ID: 7925 Discussione: 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino DUE
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Ciro Adrian Ciavolino
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ciroadrianc@libero.it
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giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:57
CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino Cera in voga una simpatica canzone, alla fine degli anni ’40, aveva un verso che finiva con un pleonastico ma però, ma però… E c’è sempre qualcuno che, mostrando una faccia stolida, mandando il dito indice nell’aria come per scandire un ritmo, è pronto a dire: sì, sì, ma però…….C’è sempre un però, sulla tua fisionomia, sulla tua postura, sul tuo modo di vestire, di parlare. Sulla tua stessa esistenza. E sul tuo lavoro. E poi sulla tua scrittura. C’è sempre questa non simpatica congiunzione avversativa, però. Sono sempre gli stessi con la stessa faccia inespressiva. E sono quelli, diciamolo pure, che avrebbero voluto essere al tuo posto, fare le tue cose. Dicono sì, sì, ma però…
Immagine a lato: Il direttore de "La Tofa" Antonio Abbagnano
Il mio amico Abbagnano, al quale ne ho dette che ne ho dette, di tutti i colori, ovviamente con scrittura scherzosa, anche pubblicamente, in qualche Forum, come quello di Torreomnia, opera di Luigi Mari, ora si accinge, dopo un numero di prova, ed altri che son seguiti - dal primo mi escluse per dare spazio a più lontani ospiti, sacrificando me sapendomi veramente amico che non s’adombra e con il quale egli può in ogni modo confidarsi - si accinge, dicevo, a dare al suo giornale, suo, dico, perché è tutto suo frutto, una veste più larga. Abbiamo ritrovato i nostri spazi, quelli che sempre avemmo su altre pubblicazioni, giustezza da doppia colonna, margine destro della pagina, cornice, titolo unico come rubrica fissa; abbiamo rintracciato insomma quei luoghi che uno elegge quasi a proprio domicilio figurativo, come tutti coloro che adottano uno scoglio d’estate, o un angolo di strada per ritrovare o farsi ritrovare dagli amici, divenendo col tempo essi stessi le icone di se stessi, scusate il farraginoso paradosso; ma a me sembra proprio vero, che le persone finiscono con l’assumere la stessa epidermide, la stessa vernice dei luoghi che frequentano. Oserei dire lo stesso odore, se odore essi avessero, non so, meglio non annusare.
Immagine a lato: l'arte nera del terzo millennio Le facce sono uguali, come quelle dei citati portatori sani dei però, la loro stanziale assidua presenza si confonde con le insegne, gli stipiti dei negozi o bar, dei quali si sono assunti il dovere di lucidare con le loro spalle, nutrire con il loro respiro, ungere con le proprie teste. Una specie di osmosi, come quella che subiscono taluni finendo con l’assomigliare al proprio cane. Insomma sono come quei busti, talvolta di terracotta, che ancora resistono in alcune facciate di palazzi, che più gente potrebbe vedere e accorgersene se più attento sguardo volgesse a qualche buona architettura che non ha subìto vandalici tentati da ingegneri modernisti, in vena di mostrare il loro sapere. Mi punge vaghezza che certuni pensano a me vedendomi come uno scritto a destra di un giornale, in bianco e nero. Vaghezze, dicevo. Tornando però - lo dico anch’io ma non per ciò che altri pronunciano anche a proposito del nostro modo di fare giornale - al signor Antonio, come mi piace appellarlo, cioè Abbagnano, noto come sia cambiato il suo parlare, concitato, il suo respiro, divenuto più affannoso, come dopo una nuotata, o una ripida strada: perché non trova arricietto nella sua corsa per trovare qualche sponsor, qualcuno che trovi più ricco e più appagante pubblicizzare la sua ditta, il suo lavoro, la sua azienda, su queste pagine chiare dell’ottimo impaginatore nostro, per dare anche una mano a questo spiraglio culturale che abbiamo aperto su una città occupata manu militari da incapaci amministratori di cultura, presentatisi con malcelata spocchia, apparendo sui manifesti con le loro qualifiche per cose delle quali qualifica non hanno: meno male che qualcuno ha ripercorso il film di Arne Mattson, Svezia 1951, Ha ballato una sola estate.
Immagine a lato: 3° conflitto mondiale simbolico: la penna vince sulla zappa? Abbagnano s’affanna, dicevo, perché qualcuno sposi il nostro candore tipografico, il nostro modesto servizio, il nostro impegno che meno male fa a meno di qualche danzatore estivo. Ma tant’è, provate a chiedere un sostentamento per un’opera culturale. Silenzio, indifferenza. Provate invece ad invitare qualcuno di “quelli che possono” a essere presenti in una dirigenza, che so, di una squadra di calcio; egli con la mente corre verso i margini del campo, che può percorrere, e andare al cerchio centrale, dopo una partita vittoriosa, e lì farsi vedere, da tutti gli astanti allineati sulle gradinate, dove noi spesso ci siamo trovati: ebbene, preso dalla vertigine rappresentativa di se stesso, finirà col pronunciare un felicissimo sì e mostrare larghi sorrisi, autocelebrandosi “ai bordi del manto erboso”, come dicono quelli che ritengono di saper dire qualcosa, simili a quelli nei quali ogni tanto incocciamo, quelli che dandosi una veste di conoscitori, citano il Vesuvio dicendo o scrivendo la consunta espressione leopardiana, sterminator Vesevo”, ritenendo di tacitarci sulle loro conoscenze, presenti a sbafo sul territorio come quei busti di terracotta dei quali narravo, facendo di tutto per farsi conoscere ma nessuno li conosce.
Ciro Adrian Ciavolino
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ID: 16644 Intervento
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la redazione
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giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:57
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ID: 7927 Intervento
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Ciro Adrian Ciavolino
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ciroadrianc@libero.it
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mercoledì 19 dicembre 2007 Ore: 01:26
CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino Il mattino ha l’oro in bocca, qualcuno disse per la prima volta, chi presto si alza può ben sperare in una propizia e doviziosa giornata di lavoro; ed ancor più dorato potrebbe essere se vestito di sole si mostrasse. Ma tant’è, o non è, che ha più colore di piombo, in quest’inverno troppo lungo per i nostri desideri di luce, di azzurro. Di vestimenti leggeri, come D’Annunzio sognava sul corpo di Ermione. Qui non una rondine, non una vela, non una cometa. Cometa, che bel nome si dava all’aquilone, c’e qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove, quanti anni per intendere il segno poetico di Pascoli, ma dove sono gli aquiloni, quel miscuglio di ageli, comete di carta colorata, come titolò un suo libro Abbagnano, onorandomi di una pagina con frammento di lirica mia, una memoria di quelle grariatelle della ciucciara dove le comete nascevano e talvolta morivano se il mio filo si spezzava, là precipitando in un grumo di lava del Vesuvio che aveva aggirato case con balconi volti al mare, comete colpite da un dio maligno che uccideva quei miei aerei pensieri, quei rossi e gialli e azzurri spianati nel cielo di primavera contro il violarosa della montagna, in un incontro celeste con altre comete che salivano da San Giuseppe alle Paludi, ‘a miez ‘a Torre. Una guerra con quelle che ritenevamo nemiche se rovenivano da quartieri nei quali avevamo ricevuto un torto, cercando di abbatterle e farle prigioniere se venivano troppo su di noi da vasciammare, eravamo appostati sui nostri àstichi, come graffiati sotto un reticolo di corde bianche sostenute da forcelle e che si intersecavano con altri reticoli di pece colata nelle crepe dell’àstico, come in un gioco, un intreccio, trama e ordito, noi disegnatori di altre linee tricolori, il filo di cotone scadente che facilmente si spezzava e riannodavamo, e che di sera ci giocavamo sui vàsoli nei nostri umidi vicoli, segnati anch’essi da neri sfregi, il volo di infaticabili pipistrelli. Non ci sono più àstichi, non ci sono più petturate, la pece che ci ricordava quasi un’eruzione, un magma, un demoniaco sangue rappreso, è stata sostituita da certi manti rossi e argentei, privi di quel caldo odore che cominciava a riaffiorare in primavera, invitandoci ad abbracci di sole e al dolce maestrale che riusciva a raggiungerci insinuandosi nei giardini e nelle strade strette, sfuggendo alle barriere di Corso Garibaldi e Via Fontana, che avrebbe aiutato le nostre comete ad alzarsi in volo, con leggeri colpi e nel dar di braccio come dirigere un’orchestra, dare le staccanniate, alzarle in fretta per evitare maligne cinque glie, i nemici erano in agguato dietro muri divisori di altri àstichi che presuntuosamente frazionavano proprietà di quelli che tenevano gelosamente al proprio aereo territorio, certi labirinti, in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia, l’allegoria di Montale, una scultura di poesia, ai nostri occhi. Dove sono io, ora, dove siete voi. Siamo in quartieri anonimi, in palazzi anonimi, scale sempre uguali, porte tutte uguali, e chiuse. Su queste scale da due giorni è rimasta prigioniera e disorientata una palummella, oggi approfittava, mentre aprivo la porta, per trovare un alloggio nelle mie esigue stanze, è l’unica cosa che ho visto volare, questo grigio triangolino. Quando correvano verso le nostre luci, quando entravano, i nostri vecchi dicevano è la bona nova, si sperava in una buona notizia, ogni segno dell’aria, del cielo o di una palummella era una simbologia, un presagio, era il nostro vivere con la natura, le atmosfere, gli odori di un tempo non avvelenato. La palummella diventa la mia piccola cometa, da qualche parte attende che passi la notte, come le comete che, sopravvissute alla guerra del cielo, qualche volta, insieme ad altre nemiche catturate, riposavano sotto il letto, la quieta notte di primavera con qualche spiraglio di finestra già aperto favoriva l’odore di limoni o di arance che saliva dal giardino, quando giungevano altre palummelle in cerca di ricetto notturno, maculando con i loro triangoli scuri ingenui parati con motivi floreali, ci saremmo risvegliati con un canto di passeri, cardilli, ciurli, senzelle. La palummella mia, uscendo, rischierebbe la vita nella pioggia, è meglio che rimanga tra tutte le mie cianfrusaglie, qui, se vuole, può avvicinarsi alla lampada, può andare sui libri, può significarmi col volo altra bona nova, ma deve essere attenta a non cadere nel Blu di cobalto, nel Rosso quinacridone, nella Terra di Cassel, certamente morirebbe, in un informe mosaico di colori stagnanti e velenosi, così lontani, e diversi, da quei colori che volavano nei miei cieli di primavera, a forma di cometa, nei pomeriggi di marzo, di aprile, di maggio. Non volano più.
Ciro Adrian Ciavolino
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ID: 7926 Intervento
da:
la redazione
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info@torreomnia.it
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mercoledì 19 dicembre 2007 Ore: 00:32
CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino Talvolta, in questi mesi di lividi mattini, un raggio di sole si affaccia dai monti Lattari, si insinua di sotto le coltri grigie delle nuvole e taglia radente il mare, un rettangolo di mare che posso scorgere dai vetri del mio balcone. La nave bianca lentamente va verso il porto di Napoli, viene dalle grandi isole, rispettosa dei suoi orari. Poi un’altra, e un’altra ancora, sono quelle che una volta chiamavano postali e non so se ancora oggi dicano così coloro che di tali viaggi s’intendono. Sono queste navi di misura media, ancora con la forma di nave, e più belle di quei palazzi galleggianti, come certe grandi navi da crociera; hanno linee leggere e dolci e fumaioli col fumo, insomma è questo un sogno chiamatelo infantile, di un vapore, ecco, il vapore, come lo indicavamo, come in qualche antica nostra canzone si appella, se non anche un “legno mercantile”, che porta lontano per un amore finito. Nella foto a lato: Fitzcarraldo” 1982, premio per la regia al festival di Cannes ) è uno dei film più celebri e tormentati di Herzog.
Un film di Werner Herzog, dell”82, con uno straordinario Klaus Kinski, narra la storia di Brian Sweene Fitzgerald, meglio noto come Fitzcarraldo, un visionario appassionato di musica lirica che vuole costruire ad Iquitos, nel centro dell’Amazzonia, il più grande teatro di tutti i tempi e chiamare, per l’inaugurazione, Enrico Caruso, del quale è un grande estimatore. Così che accetta di guidare una spedizione per sfruttare foreste di caucciù e con il ricavato di tale impresa costruire il teatro. Ma deve risalire un fiume e per andare con la nave in un altro fiume deve scavalcare una montagna e sarà aiutato da una tribù. Non riuscirà a costruire il teatro ma potrà far ascoltare Caruso con il suo grammofono, che sulla nave lo accompagna, con le romanze dell’Ernani e I puritani. Un film splendido, al quale con il pensiero vado, guardando di mattina le bianche navi sul mare. Molte pagine dei miei primi quaderni, dalle copertine leggere, talvolta con immagini patriottiche, diventarono navi e barche, aspettando la pioggia che portasse sotto i marciapiedi del mio quartiere un corso d’acqua nel quale varare i miei bastimenti, i miei gozzi, le mie coralline, i miei transatlantici, i miei cacciatorpediniere e le mie corazzate, e su quelle viaggiavo, mentre dalle stanze veniva anche la voce di Enrico Caruso sui fruscianti e pesanti dischi che ansimavano sul lucente radiogrammofono pieno di porte, troneggiante al centro della stanza come il più presuntuoso dei mobili, un totem. Nella foto a lato: l'ibrido coerente imbarcazioni, Fitzcarraldo, Caruso
Il corso d’acqua portava via le mie navi, appena le varavo si tingevano di un violaceo colore d’anilina scadente, i miei dettati e le mie addizioni divenivano scarichi di nafta, e correvano lontano, se non affondavano subito, sino all’avvallamento della strada di San Gaetano, per precipitare e scomparire nel mio privato triangolo delle Bermude, 2° vico Orto Contessa, Vico Pizza, Corso Umberto I°, già Borgo, come indicava la vetusta targa viaria. Questo giornale non a caso si chiama La tofa, una conchiglia, il più antico strumento sonoro dell’uomo, sino ad un secolo fa usato sulle barche per richiamo. Una intera pagina di questo nostro giornale ha la pubblicità della Società di Navigazione dimaiolines, con la foto di una nave che ha la forma di nave, e a quel film allora corro e, perdonate, anche a Lord Byron, il grande poeta inglese che, tra neoclassicismo e romanticismo correva verso i suoi miti, con viaggi in Italia, e in Grecia, quel paese dell’onorata morte, come egli lo definì e colà morendo per ferite in una guerra contro turchi.
Nella foto a lato: la tofa che ha dato nome al giornale torrese
Ora una nave dei signori Di Maio non va in Grecia, ma in Albania e la signora Giancarla c’invita, per un viaggio da ospiti su una nave dove non posso portare un grammofono con i dischi di Caruso, non posso sedermi sulla coperta, a poppa, vestito di bianco come Fitzcarraldo, ma posso andare a Durazzo, sì, per vedere su quelle sponde i segni dell’architettura italiana dagli anni venti ai quaranta, quando su quella terra sbarcammo e combattemmo, con l’idea di conquistare tutto il Mediterraneo, per trovare il nostro posto al sole nel Mare Nostrum, come leggevamo nei nostri libri di scuola che qualche volta divenivano, anch’essi, flotta per i nostri viaggi infantili. Non ho idea del paesaggio albanese, ma ne ho di quella terra più a Sud, la Grecia che amò Byron, la terra dell’Acropoli di Atene, del Partenone, dell’Apoxiomenos di Lisippo, dell’Auriga di Delfi, dei Propilei, della Loggetta delle Cariatidi, dove un’amica raccolse una pietra e me la portò come dono, quasi un atto di liturgia, un rito propiziatorio di un viaggio che ancora non ho intrapreso se non con le mie navi di carta. Devo chiedere a Giancarla di ricordare ai signori della dimaiolines di portare una nave sulle rotte di Enea, nei porti dai quali partirono gli eroi che ci offrirono la bellezza dell’arte ellenica, lasciando tracce della loro cultura sulle sponde nostre, nel nostro mestiere e nei nostri occhi.
Ciro Adrian Ciavolino
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