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Argomento presente: « 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino CINQUE »
ID: 8076  Discussione: 3 CONCHIGLIE di C. Ad. Ciavolino CINQUE

Autore: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Scritto o aggiornato: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:59



Pigia la freccia e regola il volume per l'ascolto di "’O sudato nnammurato" cantata Massimo Ranieri

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino

A Te, o grande eterno Iddio,
Signore del cielo e dell’abisso,
cui obbediscono i venti e le onde,
noi uomini di mare e di guerra,
Ufficiali e Marinai d’Italia,
da questa sacra nave armata
dalla Patria leviamo i cuori!
Salva ed esalta, nella tua fede,
o gran Dio, la nostra Nazione.
Dà giusta gloria e potenza
alla nostra Bandiera, comanda che l
e tempeste e i flutti servano a Lei;
fa che per sempre le cingano in difesa petti di ferro,
più forti del ferro che cinge questa nave: a Lei per sempre dona vittoria!

Nella foto a lato la famosa preghiera di Antonio Fogazzaro

Ora l’estate è qui, siamo pronti per i saluti, tu dove vai d’estate, noi andiamo o non andiamo, si dice per dire, ma cosa importa dove vado, ci disperderemo su coste ignote, che non ci appartengono, fors’anche ostili o, meglio, rimanendo quaggiù, tra le rocce grigio viola del laghetto, cos’è il laghetto, potrebbe chiedermi qualcuno che non sa cos’è il laghetto. Il laghetto è un sogno, il laghetto non è veramente un laghetto, è un capriccio di mare, dove in tempi acerbi di bagni già trovi certuni in quell’ angolo antico di duemila anni, un gruppo amante di quella rena, di quelle piante di capperi che spuntano tra rocce laviche e cenere vesuviana, sotto le antiche terme di Villa Sora, decantate, dipinte, oltraggiate, dimenticate, nel silenzio rotto dai treni che vanno al sud, ragazze ai finestrini salutano, lasciano gli studi dei nostri atenei, tornano nel Cilento, nel Salento, saranno baciate dal vento della piana di Sibari, ritroveranno le vele sul mare come quelle dei greci che qui vennero, dove nacque la Magna Grecia tra il Tirreno, lo Ionio, dell’Adriatico, tre mari e lì nell’angolo ecco, c’è Taranto. Taranto.
Un ritorno, laddove mia moglie nacque. Tornammo, ritrovammo parenti che ormai non ci chiamano più, non ne ricordiamo neanche i nomi, aspettavamo eventi, ci incantammo al ponte girevole, passavano navi con marinai schierati, aspettavamo il gran momento del giuramento delle reclute, eravamo lontani sugli spalti, cercavamo nostro figlio tra quelle squadre che marciavano, ci sbagliavamo qualche volta, lo individuammo quando era più vicino, ecco, Michele è lì, è lì. Ora siamo certi, eccolo, è lì. Chi non ha assistito a un giuramento non sa, non conosce quella commozione, mista di patriottismo e di orgoglio filiale. A Michele, per errore di documenti, gli diedero qualifica di cannoniere, gli posero sul braccio un distintivo di stoffa con due bocche di cannoni ottocentesche, lo mandarono sull’incrociatore Duilio, andammo a trovarlo nel porto militare di Taranto. Cosa dovesse fare lui con i cannoni, non sapemmo mai, finchè non lo riabilitarono con i suoi reali titoli di geometra in più idoneo mestiere di marinaio alla capitaneria di Pescara.
La nostra è una città di marinai, erano belli i marinai, ancor più d’estate, con le loro bianche divise, dovevano uscire di casa, se erano in licenza, con la divisa, a loro piaceva uscire a gruppi, nelle loro orecchie ronzava una vecchia canzone, Signorine non guardate i marinai... perché... perché...

Nella foto a lato lo storico cimitero sardo dei marinai del 1855 quando la fregata Sémillante naufragò a Sud Ovest di Lavezzi presso la Maddalena in Sardegna. Furono 695 vittime.

Al cimitero c’è un ossario comunale, lapidi ricordano marinai morti in guerra, con le loro qualifiche e lettere tolte ai loro nomi da taluni che, perdendone qualcuna dai nomi dei loro defunti, vanno lì a prendersi quella che occorre, mancano lettere alle lapidi ad altezza d’uomo, se uomo è chi ruba lettere dalle tombe dei marinai. E ciò vedendo, ora è una settimana, pensai che avrei potuto scrivere dei marinai. Cominciavo a scrivere nella mente, come faccio, per giorni. Ma ci sono eventi straordinari, il destino a volte aiuta, disponendo occasioni che soccorrono, o si impongono.
Dopo molti anni, molti, sono andato alla casa di mio fratello Francesco, era un richiamo, per certe strane coincidenze, come dicevo, subliminali percorsi di vita che ti accompagnano per mano. Mi fanno entrare in una stanza per rivedere quadri di inspiegabile costruzione naif da lui dipinti quando aveva già sessant’anni, tra questi trovo una specie di diploma, attestato: Ministero della Marina, il Marò Ciavolino Francesco, matricola 46000, è autorizzato a fregiarsi della medaglia commemorativa della Spedizione in Albania. Bollo e firma, 7 marzo 1940.
Nella mia vecchia casa di Vico del Pozzo numero quattro un berretto di marinaio tornava sempre, mio fratello era a Taranto sulla corazzata Cavour, tornava con le fotografie nelle quali lo vedevo sorridente tra due lunghi cannoni. Si legano oggi in un sogno luoghi, navi, divise, ritorna l’Albania, dove potrei andare, Giancarla Barberio Di Maio mi offre volentieri ospitalità su una nave della Dimaiolines, si legano alle parole memorie di viaggi, di gloria, di mare, di presagi, di addii, di marinai, di preghiere.


Benedici, o Signore,
le nostre case lontane, le care genti.
Benedici nella cadente notte il riposo del popolo,
benedici noi che, per esso, vegliamo in armi sul mare!
Benedici!

Antonio Fogazzaro


Cerimonia Giuramento marina militare a Taranto nelle CEEM anni 90



Lucio Dalla come fanno i marinai



Marcia d'ordinanza Marina militare
Inno del Battaglione S.- Marco della Marina Militare
La Ritirata .- Marina militare
Inno Nazionale - Banda della Marina Militare



Ciro Adrian Ciavolino


 
 

ID: 16647  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:59

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ID: 8078  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: martedì 15 gennaio 2008 Ore: 02:01

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


Pigia la freccia per l'ascolto delle antiche voci degli ambulanti torresi
che giravano con asino e carretto per le strade torresi. Regola il volume

CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


Forse da bambino, forse da ragazzo, certamente da giovinetto. Ha fatto sempre questo. Se potessimo far vedere le fotografie che ci ha dato, trovereste tutte le sue età di uomo da bancarella. Vedreste un panchetto che nel tempo guadagna ruote e spazio, guadagna in altezza, diventa un carrettino, poi un trono, diventa un piccolo Altare della Patria, a colori,tutti i colori della natura, diventa l’ultimo scenario di cìceri e semmienti, di cocco, di prugne secche, di sciuscelle infornate, di lupini, di fichidindia. Il suo viaggio culmina davanti alla Villa Comunale, lì ha elevato il suo domicilio, il suo negozio, la sua felicità, la sua libertà, la sua fatica.


Nella foto a lato: alcuni dei più “gettonati” spassatiempe atti a lenire ansia, emosioni ed entusiasmo della vecchia celluloide

Le stagioni passano su quella faccia che ha incontrato tutti i venti di questo quadrante ruvido di tramontana e umido di scirocco. Ma il tempo passa. Portato una volta con disinvoltura, il suo esercizio diventa ogni giorno più pesante, specialmente di sera, quando Vittorio Di Grazia e sua moglie Franca Buonocore devono tornare a casa spingendo il carretto, Corso Avezzana 29, tutto in salita, soste sempre più ravvicinate, d’estate è un calvario civile, quel trionfo barocco una croce, Cristo e il suo cireneo, le fermatele quattordici stazioni di una quotidiana Via Crucis.
Non gli chiediamo nulla, soltanto qualche data, nomi, ma c’è qualcosa che neanche lui sa dire, ci aiuta un frettoloso passante, Pasquale Samasco, per sapere come si dice, ‘a ppezzata o ‘a zzeppata, e costui dice ‘appezzata. Altri mi diranno ‘a zzeppata, altri non sanno decidere, chiamiamola come io forse dicevo, ‘a zzeppata, che importa, chi lo sa lo sa, chi vuole ce lo venga a dire, se ci tiene.

Nella foto a lato: Azzeppata”, una sorta di strategia di vendita tra gioco e “vulìo”.

Ma dobbiamo dire cosa è ‘a zzeppata, che anche Vittorio allestiva, dalla parte del Cinema Vittoria e del Cinema Iris, due locali spalla a spalla, una specie di multisala archeologica, se andiamo a scavare troviamo gabbiette antiche per fichidindia e coltelli per azzeppate, era lì che si volgevano rituali, come davanti ad are del dio Mercurio, o Marte, con un officiante che aveva postura sacerdotale, ma non ci perdiamo, diciamo cos’è ’azzeppata. E’ una sfida, una singolar tenzone tra un uomo armato di coltello e un altro armato di furbizia.
Il venditore di fichidindia allestiva il calice, il trofeo sacrificale, un mucchietto di tre, o cinque o più fichidindia disposti a piramide. Per un prezzo della metà del costo dei frutti, composti su una gabbietta rovesciata o un piccolo tavolaccio, lo sfidante officiante aveva facoltà, facendo cadere un coltello dall’altezza canonica della sua cintola, di infilzarli tutti, e quindi guadagnare pagandoli di meno. Ma difficilmente si vinceva, Vittorio mi spiega il trucco, in alto mettevano i fichidindia più maturi, pur infilzandoli si doveva alzarli e portarli fuori dell’area di gioco, insomma a lato del mucchietto, il frutto troppo maturo non tratteneva la lama che spesso non riusciva a reggere il molle frutto e il gioco finiva. A meno che non vi fosse stata trattativa di prezzo per più azzeppate con una sola puntata, potendo così ritentare. Per una gabbietta piena il prezzo era ovviamente più alto, e a seconda dei tentativi permessi. Era una roulette, il banco alla fine vinceva sempre.

Nella foto a lato: I carrettini di arachidi, sementi, carrube, lupini che allignavano agli ingressi dei cinematografi quando le sale erano 10.000 in Italia, contro le 900 di oggi.

Ma non v’era soltanto il trucco di fichidindia troppo maturi, anche il coltello aveva le sue perfidie, il manico di ferro troppo pesante e la lama affilata e sottile, facevano perdere la verticalità della caduta non cogliendo il bersaglio al centro. Intorno allo sfidante il gruppo degli astanti, sfaccendati, curiosi, o invidiosi come noi, comunque poco adatti a tale rito che poteva farci sentire goffi; ci volevano persone idonee, amanti di sfide, e ce n’erano, avevano un’aria come distratta, con gli occhi nel vuoto, come calciatori chiamati per un rigore, volevano far capire di non essere abili, per calmierare il prezzo, qualcuno aspettava che intorno a sé si radunassero tifosi, erano esibizionisti dell’azzeppata, taluni avevano intrecciato una sfida perenne con il banco, rischiavano piccole fortune, insomma erano diventati azzeppatadipendenti, qualcuno proponeva, con prezzo variato, il proprio coltello, in certe tasche non mancava.

Nella foto a lato Alan Ladd nel film “Il Cavaliere della valle solitaria”

Si poneva davanti alla preda come un cavaliere del West, magari imitando l’eroe del cartellone con il manifesto del film western in programma, si sentiva come Alan Ladd, il Cavaliere della valle solitaria, divaricava le gambe, impugnava il coltello con una mano e l’altra la poneva davanti alla lama come per nasconderla a qualsiasi filo di vento che potesse turbarne la traiettoria, e per trovare la giusta mira, la lasciava cadere, erano attimi interminabili e, riuscendo a catturare un ficodindia, lo mostrava come se avesse catturato Geronimo, il capo degli apache chiricaua. Travolti dall’invidia, non ci restava che entrare nel cinema, nella flatulenza che ci accoglieva come sotto un manto di sterco, e sotto un raggio di luce decorata da arabeschi di fumo, sognavamo di poter avere un cavallo bianco, come Ken Maynard. Ma pure questa è un’altra storia.



Ciro Adrian Ciavolino



ID: 8077  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: martedì 15 gennaio 2008 Ore: 00:28

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino



CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino

LO STRUMMOLO


Nella rubrica “Ditelo al Mattino”, quotidianamente e amorosamente retta da Pietro Gargano, che ogni domenica ci porta anche i dolci deliziandoci con una pagina da conservare e che conservo, “una canzone una storia”, un viaggio dentro il meglio della canzone napoletana, in questa rubrica, dicevo, si discute spesso sul nostro dialetto, e sarebbe meglio dire la nostra lingua. Recentemente si disserta sull’etimologia di scugnizzo che deriverebbe dal verbo scugnà, dal latino excuneare, cioè rompere. Qualcuno ritiene che potrebbe derivare dal battere pertiche su alberi di noce per farne cadere i frutti, un attodetto scugnà ’e nnoce, e per ciò i ragazzi impiegati per la raccolta, imbrattati da quel mallo, chiamati scugnizzi. Altri ritengono che scugnà, cioè scalfire, indicherebbe l’atto di dar di punta con lo strummolo su quello del perdente in una gara di abilità con tale trastullo.

Scugnà, ferite inflitte che erano dette da noi zeppate. Strummolo, parola che oggi, detta a un ragazzo, non avrebbe significato, bisogna dire trottola, e magari penserà a quella di latta alla quale si dà forza premendo verticalmente su un perno a molla. Entrambe parole onomatopeiche; ma quanto è più bella strummolo, spesso pronunciata per deformazione di altra che si vorrebbe profferire,per ingiuriare chi riteniamo degno di un certo appellativo.
C’erano virtuosi di strummoli, capaci di non farli toccare terra, riportandoli in aria e accogliendoli in una mano senza che perdessero carica e velocità, con lo srotolarsi dello spago tenuto inanellato all’anulare o al dito medio, che disegnava ghirigori nell’aria, uno schiocco come di frusta, la mossa accompagnata da un passo di danza, una gamba avanti e una dietro, e ancheggiando per portarsi con la mano dove lo strumento volava, con movimento repentino ancorché dolce, con pose da satiri ebbri, come sculture ellenistiche scavate nella nostra cenere vesuviana, giovani con facce scure, proprio come quelle degli scugnizzi sempre al sole, con denti, vedi il caso, scugnati, a lanciare strummoli in aria, come sciabolate di lame scugnate, dovevado a finire ora, non so.

Lo strummolo è un’opera d’arte. Giacchino - la O ce la siamo sempre bevuta - era un artista con bottega al Corso Cavour, un esempio nei primi anni dell’ottocento di strada sopraelevata, sull’eruzione del1794; prima di Cavour non so come si chiamasse, qualcuno mi aiuti, e poi, che c’importa di Cavour, chiamiamola Corso Giacchino degli Strummoli, ma sì, con le maiuscole, sarebbe molto più poetico, digusto rinascimentale. A quest’omino io vado pensando ogni qualvolta da quelle parti passo, curvo al suo rudimentale tornietto manovrato da un pedale, con la porta al sole, intorno un muro di facce, la folla di noi ragazzi ad aspettare il turno e chiedere quello piccolo perché i soldi erano pochi, arrivavano quelli più grandi di noi e ci scalzavano,facendosi servire lestamente, ordinando strummoli che non avremmo saputo manovrare.
Il prezzo oscillava, a seconda della grandezza e delle linee colorate che si chiedeva ornassero quell’opera, rosse gialle azzurre, un arcobaleno su quel cuore di legno sfuggente sui bàsoli, il piripisso che poteva rompersi ad una caduta, cos’è il piripisso, come spiegare un piripisso, un mezzo estremo decorativo e funzionale, quella specie di infiorescenza di melagrana, la fiammella sopra il Cuore di Gesù, un capezzolo. Equilibrio. Senza equilibrio lo strummolo è un’opera non riuscita. Senza equilibrio lo strummolo traballea. Insomma non si azzeccavanterra, come speravamo, i nostri piccoli modesti strummoli traballiavano sempre.

Cercate di capirmi, scrivo come scrivo, non datevi da fare per correggermi, so quello che scrivo. Giacchino insomma arronzava chi spendeva poco, non metteva cura nel centrare il perno, che era un chiodo senza testa e la punta addolcita, lo strummolo imperfetto quindi traballiava. Più era piccolo più traballiava, era uno strummulillo. Necessitava una correzione, trovare un mezzo empirico, tradizionale, culturalmente quasi imposto, dettato da esperienza, ma non eravero niente. V’erano due sistemi, suggeriti dagli esperti, per non farli traballiare: togliere il perno, mettere nel cuore dello strummolo una mosca, allora bisognava acchiappare una mosca e metterla viva là dentro, come al centro della terra, meglio metterne due, rimettere il perno. L’altro sistema era mettervi merda di cavallo, quella gialla, stopposa, non proprio fresca: mosche o merda di cavallo non ne mancava, le nostre strade ne erano piene, per prenderla bisognava attendere l’ora pigra di lunghi sonnolenti pomeriggi, per non vergognarci troppo, meglio far finta di scalciarla e mandarla nel vicolo, si poteva raccoglierla con uno sterpo, se non anche con le dita: ecco, la merda di cavallo era più accreditata per fare azzeccare nterra i nostri strummoli. Ma traballiavano sempre, e ciò bastava per sentirci infelici; l’operazione, togliere e mettere il perno e imbottirlo di merda faceva perdere ancor più la forza centripeta di quel nostro oggetto di culto, il nostro Lare, una lignea mammella d’adolescente da custodire in una mano, mentre giovani scalzi e no, scugnizzi e no, facevano azzeccare sui basoli di lava strummoli grandi quanto una capa di criatura. Nelle gare di carriaggio, difficile spiegare, insomma mandare altrove lo strummolo del concorrente con il nostro, perdevamo sempre, ci infliggevano sempre zeppate, quante zeppate abbiamo avuto, quante zeppate ci danno ancora. Devo smettere. Non disperate però, di strummoli azzeccati nterra ne trovate ancora, basta girarsi intorno. Ma questa è un’altra storia.



Ciro Adrian Ciavolino



(N.d.R.)
Strummolo,
so nu nano e’ lignamme: na funicella castana
me stravoglia 'a cinquant'anne
ma spisso me fa da' capat’ n’facc’o'muro
fin a quanno trabballo, fin a quann’ abbocca 'a capa nterra,
cu 'a coscia 'e fierr ca sap ‘e tétano; 'a funicella s'è cunzumata,
s'e fatta stoppa, nun me dà cchiù a forza ’e m’aiza’ semp’ allerta,
e’ gira ’n'ata vota, n’at’anno, n’atu mese, fino a che me fermo
e m'abbocca 'nterra pe ssempe.



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