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Argomento presente: « Santi torresi dell'800 »
ID: 2762  Discussione: Santi torresi dell'800

Autore: messaggio libero  - Email: email@inesistente.00  - Scritto o aggiornato: domenica 6 novembre 2005 Ore: 12:29

Servo di Dio Raffaele Mennella

Il 22 giugno 1877 a Torre del Greco (Napoli) nasce da Antonino ed Annunziata Manguso Raffaele Mennella. Nello stesso giorno è battezzato nella Chiesa parrocchiale di S. Croce. Il padre, uomo di profondi sentimenti cristiani, fa il pescatore. La mamma, una donna santa, si comunica tutti i giorni, recita il santo rosario insieme alle persone del vicinato, che raccoglie nella sua casa.
Raffaele fin da fanciullo nutre amore e devozione per i suoi genitori, ai quali è obbedientissimo e frequenta la scuola con molto profitto. Diventato grandicello, per difficoltà economica, dai genitori è mandato in una bottega di corallari per imparare il mestiere.
Ogni giorno prima e dopo il lavoro non manca alle celebrazioni religiose nella Chiesa del Carmine. Continua i suoi studi, frequentando la scuola serale presso due sacerdoti del suo paese, che notano la bontà, la pietà e la diligenza del ragazzo. Da fanciullo sente la chiamata al sacerdozio, che si accentua, crescendo in età. Conoscendo il P. Luigi Torrese, missionario dei Sacri Cuori e suo compaesano, gli si affeziona e,quando questi arriva a Torre del Greco, lo preleva alla stazione e poi ve lo accompagna.
Un giorno gli manifesta il desiderio di essere anch’egli un missionario dei Sacri Cuori. Il 10 novembre 1894 è ammesso nella comunità religiosa dei Missionari dei Sacri Cuori in Secondigliano.
Il suo tenero amore al S. Cuore di Gesù ed a quello di Maria, la sua tendenza a predicare, il tenore di vita fanno subito capire ai superiori che Dio lo chiama a quest’Istituto religioso, i cui membri, educati per tempo ad alimentare nei loro cuori la fiamma dell’amore dei Cuori amabilissimi di Gesù e di Maria, fanno professione di riaccenderlo con ogni sorta di lavoro del ministero apostolico nei cuori del prossimo. All’età di 17 anni indossa l’abito religioso ed inizia il noviziato, sotto la guida del P. Luigi Balzano. È di statura media, pallido in volto, ha gli occhi neri ed i capelli coloro castano. Modesto nel comportamento, ha uno sguardo, dal quale traspare innocenza, semplicità e simpatia. È attentissimo nell’adempimento di tutti i doveri e nell’osservanza di tutti i regolamenti.
Il 21 novembre 1895 emette la professione religiosa, divenendo un missionario dei Sacri Cuori. La sua vita presenta come fatto straordinario il compimento perfetto delle cose ordinarie. Egli è straordinario nell’osservanza della Regola religiosa e di tutti i suoi impegni. Fin da noviziato l’impara a memoria, la medita ogni giorno, annota le spiegazioni, ne parla con i compagni.
La sua osservanza è così esatta, che più non si può desiderare anche in un uomo maturo. Non c’è regola dell’Istituto che egli non osservi esattamente. Termina la sua vita, dicendo sul letto della morte a chi gli rimprovera la troppa scrupolosità nell’osservanza: "La mia gioia è morire martire dell’osservanza della nostra Regola". È affabile e dignitoso nel trattare. Non si adira. È placido nel comportamento ed ilare in volto. Non consente critiche verso nessuno. È servizievole verso tutti. Presta cure incredibili ai confratelli malati. Qualche volta si alza di notte per servirli. Si accontenta di tutto, sopporta con piacere qualche privazione. È umile e mansueto e con pazienza ammirabile sopporta le sgarbatezze. Cerca di rimanere nell’oblio.
Studia con impegno, ma solo per la gloria di Dio e per essere utile al prossimo. Ha sempre il pensiero rivolto a Dio, ama pregare ed è bellissimo vederlo davanti al SS. sacramento, tutto raccolto, senza fare un minimo movimento. La domenica va a visitare i malati, prestandosi in ogni modo per essere utile. Parla loro di Dio, recita con loro il santo rosario, li conforta con sante parole, invitandoli a sopportare pazientemente le infermità, fa loro dei piccoli regali.
Il 3 luglio 1898 ha l’avviso della sua mortale malattia con un’emottisi. Il medico l’avverte che la sua malattia, la tisi, è grave ed egli, calmo e sereno, risponde: " Eccomi sono prontissimo a fare in tutto e per tutto la divina volontà" Il 2 agosto è inviato dai superiori al suo paese con la speranza che l’aria nativa gli possa giovare. Il medico, dopo averlo visitato, esclama: " E’ tanto tempo che faccio il medico e finora non avevo visto un ammalato che in stato grave se ne stia giulivo e contento. Ogni altro per la malattia che soffre se ne sarebbe già morto per lo spavento, ma egli resiste ancora, perché non se la piglia. Beato lui che è proprio un santo".
Il 15 settembre, alle nove del mattino il parroco gli porta la comunione e l’unzione degli infermi e prima di salutarlo gli dice: "Raffaele, quando sarai in paradiso, prega per me". Un suo confratello, che lo assiste gli raccomanda: "Mennella, se il Signore ti chiamerà in paradiso non ti dimenticare di me, dei tuoi superiori, dei tuoi confratelli e della tua famiglia" ed egli risponde: "Che dici? dimenticarmi dei miei confratelli, dei superiori e di tutti coloro che mi hanno fatto del bene? Non sia mai"
Alle tredici e trenta è solo con la mamma, si guardano intensamente, la mamma accenna a qualche lacrima, allora egli si volta leggermente sul lato destro verso l’immagine della Madonna. Ha 21 anni, tre mesi e cinque giorni, quando si addormenta nella pace dei giusti. Quando la salma passa per il paese il giorno dopo per essere portata in Chiesa e poi al cimitero unanime è il commento: "E’ morto un santo!".

 
 

ID: 2772  Intervento da: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Data: domenica 6 novembre 2005 Ore: 12:29

Caro Ciro Adrian,

è la solita storia dei corsi e ricorsi della storia. E’ questione di “ebbreca” così pronunciava la parola epoca mia nonna Severina. Da sempre il dualismo bene-male, a prescindere da quello per antonomasia Dio-demonio, ha avuto i suoi rappresentanti. Così buoni e cattivi risentono della tendenza epocale. Oggi buoni e cattivi restano tali nella facciata, per gli occhi del mondo, per l’opinione altrui, ma entrambi sono pregni di ipocrisia, e talvolta passano da un ruolo all’altro, come le “banderuole” della politica.
Meglio i malavitosi antichi, che avevano comunque una sorta di codice d’onore; e i religiosi di una volta che solo in “alto bordo” la storia ce ne indica qualcuno disposto a servire Dio e Mammona, ma il resto sinceri servi di Dio e del prossimo.

E poi, perdonami Ciro Adrian, lo dico col cuore. Mi sono sempre chiesto, quante volte ti ho visto, cosa mancava alla Tua simpatica persona. Un cappello diverso, un bon-bon da marinaio francese? Un monocolo o una “cipolla” da taschino? Una bombetta?
Ora lo so, un’aureola simbolica. Perché la tua figura pacata, il sorriso serafico e mai deciso, a mezza strada tra la “Gioconda” e Niculino Ascione, Ti conferiscono sicuramente l’aspetto del Santo, semplicemente privo di tonsura e grani avviluppati sulle dita, estrapolandoti dal figurativo consueto della schiatta i cui personaggi sono ben noti.

Ho trovato un altro testo dedicato al Tuo Santo, spero Ti faccia piacere leggere. Sarai sorpreso quando entrerai nei siti che ti indico a margine come, effettivamente, il Tuo nobile e veramente santo parente Ti somigli.
Ti stimo.

Nelle prime ore pomeridiane del 15 settembre 1898, a soli ventuno anni morì a Torre del Greco, la ridente città posta sul Golfo di Napoli, il giovane Raffaele Mennella, chierico dei ‘Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria’.
Era nato nella stessa città, famosa per la lavorazione del corallo e paese d’origine di intere generazioni di marinai e pescatori, il 22 giugno 1877, da Antonino Mennella e da Annunziata Manguso di modeste condizioni economiche, ma onesti e religiosi cittadini; il padre era pescatore come tanti torresi e la madre casalinga.
Avvertì sin dai primi anni di ragazzo, la vocazione allo stato religioso, guidato spiritualmente dal sacerdote torrese Pasquale Brancaccio, ma nel contempo venne istruito nelle Lettere e Storia, dai fratelli canonici Luigi e Vincenzo Maglione, mentre apprendeva il mestiere di corallaio in una piccola fabbrichetta locale.
Il periodo del suo apprendistato non fu dei più tranquilli, il clima del mondo operaio di fine Ottocento, era arroventato da lotte sociali per la prima industrializzazione dell’Italia unita e contro la Chiesa, considerata nemica del vero progresso degli operai e sorda alle loro rivendicazioni contro i soprusi dei padroni.
In realtà ignoravano l’interessamento della Chiesa nel trovare rimedi per queste crisi operaie e rurali, che venne espresso con le Encicliche di papa Leone XIII (1878-1903), specialmente con la “Rerum Novarum” (1891), primo grande documento della Chiesa che indicò la strada da seguire, nella nuova era industrializzata che avanzava e con l’affermazione della dignità del lavoro operaio e contadino.
E Raffaele con la testimonianza di una religiosità aperta nel suo agire, era preso spesso a bersaglio dai compagni di quel lavoro di corallaio, così specializzato in questa zona, con il loro prenderlo in giro, il parlare sboccato, suscitando tentazioni e cattivi esempi.
Ma egli tirò diritto per la sua pura e convinta strada, ogni mattina prima di andare a lavorare, partecipava alla S. Messa, servendo all’altare e ricevendo la Santa Comunione nella Chiesa del Carmine di Torre del Greco.
Stessa cosa faceva la sera, ritornando dal lavoro, passava in chiesa per la recita del Rosario e per la visita a Gesù Sacramentato. A 15 anni egli lavorava, studiava con l’aiuto dei già detti fratelli canonici, pregava mattina e sera in chiesa, la sua vocazione religiosa diveniva sempre più chiara e la Provvidenza gli fece incontrare padre Luigi Torrese, che era stato tra i primi membri della Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria, fondata dal beato Gaetano Errico (1791-1860) a Secondigliano, oggi quartiere periferico di Napoli.
Padre Torrese divenne il suo consigliere ed a lui Raffaele Mennella chiese di entrare nella Congregazione dei Missionari; fu inizialmente rifiutato dai Superiori, con suo grande sconcerto, ma i Missionari dei Sacri Cuori, al pari di altre Congregazioni, dal 1861 al 1866 erano stati soppressi per le nuove leggi varate dal Parlamento Italiano e solo in quegli anni stavano cercando di riorganizzarsi e non avevano ancora aperto un noviziato.
Ma poi il 10 novembre 1894, fu accettato nel nuovo Noviziato di Secondigliano, vestendo l’abito il 18 novembre nella Chiesa dell’Addolorata; compì gli studi del noviziato sotto la guida del conterraneo padre Luigi Balzano, che fu anche il suo primo biografo e un anno dopo il 21 novembre 1895, professò i voti semplici insieme ad altri cinque novizi, che rappresentavano ormai la speranza della Congregazione, che rinasceva dopo la soppressione e la dispersione dei suoi membri.
Il 13 settembre 1896 ricevette la tonsura clericale dell’epoca e gli Ordini Minori; sotto la guida illuminante del padre Balzano, si formò alla spiritualità dell’Istituto, approfondì la conoscenza del pensiero e dell’azione del santo Fondatore, confermò le virtù di cui era dotato, come l’ubbidienza, la modestia, il silenzio, il raccoglimento, la castità.
Nel settembre 1897 fu mandato a Roma a seguire gli studi teologici presso la Pontificia Università Gregoriana, perché tutti i Superiori e lui stesso, aspiravano che arrivasse al sacerdozio al più presto; anche qui si dimostrò un giovane chierico, che edificava tutti con il suo comportamento.
Ma il Signore dispose diversamente; nell’estate 1898 a Roma il clima era rovente e l’applicazione allo studio per superare gli esami, avevano indebolito il suo fisico; sfioriva di giorno in giorno, ma nessuno se ne accorgeva o ne dava importanza.
La liturgia per il Sacro Cuore di Gesù a giugno e le seguenti Quarantore, lo tennero impegnato più del solito; stette in costante preghiera, con lunghe ore in ginocchio in adorazione, nella chiesa del Collegio di S. Maria in Publicolis.
Il 3 luglio 1898 si presentò al padre Rettore con un fazzoletto sulla bocca intriso di sangue, il Rettore capì subito che era un’emottisi, fattolo mettere a letto e chiamato un medico, si ebbe una diagnosi grave di tisi polmonare.
A quell’epoca la prognosi era infausta, mancando i medicinali appropriati, ed i medici non nascosero la gravità del caso, rimanendo meravigliati, insieme a quanti altri frequentavano la stanza del giovane, che invece di spaventarsi era allegro e si dichiarava disposto a morire per raggiungere il Signore.
Tutti si allontanavano con la frase “È veramente un angelo!” oppure “Beato lui, è proprio un santo!”. Mentre tutti nella Congregazione pregando si preparavano alla sua fine, con inconsolabile consapevolezza e dolore, il chierico Raffaele Mennella ebbe una miglioria, forse dovuta alle cure praticate o allo stesso decorso della malattia; ritornarono alquanto le forze al punto che poté lasciare il letto e presentarsi anche al Distretto di Roma per la visita militare.
Il medico curante consigliò per lui un po’ dell’aria natia e Raffaele Mennella, che aveva espresso il desiderio di morire in Congregazione, questa volta obbedì e il mattino del 2 agosto 1898, accompagnato da un confratello partì per Napoli e da lì a Torre del Greco in famiglia, dove l’aria balsamica gli facilitava il respiro e calmava la tosse, poi le cure della mamma e dei medici sembrarono dargli la guarigione.
Nonostante la debolezza, finché poté andò in chiesa tutti i giorni, poi solo il giovedì man mano che si aggravava nella malattia, appoggiato ad un bastone, quasi sembrava morire ad ogni passo, ciò nonostante restava in ginocchio a pregare per lungo tempo.
Poi non si mosse più dal letto e la S. Comunione la riceveva da sacerdoti che si recavano a fargli visita tutti i giorni; pur non potendo parlare con facilità per la mancanza di respiro, riusciva a dialogare con parenti, amici, sacerdoti e confratelli, dell’Amore di Dio e della Madonna; ma consapevole dell’aggravarsi del male, Raffaele si era preparato con encomiabile adesione alla volontà di Dio.
La mattina del 15 settembre 1898 fece chiamare padre Luigi Torrese, della Congregazione dei Sacri Cuori che aveva continuato ad assisterlo spiritualmente e da lui volle gli ultimi Sacramenti; la S. Comunione per volontà del parroco Brancaccio, gli venne portata in forma solenne e processionale; dal racconto di uno scrittore dell’epoca, si sa che il corteo si andò infoltendo di devoti lungo il percorso, tutti mesti per l’imminente fine del “prevetariello”, come veniva chiamato Raffaele.
Verso le 13,30 rivolto verso l’immagine della Madonna che era nella stanza, dolcemente spirò. Furono migliaia le persone che si recarono da Torre del Greco e da Secondigliano a rendere omaggio alla salma dell’angelico giovane, considerato da tutti un santo; non aveva voluto fiori né confetti, come si usava allora, ma nella stanza per due giorni c’era un profumo di fiori di tante qualità, che lasciò perplessi e meravigliati parenti ed amici.
I suoi funerali, benché modesti per la condizione familiare, videro la partecipazione spontanea di tutta Torre del Greco, una fiumana di gente l’accompagnò al cimitero. L’11 ottobre 1956 i suoi resti furono esumati e traslati solennemente nella Chiesa Madre della sua Congregazione a Secondigliano, con la partecipazione e ricognizione dei resti, del cardinale arcivescovo di Napoli Marcello Mimmi.
Nello stesso mese si aprì il Processo Ordinario per la sua beatificazione, conclusasi nel febbraio 1957 e trasmesso alla Sacra Congregazione competente a Roma.

Fonti:

http://www.santiebeati.it/dettaglio/91855

http://www.msscc.it/site/raffaele_mennella/index.php


ID: 2770  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrian@libero.it  - Data: sabato 5 novembre 2005 Ore: 17:20

Mia nonna, la madre di mio padre, era Maria Manguso, sorella della madre del servo di Dio Raffaele Mennella, morto in odore di santità.
Mio padre, quindi, era cugino di primo grado di Raffaele Mennella.
Posso allora dire di avere veramente un santo in paradiso, parente abbastanza stretto.
Ma il mio è un santo vero, morto povero come povero sono io. Santo vero e non come certi santi terreni che abitano stanze di bottoni, tenutari di greppie pubbliche nelle quali taluni sanno foraggiarsi, e senza merito alcuno.
P.S. Non ho di questi santi. Non ho parenti.


ID: 2763  Intervento da: Amministratore .  - Email: info@torreomnia.com  - Data: venerdì 4 novembre 2005 Ore: 12:45

Torre del Greco ottocentesca ha avuto diversi cosiddetti "Servi di Dio", purtroppo dimenticati. In antitesi, però, vi sono stati allora molti casi di malavita. (Diavolo ed Acqua Santa). Diamo un'occhiata a questo testo ricavato dal sito Brigantaggio.net. scritto nientemeno da Ciro di Cristo.

UN EPISODIO DI BRIGANTAGGIO NELLA TORRE (del Greco) dell'800

Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie avvenuta alla fine del 1860 le masse popolari dell’Italia meridionale si ritrovarono a vivere nelle misere condizioni sociali ed economiche di sempre. In regioni dove dominavano ancora il baronaggio e il latifondo, particolarmente grave si presentava la situazione dei contadini e dei braccianti che costituivano la maggioranza della popolazione: questi erano costretti a lavorare per un padrone autoritario e orgoglioso, sfruttati in modo brutale, in condizioni di arretratezza e di miseria che erano frutto della povertà del suolo, della lontananza dall’Europa industriale e di un malgoverno secolare.
Ma nell’animo di quelle popolazioni l’odio per l’oppressione e lo sfruttamento fu reso più aspro dalle delusioni per il fallimento di promesse di benefiche riforme e di una grande speranza di rinascita. In una situazione di grave malessere sociale ed economico s’innestarono dei fatti politici, come lo scioglimento, da parte di Garibaldi, dell’esercito napoletano che tolse agli ex soldati di Francesco II ingiuriati e derisi, ogni possibilità di reinserirsi nella vita civile e li rese disponibili a qualsiasi avventura; il licenziamento, da parte del Governo italiano, dell’esercito garibaldino che nel frattempo si era ingrossato con l’accorrere di delinquenti comuni, falsi liberali, evasi dalle carceri, mendicanti, vagabondi e montanari affamati che speravano di ottenere il condono e l’assunzione in servizio regolare (provvedimento in se stesso onesto che fece, però, aumentare il numero degli sbandati e il vuoto delle forze militari); l’aggravamento delle imposte e l’estensione anche al Sud della coscrizione militare obbligatoria che allontano dal lavoro molti giovani e peggioro le condizioni economiche delle famiglie.
Molti meridionali si convinsero sempre più che il nuovo Governo non sapeva comprendere le necessità del Mezzogiorno. Frattanto lo spodestato Francesco II, da Gaeta prima e dopo la caduta di questa, dal suo rifugio romano, risolse di adoperare gli scontenti meridionali per una guerriglia contro l’usurpatore piemontese, cercò di organizzarli per riconquistare il suo regno, con l’appoggio dello Stato Pontificio ostile all’unita nazionale, che forniva armi e denaro. I "cafoni" aderirono e divampò cosi il brigantaggio, un male antico affidato già all’iniziativa di pastori e contadini affamati che si davano alla macchia per assalire e spogliare la gente, saccheggiare, sequestrare e imporre taglie, e che ora assumeva carattere politico. Le bande dei fuorilegge divennero numerosissime nell’Abruzzo, nel Molise, nella Terra di Lavoro, nel Matese, in Capitanata, in Basilicata, in Calabria; furono formate da uomini decisi, rotti ad ogni avversità, guidate da capi famosi per la loro audacia (fra i tanti il Crocco, ex pastore e disertore, di cui abbiamo recentemente rivissuto le gesta nello sceneggiato televisivo "L’eredita della priora").
Il brigantaggio fu considerato dal Governo italiano un’esplosione di delinquenza e di insubordinazione politica e venne perciò combattuto con estrema energia, con l’intervento di veri eserciti di soldati e di carabinieri ed ebbe il carattere, dal 1861 al 1870, di una vera guerra civile, con migliaia di morti fra le due parti combattenti e fra i cittadini, fucilazioni in massa, deportazioni, distruzioni di interi paesi e incendi di foreste. Anche la zona vesuviana ebbe il suo bravo brigante. Antonio Cozzolino nativo di Boscotrecase, detto Pilone per la sua villosità e per la folta barba, fu prima scalpellino della pietra vesuviana. Fu arrestato una prima volta a causa di alcuni dissidi avuti col comandante della guardia urbana di Boscotrecase per porto d’armi abusivo, poi liberato. Nel 1860 in Sicilia, quale soldato dell’esercito napoletano, combatté contro i Mille di Garibaldi e compi un atto di valore col prendere in battaglia una bandiera "piemontese" che venne esposta poi nella Reggia di Portici. Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie si fece brigante di Sua Maestà borbonica e con la sua banda infesto tutta la zona vesuviana, fra Ottaviano, Boscotrecase, Boscoreale, Torre Annunziata e Torre del Greco. Aveva ottima conoscenza del Vesuvio e delle numerose cavità laviche che fungevano da nascondiglio e per parecchio tempo riuscì a nascondersi e a non farsi prendere dalle forze dell’ordine.
Nel 1861, in piazza Annunziatella a Boscotrecase, assali e sequestro in pieno giorno il marchese Avitabile, direttore del Banco di Napoli, che aveva una villa poco distante dai Camaldoli e passava di li in carrozza; fece poi sapere alla fami- glia che questi sarebbe stato ucciso se entro tre giorni non gli fosse stata versata la somma di 20 mila ducati tutti in oro; indico il modo con cui la persona incaricata di portare il danaro avrebbe potuto raggiungere lui, cioè Pilone. La famiglia Avitabile non era in grado di mettere insieme tutto ad un tratto la somma e ricorse a parenti ed amici. Un amico ebbe l’incarico di portare il denaro richiesto nel luogo indicato, quasi sulla cima del Vesuvio e pensando di far risparmiare agli Avitabile parte di esso, nascose 10 mila ducati e si presento al brigante.
Trovo questi con tre o quattro dei suoi che lo aspettava: all’offerta del venuto, il Pilone si ritiro in disparte per deliberare coi suoi, poi torno dicendo che si accontentava. Stese a terra il mantello e il denaro fu contato. Poco dopo comparve il marchese. "Potete andare - disse Pilone - e perdonateci". Il marchese e l’amico erano già lontani quando furono richiamati, con sommo sgomento, da uno dei briganti. "Ecco il vostro fucile - disse questi al marchese - ve lo riporto acciocché non diciate che siamo dei ladri". Lo stesso Pilone assalì, sulla strada che porta al Vesuvio dal versante di Boscotrecase, il corteo con l’allora principe Umberto di Savoia il quale non venne maltrattato, ma fu spogliato di tutto ciò che aveva e rimandato indietro. Occupò poi, per stabilirvi il suo quartier generale, la Villa delle Ginestre in Torre del Greco, che apparteneva ai Ferrigni, nobile famiglia napoletana che aveva ospitato li il poeta Leopardi fra il 1836 e il 1837.
Enrichetta Carafa Capecelatro, che ebbe come nonna materna Enrichetta Ranieri sorella di Antonio che fu amico del poeta recanatese e come nonno materno Giuseppe Ferrigni, proprietario della villa torrese, in un libretto che fa la storia della stessa villa, racconta che il brigante minaccio con le pistole il guardiano e la moglie, costringendoli ad aprire la casa; che la banda, venuta a sapere poi dell’avvicinarsi della gendarmeria, si allontanò e che i due guardiani furono arrestati per favoreggiamento e condannati a dieci anni di carcere che scontarono. "Ricordo - scrive la Carafa dopo molti anni - di aver visto in casa di mia nonna i due vecchietti usciti dal carcere. Io, bambina, li guardavo con un misto di curiosità e di terrore. L’uomo non parlava, ma la donna, una vecchietta arzilla, col viso grinzoso come una mela d’inverno, raccontava vivacemente la loro terribile avventura. ’Bisogna compatirci, diceva; se li aveste veduti quei diavoli! Da una mano avevano la pistola e dall’altra una borsa piena d’oro’.
Dopo molti combattimenti contro i "piemontesi", rapimenti ed imprese, Pilone fu costretto a lasciare il napoletano e a rifugiarsi nello Stato Pontificio dove si recavano tutti quei briganti che cercavano un luogo sicuro in caso di pericolo. Qui, pero, fu incarcerato. Riuscito ad evadere, fu ospitato da Francesco II nel palazzo Farnese e rimandato nel 1869 a Napoli perché riprendesse la sua criminosa attività. Tradito da un compagno, il 14 ottobre 1870, a Napoli cadde in un agguato tesogli dalla polizia napoletana. Scontratosi con gli agenti nei pressi dell’Orto Botanico in via Foria, tenne testa coraggiosamente agli assalitori; ma colpito da una pugnalata sotto il cuore da un appuntato di P.S., tenendosi la mano sinistra sulla ferita, cerco con la destra armata di pugnale di colpire il suo feritore ed una guardia accorsa, Ridotto all’impotenza, fu caricato su una carrozza e trasportato in Questura ove spiro poco dopo. Intorno al collo gli venne trovato un abitino (un sacchettino di stoffa che la gente del popolo porta per devozione con qualche reliquia) dentro il quale furono trovate immagini di santi; in tasca aveva un pezzetto di carta sul quale fu scritto "Antonio Cozzolino io sono figlio della Madonna Addolorata perché in cielo ce il signore che più di esso ce il padrone". Nel portafogli aveva 40 lire e un abicì seguito dalla dottrina cristiana (Pilone era devoto a modo suo). Finita nel vicolo cieco della violenza fine a se stessa, la guerra dei briganti era fatalmente destinata alla sconfitta, anche perché la protesta si esplicava in senso contrario alla storia, cioè a favore dell’assolutismo borbonico e contro gli istituti liberali e l’idea unitaria che avevano ormai trionfato in Italia.

Fonte: Ciro Di Cristo
http://www.brigantaggio.net/Brigantaggio/Storia/Altre/Torre%20del%20Greco.htm

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