CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino
LO STRUMMOLO Nella rubrica “Ditelo al Mattino”, quotidianamente e amorosamente retta da Pietro Gargano, che ogni domenica ci porta anche i dolci deliziandoci con una pagina da conservare e che conservo, “una canzone una storia”, un viaggio dentro il meglio della canzone napoletana, in questa rubrica, dicevo, si discute spesso sul nostro dialetto, e sarebbe meglio dire la nostra lingua. Recentemente si disserta sull’etimologia di scugnizzo che deriverebbe dal verbo scugnà, dal latino excuneare, cioè rompere. Qualcuno ritiene che potrebbe derivare dal battere pertiche su alberi di noce per farne cadere i frutti, un attodetto scugnà ’e nnoce, e per ciò i ragazzi impiegati per la raccolta, imbrattati da quel mallo, chiamati scugnizzi. Altri ritengono che scugnà, cioè scalfire, indicherebbe l’atto di dar di punta con lo strummolo su quello del perdente in una gara di abilità con tale trastullo. Scugnà, ferite inflitte che erano dette da noi zeppate. Strummolo, parola che oggi, detta a un ragazzo, non avrebbe significato, bisogna dire trottola, e magari penserà a quella di latta alla quale si dà forza premendo verticalmente su un perno a molla. Entrambe parole onomatopeiche; ma quanto è più bella strummolo, spesso pronunciata per deformazione di altra che si vorrebbe profferire,per ingiuriare chi riteniamo degno di un certo appellativo. C’erano virtuosi di strummoli, capaci di non farli toccare terra, riportandoli in aria e accogliendoli in una mano senza che perdessero carica e velocità, con lo srotolarsi dello spago tenuto inanellato all’anulare o al dito medio, che disegnava ghirigori nell’aria, uno schiocco come di frusta, la mossa accompagnata da un passo di danza, una gamba avanti e una dietro, e ancheggiando per portarsi con la mano dove lo strumento volava, con movimento repentino ancorché dolce, con pose da satiri ebbri, come sculture ellenistiche scavate nella nostra cenere vesuviana, giovani con facce scure, proprio come quelle degli scugnizzi sempre al sole, con denti, vedi il caso, scugnati, a lanciare strummoli in aria, come sciabolate di lame scugnate, dovevado a finire ora, non so.Lo strummolo è un’opera d’arte. Giacchino - la O ce la siamo sempre bevuta - era un artista con bottega al Corso Cavour, un esempio nei primi anni dell’ottocento di strada sopraelevata, sull’eruzione del1794; prima di Cavour non so come si chiamasse, qualcuno mi aiuti, e poi, che c’importa di Cavour, chiamiamola Corso Giacchino degli Strummoli, ma sì, con le maiuscole, sarebbe molto più poetico, digusto rinascimentale. A quest’omino io vado pensando ogni qualvolta da quelle parti passo, curvo al suo rudimentale tornietto manovrato da un pedale, con la porta al sole, intorno un muro di facce, la folla di noi ragazzi ad aspettare il turno e chiedere quello piccolo perché i soldi erano pochi, arrivavano quelli più grandi di noi e ci scalzavano,facendosi servire lestamente, ordinando strummoli che non avremmo saputo manovrare. Il prezzo oscillava, a seconda della grandezza e delle linee colorate che si chiedeva ornassero quell’opera, rosse gialle azzurre, un arcobaleno su quel cuore di legno sfuggente sui bàsoli, il piripisso che poteva rompersi ad una caduta, cos’è il piripisso, come spiegare un piripisso, un mezzo estremo decorativo e funzionale, quella specie di infiorescenza di melagrana, la fiammella sopra il Cuore di Gesù, un capezzolo. Equilibrio. Senza equilibrio lo strummolo è un’opera non riuscita. Senza equilibrio lo strummolo traballea. Insomma non si azzeccavanterra, come speravamo, i nostri piccoli modesti strummoli traballiavano sempre.
Cercate di capirmi, scrivo come scrivo, non datevi da fare per correggermi, so quello che scrivo. Giacchino insomma arronzava chi spendeva poco, non metteva cura nel centrare il perno, che era un chiodo senza testa e la punta addolcita, lo strummolo imperfetto quindi traballiava. Più era piccolo più traballiava, era uno strummulillo. Necessitava una correzione, trovare un mezzo empirico, tradizionale, culturalmente quasi imposto, dettato da esperienza, ma non eravero niente. V’erano due sistemi, suggeriti dagli esperti, per non farli traballiare: togliere il perno, mettere nel cuore dello strummolo una mosca, allora bisognava acchiappare una mosca e metterla viva là dentro, come al centro della terra, meglio metterne due, rimettere il perno. L’altro sistema era mettervi merda di cavallo, quella gialla, stopposa, non proprio fresca: mosche o merda di cavallo non ne mancava, le nostre strade ne erano piene, per prenderla bisognava attendere l’ora pigra di lunghi sonnolenti pomeriggi, per non vergognarci troppo, meglio far finta di scalciarla e mandarla nel vicolo, si poteva raccoglierla con uno sterpo, se non anche con le dita: ecco, la merda di cavallo era più accreditata per fare azzeccare nterra i nostri strummoli. Ma traballiavano sempre, e ciò bastava per sentirci infelici; l’operazione, togliere e mettere il perno e imbottirlo di merda faceva perdere ancor più la forza centripeta di quel nostro oggetto di culto, il nostro Lare, una lignea mammella d’adolescente da custodire in una mano, mentre giovani scalzi e no, scugnizzi e no, facevano azzeccare sui basoli di lava strummoli grandi quanto una capa di criatura. Nelle gare di carriaggio, difficile spiegare, insomma mandare altrove lo strummolo del concorrente con il nostro, perdevamo sempre, ci infliggevano sempre zeppate, quante zeppate abbiamo avuto, quante zeppate ci danno ancora. Devo smettere. Non disperate però, di strummoli azzeccati nterra ne trovate ancora, basta girarsi intorno. Ma questa è un’altra storia.
Ciro Adrian Ciavolino
(N.d.R.) Strummolo, so nu nano e’ lignamme: na funicella castana me stravoglia 'a cinquant'anne ma spisso me fa da' capat’ n’facc’o'muro fin a quanno trabballo, fin a quann’ abbocca 'a capa nterra, cu 'a coscia 'e fierr ca sap ‘e tétano; 'a funicella s'è cunzumata, s'e fatta stoppa, nun me dà cchiù a forza ’e m’aiza’ semp’ allerta, e’ gira ’n'ata vota, n’at’anno, n’atu mese, fino a che me fermo e m'abbocca 'nterra pe ssempe.
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