Corsari difensori, di casa nostra tutti di Torre del Greco
Si trattava di una vita, quella dei corallari dei secoli scorsi, piena di disagi e di privazioni, resa purtroppo ancor più difficile e pericolosa dalla presenza dei pirati barbareschi, le cui veloci fuste, muovendo dalle coste tunisine, solcavano il Mediterraneo in lungo e in largo, assalendo e predando qualunque imbarcazione. Non meno feroce era, però, la risposta dei Paesi del mondo cristiano. A queste sanguinose scorrerie, che costituivano un serio ostacolo per il commercio marittimo, l'Europa opponeva i propri corsari: uomini altrettanto audaci ed esperti, se non di pari ferocia, che, avvalendosi di una speciale autorizzazione rilasciata dalle autorità del Paese per il quale erano schierati, detta patente di corsa, assalivano e predavano tutte le navi delle nazioni in quel momento nemiche. Nessun ideale li spingeva se non il proprio tornaconto. Per la sicurezza che offriva la loro presenza, sovente venivano ingaggiati anche dai padroni della barche coralline.
Corsari di grande fama, anche se non sempre cristallina, furono Maldacena, Lo Giudice, Martinez, meglio noto come capitan Beppe; non meno famosi furono Andrea Dolce e, soprattutto, gli Accardo: Giuseppe, Raffaele e Michele, tutti di Torre del Greco

Le avventure di Giuseppe Accardo detto "Cardone" e di Andrea Dolce

di Catello Vanacore  
 

Nel XVIII secolo la pesca del corallo era diventata una prerogativa esclusiva della gente di Torre del Greco. Si calcola, infatti, che non meno di 8000 persone ne fossero, a vario titolo, direttamente coinvolte. Ogni anno, da febbraio a maggio, oltre 300 feluche, con un equipaggio di non più di 7 uomini, veleggiavano lungo tutto il Mediterraneo occidentale, dalle coste della Sardegna a quelle più infide del nord dell'Africa. Base di appoggio durante la lunga campagna era l'isolotto impervio e roccioso della Galita, a circa una sessantina di Km. dalla costa tunisina, ove i pescatori torresi avevano installato, in una delle tante grotte ivi esistenti, finanche un piccolo ospedale con un medico, ed un prete per officiare la messa domenicale. Si trattava di una vita, quella dei corallari, piena di disagi e di privazioni, resa purtroppo ancor più difficile e pericolosa dalla presenza dei pirati barbareschi, le cui veloci fuste, muovendo dalle coste tunisine, solcavano il Mediterraneo in lungo e in largo, assalendo e predando qualunque imbarcazione. Non meno feroce era, però, la risposta dei Paesi del mondo cristiano. A queste sanguinose scorrerie, che costituivano un serio ostacolo per il commercio marittimo, l'Europa opponeva i propri corsari: uomini altrettanto audaci ed esperti, se non di pari ferocia, che, avvalendosi di una speciale autorizzazione rilasciata dalle autorità del Paese per il quale erano schierati, detta patente di corsa, assalivano e predavano tutte le navi delle nazioni in quel momento nemiche. Nessun ideale li spingeva se non il proprio tornaconto. Per la sicurezza che offriva la loro presenza, sovente venivano ingaggiati anche dai padroni della barche coralline.
Corsari di grande fama, anche se non sempre cristallina, furono Maldacena, Lo Giudice, Martinez, meglio noto come capitan Beppe; non meno famosi furono Andrea Dolce e, soprattutto, gli Accardo: Giuseppe, Raffaele e Michele, tutti di Torre del Greco
Gli avvenimenti, di seguito narrati, sono desunti da diari di bordo dei corsari Dolce e Giuseppe Accardo. I fatti, pur non eclatanti, così come ci ha abituati una certa cinematografia, sottolineano tuttavia momenti e situazioni che fanno parte di una quotidianità ben distante dal clichè borghese - e forse per questo spesso ignorati- e che ci consente di fare conoscenza degli Scognamiglio, Mennella, Di Donna, Mazza: tutti coraggiosi quanto anonimi comandanti di coralline.
Ingaggiato dai corallari di Torre, il 22 maggio 1787, Giuseppe Accardo, detto Cardone, al comando della galeotta Amazzone, salpava da Torre del Greco alla volta delle coste tunisine per sorvegliare la flottiglia di coralline e per «fare preda» di galeotte. Toccando Miseno, Ischia, Gaeta, Ponza, l'isola della Tavolara in Sardegna, e poi Capo Carbonara, l'Accardo giunse nella cala di Biserta l'11 giugno. La presenza di diversi legni barbareschi lo indusse tuttavia a puntare sull'isola della Galita, ove gettò l'ancora il giorno 13. Il cattivo tempo, che aveva imperversato nei giorni precedenti, aveva fatto molti danni, e sull'isolotto, il chirurgo, Lorenzo Mazza, era alle prese con una quindicina di marinai ammalati, tra cui gli uomini del capitano Antonio Pepe, naufragati al largo delle coste della Barbaria. Evitando di lasciare gli ammalati senza difesa, Accardo si intrattenne fino al giorno 21, quando, avuto il cambio dal corsaro Dolce, comandante della galeotta Madonna del Carmine, potè finalmente dirigere su Biserta, altro luogo di raduno dei corallari. Nella notte del 23, a circa 10 miglia dalla costa, l'incrocio con una galeotta tunisina allertò Accardo, che, dopo aver schierato gli uomini sul ponte, intimò, al comandante della galeotta di fermarsi in nome del re di Napoli. Alla terza chiamata gli uomini di Accardo spararono in aria quattro colpi di fucile. "Ammaina tu, o bagascio di Napoli", urlò di rimando il comandante della galeotta, mentre i suoi uomini lasciavano partire colpi di fucile. Accardo, che nel frattempo era riuscito ad accostare, lanciò l'ordine di arrembare. Lo scontro fu feroce e si risolse a tutto vantaggio dei napoletani, che ebbero appena 4 feriti, mentre tra i barbareschi si contarono sette morti e 19 prigionieri, tra cui una donna negra. Legata l'imbarcazione alla poppa, Accardo diresse quindi sulla Galita; ma sul far dell'alba incrociò un bastimento alla deriva e senza equipaggio: a bordo vi erano, infatti, solo schiavi ai remi, peraltro tutti napoletani. Impossessatosi anche di questa imbarcazione, il corsaro riprese la rotta, approdando sull'isola dopo alcuni giorni.
L'episodio, però, fu duramente censurato dal locale medico, un certo Mazza, il quale rimproverò al corsaro di aver non solo violato il trattato di pace stipulato dal Re di Napoli, ma di essere venuto meno anche all'accordo fatto con i padroni delle coralline. L'insensata azione, secondo il medico, sarebbe stata infatti pagata a caro prezzo dai pescatori.
La risposta di Accardo, molto dura, è significativa per cercare di penetrare la mente di un corsaro.
-A me non cura - rispose il capitano - che andassero tutti schiavi-.
-Allora, le feluche non vi pagheranno lo stipendio-, rimbeccò a sua volta il medico.
A quel punto il corsaro, mostrando una borsa piena di monete d'oro e d'argento rinvenuta su una delle navi predate, soggiuse perentorio:
-Questo mi basta per arricchirmi e poco fò cura della loro paga-.
Fatto quindi stivare il ricco bottino su una delle imbarcazioni predate, Accardo diresse immediatamente su Cagliari, ove vi giunse il 25 giugno. L'esperienza, unitamente ad una indole sospettosa e predatrice, gli consigliarono, prima di sbarcare, di ordinare una perquisizione, scoprendo, così, che un marinaio si era appropriato di 31 pezzi di moneta d'argento. Casi del genere non prevedevano pene corporali, per cui la punizione inflitta al colpevole si limitava, come da contratto, ad escludere il ladro dalla spartizione finale del bottino.
Come da prassi, Accardo verbalizzò alla locale Deputazione della Sanità il suo viaggio, chiedendo il riconoscimento delle prede e l'autorizzazione a poter sbarcare gli schiavi prigionieri. Qualcosa, però, non dovette convincere le autorità, le quali intimarono al corsaro di riprendere immediatamente il mare. Le cattive condizioni atmosferiche ne prorogarono la sosta fino al 2 luglio. Giunto a Napoli il giorno 5, Accardo cercò di sbarcare nuovamente gli schiavi e il bottino predato, in modo da riprendere subito la navigazione, ma , ancora una volta, l'esposizione dei fatti lascia perplessi gli ufficiali della Sanità, i quali decisero di voler approfondire la questione. In effetti, qualcosa non quadrava nella testimonianza resa dal capitano, perché di lì a due giorni, a bordo dell'Amazzone saliva addirittura il re Ferdinando, al quale, il corsaro dovette ripetere il suo racconto. La risposta del re fu laconica: "Questa sera ti sbrigherò". Ed invece l'ordine di partenza giunge solo il 14, cioè dopo sette giorni, durante i quali Accardo non potè lasciare la nave; di nascosto, però ebbe modo di far pervenire al padre la sua parte di bottino.
La sera del 20, con la solita galeotta al traino, il corsaro si fermò ad Augusta per approvvigionarsi d'acqua - una sola botte gli costò nientemeno che 25 ducati -, e il 25 attraccò finalmente a Marsa Muscetto (Malta), dove esisteva un Lazzaretto, ossia un mercato degli schiavi. Questa volta Accardo non ebbe difficoltà e potè così liberarsi dei prigionieri e della merce, approfittando della sosta anche per calafatare lo scafo.
All'alba del 30 mosse dal porto, e dopo una sosta a Lampedusa riprese la rotta per la Galita, riuscendo a sfuggire, peraltro, anche alla caccia portatagli da due sciabecchi barbareschi.
Nel frattempo, il corsaro Dolce, dopo una estenuante perlustrazione lungo le coste tunisine, l' 8 luglio attraccava nuovamente alla Galita. Essendo domenica ed approfittando anche della bellissima giornata sull'isola erano convenuti moltissimi pescatori per ascoltare la messa tenuta dal sacerdote Mazza, anch'egli di Torre del Greco. Ultimato l'ufficio domenicale, il sacerdote, insieme al figlio di Accardo, Raffaele, e ad alcuni pescatori, si apprestava a desinare, quando l'allarme lanciato dalla vedetta, posta sulla cima della collina, venne ad interrompere la quiete. All'orizzonte erano apparse infatti circa 10 imbarcazioni: molto probabilmente, barche coralline che venivano a rifornirsi di biscotto. Inforcato il binocolo, il capitano si rese subito conto che si trattava, invece, di galeotte barbaresche che inseguivano un paranzello, comandato dal capitano Mennella, anche lui di Torre. Fatti imbarcare immediatamente tutti gli occupanti dell'isolotto, il Dolce, che nel frattempo veniva raggiunto dal Mennella, volse la prua verso la Sardegna.
L'inseguimento durò l'intera la giornata, e nonostante si dovette a tratti procedere anche a remi, per mancanza di vento, il corsaro riuscì a sottrarsi alla caccia. Il pericolo sembrava scongiurato, ma non appena doppiato un promontorio della costa cagliaritana, la nave venne intercettato da uno sciabecco algerino che gli sparò contro una serie di bordate. La fortuna e la perizia aiutarono il capitano a svincolarsi e a dirigere su Cagliari.
Cosa era accaduto?
L'attacco portato dall'Accardo alla galeotta turca, in pratica, aveva provocato la naturale reazione dei barbareschi, i quali, stando a quanto raccontato da alcuni pescatori tunisini, erano sbarcati sulla Galita distruggendo 11 barche, ferendo molti pescatori, e facendo schiavi tutti gli ammalati. L'allarme era stato lanciato in tutto il Mediterraneo, consigliando molte barche di pescatori a dirigere verso le più sicure coste della Sardegna. Il Dolce, scortato da una fregata e due corvette della Marina napoletana che incrociavano nei paraggi, fece invece su Bona per rifornire di acqua e di biscotto le navi coralline. Le notizie che i barbareschi avrebbero assaltato tutte le navi napoletane indusse il comandante della squadra napoletana ad invertire gli ordini e a disporre invece per una partenza immediata. L'ordine fu eseguito solo quando una delle fregate tirò alcune salve di cannone. Dolce ritornò a Napoli il 19 ottobre
Accardo, intanto, continuava nella sua campagna di perlustrazione, ignaro delle conseguenze scatenate dal suo insano gesto. L'8 agosto, al largo di Capo Buono, incrociò un bastimento tunisino, dal quale apprese che alla Galita si erano rifugiate 11 barche trapanesi. Il corsaro vi giunse dopo tre giorni di navigazione, ma i capitani delle barche siciliane, resi diffidenti dagli ultimi eventi, non trovarono di meglio che salpare immediatamente le ancore, ignorando i ripetuti segnali dell'Accardo. Questi, fatto un nuovo rifornimento d'acqua, mosse alla volta di Bona. Il giorno 20 incrociò un bastimento algerino, il cui equipaggio, senza colpo ferire, venne posto in catene, e l'imbarcazione incendiata. Il 31 agosto era di nuovo a Marsa Muscetto (Malta), dove chiese la contumacia, cioè un periodo di quarantena da trascorrere sulla nave, prima di scendere a terra, in modo da evitare la diffusione di epidemie. Alla presenza del console di Napoli il capitano verbalizzò la preda fatta depositandola nei locali magazzini. Nel mese di dicembre si trovava ancora sull'isola.