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Argomento presente: « Dialogo sopra la nobiltà »
ID: 2778  Discussione: Dialogo sopra la nobiltà

Autore: Penza Francesco  - Email: francopenza@interfree.it  - Scritto o aggiornato: lunedì 7 novembre 2005 Ore: 19:25

Cari amici,
il Dialogo sopra la nobiltà negli anni sessanta fu creduto ispirazione di Totò per la sua Livella. Mi pare un pò esagerato, anche perchè noi abbiamo sempre parlato di livellamento sociale, che non ci potrà essere mai, perchè annullerebbe la differenza tra ricchi e poveri. Un sogno. Un utopia.

Ciao, Franco Penza

Ne riporto una breve prima parte perché è molto lungo.

DIALOGO SOPRA LA NOBILTA'
di: Giuseppe Parini

Benché l'umana superbia sia discesa fino ne' sepolcri, d'oro e di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando la distinzione de' luoghi perfino tra' cadaveri, pure un tratto, non so per quale accidente, s'abbatterono nella medesima sepoltura un
Nobile: ed un Poeta:, e tennero questo ragionamento:

Nobile: Fatt'in là mascalzone!

Poeta: Ell'ha il torto, Eccellenza. Teme Ella forse che i suoi vermi non l'abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch'e' vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d'un
Poeta:.

Nobile: Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perché ardisci tu di starmi così fitto alle costole come tu fai?

Poeta: Signore, s'io stovvi così accosto, incolpatene una mia depravazione d'olfatto, per la quale mi sono avezzo a' cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate già più muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi che ora vi si raggirano per le intestina! essi destano effluvii così fattamente soavi che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.

Nobile: Poltrone! Tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a' vermi, egli è perché in vita ero avezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.

Poeta: Oh, oh, sibbene, Eccellenza! Io ricordomi ancora di quella turba di gnatoni e di parassiti, che vi s'affollavan dintorno. Oh, quante ballerine, quante spie, quanti barattieri, quanti buffoni, quanti ruffiani! Diavolo! perché m'è egli toccato di scender quaggiù vosco; ch'altrimenti io gli avrei annoverati tutti quanti nel vostro epitaffio?

Nobile: Olà, chiudi cotesta succida bocca; o io chiamo il mio lacché, e ti fo bastonar di santa ragione.

Poeta: Di grazia, Vostra Eccellenza non s'incomodi. Il vostro lacché sta ora qua sopra con gli altri servi e co' creditori facendo un panegirico de' vostri meriti, ch'è tutt'altra cosa che l'orazion funebre di quel frate pagato da' vostri figliuoli. Egli non vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.

Nobile: Linguaccia, tu se' tanto incallita nel dir male, che né manco i vermi ti possono rosicare.

Poeta: Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro pari. Voi dite ch'io dico male, perché anco quaggiù seguo pure a darvi dell'Eccellenza, eh? Quanto ho caro che voi siate morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del Tu. Noi parremo due Consoli Romani che si parlino la loro lingua. Povero Tu! Tu se' stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna pur venire quaggiù nelle sepolture chi ha caro di rivederti; oh! tu se' pure la snella e disinvolta parola!

Nobile: Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch'ora m'esce del bellico che infradicia. Io dicoti, che tu se' una linguaccia, io.

Poeta: Di grazia, Signore, fatelo, se il potete; ché voi non vi avvilirete punto. Questo è un luogo ove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassù, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente appaiati a noi altra canaglia: non ècci altra differenza, se non che, chi più grasso ci giugne, così anco più vermi se 'l mangiano. Voi avete in oltre a sapere che quaggiù solo stassi ricoverata la verità. Quest'aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che verità, e le parole, ch'escono di bocca, il sono pure.

Nobile: Or bene, io t'ho còlto adunque, balordo: io dico adunque il vero, chiamandoti una linguaccia, un maldicente, dappoiché qui non si respira né si dice altro che verità.

Poeta: Piano, Signore. Vi ricorda egli quanti giorni sieno che voi veniste quaggiù?

Nobile: Sibbene, tre dì; e qualche ore dappoi ci giugnesti tu ancora.

Poeta: Gli è vero. Fu per lo appunto il giorno che quegli sciocchi di là sopra, dopo avermi lasciato morir di fame, si credettero di beatificarmi, qua collocandomi in compagnia di Vostra Eccellenza.

Nobile: Egli avevano ben ragione; se non che tu non meritavi cotesta beatitudine.

Poeta: Or dite, nel momento che voi spiraste non vi fu tosto serrata la bocca?

Nobile: Sì.

Poeta: Non vi si radunò poi d'intorno un'esercito di mosche che ve la turarono vie più?

Nobile: Che vuoi tu dire perciò?

Poeta: Non veniste voi chiuso fra quattro assi?

Nobile: Sì, e coperte di velluto, e guernite d'oro finissimo, e portato da quattro becchini e da assai gentiluomini con ricchissime vesti nere, colle mie arme dintorno, con mille torchi, che m'accompagnavano...

Poeta: Via, codesto non importa. Non foste voi, così imprigionato, gittato quaggiù?

Nobile: Sì, e, per ventura, cadendo si scommessero le assi, sì ch'io ne sdrucciolai fuora, e rimasimi quale or mi vedi.

Poeta: Non vedete voi adunque che voi avete tuttavia in corpo l'aria di là sopra, ch'e' non ci fu verso ch'essa ne potesse uscire, tanto voi eravate ben chiuso da ogni banda?

Nobile: E cotesto che ci fa egli?

Poeta: Egli ci fa assai: conciossiaché l'aria, piena di verità, di quaggiù, non vi può entrare, e per conseguente non ne può uscire colle parole; laddove in me è seguito tutto il contrario. Io fui abbandonato alla discrezione del caso quand'io mi morii, e que' ladri de' becchini non m'ebbero punto di rispetto, concioffosseché io non fossi un cadavere Eccellenza: anzi, levatimi alcuni cenci ond'io era involto, quaggiù mi gittarono così gnudo com'io era nato. Voi vedete ora, che l'aria di colassù ben tosto si fu dileguata da' miei polmoni; e che in quel cambio ci scese quest'aria veritiera di questo luogo ov'ora insieme abitiamo; e staracci finché qualche topo non m'abbia tanto bucato i polmoni ch'essa non ci possa più capire.

Nobile: Bestia! tu vuoi dunque conchiuder con ciò che tu solo dici il vero quaggiù, e ch'io dico la bugia?

Poeta: Io non dico già questo, io. Voi ben sapete che, quando altri è ben persuaso che ciò ch'ei dice sia vero, non si può già dire ch'egli faccia bugia, sebbene egli dica il falso, non avendo egli animo d'ingannare altrui, comeché egli per un cattivo raziocinio inganni sé medesimo.

Nobile: Mariuolo! tu fai bene a cercare di sgabellartene: ben sai che cosa importi il dare una mentita in sul viso ad un mio pari. Or via, poiché qui non ci resta altro che fare infino a tanto che questi vermi abbiano finito di rosicarci, io voglio pur darti retta: di' pure; in che cosa m'inganno io? Egli sarà però la prima volta che un tuo pari abbia ardito di dirmi ch'io m'ingannassi.

Poeta: Signore, fatemi la cortesia di rispondere voi prima a me. Per qual ragione non volevate voi, dianzi, ch'io vi stessi vicino, a voi.

ecc. ecc. ecc.

Giuseppe Parini

Dott. Franco Panza (giornale "L'Infinito)


 
 

ID: 2781  Intervento da: messaggio libero  - Email: email@inesistente.00  - Data: lunedì 7 novembre 2005 Ore: 19:25

Alla fine si impone la locuzione: Non è nobile chi nasce nobile, ma chi compie nobili cose.

Perché questo dialogo del Parini è così famoso nella storia della letteratura italiana?
E' bene capire i contenuti perché l'argomento è estremamente indicato per la cultura vesuviana, non solo, ma di soprprendente attualità.

Nel Dialogo sopra la nobiltà il Parini mette a confronto due diverse logiche: quella del pregiudizio sociale e quella dello spirito critico illuministico. Il personaggio del poeta plebeo incarna l'ideale dell'intellettuale illuminato che può farsi guida di un rinnovamento sociale e culturale; quello dell'aristocratico in sostanza rappresenta il soggetto sociale cui si indirizza il riformismo illuminato.

Le argomentazioni del nobile a sostegno della propria presunta superiorità sono: la diversa nascita, la purezza del sangue, l'antichità della stirpe. II poeta le confuta rapidamente e ironicamente: tutti dal punto di vista biologico nasciamo nello stesso modo (a questo tema il Parini, nel 1759, dedicherà un sonetto, il CXXIII, che, descritta la gestazione e la nascita, termina con il verso «Così nasce il villano, il papa e il re»); la presunta purezza del sangue non genera virtù, visto che molti nobili sono viziosi (ironicamente il poeta, per spiegare ciò, ipotizza una commistione di sangue plebeo e nobile, alludendo ai molti figli illegittimi dei nobili); tutti discendiamo da Adamo, quindi non ha senso accampare pretese d'antichità della stirpe (più avanti concederà che i nobili hanno miglior memoria dei propri antenati di quanta non ne abbiano i plebei).

Nel secondo frammento la questione si sposta sugli antenati del nobile, «celebri», «illustri», «grandi», secondo lui. Nell'illustrazione di tali caratteristiche dei propri avi il nobile, però, mostra la propria insufficienza dialettica (che è poi un limite del Dialogo stesso, solo in parte spiegabile col richiamo al codice comico-satirico), offrendo palesemente argomenti alla confutazione del poeta: «ricchi sfondolati», «memorabile macello», «dispotici padroni», «archibusate» sono espressioni che rivelano come nel discorso del nobile in realtà si infiltri il punto di vista del poeta (o, se vogliamo, del Parini).

Il poeta ha perciò buon gioco a replicare che il suo antagonista in realtà scambia i vizi per virtù, rincarando la dose; usurpatori, sgherri, masnadieri, violatori, sicari furono gli antenati del nobile, almeno quelli celebrati e ricordati, ché certo ve ne furono anche di virtuosi, ma dimenticati perché «le sociali virtù non amano di andare in volta a processione».
Il nobile allora abbassa la guardia e si dichiara sconfitto, ammettendo la propria «sciocca e ridicola presunzione». A questo punto il discorso si sposta sul contributo che l'esser nobili può dare alla felicità terrena degli uomini. E qui cade l'ammissione più significativa del poeta: quando la nobiltà sia congiunta con la virtù, col talento e con le ricchezze, può esser «di qualche uso e comodità», per quanto si tratti pur sempre di un pregiudizio. La « vera nobiltà» è quella dell'animo.

Senza ricchezze, senza virtù e senza talento il nobile è il più infelice degli uomini, come è illustrato dall'eloquente finale.

La critica illuministica del Parini, tramite il poeta del Dialogo, si appunta in sostanza contro l'idea, il concetto astratto di "nobiltà", che gli strumenti dialettici forniti dalla nuova filosofia e dalla nuova cultura hanno buon gioco a mostrare un semplice pregiudizio. Qui si arresta la critica pariniana e si converte in un convinto invito rivolto alla nobiltà affinché si renda virtuosa e meritevole di quei privilegi di cui di fatto gode in società. L'egualitarismo che mostra qui il Parini non implica adesione a prospettive politiche eversive, ma si colloca entro il complessivo quadro di riformismo cui guardava la stessa società aristocratica milanese nei suoi elementi più avanzati (nella fattispecie i Trasformati, ai quali il Parini s'indirizzava).

Guglielmino-Grosser



ID: 2779  Intervento da: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.com  - Data: lunedì 7 novembre 2005 Ore: 13:50

Caro Franco,

scusami se intervengo, ma il dialogo famosissimo va letto tutto. Anche perché a parte la polemica di Totò, sembra sia stato scritto da Parini per i torresi. Mi permetto di segnalare alcuni link dove è poaasibile leggerlo nella sua integrità.

http://bepi1949.altervista.org/parini/nobilta.htm
oppure
http://www.classicitaliani.it/parini/parini22.htm
ancora
http://www.intratext.com/X/ITA1316.HTM

Grazie per i Tuoi interventi.

Luigi


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