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Argomento presente: « IL PROF. CACCIAPUOTI » | |||||
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ID: 4935 Intervento
da:
Luigi Mari
- Email:
info@torreomnia.com
- Data:
sabato 4 novembre 2006 Ore: 21:31
Un ottimo "pezzo" di narrativa quello di Vito D'Adamo, autore che io consolido col mio parere: scrittore professionista. Negli ultimi anni però, il mondo dell'informazione si è dilatato sempre più. Ai canali tradizionali, giornali, radio, televisione, si sono aggiunte la galassia di Internet e la velocità delle telecomunicazioni satellitari. Eppure le informazioni ci arrivano sempre più confuse e inquinate. Insomma molta zavorra. Mettere in rete un racconto si rischia di renderlo dispersivo, ma se questo è stilato dentro certi canoni di professionalità a cui il lettore è già abituato col cartaceo, allora il narrato non perde di forza. Anzi brilla di luce propria nella rete. Il presupposto è che la lettura è un fatto umano che coinvolge radicalmente la vita del lettore e lo mette in gioco a livello di significati e visioni. Diceva Carlo Bo: la letteratura è «come» la vita nel senso che la letteratura è chiamata ad avere la stessa «qualità» della vita. Entrambe sono «strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi». Scrive Celan in un suo saggio: “l'unica cosa che si salva è la parola, ma essa deve attraversare "le proprie impossibilità di rispondere, la propria tendenza ad ammutolire". Ecco il punto: la poesia non ha la natura di un "pauroso ammutolire". Non è "qualcosa che toglie [...] il respiro", né tende a diventare "respiro di pietra" ("Steinatem"). Per Celan la parola può attraversare "mille tenebre" ma alla fine la capacità di parola si salva dal mutismo, dall'afasia sempre incombente. Resta dunque l'attesa, la speranza, la prospettiva di una salvezza della parola.” Ciò che differenzia il raccontino da scrittorucolo di giornaletti locali o di romanzucci da dopolavoro comunale è lo stampo professionale di un testo. Nel Caso del Prof. Cacciapuoti l’estetica allarga le braccia per far posto ai contenuti che, almeno in primis, si impongono con la fusione dei significati: gloria popolare nella simbologia dei panni sciorinati della "razza" napoletana, ora vessata da dominazioni, ora eroina di sopravvivenza e scaltrezza, miscelata alla gloria di vessilli e stendardi d’armi nazionali ricche o prive di gloria di leopardiana memoria: “’O Patria mia vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme, torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo…” Vittoria e sconfitta nei due archetipi. Poveri indumenti popolari scikorinati nei vicoli o gloriosi stendardi, una identica simbologia nell’ideologia de “Il resto di niente” il moderno grande romanzo storico di Striano che avrebbe messo il Prof. Cappiapuoti ed Eleonora Pimmentel de Fonseca, a distanza di un secolo, nella certezza che possesso e conquiste caduche per destino umano conducono allo stesso differito pugno di mosche nelle mani non già solo senza speranza, ma precludendo poesia, senza amore per la vita intera. Cacciapuoti “prima” ed il suo autore “dopo”, si soffermano sulla differenza materiale degli orditi e sulla simbologia ugualmente devastante delle vittorie e delle sconfitte, puntanto diritti sulla metafora rafforzando il linguaggio figurato per liricizzare le proposizioni. Ma il “pezzo” del D’Adamo è univoco perché raccoglie in due ali letterarie la fantasia del lettore rendendolo complice e coautore. Ora autore e lettore si fondono inconsapevolmente in un afflato storico-letterario che sazia e induce diritto alla catarsi, senza trascurare la fisiologia umana, lo hanno dimostrato i grandi poeti come D’Annunzio o Pasolini con aspetti salati di fisicità. Il d’Adamo lirico cala nel D’Adamo uomo, con la sensualità ignea vesuviana, coinvolgendo personaggi e lettore: ”A mirare quella biancheria, mossa dall’aria, (dove) non v’era amante che non si lasciasse andare ad immagini lascive ed eccitanti, previsioni accese di onesti piaceri coniugali e futuri, oppure mano onesti, ma più immediati”. Dunque la realtà urbana della stoicissima Partenope ricompare nella sua plasticità moderna masaniellistica e lazzaronica per fatto cromosomico. E lazzi e frizzi, e angoli di vita quotidiana. E storici palazzi da migliaia di finestre abbandonati al potere incapace, alla malversazione. E il dualismo bene-male apparentemente sposato a Napoli. E un sentore decadentistico malapartiano solleticano le narici del Professore. E poi giù le differenze sociali etniche, etica e morale seminata a largo getto sotto gli occhi del lettore. Quindi niente soluzione, niente palingenesi nemmeno dietro la conclusione del racconto: l’ultima stupidaggine umana: la bomba atomica. L’ultimo cieco esorcismo contro l’impotenza dell’uomo del proprio destino di mortale. Luigi Mari |
ID: 4904 Intervento
da:
Serena Mari
- Email:
sery_mari@hotmail.com
- Data:
giovedì 2 novembre 2006 Ore: 09:34
Altra recensione di papino. La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora. Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo. Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi". Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale. E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti. Segue una breve raccolta di poesie dove eccelle il contenuto sulla forma che, volutamente, ha stesura libera senza metrica, rime o sofisticherie di maniera. Quasi una prosa detta, una stenografia di un discorso unico ma frammentato. E' un Ciccio desueto, lontano dalla sua storiografia riallacciata a quella paterna, distante ma ricucibile all'inimitabile e letterariamente ben messo "La prima volta di Enzuccio" che potete leggere in questa sezione. Più che un fatto d'arte l'autore ha inteso qui comunicare, lanciare un messaggio sociale, ampio, ad estuario: protesta, dubbio, domanda, risposta, grido, rabbia, gioia, rammarico, dolore ed in alcuni passi: preghiera. Un valido ed attuale messaggio di interrogativo esistenziale. Tuttavia pur non giocando col vago e con l'ambiguo non si libera nello sventramento della confessione. Luigi Mari www.torreomnia.it/Testi/ciccio_poesie/set_frame_ciccio_poesie.htm Ora un affresco narrativo che va al di là dell'erotismo di un Pasolini o di un Aldo Busi per l'esasperazione idiomatica senza emulazione di questi capiscuola. Uno stile inedito. Esposto, purtroppo, in una piazza spinosa per le sperimentazioni letterarie ardite. www.torreomnia.it/Testi/raimondo/set_fra_enzuccio.htm Alcuni messaggi del Forum: www.torreomnia.it/Testi/forum_torreomnia/messaggi_forumi1.htm Serena Mari |
ID: 4899 Intervento
da:
Serena Mari
- Email:
sery_mari@hotmail.com
- Data:
giovedì 2 novembre 2006 Ore: 00:31
Un'altra bella recensione di Mio Padre al bravissimo, insostituibile collaboratore Salvatore Argenziano: www.torreomnia.com/Testi/argenziano/poesie/set_fra_poesie.htm Serena Mari |
ID: 4897 Intervento
da:
Serena Mari
- Email:
sery_mari@hotmail.com
- Data:
giovedì 2 novembre 2006 Ore: 00:19
Caro nonno vito, grazie per le belle parole dette a papà! Non facilmente accade che si singrazi mio padre, specie pubblicamente! Torreomnia è zeppa di recensioni e presentazioni di mio padre, tutte analitiche approfondite, esaustive. Se vai nella sezione "opere" di Torreomnia potrai gustarne parecchie, Ne riporto qui un paio: IL DIVANO DI SIGMUND di Aniello Langella In questo sorprendente racconto del dott. Aniello Langella il vulcano, come un'ombra, su passato e futuro, vigila da lontano e tace. Impegnando tutto l'orizzonte e si perde nella cataratta della foschia morbida. Nessuno sbuffo di fumo, nessun tremore. Una sola ingombrante presenza, austera e minacciosa. Il mono-personaggio ancora non sfora le quinte eppure il cratere e già presente. Non prevedibile lo zotico campano e la malattia astratta; ma immaginabile una muliebre donzella cagionevole. L’evento narrativo si scuce sul timore delle eruzioni che per il vesuviano sta nel DNA come una collettiva malattia genetica, una endemìa atavica. E' stato "inoculato" attraverso i secoli. Esso è presente pure nelle persone che vivono lontano dal Vesuvio, perché il vulcano è, sì, lontano, ma il terrore di esso è dentro di noi e viene sostituito da surrogati in questo che è stata definito "il secolo della paura". Guerre, attentati, bioterrorismo, epidemie, calamità naturali, delitti efferati: i drammi che avvengono nei quattro angoli del proprio paese o del mondo intero e le malattie debilitanti e frustranti e soprattutto quelle incurabili sono amplificati dai mass-media e portati in tutte le case tutti i giorni. Nessuno riesce a sfuggirne. Non a Caso Aniello Langella ha scomodato Freud per titolare il suo interessante racconto pregno non già di autobiografismo reale, ambientale od esteriore, ma appunto inconscio, là dove. probabilmente, Egli stesso ne ignora la finezza dei capillari narrativi come risposta a sintomi comuni nel triangolo scrittore, attore e lettore. L'autore possiede una sorta di potere dell'ubiquità, vivendo fisicamente nel goriziano tra le Valli dell' Isonzo e del Vipacco, pur avendo anima ed animo mai sradicati dalle zolle dure dell'atrio del Cavallo, o dalla vitrea "terra nera” seminata dal braccio idrico del bagnasciuga sul lungomare corallino. Felice la conseguenza del dialogo interiore trasferito nel monopersonaggio. Un Aspetto culturale del Nostro medico friulo-campano sorprendente e di ottimo spessore narrativo moderno, pur non tradendo, per vocazione, i canoni classici della battuta oleografica della "terra del sole e del fuoco". La problematica dello zotico Antonio Serpe si svolge in un’ambientazione incerta. Il problema conscio è il Vesuvio, ma potrebbe essere "in cantina", per dirla con Sigmud, lo tzunami, il terremoto, la frana e quant'altro. Il dialogare del dottore è aulico e ricercato non solo per etica professionale, o per snobbismo ma per mettere in risalto la rozzezza del paziente a dimostrazione che la "paura" non solo non ha classi sociali, ma non ha patrie. Il Dott. Langella ci induce a riflettere che qualsiasi paura ambientale apparentemente reale non solo condiziona l'ambiente sociale ad una sorta di precarietà e una induzione alla lotta civile nei rapporti interpersonali e sociali, ma si allarga ad estuario verso l'oceano della paura propriamente detta, cioè quella esistenziale che fa sempre capo all'idea del dolore fisico, nella fattispecie del contesto craterico campano dalla "lapidazione" tramite grossi lapilli morali, dall'asfissia di gas venefici come flatulenze demoniache degli inferi, e dall'ardenza di fuoco etico giustiziere, quasi sodoma-gomorriano. L'autore traccia con semplice e decise pennellate narro-vesuviane l'ansia endemica ed atavica cromosomica della plaga vesuviana non disgiunta per i tessuti connettivi con la problematica grave delle società sviluppate: il senso generalizzato di insicurezza e vulnerabilità sentito in modo planetario non solo da calamità, terrorismo e malattie, ma dalla oramai altrettanto cromosomica minaccia atomica.L'ansia del monopersonaggio Antonio Serpe de’ “Il divano di Sigmund” serve all'autore soprattutto per rivelare una giustificazione ai problemi annosi associati a quelli epocali della cintura vesuviana, ma il medico si interroga e dà ad intendere che tutto può accadere, che non ci sono più certezze o luoghi assolutamente sicuri. E anche quando la vita quotidiana si svolge a livelli di reddito e comfort elevati scatta un malessere esistenziale complesso, il timore per la sofferenza, per un pericolo futuro. E l’alterego- personaggio che di e all’autore: “Siamo sulla stessa barca” contadini e professori. Lo scrittore, inoltre risveglia la consapevolezza che quello del Vesuvio è sicuramente un disastro annunciato. Interessante lo sdoppiamento interlocutorio medico-paziente, forse per deformazione professionale, che fa del medico-narratore non già una creatività di prima mano, ma un sentire interiore quasi narrativamente sperimentale. Aniello Langella sa bene che i rapporti umani vengono incrinati non già dalla forza, ma dalla debolezza. Non dal coraggio, ma dalla paura. Infatti l'unico modo per lasciare in pace gli altri è lasciare in pace se stessi. Ma la diffusione continua di notizie diventata una sorta di “malattia mediatica” o comunque un sentimento diffuso di angoscia e terrore, dovuto anche all'uso insistente delle immagini televisive, del cartaceo e sconfinatamente da Internet. Ma l'autore-medico fa finta di ignorare e fa semplicemente dire a Serpe: "Ho paura io del Vesuvio, ha avuto paura mio padre, mio nonno". Sottolineando la storicità della paura del vulcano. Langella narratore dice: "La consapevolezza devastante della verticalità delle paure". E sapientemente introduce la componente religiosa come toccasana, come ultima spiaggia, come almeno probabilità salvifica post-mortale. "Dotto' sono andato anche da Don Luigi, il parroco di Cappella Bianchini". "E Don Luigi mi ha detto che ho ragione: per questo i vesuviani vivono nella precarietà, sono tutti così, imbrogliano, vendono cose andate a male, tanto domani viene la montagna". Fare i soldi in fretta e a tutti i costi, senza esclusione di colpi e di bersaglio. Domani potrebbe essere tardi. "Il divano di Sigmud” di Aniello Langella è un messaggio apparentemente grottesco, una farsetta scarpettiana, ma solo in superficie, perché il messaggio intrinseco non solo è attuale, ma è anche atavico per capire il caratteriale di una determinata area geografica, unica in tutto il mondo! Perché mai nel globo sono state ricostruite dieci città sopra una polveriera esplosa centinaia di volte nei secoli, sotto la scusante di un popolo tenace, coraggioso e testardo. In realtà profondamente incosciente! "Caro dottore - dice il Serpe - voi mi avete capito ed io ho capito voi. Siamo sulla stessa barca". "Voi avete ragione io ho paura dei Vesuviani". E qui l'autore fa crollare il concetto di natura infame rivelando la vera morale della favola: il degrado del popolo vesuviano e la qualità della vita a ridotta a zero, al punto che lo zotico conclude con una soluzione cruenta. "In settimana prossima vado a Mondragone e spero che il Vesuvio inghiotta tutti buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico anch'io". La meraviglia di questo racconto è come possa essere stata descritta la confusione mentale epocale odierna in metafora tanto che in questa ultima battuta non si capisce se questo monopersonaggio sia vittima o carnefice. ”...muoiano buoni e cattivi. Lo dicono tutti e lo dico anch'io" (pur di finirla con questa maledetta ansia). Il “mors tua vita mea” come esorcismo, dare in pasto alla “belva” la propria gente corrotta e disonesta, giustificando la propria di ansia fatta di fuga e condannare quella degli altri da immolare indiscriminatamente. Fare del male per somiglianza perché fa tendenza. Questa è una seconda chiave di lettura del racconto. Luigi Mari Per leggere Il divano di Sigmund: www.torreomnia.com/Testi/divano/set_fra_divano.htm |
ID: 4895 Intervento
da:
Vito d'Adamo
- Email:
vda27@online.de
- Data:
mercoledì 1 novembre 2006 Ore: 22:23
Caro Gigimari, ti ringrazio della recensione al "Cacciapuoti", con la quale hai scavato da vero critico entro e oltre la narrazione; e ti dico bravo per aver superato il timore di essere tacciato di dadamite, il che mette definitivamente a posto la questione, inerente al Forum, riaperto a tutta la gamma degli interventi possibili di ognuno e di tutti. Bravo, ripeto, senza timore di essere eventuamente tacciato di gigimarite. Si prosegue, dunque, nel migliore dei modi. Ti stima e ti abbraccia nonno Vito. |
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