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Argomento presente: « Se non è prosa è poesia » | |||||
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ID: 1570 Intervento
da:
nicola scognamiglio
- Email:
nicoscogna@libero.it
- Data:
sabato 9 aprile 2005 Ore: 19:32
Amici del forum, forse sarà per deformazione professionale, ma mi attira vedere il forum prendere una piega letteraria con Gennaro Francione e Francesco Raimondo, persone già qualificate da tempo. Come educatori noi dell’associazione siamo molto addentro alla letteratura. Valutiamo certi risvolti dietro un aspetto anche didattico. Probabilmente la poesia è nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale al ritmo martellante delle musiche primitive. Solo molto tempo più tardi, a seguito dell'invenzione della scrittura, parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Fece dunque la sua comparsa, la poesia scritta. Tuttavia la comune parentela con la musica si fa ancora sentire. "Poesia" significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o comunicazione, in cui prevalgono elementi di ritmo, cadenze, ripetizioni, immagini che alterano i significati immediati delle parole e che gli conferiscono anche significati interiori. Poi c'è un altro significato: quando noi diciamo: "questa è poesia", intendiamo dire qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente, ecc. La risposta di Luigi Mari è molto personale, la mia è didattica, consolidata da norme più generali. Una poesia breve, ad esempio, di versi molto ritmati, molto connessi da assonanze o da omofonie, che cosa presenta prima di tutto? Presenta proprio la propria dimensione fonica o ritmica sullo specchio dell'amore. Goethe vecchio affermava: "quando si hanno delle cose da dire si dicono in prosa; è quando non si ha nulla da dire che si scrivono poesie". Questa affermazione è abbastanza sorprendente, considerando che chi diceva queste cose aveva scritto una massa di poesie sterminata per tutta la sua vita. La poesia non vuole comandare, non vuole persuadere, non vuole indurre, non vuole dimostrare. Certamente la poesia si impone, ma riesce ad imporsi con l'autorità dell'istituzione letteraria che essa evoca o rivive, con l'adempimento di un rituale, di un cerimoniale. In altre parole si può dire che anche la poesia più apparentemente “privata” come quelle di Francesco Raimondo, chiama in vita una parte della coscienza collettiva, allude al valore non individuale del linguaggio, produce un senso. Tutte le forme del codice poetico, non solo le forme liriche, sono state all'origine forme di comunicazione: poi la storia della cultura le ha trasformate, le ha redistribuite e una parte di quelle forme di comunicazione sono state messe da parte, sono divenute il modo poetico di comunicare. Nicola Scognamiglio |
ID: 1569 Intervento
da:
Luigi Mari
- Email:
info@torreomnia.com
- Data:
venerdì 8 aprile 2005 Ore: 23:18
LA POESIA DI CICCIO La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora. Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo. Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi". Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale. E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti. Questa è una breve raccolta di poesie dove eccelle il contenuto sulla forma che, volutamente, ha stesura libera senza metrica, rime o sofisticherie di maniera. Quasi una prosa detta, una stenografia di un discorso unico ma frammentato. E' un Ciccio desueto, lontano dalla sua storiografia riallacciata a quella paterna, distante ma ricucibile all'inimitabile e letterariamente ben messo "La prima volta di Enzuccio" che potete leggere in questa sezione. Più che un fatto d'arte l'autore ha inteso qui comunicare, lanciare un messaggio sociale, ampio, ad estuario: protesta, dubbio, domanda, risposta, grido, rabbia, gioia, rammarico, dolore ed in alcuni passi: preghiera. Un valido ed attuale messaggio di interrogativo esistenziale. Tuttavia pur non giocando col vago e con l'ambiguo non si libera nello sventramento della confessione. Luigi Mari |
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