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Argomento presente: « IL GIACOMO LEOPARDI TORRESE »
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ID: 6823  Discussione: IL GIACOMO LEOPARDI TORRESE

Autore: Vito D'Adamo  - Email: Viad37@online.de  - Scritto o aggiornato: lunedì 8 giugno 2015 Ore: 10:32


SU GIACOMO LEOPARDI vissuto e morto sotto il Vesuvio

Da “Giuseppe Cetrangolo – Figure di Musicisti – casa Editrice Armanni Napoli, 1957”, mi pregio riportare la seguente nota:
“Del Prof. Silvestro Baglioni può essere letta, con vantaggio, la Comunicazione fatta in Recanati addì 29 Agosto 1027 dal titolo (in Fisiologia e Medicina, a. IX, fasc. 9). Le indagini e le riflessioni di carattere storico e fisiologico sono importanti non soltanto ai fini scientifici, ma anche, e sopratutto, per le conclusioni alle quali giunge l’autore quando afferma, contrariamente alle asserzioni balorde di altri studiosi, come il Sergi, che la tossinfezione tubercolare, a base di tutte le malattie di Giacomo Leopardi, non indusse nessuna alterazione del suo cervello e della mirabile attività psichica e creativa, anzi quasi l’aumentò e l’acuì. Il Baglioni ricorda, a questo proposito, il Pergolesi e lo Chopin, i quali, pur essendo affetti dallo stesso male, conservarono fino all’ultimo istante le loro potenti facoltà creative”.
Giuseppe Cetrangolo, genitore di Enzio in prime nozze e di Iffland in secondo matrimonio, nacque a Rutino (SA), il 9 Aprile 1890. Laureato in lettere e Filosofia presso l’Università di Napoli nel 1915, fu professore ordinario al Conservatorio di Musica San Pietro a Maiella di Napoli. Saggista, collaborò a vari giornali e riviste (V. “Panorama biografico degli Italiani d’oggi”, Armando Curcio Editore in Roma). Abitò in Torre del Greco, alla Via Beneduce (Villa Izzo).

Cfr. i vari interventi su Giacomo Leopardi e sulla Villa delle Ginestre, apparsi in Torreomnia e nel Forum; “I Lazzari”, racconto e resoconto di Vito d’Adamo; le foto di repertorio, ecc. Invito il Dott. Penza ad intervenire sull’argomento.



Vito D'Adamo torrese dalla Germania



In Torreomnia:
www.torreomnia.it/lacitta/lacitta27.htm

 
 
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ID: 6858  Intervento da: Penza Francesco  - Email: francopenza@interfree.it  - Data: sabato 11 agosto 2007 Ore: 20:05

Ciao Vito, ciao Luigi, ciao Ciccio,

GIACOMO LEOPARDI - Il mio parere di medico

“Il 21 luglio 1900, in S. Vitale a Fuorigrotta, a Napoli, alla presenza dei rappresentanti del re e del comune, fu aperto il sepolcro del poeta recanatese, sepolto in quella chiesa nel 1837. Dal rapporto necroscopico del dottor Zuccarelli, risultarono mancanti le ossa del cranio e della faccia, mentre erano presenti residui di costole del tarso, del femore sinistro e alcune vertebre, tra cui quelle, deformate, del torace. Fatte le debite misurazioni, Leopardi risultava non più alto di 1,40-1,45 e il tronco (con la testa) presentava una forte sproporzione rispetto al resto del corpo non superando il mezzo metro. A parte i ritratti che raffigurano Giacomo da giovane, per lo più “ingentiliti” e quindi scarsamente fedeli, oggi si è generalmente d’accordo nel ritenere che le sue “due gobbe”, una anteriore , l’Altra posteriore siano comparse intorno ai quindici anni e non a causa di una prolungata, scorretta posizione dello scheletro (da ragazzo passava lunghe ore in Biblioteca curvo sui libri). Ma più semplicemente di tubercolosi vertebrale già al tempo nota come “morbo di Pott”.

Del presunto rachitismo, chiamato in causa da alcuni per spiegare le deformità delle vertebre toraciche, non fu invece riscontrato alcun segno. La deformità del torace creò da parte sua seri disturbi respiratori, dei quali si ha ampia notizia durante i soggiorni a Firenze e a Roma del 1830-1832.
Della proverbiale malinconia di Leopardi si sono occupati medici, psicologi, psichiatri e psicanalisti che lo hanno variamente definito un abulico, un insicuro, un asociale, un disordinato, uno psicopatico combattuto dalla follia degli scrupoli, dalle allucinazioni, dall’idea fissa del suicidio. A seconda dei punti di vista, sono stati chiamati in causa la deformità scheletrica, i disturbi della vista, l’epilessia, la depressione, l’ipocondria, la tendenza al suicidio.
Dopo vari alti e bassi, il 29 maggio 1827 Leopardi fu colpito da un “assalto al petto” dove il dolore si accresceva effettivamente con l’impazienza e l’irrequietezza”. Forse si trattò di un accesso anginoso legato alla costrizione degli organi causata dalla deformità del torace, la quale può essere anche stata causa delle difficoltà bronchiali sofferte dal poeta. Probabilmente questi soffriva anche di ipotensione arteriosa tipica della sua costituzione.

Nella foto a lato: manoscritti di Leopardi. A Pensare che Torre del Greco ancora non accetta la biblioteca di Leopardi del Prof. Ruggiero.

Ma Leopardi aveva anche dei problemi agli occhi: “una flussione, per la quale doveva spesso restare in casa, della cui natura si sono occupati numerosi oculisti. In breve, quella che sulla base dell’interpretazione in vero dubbia di alcuni passi dell’Epistolario veniva genericamente considerata “miopia”, sembra essere piuttosto una presbiopia, “(ipermetropia), se si considera che i suoi scritti fanno frequente riferimento a oggetti e visioni particolari, che il miope non può percepire, come le stelle, l’orizzonte e le lucciole, osservate da lontano.
A questi disturbi visivi si aggiunse poi, durante il soggiorno a Firenze un fastidiosissimo herpes oculare, forse addirittura un tracoma, che non gli consentiva di leggere e di resistere alla luce viva del giorno, obbligandolo a fare “una vita da gufo”.
Nell’ottobre 1833, poco dopo essere giunto a Napoli, Leopardi cominciò ad emettere degli sputi striati di sangue e ad accusare notevoli difficoltà di respirazione, verosimilmente dovute ad insufficienza cardiaca. Il cuore aveva a lungo sofferto della costrizione cui era stato sottoposto, ma anche per le tante tazzine di caffé che il poeta beveva durante la giornata.
La morte sopravvenne forse proprio in seguito a insufficienza cardiaca. Per altro invece, più prosaicamente Leopardi sarebbe morto per aver mangiato un gelato, di cui era ghiotto proprio nei giorni in cui a Napoli infuriava il colera.”
Così si esprime esaustivamente il professor Luciano Sterpellone in “Famosi e malati” Ed. S.E.I. Torino. Ma restano seri dubbi sull’autenticità del corpo di Leopardi trovato nella chiesa di S. Vitale a Fuorigrotta. Mi pare che recentemente il colombario, che si diceva ospitasse Virgilio e Leopardi, sia stato trovato vuoto. Pare che durante l’epidemia di colera del 1837 il poeta sia finito nell’ossario del cimitero delle Fontanelle.
Oggi il complesso di inferiorità è un affezione generale con un appiattimento culturale globale. I pochi che stanno in alto hanno imparato a gestirci e ci ammanniscono con cibo, vestiario e TV. E noi con la pancia per terra ringraziava sempre qualcuno.
La polemica che può nascere se un omossessuale sia più valido e crea più di un eterosessuale, è da studiare, ma credo che non ci siano paragoni, perché l’umanità è ricca di problemi, nessuno escluso: il genio si può nascondere in un corpo nano come in un gigante e non possiamo sempre dire che il nanismo è ipofisario e il gigantismo ormonale e gonadico. La genetica ha chiarito parecchie nostre lacune.
A me l’episodio che lascia perplesso, è quando Napoleone nella battaglia di Waterloo subì una sonora sconfitta per le sue emorroidi fuoriuscite. Egli tardò l’uscita dalla tenda, gli inglesi si erano già assestati e avevano accerchiate le sue truppe, i suoi generali lo chiusero in un cerchio, perché voleva trovare la morte. Nei riporti, si esagera sempre: la storia, amici miei, la scrivono i vincitori, ed escludono sempre le loro sconfitte.



Dott. Franco Penza




ID: 6842  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: venerdì 10 agosto 2007 Ore: 00:22

VITO D’ADAMO INTRODUCE UN ARGOMENTO INTERESSANTE:

LA TOSSINFEZIONE TUBERCOLARE, A BASE DI TUTTE LE MALATTIE DI GIACOMO LEOPARDI, NON INDUSSE NESSUNA ALTERAZIONE DEL SUO CERVELLO E DELLA MIRABILE ATTIVITÀ PSICHICA E CREATIVA, ANZI QUASI L’AUMENTÒ E L’ACUÌ.
LE BIOGRAFIE E GLI STUDI SU LEOPARDI SI SOFFERMANO SUL COME E SUL DOVE SIA MORTO LEOPARDI, MA IL D’ADAMO SOTTOOLINEA UN ASPETTO DELLA GENIALITA’: LA MALATTIA E LA SOFFERENZA:

Hemingwai muore suicida
così il grande filologo scrittore e traduttore Cesare Pavese,
così Virginia Wolf
Charlie Chaplin e Marilin Monroe hanno avuto le madri finite in manicomio,
per non parlare di Federico Nietzsche
e tanti, tanti altri casi di sofferenza dei grandi della genialità umana

D’Adamo continua: Il Baglioni ricorda: il Pergolesi e lo Chopin, i quali, pur essendo affetti dallo stesso male di Leoprdi, conservarono fino all’ultimo istante le loro potenti facoltà creative”.

Nella Foto a lato il Poeta morto.

Giustamente D’Adamo chiede il Parere al Dott. Franco Penza. Aspettiamo. Anche se una volta il dott. Penza mi mostrò un tomo sulle malattie di tutti i grandi della storia, probabilmente somatismi dello stress delle genialità.

Intanto parliamo sulle cause della morte del Grande Poeta che il Ranieri attribuisce ad una idropsia e non al colera.
”Sulle cause della morte di Giacomo Leopardi non si è mai raggiunta una certezza assoluta. Il colera che infieriva su Napoli in quel fatale 1837, è stato finora considerato da molti studiosi la causa più probabile della sua prematura scomparsa: Leopardi spirò a Napoli a soli 39 anni il 14 giugno del 1837.
In realtà, secondo recenti rivelazioni di uno studio condotto dal prof. Gennaro Cesaro, il Poeta sarebbe morto per aver mangiato addirittura un chilo di confetti. Leopardi era notoriamente molto goloso di dolci, al punto da non sapersi frenare. La causa di morte non sarebbe stata quindi né l'idropsia dichiarata dal Ranieri né il colera sostenuto da molti studiosi.
Inoltre, forse per attenuare gli effetti dell'indigestione, era stata data al Poeta una tazza di brodo caldo di pollo e una limonata fredda: un mix che avrebbe provocato - in aggiunta - una congestione intestinale.
A sostenere questa tesi è Gennaro Cesaro, uno studioso che da anni appassionatamente ha frugato nelle carte leopardiane per tentare di far luce sulla vera causa del decesso del poeta di Recanati.

Nella foto a lato: Giacomo Leopardi

La tesi sostenuta dal prof. Cesaro ovviamente smentisce le opinioni di altri illustri studiosi, che durante più di 160 anni si sono dichiarati convinti che a determinare la morte del Leopardi - avvenuta in casa dell'amico Antonio Ranieri - fossero state le conseguenze del colera.
In base all'indagine del prof. Cesaro sarebbe stata, invece, inconsapevolmente la sorella di Antonio, Paolina Ranieri, a provocare quella morte, donando al poeta, il 13 giugno, tre confezioni di confetti di Sulmona. Il Leopardi, accompagnando i dolci con la micidiale miscela di brodo bollente e di limonata ghiacciata, avrebbe causato quella congestione intestinale che lo avrebbe portato alla tomba.
Sulla morte del poeta di Recanati le ipotesi non sono mai mancate, anche le meno verosimili. Alcuni hanno parlato addirittura di paste alla panna, avariate, mentre altri di una forma di pericardite, ma l'ipotesi ufficiale rimaneva quella di Antonio Ranieri che accusava invece un' idropsia”.

http://www.spaghettitaliani.com/Articolo19.html

SU GIUSEPPE CETRANGOLO VISSUTO A TORRE CHE CITA NOTE DI BAGLIONI SULLE MALATTIE DI LEOPARDI:

(...) A promuoverlo pensarono una delle prime pianiste di Torre del Greco, la signorina Titina Di Cristo, regolarmente diplomatasi al Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli e il professor Giuseppe Cetrangolo che abitava a Torre del Greco che al Conservatorio, insegnava Letteratura poetica e drammatica agli studenti di Composizione. Altre occasioni per parlare di Francesco Albanese erano gli incontri con Francesco Coscia, gia Sindaco di Torre del Greco, poi Direttore Generale della Cassa per il Mezzogiorno, infine, Presidente per molti anni della Banca di Credito Popolare.

Testo tratto dalla prima pagina della sezione dedicata al tenore torrese Francesco Albanese:

www.torreomnia.com/musicisti/illustri/franc._albanese.htm


ID: 6839  Intervento da: Luigi Mari  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 9 agosto 2007 Ore: 23:48

LEOPARDI ODIAVA TORRE DEL GRECO esprimendosi così nell’epistolario familiare:

LA MORTE DI LEOPARDI (OGGI RICONOSCIUTO GIUSTAMENTE POETA E FILOSOFO UNIVERSALE) ANCHE A TORRE DEL GRECO SI INSINUA NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO COME UN ANGELO SENSIBILE, GENIALE E SOFFERENTE, MA L'UOMO FRAGILE, NEVROTICO CHE STA DIETRO ALL’IMMAGINE CLASSICA DEL GENIO (CIOE' CHI SA SENZA CONOSCERE) SI PESCA SOLO NELL’EPISTOLARIO DI FAMIGLIA:

Nella Foto a lato il Poeta morto.

CONSIDERAZIONI SULL'INSOFFERENZA DEL POETA PER I TORRESI

Nel settembre 1830 Giacomo Leopardi incontrò a Firenze Antonio Ranieri, un giovane napoletano giramondo, in quel momento esiliato dal regno borbonico, perché di idee liberali e compromessosi nei moti del 1820.
Da allora Ranieri offrì amicizia e protezione al poeta e nel 1833 lo convinse a trasferirsi con lui a Napoli, dove i due giunsero ad ottobre.
_______________________________________________________________

Tratto dalle lettere del poeta:

"Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri"
"Terra di Librai mezzi falliti"
"Che bisogna fare in questo paese di ladri"
"Il servizio, mi è prestato dalla più infame canaglia al mondo"
"Un paese di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro".

E' chiaro che le cose buone che avrà detto della terra vesuviana non fanno notizia.
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Il soggiorno napoletano fu artisticamente fertile per Leopardi, che vi scrisse alcune delle sue più note poesie, e fu nella nostra città che egli morì nel 1837.
Napoli ha voluto ricordare la permanenza in città del poeta di Recanati, intitolandogli una importante strada di Fuorigrotta, fermate di treni, scuole, ecc. ed erigendogli una tomba nei pressi di Mergellina, vicino a quella ritenuta di Virgilio.
E’ vero che Giacomo Leopardi non si trovava mai a suo agio nei posti dove viveva e ne disprezzava gli abitanti, a cominciare dalla natia Recanati, tuttavia del suo soggiorno a Napoli, ci ha lasciato una serie di giudizi così circostanziati, che potrebbero anche non rientrare nell’ambito delle sue abituali insofferenze, e che comunque meritano attenzione.
Il rapporto del poeta con la città comincia bene. Appena arrivato scrive al padre Monaldo: “La dolcezza del clima, la bellezza della città e l’indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli” (5 ottobre 1833).
Ben presto però cambia qualcosa. Nella lettera del 20 marzo 1834 al parigino De Sinner esprime il desiderio di spostarsi a Parigi, visto che “il nord o il mezzogiorno sono per lo meno indifferenti ai miei mali”. Nella stessa del 5 aprile dichiara: “io partirò da Napoli il più presto che io possa”. Man mano che passano i mesi l’insofferenza di Leopardi per la città cresce e nella lettera al padre del 3 febbraio 1835, esplode: “quanto prima mi sarà umanamente possibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo dell’anima impazientissimo di rivederla, oltre il bisogno che ho di fuggire questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b.f. (qui il poeta autocensura gli epiteti, che non sono riuscito ad individuare, n.d.r.)”.
Né deve andar bene il suo rapporto con il mondo dell’editoria, se in un’altra lettera datata 4 dicembre informa il padre che non darà mai ad editori locali (“librai mezzi falliti”), una sua opera, non volendogliela affidare “non solamente gratis ma neppure senza pagamento anticipato, così consigliandomi tutti gli amici che bisogna fare in questo paese di ladri”. Nel frattempo scoppia uno dei tanti colera napoletani del secolo, e Leopardi resta bloccato in città.
Non riesce a trovare alloggio “perché quartini ammobiliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non sono d’uso, salvo a prezzi enormi e in famiglie per lo più di ladri”. Chi non riesce a trovar casa, “può star sicuro di accamparsi col suo letto e co’ suoi mobili in mezzo alla strada oppure andare alla locanda, dove la più fetida stanza, senza luce e senz’aria, costa al meno possibile dodici ducati al mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia al mondo” 19 marzo 1837, lettera al padre).
La lettera così si conclude: “io non le racconto queste cose se non perché ella mi compatisca un poco d’esser capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità”.
Dopo poco più di due mesi Leopardi a Napoli ci lascerà la pelle.
E le ossa. Fatte deporre da Ranieri nella vecchia chiesa di San Vitale di Fuorigrotta, prima di essere spostate negli anni Venti del Novecento nel monumento di Mergellina. Dopo lo sfogo del 5 aprile, non ci risultano suoi ripensamenti sui giudizi sul “paese veramente barbaro”. Allora perché quel paese ci tiene tanto a ricordare il soggiorno del poeta presso di sé? Comprensibilmente lo ricorda per referenziarsi come luogo di soggiorno di così sommo letterato. Ma ignora ciò che Leopardi pensava del suo soggiorno e della città? Ci passa sopra?

Non vorrei restare con il dubbio che Napoli ha preso i fischi di Leopardi per applausi.

Antonio La Gala

Leggi tutto qui:
http://www.napoliontheroad.it/lagalaleopardi.htm


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