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Argomento presente: « Filumena Marturano »
ID: 1794  Discussione: Filumena Marturano

Autore: ciccio raimondo  - Email: ciccioraimondo@libero.it  - Scritto o aggiornato: domenica 8 maggio 2005 Ore: 20:45

Caro Giggino,
inserisco questo mio scritto di cui ti ho parlato stamane. Credo che possa essere motivo di discussione.

La bellissima commedia di Eduardo De Filippo “Filumena Marturano” è da tutti giustamente ritenuta un capolavoro drammatico. Una verità innegabile. Basterebbe solo leggerne il testo per essere affascinati e trasportati in una sfera particolare.
Se poi ci troviamo in teatro seduti al buio in una poltrona o su una semplice sedia di Oratorio a seguire la vicenda della protagonista, sia essa rappresentata da una compagnia di attori professionisti o meglio ancora da una filodrammatica, formata da giovani entusiasti, pur se ancora inesperti, ci si addentra maggiormente in essa e tutte le emozioni che l’Autore ha sentito nel momento dell’ispirazione, come per magia, riprendono la loro vita e si trasmettono attraverso i sensi allo spettatore sollecitando tutte le corde del suo animo.
Questo è il Teatro. Un luogo magico, lo Specchio dove da sempre l’Umanità ha cercato e cerca di guardare dentro se stessa curiosa di conoscere, di sapere, di squarciare il velo del mistero e trovare l’appagamento, la giustifica, il senso del proprio esistere.
Attraverso la Verità della Poesia e dell’Arte da sempre l’uomo tenta di innalzarsi con le braccia alzate, così come fanno gli infanti quando vogliono essere presi in braccio, ad altezze che gli consentano di avere una visione sempre più totalizzante dell’Universo mondo. quello materiale e quello della sua interiorità. In entrambi i casi egli si inoltra in una regione che ha un solo nome: INFINITO.
Ma non è propriamente della filosofia del teatro in genere che voglio parlare ma della commedia in particolare ponendomi degli interrogativi che forse potranno essere condivisi da chi ha la pazienza di leggere queste mie righe. Mi sono sempre chiesto, dunque, a parte le motivazioni che la stessa protagonista dà a giustifica del suo comportamento, se era giusto che il suo compagno, Mimì Soriano, non avesse il diritto di sapere chi dei tre figli della donna era anche figlio suo.
Ripeto senza nulla togliere alla poesia della commedia, alla sua magia, credo che essa in un certo qual modo sia datata, cioè legata al tempo e ad una particolare “visione del mondo” che da molto ci siamo lasciati alle spalle. Con gli esami del DNA attualmente questi dubbi ed incertezze vengono fugati con freddezza scientifica.
Certe “trastulle” facilmente possono venire alla luce e porre la parola fine ad inganni e bugie. Filumena Maturano, oggi, con la sua storia può vivere con fascino solo sulle tavole polverose di un palcoscenico o attraverso la lettura di quelle pagine dove con il cuore in mano attraverso il ricordo, con pochi ed essenziali tratti, evoca la sua fanciullezza in una famiglia povera e numerosa in un angusto basso della vecchia Napoli e descrive, come sul lettino dello psicanalista, le atmosfere grevi e le altrettanto grevi vicende che la portarono giovanissima nel chiuso di un bordello.
Il poeta Eduardo qui dà prova di tutta la sua sensibilità, di tutta la sua umana intelligenza nell’analizzare un mondo che forse, anzi senza forse, non gli era estraneo. Non gli era estraneo in quanto l’esperienza del bordello non doveva essergli mancata come cliente o come amico di clienti o conoscente di qualche bella e buona puttana.
Tuttavia io rimango razionalmente perplesso su tutto l’impianto della commedia ove pur se lo stesso autore ha voluto fare in modo che tutti i pezzi coincidano a formare l’armonia poetica, essi, smontati, presentano delle forzature che non possono essere ignorate.
Per prima cosa mi sembra impossibile che un uomo di vita come Mimì Soriano, esperto mandrillo, non si sia accorto nel tempo delle inevitabili trasformazioni fisiche della sua compagna, conseguenze di ben tre gravidanze, con gli inevitabili interrogativi che avrebbero dovuto sopraggiungere. Non vi sia, poi, stata alcuna persona, non facente parte dell’ambito della famiglia, ché questi per necessità poetica devono risultare muti, che gli abbia fatto sapere che la donna che si era preso in casa, sottraendola al casino, durante le sue assenze per affari avesse contatti con i “suoi figli”.
Certo la realtà può superare la fantasia e forse potremmo anche accettare per buone queste circostanze quello che mi sembra però lontano dalla nostra visione moderna della famiglia è la pretesa di Filumena nel non voler dire al suo compagno la verità circa la paternità di quest’ultimo., “perché i figli sono tutti uguali….sono figli!” e perché i figli sono quelli che si crescono, che quando sono piccoli hanno i nasini freddi e ti cercano la bella cosa ecc. ecc. Quando poi sono grandi si fanno prendere dagli interessi, dal possesso delle cose, e allora potrebbero anche arrivare al delitto. Rummì, se io ti dicessi chi è tuo figlio tu avresti per lui un occhio particolare e allora sarebbe la guerra!
Cara Filomena, con tanto di rispetto, ma la guerra viene comunque anche quando si tratta di famiglie normali e con tanto di pedigree appeso al collo di ciascun figlio ed una infanzia condivisa! Ma alla fine di questa specie di ragionamento io faccio una ulteriore riflessione sempre a favore dell’Autore, che ha tutta la mia devozione ed ammirazione.
Noi lasciamo, infatti, i due protagonisti che, dopo la cerimonia e dopo aver salutato i figli che si sono accomiatati, se ne stanno uno in piedi e l’altra seduta con le strette scarpe della cerimonia in mano, mentre, presa dall’emozione e dallo stress della giornata, lentamente si scioglie in lacrime e come in una catarsi lo annuncia al suo Mimì, finalmente suo sposo legittimo:
Sto chiagnenno, Mimì, sto chiagnenno, comm’ è bello chiagnere! Qui cala la tela e si chiude la vicenda. Chissà, poi, come si sarà evoluta la storia. Voi che ne dite amici del "Foro"?

 
 

ID: 1802  Intervento da: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Data: domenica 8 maggio 2005 Ore: 00:22

Buona notte a tutti, ORA DICO LA MIA

Desidero trasmettere un profilo del Grande Eduardo un po’ fuori le righe, allineandomi allo spirito di questo forum. E’ una chiave di lettura nettamente personale. La conflittualità tra l'essere e l'apparire è stata la vera fortuna di Eduardo De Filippo. Da questa sorta di “predicare bene e razzolare male” non per ipocrisia, beninteso, ma grazie alla prerogativa e alla natura del commediante autentico, è sorto l’attore che è grande, appunto, quando l’apparire non somiglia all’essere. Un grande attore non piangerà mai davvero sulla scena, ad esempio. Se “buono” interpreta bene il “cattivo” e viceversa. Recitare se stessi lo sa fare chiunque.
Negli anni 60 il grande Eduardo venne a Torre per assistere ad una rappresentazione di "Natale in casa Cupiello" messa in iscena da una Compagnia torrese, al Teatro Metropolitan, se non sbaglio: la “Loreto Starace”. Correggetemi. Schivo e riservato, in sala, assunse un atteggiamento freddo e distaccato che non lo dimenticherò mai, dove si leggeva chiara la disapprovazione non già solo per giustificabili errori dilettantistici ma come per una sorta di senso di profanazione da parte dei ragazzi.
Eduardo non era fondamentalmente cattivo, ma tormentato, Il suo carattere spigoloso e complesso si impernia sulla consapevolezza di essere stato concepito da un rapporto "irregolare". Questo tormento si sprigiona in lui quando prende questa consapevolezza nell'età evolutiva sapendo di essere nato da Luisa De Filippo e Eduardo Scarpetta, mai sposati, con il quale iniziò a lavorare da piccolissimo, nel 1904, quando debuttò come giapponesino nella ‘Geisha’. Conosceva bene il dolore umano e aveva in se, tuttavia, una profonda umanità.
Molti torresi professionisti hanno lavorato con Eduardo, attori, tecnici, elettricisti. Ho raccolto una serie nutrita di aneddoti. Ai suoi plateali gesti di generosità e di comprensione per i deboli a volte contrapponeva atteggiamenti molto rudi e poco socievoli. Mortificava gli attori in scena fermando la recitazione. Non veniva evitata qualche varbalità blasfema o qualche calcio. Mi fermo qui per non guastarne la memoria, in rispetto della sua persona umana, inoltre defunta, sottolineando, per contro, la sua indubbia genialità nata, appunto, da questo particolare “pathos creativo”, pur non avendo seguito studi regolari e non detenendo, infondo, una grande cultura, se non una forte erudizione settoriale. Uno dei pochi casi al mondo nel dare tanta importanza al suo personaggio da farsi chiamare solo col nome attribuendone antonomasia nel mondo intero ad un nome comune di persona.
Tranne che per il Dott. D’Agostino che lo chiama carinamente, simpaticamente e sicilianamente: “Edoardo”.
Quello, comunque, che risalta dall'opera complessiva del Nostro è una grande esempio di morale e di giustizia. Quasi un trionfo della logica comune più che del più caduco e fragile immaginario collettivo.

Ma il concetto, un po' astratto, sarà più esplicito dalle parole di Eduardo stesso:

>“Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall'unione del più grandi perché attore-autore-regista e capocomico napoletano di quell'epoca, Eduardo Scarpetta, con Luisa De Filippo, nubile. Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano 1a sveltezza e la strafottenza di quelli d'oggi e quando a undici anni seppi che ero "figlio di padre ignoto" per me fu un grosso choc.
>La curiosità morbosa della gente intorno a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall'età di quattro anni [...], d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente.
Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché "diverso". Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata "diversa" dalla società.
>Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diversa, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che s'è prefissata. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia "diversità" mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada.
>Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me”.
(Nota autobiografica risalente ai primi anni Settanta).

Il merito di De Filippo, come autore, è quello di avere saputo elevare il teatro napoletano a un livello di dignità e di risonanza nazionale, anche al di fuori delle sue straordinarie capacità di interprete. Una mimica eccezionale, scoperta e sottolineata dai primi piani del cinema, prima, e dalla televisione, poi. Nonché di una fonìa vocale personalissima, accattivante. Eduardo ha saputo a un certo punto innestare, inoltre, la tradizione ottocentesca sulle istanze della poetica neorealista, sia per quanto riguarda l' uso del dialetto, sia per la vivace rappresentazione della vita popolare, con gli ambienti di una dolorosa miseria e i problemi di una
precaria sopravvivenza. Forse senza volerlo l'imbroccò sull' “identificazione emotiva proletaria”, un immaginario collettivo planetario concorde, che fa perno sulle emozioni domestiche, per così dire: il successo è stato capillare e totale. L’influenza di Pirandello ha fatto il resto perché ha “culturalizzato” la sua opera rendendola appetibile pure per la critica europea fino a quella internazionale.
Per concludere, mai nella letteratura, prima di Eduardo, era stato imbroccato un tema di carattere universale come quello di “Filumena”, tra l’antitesi emotiva figli-prostituzione, entrambi concetti antichi come il mondo, (quasi un dualismo), sempre trattati separatamente, ma questa volta uniti dal concetto planetario di amore, dando un senso umano e solidale a tutta la vicenda, temi assimilabili e condivisibili da buoni e cattivi insieme, appannaggio della vittoria della "logica comune", il più grande sinonimo della parola "giustizia".

Luigi Mari



ID: 1798  Intervento da: Gennaro Francione  - Email: azuz@inwind.it  - Data: sabato 7 maggio 2005 Ore: 19:56

Ciao Ciccio
ti allego un mio articolo. Un articolo che feci con mia moglie in un raid giornalistico estivo un paio d'anni fa.
Riguarda proprio Filumena Marturano che vorrei ribattezzare FILOMENA MARTORIANO o MORTORIANO...

Ti/vi auguro una piacevole lettura
Un abbraccio
Gennaro
@@@@@@@@@@@

        FILUMENA BATTIMANO
 
Di
  Agius & Francione
 
  Palcoscenikestate e il Teatro Centrale di Ostia hanno offerto al pubblico lidense il classico di Eduardo De Filippo Filumena Marturano, messo in scena dalla Compagnia L'ATELLANA diretta da AntonioDell'Aquila.
Il testo, in tre atti , fu composto nel 1946 e rappresentato per la prima volta il 7 novembre dello stesso anno al Politeama di Napoli, accolto bene ma non con il solito entusiasmo.  Dopo un mese di prove, venne rappresentata al teatro Eliseo e fu il trionfo.
Con questa commedia il grande autore napoletano ha creato uno dei ritratti femminili più celebri del teatro di tutti i tempi, quella Filumena, ex prostituta, che riesce a farsi sposare, dopo tanti anni di convivenza, da Domenico Soriano fingendosi in punto di morte. L'uomo arrabbiato non vuole riconoscere la validità del matrimonio al che Filumena, giocando l’ultima disperata carta di cuori, gli rivela di avere tre figli. Uno di essi è nato da lui ma non dirà mai quale dei tre, perché i "figli so figli". Alla fine il marito li accetterà tutti e tre, riuscendo così a raccogliere il messaggio d’amore totale di Filumena. Un personaggio quella della Marturano rivoluzionario per il tempo in quanto smascheratore di una società patriarcale, riuscendo solo la trasgressione del meretricio a ribaltare il ruolo alias irrefragabile di buona donna di casa e di servaggio della donna meridionale.
La compagnia teatrale "L'Atellana" è un gruppo che nasce come emanazione dell'Associazione Culturale "Campani nel Lazio" e per questo, cosa rara a Roma, risulta composta da quasi tutti elementi capaci di parlare il napoletano. E’ stata una serata davvero bella quella offertaci ad Ostia dalla compagnia in una gradevole serata di fine agosto, con una prestazione superlativa che ha accalorato il vasto pubblico presente in sala, levatosi alla fine più volte a battere le mani ai limiti della standing ovation. Tutti bravi gli attori; su tutti Antonio Dell’Aquila nei panni del capofamiglia Domenico Soriano, e Filumena, l’eccellente Adriana Torricella.  
 
Noi stessi, spietati narratori dello spettacolo canicolare, siamo rimasti decisamente colpiti. Nei nostri raid giornalistici lungo l’estate romana abbiamo visto compagnie di professionisti superabboracciate, spocchiose e insulse, plaudendo invece ora alla compattezza di questo teatro di appassionati composto davvero a regola d’arte. Mentre la distinzione si scolora tra teatro professionistico e amatoriale, ribaltandosi qui a favore di quest’ultimi, ancora più veemente si fa la critica già svolta in altri pezzi sulla scelta dei testi da parte di tutte le compagnie. Esiste una nuova fervida generazione di autori teatrali, anche in slang napoletano, che attende di essere messa in scena. Lotta questa generazione una guerra senza esclusione di colpi contro le Grandi Mummie, i Shakespeare, i Pirandello, gli Eduardo De Filippo… Perché non dare spazio ai nuovi autori? Se le megaproduzioni fanno orecchie da mercante di Venezia, noi ci auguriamo che almeno il teatro amatoriale esca allo scoperto ed entri nel nuovo discorso. Capiamo la difficoltà produttiva di compagnie all’esordio, ma un gruppo affiatato come quello dell’Atellana, che ha un suo pubblico, può permettersi di fare teatro di cuore vibrante, portando in scena nuovi autori, gente creativa finalmente vivente. Il teatro è prima di tutto coraggio. Coraggio non solo nella messinscena ma in primis nella scelta dei testi che può essere alimentato da una semplice constatazione: se oggi ammiriamo i Shakespeare, i Pirandello, gli Eduardo De Filippo è perché nei vecchi tempi ci fu qualcuno che ebbe il coraggio di metterli in scena. Avete visto che la stessa Filumena al tempo in cui venne rappresentata non fu proprio un successo, anche se lo era nella mente e nell’anima del suo autori e di quanti confidarono in lui che lo fosse. Dunque registi, attori, scenografi del cuore, soprattutto voi del teatro amatoriale che fate ancora arte col cuore, tendete la mano agli autori in carne ed ossa. Date spazio al vero teatro che è antiarte(www.antiarte.studiocelentano.it), morte dell’accademia, esistenza pulsante e contemporaneità. Se vedete per strada le Grandi Mummie… uccidetele!


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