MADRID (26 marzo) - Punta Arenas, porta cilena
dell’Antartide per il passaggio fra Atlantico e Pacifico,
attraverso lo Stretto di Magellano, la taverna «El Diluvio»
non esiste più. Ma anziani e bambini ricordano ancora
Pascualini, l’ultimo pirata della Patagonia, napoletano, eroe
leggendario. Il suo vero nome era Pasquale Rispoli, pescatore
di corallo color «sangre de toro», approdato da Torre del
Greco nella Terra del Fuoco nel 1906 sulle tracce del padre,
Antonio Rispoli Fattorusso, che Bruce Chatwin ne «In
Patagonia» bolla come disertore. Secondo Antonio Pascual
Rispoli Giner, 69 anni, suo omonimo bisnipote che esibisce con
orgoglio la discendenza, solo un «corallaro» e avventuriero.
«Un giorno ritornò a casa a Torre e trovò sul tavolo un
biglietto della bisnonna: ”Non sopporto più la tua assenza, me
ne torno da mia madre coi bambini”.
Lui si ubriacò
come mai nella vita e, fra i fumi dell’alcol, sentenziò: me ne
vado in Patagonia», racconta Antonio. Il nipote maggiore di
Pasquale Rispoli è uno dei 10 consiglieri del Comune di Punta
Arenas, la città di frontiera fondata nel 1843, ultimo ridotto
australe del miraggio della corsa all’oro. La «tierra maldita»
descritta nel 1820 da Darwin nel suo passaggio per lo Stretto
e Capo Horn nella spedizione del Beagle. «Alla morte della
madre - ricorda Antonio Rispoli nella casa municipale in Plaza
Muñoz Gamer - il figlio Pasqualino si mise in testa di
ritrovare suo padre». Comprò un biglietto sul transatlantico
Princesa Mafalda e, da Santiago del Cile, riuscì a trovare un
passaggio come cuoco su una nave per Punta
Arenas.
Ma quando finalmente arrivò, trovò una
città lugubre e oscura. «Era esausto e avvilito - racconta il
nipote - entrò in una taverna del porto, El Diluvio,
frequentata da cacciatori di elefanti marini. Chiese del padre
e con sua enorme sorpresa gli risposero: è quello là, seduto
solo al tavolo... Non si vedevano da 19 anni». La leggenda era
appena cominciata. Il sangue napoletano non mente. Sul suo
cutter di cacciatore Pasqualino, iniziato dal padre al
linguaggio del popolo nomade del mare, gli alacalufes, coperti
di sole pelli di lontra e abituati ad immergersi nudi nelle
acque gelide in cerca di cibo, imparò a muoversi come un
vecchio lupo nel labirinto di fiordi e giacci eterni del Canal
Beagle. In realtà faceva contrabbando fra il Cile e
l’Argentina e rubava sui relitti delle navi naufragate.
«Salpava con qualunque tempo, scaricava in mare i
marinai che parlavano troppo, perdeva regolarmente a carte ed
era disponibile per ogni sorta di incarico», scrive Chatwin.
«Si sono raccontate molte storie sul suo conto, alcune anche
false, che lui stesso alimentava. Una però è certa - assicura
il nipote - mio padre, che ha navigato con lui, diceva che in
mare era un fenomeno: era analfabeta, non sapeva leggere le
carte nautiche e si orientava con le stelle e la luna». Era
l’uomo giusto per l’impresa che l’avrebbe consegnato alla
storia: l’evasione dalla colonia penale di Ushuaia, la città
argentina più australe del mondo, del suo più famoso recluso,
Simon Radowitzky, giovane ucraino simbolo del movimento
anarchico.
In fuga dalla repressione zarista,
Radowitzky era giunto nel marzo del 1908 in una Buenos Aires
pullulante di immigrati da tutta Europa. Era in plaza Lorena
il 1º maggio 1909 alla manifestazione per i martiri di Chicago
culminata negli scontri con la polizia - agli ordini del
colonnello Ramon Falcon - che provocarono 43 fra morti e
feriti. Ed è per vendetta che, nel novembre dello stesso anno,
il ragazzo di Kiev lancia la bomba che fa saltare in aria
Falcon e il suo segretario. Sottratto al linciaggio, si salva
dalla fucilazione, ma verrà mandato nell’inferno alla fine del
mondo, a scontare l’ergastolo.
Oggi nell'antico
presidio per recidivi di Ushuaia, divenuto museo, accanto a
quella di Carlos Gardel c'è la vecchia cella del carismatico
anarchico, matricola 155, al quale venne riservato un
trattamento speciale: 10 anni di isolamento, un mese a pane ed
acqua in ogni anniversario della morte di Falcon e le violenze
delle guardie carcerarie.
«Era l’ottobre del 1918
quando Pasqualino fu contattato per l'evasione di Radowitzky -
riprende Mario Rispoli - Mio nonno era il solo capace di
tirarlo fuori da Ushuaia e imbarcarlo clandestinamente su una
nave. Fu ingaggiato per danaro». L’equivalente di mille
dollari. Per tre giorni, al timone del «Sokolo», Pasqualino
attende il galeotto sulla spiaggia sotto il monte Oliva. Il 7
novembre Radowitzky riesce a lasciare il penitenziario in
abiti civili e mantello da secondino e si imbarca nel luogo
convenuto. Sfilano via nelle acque dello Stretto di Magellano
mentre dal carcere partiva l’allarme per la caccia al
fuggiasco. Il piano del capitano napoletano era sbarcare
l’ucraino in uno degli isolotti disabitati, con viveri per
resistere un paio di mesi, fino a che si fossero calmate le
acque. Ma l’anarchico insiste a puntare su Punta Arenas.
Dopo 4 giorni di navigazione, la goletta è
abbordata dalla marina cilena: Pasqualino spinge il passeggero
a nuoto verso riva, l’equipaggio viene circondato e arrestato
e, poco dopo, finisce anche la breve latitanza di Radowitzky.
«Il giudice rimise mio nonno in libertà con la condizionale
dopo una settimana di carcere duro, perché gli accusati
testimoniarono che era all’oscuro dell’evasione». Il
consigliere Rispoli è sposato con Sonia, dalla quale ha avuto
3 figli e 6 splendidi nipoti. Dal 1995, l’anno della sua prima
puntata a Napoli, cerca di tessere i fili di una storia
familiare che ha generato un mito nell’emisfero sud.
Dell’ultimo pirata napoletano ricorda «l’allegria e la sua
popolarità di raccontastorie con cui intratteneva gli amici al
Salone Alhambra. Gli piaceva cantare ”Mamma, son tanto felice”
e a me ha insegnato ”Torna piccina mia”, che mi fanno cantare
ad ogni festa», assicura Antonio intonandola.
«Pasqualino morì nel ’57, a 73 anni, per un
attacco cardiaco, ed è sepolto accanto a mio padre nel
cimitero di Punta Aranas». Ma la sua leggenda gli sopravvive.
Sulla sua lapide è inciso: «Da terre lontane arrivasti ad
avventurarti su queste spiagge Grati ricordi lasciasti che mai
saranno dimenticati».