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Argomento presente: « 3 CONCHIGLIE Ciro Ad. Ciavolino SEI »
ID: 8100  Discussione: 3 CONCHIGLIE Ciro Ad. Ciavolino SEI

Autore: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Scritto o aggiornato: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:59




Mix napoletane di Lello Pugliese




CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


PROFUMI
Appena nati, dopo un lavacro da materni umori, fummo avvolti da una nuvola di borotalco. Era minerale, il primo contatto con la terra. Il borotalco non era borotalco, forse neanche la mammana usava dire borotalco, quella nuvola per angelo senza ali era ’a póvere, ’a póvere, sì, ’a póvere. Non era neanche in un recipiente frivolo, come al borotalco sarebbe convenuto, qualche bustina di póvere era stata comprata, chissà, da un cartolaio che vendeva di tutto, anche merce per toilette, oppure in un negozio dove profumi di lavande, saponi e ciprie si confondevano per disorientarci come animali smarriti dal branco.


Immagine a lato: Dal nostalgico “sapone di piazza” e “Povere ‘e sapone” = talco ai profumi moderni


Profumi. Lavanda. Brillantina. Allume. Borotalco. ’A póvere. Mio padre aveva un modesto negozio di barbiere e in quello spazio dove mi ritrovavo di spalle, di profilo e di tre quarti per un gioco interminabile di specchi, dove sembrava si dovesse provare l’idea fisica dell’infinito per una ripetizione e moltiplicazione delle immagini, le nuvole di póvere cosparse sulle facce ruvide di calafati e marinai, con qualche signore che andava avanti e indietro per farcia scoltare lo scrocchio delle scarpe che lo esaltavano, annebbiavano il mio infinito, i miei cloni riflessi, i miei tuttotondi falsi. Da lì il cliente usciva sentendosi rinfrancato, come protetto dalle sue essenze che avrebbe condotto con sé fino a casa, forse pensando a una notte di amplessi vertiginosi per i turbamenti imposti dall’acqua profumata e dalla póvere.
Nella casa comune, nostra, dove camminavo tra gonne lunghe e scure e piene di pieghe come le sculture greche arcaiche, per la loro ampiezza e per il gioco di una serie infinita di càmmisi, sottogonne e mantesini, le donne illuminavano le gote con póvere color rosa, con sottili tamponi strofinati in scatolette rotonde, marca Coty. Era la cipria, forse dono di naviganti che portavano frenesie d’oltremare insieme ai servizi da caffè o da the di porcellana giapponesi, con draghi a rilievo tutt’intorno, un po’ inquietanti, tazzine trasparenti come il volto diafano di quelle donne d’oriente che nascondevano il viso sotto ombrellini di seta, il loro volto si poteva scorgere guardando il fondo della tazzina in controluce, ho immaginato viaggi in Giappone al suono dolce dello strofinìo delle tazze sui piattini leggeri.


Immagine a lato: il talco più famoso nel mondo: il Borotalco


Non era difficile che dalla strada arrivasse, come arrivava, specie la domenica mattina, il suono di un pianino dai cui cilindri veniva fuori il motivo di Balocchi e Profumi, mamma, mormora la bambina, mentre pieni di pianto ha gli occhi, perla tua piccolina non compri mai balocchi, mamma tu compri soltanto profumi per te, la canzone decideva crisi di coscienza per le nostre donne, a quella canzone erano trascinate, ad ogni tocco di cipria, quasi un senso di colpa, mentre si intravedeva un impalpabile velo di póvere, nobile e luminescente in un raggio ben definito di sole che come una lama tagliente entrava dalle imposte socchiuse.
Ma erano pur sempre profumi, come quelli delle nostre facce che per un rituale primaverile avevamo lavato in una bacinella piena di petali di rose, di buon mattino, per la festa dell’Ascensione, riti propiziatori, come quelli antichi, che venivano da lontano, unguenti per esorcizzare la morte, profumi che si spargevano sulle are sacrificali, per assolvere acidi odori di sangue dove si immolavano fanciulle alle dee, a Venere, alla bellezza, all’amore, ah sì, l’amore, che pretende profumi, ma forse no, un profumo violento e insostenibile mi ha talvolta procurato una caduta emotiva, se posso dire così.

Immagine a lato: una tela tenera di madre e figlio

Alla donna può non servire se i suoi umori carnali travolgono più di costose essenze, in fondo Orazio l’aveva detto che la donna ha un buon profumo quando non ha nessun profumo. Abbiamo avuto i nostri profumi, primordiali, veraci, dalla natura. Ci siamo inebriati all’odore del mare, delle alghe, della sabbia scura pregna di cristalli del Vesuvio, di scivolose chiane, del legno e della stoppa incatramata nei cantieri, di reti di filo stese al sole ad asciugare, di scogliere, di scirocco molle sui muri volti al mare, di maestraleche ci inargentava i capelli, di grandi onde, di pioggia sul basalto dei moli. E di ginestre, di lapilli, di menta, di basilico, di tramontana, dilicheni, e di stalle, e di caffè abbrustolito in una macchina manuale cilindrica, nera di fuoco di sarcinelle, e di pullanghelle vendute perla strade nei pomeriggi assolati e deserti, di castagne allesse, di caldarroste, di castagne spezzate rammollite sul braciere, di pigne sotto la cenere del focolare, e di conserva di pomodoro ncoppa ippetturate ’i ll’astichi, nel veleggiare di biancheria stesa al sole.
Ma quale profumo più dolce nella nostra vita, se non quello di una madre, del suo seno nel quale ci siamo rifugiati, per piangere, perprendere latte, per dormire, per ascoltare cunti, per ridere, per dire,come una volta bambino le dissi, mammà, tengo nu compagno.



Ciro Adrian Ciavolino


APPENDICE:


Luciano Taioli nella storica interpretazione di “Balocchi e profumi” di E.A.Mario:


Adesso per sorridere un po’ - Balocchi e profumi in chiave ironica:


 
 

ID: 16648  Intervento da: la redazione  - Email: info@torreomnia.it  - Data: giovedì 13 novembre 2014 Ore: 01:59

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ID: 8103  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: domenica 20 gennaio 2008 Ore: 22:50

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino


Il Vino


Il vino la più sordida stambergasa rivestire di un miracoloso lusso e crea favolosi porticati dentro l’oro del suo vapore rossocome un tramonto in cielo annuvolato. Charles Baudelaire “I fiori del male”, XLIX - Il Veleno - Forse erano questi i versi che dedicai a Vicienzo ‘a Catrammella, o altri, in una delle “Lettere impossibili” che pubblicavo su “La Ginestra”, uno storico e raffinato mensile che dirigeva Peppe Sbarra e Tommaso Gaglione, il quale mi onorava della terza pagina, forse erano questi i versi, dovrei scavare in tre o quattro iceberg di libri ed altre carteche sempre più guadagnano spazio e avanzano verso l’isola di me.
Era una lettera a Baudelaire, ma di costui non parlo, dei suoi amici pittori non parlo, saggi d’arte non ne faccio e non ne visito, ai miei mulini non porto acqua e poi mi dico chi me lo fa fare, perché devo essere sempre così discreto, ancora sulla Tofa non mi son permesso di mettere un’operina mia, un giorno o l’altro potrei pur dirmelo chi me lo fa fare ad essere così discreto, ci penserò, se ci penso perché no.

Immagine a lato: il paesino lucano


Era alla metà di agosto, eravamo stati alla Festa delle Cantine, nella cittadina che mi ha adottato, Sant’Angelo Le Fratte, in Lucania. Siamo ancora andati per vino questa estate, siamo andati alla Festa delle Lucerne di Somma Vesuviana, abbiamo mangiato su una botte, in un vecchio cortile poroso di mille anni di storia, la mitica caponata con pomodori densi di umori vulcanici sui biscotti di grano, ci siamo sentiti pellegrini in un angolo di terra verace, abbiamo levato in alto un bicchiere colmo divino denso di lacrime sgorgate da uva rossa come magma liquefatto, stringendoci poi nella folla sotto semplici frasche e bandierine di carta, dove abbiamo scoperto vicoli illuminati da migliaia di piccole lucerne di terracotta distribuite su esoteriche figure geometriche, il triangolo, il cerchio, l’esagono, il quadrato, come a indicare muliebri sistemi di seduzione, la fertilità dei loro ventri.
Erano corridoi verso l’infinito, centinaia di sagome sempre più piccole costellate di fiammelle primordiali, animate dall’olio delle loro terre.
Immagine a lato: Festa del vino che ricorre da secoli a Boscoreale


Mentre l’autunno ci metteva addosso panni più pesanti, siamo andati alla Festa del Vino a Boscoreale, nell’aria dell’antica Silva Mala, cortei in costume e suoni di strumenti che riaffioravano da memorie perdute, e poi una banda vera in una piazzetta, i piccoli orchestrali di Franco Izzo ci regalavano un’ora di buona musica, tra mura difese per cultura ruvida e amorosa. Ancora il vino novello nei nostri bicchieri di plastica, un frugale pasto a buon mercato trovando riposo su un muretto, Loanna ha comprato castagne del prete, torrone e sciuscielle infornate, abbiamo assaggiato altro vino ed altro ancora, nessuno ci avrebbe guardato con ironia se avessimo cinto le nostre teste di racemi, e foglie di vite, e grappoli d’uva bianca e nera, se avessimo danzato come Bacco e Arianna sui propilei di Atene, sono queste le feste ancora ingenue come quelle campestri, questi non hanno il mare, non vagano in orizzonti d’acqua al di là delle nostre presuntuose prospettive, sono stretti nei confini della piccola comunità ed animano una festa d’assieme, puoi trovare, come abbiamo trovato, negozi che avevano imbandito un piccolo tavolo di pane, vino, frutta, latticini, nelle loro vetrine, pur essendo negozi di altro, abbiamo comprato in una cantina appena sottoterra una bottiglia di caprettone e una bottiglia di vino rosso senza nome.

Immagine a lato: Vino, pane, latticini, leccornie boschesi


Avevo dedicato quei versi alla Catramma, come noi appellavamo quel gaudente signore, e con lui abbiamo levato il calice intorno a tavoli di trattorie dove qualcuno si produceva in brani di Viviani o di qualche poeta maledetto francese, risuonavano risate che venivano dal passato, come se fossero state levigate su antichi bàsoli per asperità di secche bevute, voci ora perdute, finite sotto la terra del camposanto davanti alla Spiaggia del Cavaliere, mi pare di rivederli levare in alto il bicchiere di nettare fecondo di pensieri amorosi, come faceva mio padre la domenica a tavola, quando il pomeriggio incalzava, ma egli ancora versava, nel pesante vetro bianco, aspro e denso vino di botti tumefatte, e stendeva una mano quasi incartapecorita e piena di vene come un estuario, facendola tremolare verso di noi col palmo radente le scorze delle veròle, castagne arrostite, intonando Anèlle, anèlle… Zompa chi po’… La mia amirosa abballa, e io sto ‘a ventuno mise ‘int”e cancelle!...Per la mia bella… Anèlle, anèlle!, mentre aspettavo i pochi soldi per correre al Cinema Savoia, dove gracchiavano voci incomprensibili di cowboys che si muovevano dietro una tendina di graffi bianchi sulla pellicola vecchia come un papiro, in una rivoltante sauna di inenarrabili umori, riavendoci, poi, allo schiaffo fresco della sera che ci affrontava all’uscita da quell’inferno dei terzi posti, riversandoci in Piazza Santa Croce, dove ci aggrediva un temporale di odori, caldarroste, rusicarielli, pere e ‘o musso, acetilene, sterco e urina di cavalli incontinenti sotto le carrozzelle. Ci accompagnavano, rientrando a casa, fioche luci di arrugginiti lampioni, giocando con le nostre ombre che apparivano e scomparivano ora davanti ora dietro i nostri passi lenti, mentre si perdevano e si rincorrevano voci di madri e canti di ubriachi per troppo vino e troppa solitudine.



Ciro Adrian Ciavolino



ID: 8101  Intervento da: Ciro Adrian Ciavolino  - Email: ciroadrianc@libero.it  - Data: domenica 20 gennaio 2008 Ore: 18:54

CONCHIGLIE di Ciro Adrian Ciavolino


CONCHIGLIE
di Ciro Adrian Ciavolino

M e l a g r a n e



Frutto ‘e granato mio, frutto ‘e granato,
quanto t’aggio stimato a tempo antico!
Tienete ‘o muccaturo arricamato,
tutta sta robba mia t’ ‘a benedico.
Quanto si’ bello e quanto si’ curtese!
Io t’era indifferente e mo se vede:
tècchete ‘o muccaturo ‘e seta ingrese,
fussero accise ll’uommene e chi ‘e crede!

Salvatore Di Giacomo: “Lariulà”


Ai Camaldoli. Dietro ai Camaldoli, come diciamo, verso Cappella Vecchia. Nel giardino di un amico, a cogliere melagrane, i rametti spinosi pungono le mani, i frutti spaccati sorridono di grani come rubini scoperti in una miniera, è questa mattina luminosa una caverna d’azzurro, e di sole che brilla su questi grani, occhieggiano come collane ancora rapprese in uno scrigno di gioielli, eccoli i frutti della fertilità e della passione di Cristo, grani di rosario rosso tra le dita di mia madre.

Immagine a lato il melograno, originario dell'Asia Occidentale

Tutta la mia adolescenza e giovinezza s’inghirlandava, come anticosposo, delle melagrane che vedevo fiorire e maturare sull’albero melograno che saliva dal giardino di Donna Sofia, si adagiava con i fiori e poi con i frutti sulla mia loggia al vico del pozzo numero quattro, accompagnava il declino delle estati e degli autunni di quegli anni, i miei amici ancora studenti di canto intonavano nell’unica stanza la romanza di Tosti “L’ultima Canzone”: Foglia di menta/ O fiore di granato/ Nina, rammenta/ i baci che ti ho dato!.
A quel tempo avevo già letto in una vecchia Bibbia il Cantico dei Cantici, L’Elogio alla sposa: …”Come spicchio di melograno la tua gota/attraverso il tuo velo. Oppure: Di buon mattino andremo alle vigne,/vedremo se mette gemme la vite,/ se sbocciano i fiori,/ se fioriscono i melograni: lì ti darò le mie carezze!”
E poi l’Elogio allo sposo: “Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre;/ m’insegneresti l’arte dell’amore./ Ti farei bere vino aromatico/ del succo delle mie melagrane.
In tutta la scultura e la pittura del Cinquecento sono tante le opere con melagrane, da Donatello a Bernardo Rossellino, da Botticelli a Verrocchio, a Leonardo, a Piero della Francesca, fino alla folgore che aprì tutto il Seicento italiano, eccolo, è Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.

Nell’immagine a lato Demetra e Peresefone Figlia di Zeus, padre degli dei, e di Demetra, dea della Terra e dell'agricoltura.

La stagione delle melagrane passava, sui melagrani del giarino, a Cappella Vecchia, le foglie s’erano rinsecchite, qualche frutto tenace ancora pendeva da qualche ramo, come un pendolo, segnava le ore al vento di tramontana che sforava nella sella tra i Camaldoli e il Monte Somma, il frutto era diventato un cranio vuoto, non rappresenta più la kore, la vita, ma Persefone, la fine, la morte, ricordava il tempo dei morti, quando questo cuore rosso si spacca sulla tovaglia bianca come su un altare, come un sacrificio estremo, una liturgia.
Era proprio passata la stagione delle melagrane. Era mentre il frutto secco ancora batteva il tempo sull’albero a Cappella Vecchia e gennaio aspettava la primavera dell’altro anno, quando conobbi Anna che mi disse, appena dopo i saluti, conoscendo il mestiere mio, del suo rammarico di non poter andare a vedere l’artista che lei ama, di non poter andare alla mostra di Caravaggio a Capodimonte, che quasi chiudeva, non permettevano più ingressi.

Nella riproduzione a lato: Cena in Emmaus (1606) Michelangelo Merisi (1573-1610) detto il Caravaggio - Olio su tela, cm 141x175 Milano, Pinacoteca di Brera.

Ma io ho in quel luogo chi può aprire una porta e la aprì ed ecco, dopo Federico II, un altro stupor mundi, Caravaggio è qui, davanti ai nostri occhi, la nuova luce e la nuova ombra, la kore e Persefone, l’artista con il suo nuovo pensiero dell’arte e della vita, l’uomo egli stesso dai forti chiaroscuri, che muore di stenti e di malaria su una spiaggia di Porto Ercole, e in qualche posto sepolto, lì intorno.
La melagrana il suo presagio, i semi stille del martirio, la sua passione e morte: siamo davanti alla Cena in Emmaus, la melagrana è nella cesta, che in parte è fuori del tavolo, per creare un’ombra, per tagliare il lungo segno orizzontale della tovaglia bianca, come a spezzare una vita. Ma la melagrana è anche felicità, è lì nella cesta davanti al Bacco ebbro, pensieroso e con le guance rosse. La stessa, forse. La sua melagrana.

E Salvatore Di Giacomo canta ancora:

Ah, vocca rossa comme a nu granato!
Chi ‘o ssape ‘o tiempo antico si è fernuto?..
.Chello ch’è certo è ch’io sto frastornato,
e ‘o sapore d”o pane aggio perduto!
Si’ stato sempe bello e ntussecuso,
e pure, siente, vide che te dico,
nun me ne mporta ca si’ furiuso,
voglio campà cu te, murì cu ttico!


Ciro Adrian Ciavolino



APPENDICE
Vittorio de Sica - Lettera amirosa di Salvatore Di Giacomo



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