossi che, come fa il demonio dantesco
"giudica e manda secondo ch'avvinghia". E' "la sbobba della presunzione" che
guida i magistrati in carriera, capaci di barattare "anime per fascicoli"
come troppo spesso la storia ha testimoniato con le sue terribili vicende di
falsa giustizia. Ma è da qui che si può comprendere la diversità o, forse,
sarebbe meglio dire l'alterità rispetto al sistema, dei due personaggi che,
infatti, non hanno ricevuto la dovuta promozione, perché, chi si sottrae all
'ingranaggio,è destinato allo scacco senza speranza e senza futuro, a meno
che ci si debba accontentare di un futuro fatto di nulla, nel quale,
tuttavia, possono continuare a credere in silenzio che la verità e la
giustizia potrebbero, almeno, essere ricercate, se proprio è impossibile
attuarle, senza seguire la vuota vita degli ignavi.
E lì dove lo stato ha perso tutte le sue prerogative, per diventare solo
"Povero, povero, tanta carta per sentenze, sentenze e, poi, plof, non ha
nemmeno i soldi per pagare la carta igienica", non può non affacciarsi il
volto della follia, quella con la lettera maiuscola, che vede oltre le
apparenze, che rifiuta i compromessi e, prima ancora, comprende che la
giustizia nelle mani di certe iene è soltanto ferocia che uccide le anime. E
' la follia dell'uomo che non vuole prendere su di sé con leggerezza le
sorti "dell'umana gente", partendo dal principio sacrosanto dell'humanitas,
che altro non è se non il rispetto dell'uomo, a qualunque condizione sociale
ed economica appartenga, dell'uomo, cioè, in quanto tale, che ha il diritto
naturale di essere rispettato, prima di essere giudicato. Diversamente l'
arroganza del giudicare prenderà irrimediabilmente il posto della giustizia
in un gioco alchemico capace di trasformare l'oro della verità in metafore
vuote e dannose a danno dei poveracci, mentre "i grandi artefici dei
megacrimini sguazzano sulle spiagge assolate all'altro capo del mondo".
La sfiducia nelle reali possibilità di condannare, per eliminare o, almeno,
per limitare il male e la violenza nel mondo affiora chiarissima nel dramma,
dove i due magistrati dissenzienti pronunciano una frase emblematica, che
ben riassume l'ideologia dell'autore: "assolvere, assolvere tutti", dove si
legge bene "la follia" di chi ha compreso l'inadeguatezza dei codici penali,
che bisognerebbe rivedere, per dar vita ad una giustizia, non punitiva ad
ogni costo, ma ad una vera giustizia nella quale l'uomo non sia ridotto in
schiavitù, dove non siano neutralizzati coloro che sono vicini alla verità,
perché comprendono come il mondo muti le coscienze con molta più velocità
di quanto i codici riescano ad evidenziare e i giudici a comprendere. Ma,
purtroppo, l'autore si rende ben conto che la sua è una ideologia
utopistica, se non altro perché il mondo è impazzito, è "colmo di robot"
senza rispetto per sé e per gli altri e, perciò il dramma si conclude con il
triste cadenzato ritornello, simbolo di una giustizia inerte e dannosa: "il
tribunale in nome del popolo italiano visti gli art..condanna tutti gli
imputati all'ergastolo."
Né si può trascurare che l'interpretazione dei due protagonisti è stata
eccellente e certamente adatta a rendere la passione e la disperazione dei
due magistrati, che colloquiando mettono a nudo le loro anime, per
ritrovarsi, pur nella loro diversità uniti dalla medesima visione del mondo.
Sara Gilotta
Per altre informazioni sulla pièce
Gennaro Francione