Antonio Abbagnano

TORREOMNIA RECENSIONI

 

PRESENTAZIONE
DI LUIGI MARI

Forse distorto dalla letteratura cosiddetta ”avanzata”, ho letto ”Comete...” due volte in passato, affogato negli annosi tentativi di leggere autori più citati, quelli della cosiddetta ”letteratura bene”.
Ho letto ”Comete...” due volte, cercando forse non già le pagine che Antonio Abbagnano non ha scritto, quelle che ha dimenticato dentro, ma le pagine nascoste dentro di me, quelle che non scriverò mai e che non leggero mai. A volte è sé stessi che il nostro istinto vuol leggere, non l’autore che sfogliamo. Scrutiamo dapprima il libro, lo annusiamo, poi ne leggiamo l’ultima pagina, indi cominciamo a scrutarlo, non a leggerlo, come si fa con un vaso decorato, una stoffa variegata di Missoni; poi tra squilli di telefono e slittate di topo elettronico, lo sfogliamo con una sola mano. Ed il nostro cervello turrito e giustiziere, con la toga e il tocco, sentenzia a priori: "la solita solfa".
Si può anche leggere una stesura, dunque, prevenuti, deconcentrati, demotivati. Ma un piccolo racconto di Antonio Abbagnano su Lucio Beffi capitatomi sotto mano, mi ha aperto gli occhi. Quelle note spontanee, in una dozzina di sequenze docili e susseguenti, amalgamate come rivoli di ruscello, note dolci e casarecce come vocalità materne imprigionate nei precordi, mi ha porto su di un piatto vermiglio corallino la chiave di lettura di ”Comete...” come una rivelatrice introduzione, come una preparazione eucaristica, come una purificazione dal malessere endemico locale dell’autosufficienza che nessuno riesce a sfuggire, nemmeno i ”predicatori” sedicenti come me.
Ho visto una trave nel mio occhio, stasera, leggendo Abbagnano, ho odiato Croce, Flora, Calcaterra, ho disdegnato i Joyce, i Gadda, gli Svevo. Rileggo ”Comete...” sotto una chiave diversa, più umana, più emotiva, più amorevole, spoglia dell’asetticità dottrinale. Che bel libro, dirò, quando avrò finito di leggerlo per la terza volta, quella buona, finalmente.
Sotto una romantica vampa di stearica, ho messo gli occhiali al mio cuore e per un po’ ho mandato in vacanza il cervello.

Luigi Mari