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Argomento presente: « 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino QUATTRO »
ID: 8014  Discussione: 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino QUATTRO

Autore: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Scritto o aggiornato: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:58


CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


Era de maggio e te cadeano ‘nzino
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse…
Fresca era ll’aria…e tutto lu ciardino
addurave de rose a ciento passe...
Era de maggio, io no, nun me ne scordo,
na canzone cantàvamo a doje voce...
Cchiù tempo passa e cchiù mme n’allicordo,
fresca era ll’aria e la canzone doce…

Salvatore Di Giacomo: Era de maggio.



Nella foto a lato: Salvatore di Giacomo

Può accadervi di andare a Posillipo, di trovare una stele con questi versi incisi nella pietra chiara, sono vostri, sono di tutti. Se non vi è accaduto, andateci. La stele è relativamente recente. Ma era il 1885 quando la poesia divenne canzone con la musica di Mario Costa, un poema sonoro leggero come nuvola e potente come una scultura, puoi pensare a Tino di Camaino, a Nanni di Banco. Oppure ad una figura di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, la larga veste per custodire cerase raccolte da un albero, che cadono da un albero. Cerase. Anche Lola che di latte ha la cammisa è ghianca e rossa comme a ‘na cerasa. Cerase come orecchini, un gioco villereccio, agghindati come putti festanti intorno a un carro di Calendimaggio o a una festa dentro le viscere della Campania Felix, contadini scalzi e tammorre, è uguale.
Io sono un figlio della cerasa. Dovevo dire d’essere il figlio della cerasa per farmi di conoscere, nome e cognome non avrebbero suggerito nulla di famiglia mia se non dicevo così, dovetti dirlo quando mi perdetti nei vicoli abbasciammare o quando caddi inseguendo un tram, le nostre identità viaggiavano sui soprannomi, strangianommi, ereditati.

Cerasa non è male, non viene da connotazioni fisionomiche o da mestieri, basta poco per averneuno: si racconta che il nonno mio paterno, quand’era fanciullo, fosse stato mandato a comprare cerase all’angolo della strada dove viveva. Tornando, con il cuoppo stretto al petto, una cerasa gli cadde senza che se ne accorgesse, qualcuno cominciò a chiamarlo, Ciccì, Ciccì,, ‘a cerasa, ‘a cerasa… voci di ragazzi rintronarono in tutto il quartiere, il richiamo divenne strangianomme, ne scalzò qualche altro che certamente aveva, calò su mio padre, un poco sino a me adolescente, poi l’abbiamo perduto. Nessuno chiama me ‘a cerasa, i miei figli forse non lo sanno, o non lo ricordano, se mai ne ho parlato.
Nel giardino sotto la nostra casa di Vico del pozzo numero quattro, alberi di cerase non ve n’erano, sono sicuro, come avrei potuto scordarlo se in quel giardino stavamo per ore, scoprendo strani pertugi che le eruzioni avevano lasciato nel loro irregolare correre verso il mare, la lava arricciandosi e spumeggiando aveva creato un paesaggio che ormai era soltanto nostro, le cerase non avrebbero avuto il tempo di maturare, le avremmo colte appena luminose di un pallido rosa. Forse c’erano le rose.

Sì, le rose. Come i versi ricordano, giungeva a noi l’odore del giardino, il profumo delle rose accompagnava le nostre sortite sugli àstichi per mollare la cometa, il cielo era già pieno di altre comete come rose, un bouquet di carte colorate volanti, da qualche parte qualcuno
cantava Rusella ‘e maggio mia, rusella ‘e maggio… Tu me diciste sì ‘na sera ‘e maggio… ‘E rrose parlano, pe’ mme e pe’ tte… Ma che sfurtuna, chella d’’e rrose, chella d’’e rrose, io nun ‘a veco cchiù… Purtàtele sti rrose, chella pe’ rrose è pazza e nun ragiona…
Maggio porta la Festa della mamma: ragazzi vendono rose agli angoli delle strade. I miei figli hanno messo sul tavolino dove c’è una foto della mamma una rosa, rossa come corallo appena levato dal mare, Salvatore Di Giacomo canta:


E diceva: “Core, core!
Core mio, luntane vaje,
tu mme lasse, io conto ll’ore…
chisà quanno turnarraje”
Rispunnev’io:“Turnarraggio
quanno tornano li rrose…
si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stòngo ccà…”




Ciro Adrian Ciavolino

 
 

ID: 16646  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:58

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ID: 8018  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: lunedì 7 gennaio 2008 Ore: 02:23

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino

LA SCIABOLA

La nostra adolescenza fu ricca di purganti, medicina fai da te per quasi tutti i mali, anche quando la pancia non c’entrava.


Nella foto a lato la “S. pellegrino” sempre meglio dell’olio di ricino del regime.

La scatoletta di Magnesia San Pellegrino, che nel suo colore marrone già indicava i risultati ai quali dovesse portarci, così inquietante con quel monaco un po’ curvo stampigliato sull’esiguo coperchio, era nella forma sua esagonale una araldica condanna.di purghe storiche, volontarie e no, se ne conoscono. Come quella somministrata al signor Garibaldi Giuseppe quando arrivò a Luino, una amena cittadina sul Lago Maggiore, dove già si specchia la Svizzera.
Fu opera del farmacista Ulderico Clerici, probabilmente schierato più dalla parte degli austriaci che da quella italiana. Gli preparò una bevanda a base di gialappa, un purgante drastico, la Exgonium purga, che deve il suo nome alla città messicana Jalapa Enrìquez. Non so se da queste parti si usa. Esiste una variante, forse più blanda, detta la falsa gialappa, è la radice di una pianta dal nome romantico e rassicurante, la bella di notte.
Molte città italiane si son date da fare erigendo lestamente monumenti a colui che fu soprannominato eroe dei due mondi, uno non gli bastava, confondendoci le idee all’epoca delle nostre purghe, nei sussidiari e sui quaderni, per via di quell’ incontro con Vittorio Emanuele II, senza scendere da cavallo, in mezzo ad un gregge di pecore, come se si fossero incontrati per caso l’uno andando in guerra verso nord, dopo aver spoliato il Regno di Napoli, e l’altro andando a caccia o cercando ospitali ovili per incontrare qualche amante al seguito o procaci contadine per occasionali esaltanti amori villerecci tra eccitanti odori di stallatico.


Nella foto a lato la un Garibaldi lindo e pinto al Wascington Square Park (eroe dei due mondi)

Nel monumento a Garibaldi eretto a Luino di fronte all’ Hotel Majestic, che all’epoca della purga di gialappa si chiamava Albergo della Beccaccia, il condottiero si mostrava con la solita mossa della sciabola sguainata indicando la strada dove avrebbero dovuto trovare scampo gli austriaci. Successivamente, a metà Novecento, il monumento fu spostato per dare spazio ad un posteggio di automobili e così Garibaldi finì con l’ indicare un cortile dove c’era un fotografo.
Naturalmente Torre del Greco non si è fatta mancare nulla, nemmeno il monumento a Garibaldi, nonostante lo svuotamento anche delle nostre casse comunali, come egli pretendeva, e dovunque. Eretto nella piazza più acconcia, che allora aveva proprio un bel nome, Piazza del Popolo, finì anch’egli, senza saperlo, per indirizzare tutti i viandanti verso una via, quella a lui di fronte, Via Cavallerizzi,così chiamata forse per una guarnigione che da quelle parti doveva esistere. Non fu fortunato, tutti si convinsero che egli, ritratto dallo scultore Solari, che molte statue ha realizzato per Napoli ed altre città, molto frettoloso e superficiale ma in qualche modo cosciente nel mettergli avanti la gamba sinistra per bilanciare la composizione.

Nella foto a lato il Garibaldi torrese

E quindi con mossa non naturale, si convinsero, dicevo, ironicamente, certo, e con gli anni, che Garibaldi indicasse con la sciabola, anziché un nemico in fuga, un gabinetto pubblico di tipo bifrontale all’angolo di quella strada, in ferro, uguale nel disegno a quello che per disposizioni comunali fu allogato nel vicolo accanto alla Basilica di Santa Croce ma più grande e a vasche allineate, e come quello nauseabondo, o ancor più.
Come a Luino, anche la nostra piazza fu modificata, per analoghi motivi, cioè le automobili. In quella strada che Cavallerizzi nessuno appellava, data la difficoltà della pronuncia per una popolazione molto vicina all’analfabetismo e ad un tortuoso ancorché musicale dialetto, chiamandola più facilmente Vico del Carmine, per la prossimità all’antica Chiesa, si sfidarono, quasi sempre volutamente senza colpirsi, alcuni individui che volevano rispetto.



Nella foto a lato il vespasiano indicato dalla spada di Garibaldi secondo l'immaginario collettivo. Negli anni ruggenti furono numerosi in Italia.


Qualche volta si colpirono, ma forse per errore. Quando il gabinetto pubblico fu tolto, per consunzione, Garibaldi perse quel suo punto d’onore, la sua sciabola finì per sostenere drappi e bandiere per le elezioni, rossi vessilli sportivi per la Turris e azzurri per il Napoli, ed anche qualche indumento intimo femminile frutto di conquiste difficili, per la gioia dei concupiscenti occhi di qualcuno che di fronte abitava. Ora da tempo la sciabola non fa altro che ospitare qualche pigro piccione o tagliare il vento dell’alba che cala dalla Strada Regia del Purgatorio, dividendolo per darne un po’ per uno.Altro ancora di quei luoghi avrei da narrare, ma sarà per un’altra volta.



Prof. Ciro Adrian Ciavolino



ID: 8017  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: domenica 6 gennaio 2008 Ore: 23:48

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


Maggio chiude le porte all’inverno che si è portato troppo avanti, sino ad aprile, maggio ci ha illusi di una primavera sfuggente, che ha fatto la ‘nguattarella agli angoli delle strade, oggi è il primo giorno di giugno e piove, timide ginestre s’affacciano ai cancelli della scuola in via Veneto, si vergognano di essere in una prigione di città, un petalo mi cade nella mano, ora vado lontano, dove le ginestre vivono la loro terra, lontano, attraversando il fiume della nostra vita, vado al di là del fiume, un fiume di parole, quando si parlava della terra, un piccolo podere ai Camaldoli era la terra, andiamo ‘ncoppa ‘a terra, è primavera.

Immagine a lato: … Non pasava di lì che qualche carretto…


Sapevamo camminare sottobraccio, tutti, per Via del Monte, raramente dovevi spostarti in una rientranza dei muri di cinta che costeggiano la strada, non passava di lì che qualche carretto, se un carretto passava, o un contadino con una sporta sulla testa, ritto come un telamone, una cariatide vivente, col suo incedere dondolante, il passo memore di ogni punto dei bàsoli antichi che calpestava, un equilibrio come una danza di satiro, come le figurine dei vasi greci trovati sulle spiagge del Cilento, o sotto la cenere dell’eruzione vesuviana del settantanove, nulla era cambiato nel disegno di quelle figure senza tempo, la fissità dei loro sguardi si fermava nei nostri occhi.
Salire ancora, ancora, ecco siamo arrivati, questa è la nostra terra.
La giara, o giarra, è un recipiente grande, ma noi chiamiamo giarra una brocca. Ma tant’è, noi diciamo ancora giarra, ci piace dire giarra. Era pronta piena di vino rosso sul tavolo di legno sfatto sotto il pergolato, benvenuti, poggiate pure qui la chianella di pesci e i frutti di mare, il fuoco è già acceso nel focolare, mangeremo all’aperto, la giornata è bella. Sotto il pergolato il sole a frammenti si divertiva su di noi, sulle nostre guance giocava una tavolozza di luce ed ombra, il cane abbaiava di questa presenza inaspettata, i gatti erano straniti, le galline ci ignoravano, mentre da lontano giungeva ogni tanto il fruscìo di rare automobili o di camion sull’autostrada, il treno con i colori pompeiani mandava segni del suo passaggio, la chiesa del colle dei Camaldoli dormiva nel suo silenzio, il mare mandava brividi luminescenti, non lesinava una brezza che riusciva ad attraversare tutta la città e venire fin qui, sfaldandosi e ammorbidendosi sui grandi guanciali delle pinete.


Foto a lato: …Le ginestre non erano prigioniere dietro le cancellate…



Eravamo in campagna, eravamo veramente in campagna. Ed era primavera.
Le ginestre non erano prigioniere, come in pena dietro le cancellate di via Veneto; ci prestavano attenzione, piene di dignità, non erano meste come quelle dietro le sbarre, mi convincevo che erano lì ad aspettarci, e si sentiva un cigolìo di catena, il secchio saliva dal pozzo per rifornire le bacinelle preparate per sciacquarci la faccia, avrei potuto attingere acqua per i loro gialli capricci, coglierne steli, agghindare i capelli delle giovani donne che cominciavamo a guardare con occhi concupiscenti, maliziosamente soffermandoci sulle mollezze dei loro fianchi generosi, sulle volute delle loro ginocchia, sui rossori delle loro gote, mentre sul tavolo si aprivano le mappate, il trionfo del nostro mare si sposava alle ceste di fave e alla sperlunga piena di fette di prosciutto, ci sarebbe voluto soltanto una fervida tavolozza, di Irolli o di Migliaro, o meglio di Giovan Battista Ruoppolo, chi più di lui tanta dovizia avrebbe potuto esaltare, la nostra in quelle primavere era una festa di colori, di amori, di innocenza.

Immagine a lato: … Mi accompagno a un ombrello. Piove…


Sono un uomo di terra e di mare, sono anch’io poeta e contadino, sono anche marinaio senza poesia di mille porti sognati, non so dove voltarmi, se amare una Driade o una Nereide, dovrei pur decidermi un giorno, sapere dove andare.
E mi domando chi sono io se vengo dal mare, e volgo uno sguardo alla campagna, se la attraverso fuggevolmente nella mia carrozza di metallo, e mi colgono non pennellate di ginestre, ma lividi riflessi di rilucenti teli di plastica che avvolgono e fasciano quei pezzi di vita che era la mia terra, ora non mi porta se non un pensiero nebuloso, mi tradisce in questo piovoso primo giorno di giugno, non mi dona la primavera, ma un petalo soltanto di una ginestra che s’affaccia alle inferriate della scuola elementare di Via Veneto, come in prigione.
Mi accompagno a un ombrello.
Piove



Ciro Adrian Ciavolino


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