|
Tra le numerose ideazioni teatrali che si rifanno modernamente e
liberamente al mito di Faust, la pièce di Francione si distingue per
la insolita ma stimolante contaminazione del registro classico della
sete irresistibile di conoscenza arcana e potente, afferente alla
tradizione gnostico-occultistico-magica, e della linea tematica
etica e morale della salvezza/ rettitudine, già delineata nel dramma
goethiano, che tuttavia assume in questa intrigante ed eslege
rilettura una connotazione scettica e disincantata proiettata verso
la nozione comune di ‘conoscenza’, travisata inizialmente come
ricerca chimerica e vana della imperscrutabile giustizia divina.
La acquisizione di sapere, estrapolata dalla archetipica matrice
religiosa e teologica che contraddistingue la sfrenata e temeraria
sete di consapevolezza del protagonista goethiano, tende a slittare,
per effetto della posizione relativistica e antidogmatica assunta
dallo scrittore giudice e dal suo parzialmente affine alter ego
teatrale, sul terreno epistemologico di un solido pragmatismo
naturalistico, indirizzato verso la sfera tutta terrena e materiale
della regolamentata legislazione forense e della ratificata norma
giurisprudenziale, cioè, in una sola parola, dell’imparziale ed
equanime codex iuris, fondato su presupposti epistemologici ma
sostanziato di fermenti umanistici, principo di diritto universale
ed extraideologico, naturale e positivo ad un tempo.
Fin dalla prefazione Francione stabilisce alcune corrispondenze
precise tra il suo testo ed alcune fonti più o meno note, ammettendo
l’inevitabile raffronto con Goethe, seppur distanziato sullo sfondo
della simmetria strutturale di tutte opere di finzione che
ripropongono il motivo dello scienziato insoddisfatto della dottrina
empirica e disposto a valicare i limiti della natura umana,
dannandosi con il patto col diavolo. Tali Faustdichtungen partono
dalla ribellione egocentrica ma, almeno, in parte, animata da nobili
propositi filantropici e pure aspirazioni speculativo-metafisiche,
che induce l’uomo di scienza e cultura superiori, in questo caso
trasformato in giudice immalinconito e sfiduciato, ad eludere la
barriere razionalistiche ed empiriche ordinarie, proclamandosi
ricercatore di verità, assetato di gnosi trascendentale, più che di
piacere e di potere.
Il postulato basilare del conflitto dialettico ma preordinato tra
etica e immoralità configura una dimensione metatestuale che fa
riferimento a Ugo Betti ed al suo teatro problematico e sociologico
di indagine, dalle sfaccettature prettamente etico-realistiche e
dalla costante, minuziosa ed onnipresente ambientazione processuale.
Questa componente strutturale subordinata si innesta, tuttavia,
nella creazione scenica di Francione all’interno di una cornice
rappresentativa deliberatamente antirealistica ed antitradizionale,
che si profila all’orizzonte in una vertiginosa ed arrembante
sequenza scenografica di quadri iconografici immaginari e
metaforici, depurati di scorie mistiche e occultistiche,
neutralizzate dalle marcate interferenze giullaresche e
fantasmagoriche originate dalle ripetute incursioni provocatorie ed
urticanti di movenze filmiche e cinetiche tipiche del teatro di
burattini. Queste microsegmentazioni sceniche accelerate,
favoleggianti ed ipertrofiche, rilevano in forma puramente illusoria
e dissacrante le solenni e grandiose sezioni delle immaginifiche e
bizantineggianti teofanie e demonologie goethiane, propriamente
soprannaturali o diaboliche, affrescate nello stile icastico tipico
soprattutto della seconda parte del poema drammatico Faust.
Prevale nel sostrato postmoderno e decostruttivo di questa moderna
riscrittura transvalorizzante (in senso genettiano, come esplicitato
in Palinsesti), la contaminazione mistificante e demistificante di
spiazzanti ramificazioni allusive classicheggianti; ad esempio il
ruolo di ruffiano assunto dall’emissario satanico riecheggia il mito
eroico e puro di Cyrano, tuttavia riflesso con grottesca
deformazione beffarda nel suo contrario: l’ignobile stratagemma
attuato da Mefisto per prestare la voce all’impacciato e attempato
Faust e conquistare in sua vece la avvenente ed irraggiungibile
Margherita. Si infittiscono le calcomanie traslucide ed iperboliche
di citazioni poetiche e di motti storici memorabili, che
conferiscono allo spettacolo pantomimico una risoluzione
rappresentativa illusionistica dalla luccicante caratura
ludico-spettacolare, addizionata di ingredienti oniricheggianti e
allucinatori di stampo allegorico-figurale, mirati a comporre un
caleidoscopio variopinto e sgargiante di schegge realistiche e
deliri stupefacenti, in misura più sobriamente attenuata e meno
preziosamente cesellata del capolavoro goethiano, tuttavia godibile
per la sua confezione drammaturgica istrionica e spumeggiante, mai
banalmente naturalistica o documentaria.
La scansione è tripartita e presenta un prologo denso di allusioni
alla scena iniziale del Faust I, nella prima versione, con
l’esclusione del Prologo in cielo, evidentemente stridente con gli
scopi attualizzanti e didascalici e la morale immanente e pragmatica
del progetto edificante e illuminante sulla corruzione straordinaria
(come recita il sottotitolo). Il prologo escogitato da Francione
risulta ironicamente giocato sull’ambiguità tra la interferenza
subdola del linguaggio superstizioso e mistificante e la inflessione
semantica forense, con una sottotraccia trascendentalizzante e
disumanizzante. Lo studio universitario polveroso e austero, ma pur
sempre intriso di accademica solennità, dell’insoddisfatto, ma
paludato Doctor Faust viene ripensato in proporzioni più ridotte e
demitizzate, come modesta e dimessa camera da letto. Questo ambiente
spoglio di retorica e di prosopopea si attaglia alla figura
esemplare e didascalica dell’integerrimo, onesto e idealista giudice
in pensione, intento a lamentarsi della sua impotenza gnoseologica e
morale, mentre si isola dal mondo esterno giocando per l’ennesima
volta ad un diversivo solitario di carte, pallido surrogato ludico
dell’agognata restaurazione dell’ordine etico equanime ed
inflessibile del diritto positivo, naufragato miseramente e
soccombente a potenze arcane del macrocosmo mondano e politico.
La comparsa dell’agente diabolico avvocatesco Mefisto, la cui carica
persuasiva ed abilità oratoria evoca angusti e tetri corridoi delle
stanze del potere giudiziario piuttosto che far balenare gironi
infernali infuocati e terribili, distoglie il giudice dal suo
sonnolento soliloquio e pone l’accento sulla confluenza di grigiore
burocratico, maleficio satanico e illusione secolare, tutte istanze
negative e tentatrici illustrate dalla diversa colorazione dei suoi
capi di abbigliamento ed accomunate dalla latente valenza
antiumanistica e antispirituale. Dopo le prime schermaglie,
nell’intreccio stereotipato ma credibile di tesi ed antitesi
teoriche sui metodi giudiziari, si insinua lestamente la corruzione
assoluta e premeditata, ammantata di ammaliante esperienza
alternativa e paradossalmente trasumanante, in grado di sperimentare
il fondo dell’abiezione per risalire imperiosamente, munito di una
corroborante ed immunizzante cognizione diretta del peccato, verso
la corrente generatrice della umanità solidale e concorde della
palingenesi.
Il Faust di Francione condivide con altri modelli letterari
analoghi, quali gli omonimi protagonisti dei drammi di Lenau e di
Weidmann, una chimerica, presuntuosa ambizione di adoperare il male
per il bene ed ingannare il diavolo, lasciandosi persuadere
supinamente ad assecondare le argomentazioni capziose del diavolo
che rinnega l’ordine naturale, per poi accorgersi tardivamente di
essere sprofondato nell’abisso dell’aberrazione mefistofelica e di
essersi trastullato vanamente nella fallimentare fola di volgere a
vantaggio dell’umano’ il ribaltamento innaturale e sedizioso della
normativa ‘antropologica’ e ‘teologica’ codificata e concordante con
la scaturigine solidale e filantropica dell’essenza umana, a
beneficio di una traumatica e traviante traversata negli inferi
della degradazione pervertente e della ingiustizia eversiva .
L’avvocato al servizio di poteri mafiosi e sulfureo vicario
diabolico postmoderno si contamina subdolamente con l’innocuo e
favoloso genio della lampada, autolimitando per un’astuta strategia
di minimizzazione apparente, il proprio potenziale smisurato di
influenza malefica, circoscrivendo la gamma inesauribile di opzioni
magiche e occultistiche al minimo indispensabile. Si impegna,
infatti, a fronte della virtualità inesauribile di incantesimi e
sortilegi illusori e mirabolanti esibita dall’omonimo agente
diabolico goethiano, a realizzare solo tre desideri. Il
Faust-Aladino ne sceglie due ingenui e classicamente letterari,
sostanzialmente innocui e ininfluenti, vista la loro categorica
appartenenza al mondo evanescente delle fantasie meravigliose di
sublimazione del miraggio primordiale rimosso di onnipotenza, cioè
la facoltà alchemica di trasmutazione del metallo in oro, delirante
smania di stampo cagliostresco, del tutto inattendibile e fuori
moda, disabilitata dall’autorità postmoderna, demitizzante e
empiriocentrica del drammaturgo, ad esercitare l’influsso malefico
della trasmutazione materiale sulla costellazione di valori
spirituali del soggetto stregato, e l’elisir della eterna
giovinezza, aurorale, chimerico mito di rigenerazione biologica e
vitale, che non tange minimamente la sfera ineffabile della
palingenesi interiore e ontologica. La cupidigia della conoscenza
assoluta e divinizzante, procreativa e generativa, invece, si rivela
indicatrice di un’allarmante bramosia innaturale e sacrilega di
superiorità schiacciante e schiavizzante sul resto dell’umanità
ancorata alla sfera della normalità terrena.
La sorte compromessa di Fausto viene rimessa in discussione, grazie
all’apporto risanatore offerto da una nuova configurazione di Elena,
ridotta al livello di una donna comune e prosaica, ma
involontariamente dotata della facoltà amorosa di incidere
positivamente sulla vicenda, anche se declassata dalla incarnazione
solenne e ieratica della icona muliebre classica, spogliata di rango
regale e dequalificata studiatamente come vecchia amante abbandonata
ma segretamente fedele e dotata del potere redentore, che la
tradizione del mito attribuisce a Margherita. Si assiste, quindi, ad
una netta devalutazione marginalizzante della originaria figura
candida e sacrificale di Margherita stessa, che si mantiene giovane
e bella, ma viene privata di spessore spirituale e relegata ad un
ruolo complementare di seduzione erotica superficiale e parentetica.
Tale smitizzazione, per altro, sortisce l’effetto innegabilmente
confortante di preservarla dalle insidie tentatrici della
procreazione diabolica e dal rischio conseguente di compiere
l’infanticidio rituale per riparare alla profanazione inconsapevole
ma scellerata del credo teologico.
Il vorticoso rincorrersi delle saettanti e rutilanti alchimie
sceniche del filone principale si carica di movenze burlesche e
irriverenti nella loro accentuata drammaticità, collocabili in una
sfera temporale progressiva e logicamente sequenziale discernibile
ancora come realistica: la corruzione del magistrato nel processo a
trafficanti di droga e le sue conseguenze infamanti, culmina nella
regressione protopsichica alienante e spersonalizzante, attivata dal
consumo ipertrofico di sostanze stupefacenti ed allucinogene. A
questo troncone portante si appoggiano e si intrecciano molteplici
piani rappresentativi irrealistici e fantasmagorici. I frammentati
segmenti teatrali, pirotecnici e sfasati, procedono a ritmo
spiraleggiante e sono destinati ad incastrarsi accidentalmente, con
destabilizzante asincronia narrativa, con le ultracronologiche e
parodistiche serie di icastiche e pittoresche visioni infernali,
presenti nella trama di motivi mitici originaria: il sabbath delle
streghe e demoni, le apparizioni sataniche, immerse in una
allucinata atmosfera antirealistica che sollecita deliberatamente
nella messinscena del copione il ricorso alla personificazione
burattinesca dei diavoli. Tale dispositivo fittizio e meccanico di
rappresentazione degli scenari psichici di Fausto mediante automi e
non attori, relega gli eventi miniaturizzati dal goffo dimenarsi dei
burattini su un palcoscenico microscopico al rango di inconsistenti
allegorie deliranti, in omaggio alla tradizione popolare del
Puppenspiel, genere di rappresentazione grottesca e satireggiante
che si mantiene nel paraletterario filone popolareggiante e
contrassegna le riprese burlesche e dissacranti del mito faustiano,
secondo una consuetudine teatrale invalsa anche nel Settecento,
conosciuta e apprezzata dallo stesso Goethe.
L’andamento tortuoso a doppio binario alternato, realtà prosaica e
fantasmagoria mirabolante, viene omogeneizzato e saldato in una
direttrice poetica organica e in un’assiologia univoca dal colpo di
scena salvifico che ricongiunge in armonica sinergia il livello
affiorante della trama processuale e giudiziaria con la sua
iperbolica e smitizzante cifra sotterranea, simbolico-figurale e
metafisico-pedagogica, fino ad incanalare in uno scioglimento
positivo il sedimentato e sinuoso percorso introspettivo e
retrospettivo del protagonista; icona-feticcio della contemporaneità
disumanizzata, che trapassa in un incalzante e travolgente ritmicità
icastica, più cinematica che teatrale, dalla dannazione abissale e
dall’abbrutimento incosciente verso la sua riscattante meta
salvifica. Giunge inattesa e tribolata la resurrezione interiore e
la riappropriazione in extremis della dignità civile di Faust, che
recupera e chiarifica in un’ottica lucidamente razionalistica e
cogitativa l’impalpabile sostrato panteistico-spinoziano del diritto
individuale naturale alla felicità solidale ed ecumenica.
La redenzione umanissima ed autosufficiente del rinsavito uomo di
legge è scandita in modanature sceniche e strutturali aforistiche e
intellettuali di perspicua intensità etica e morale. Faust riesce a
scostarsi in tempo dal baratro della depravazione cinica e della
assuefazione narcisistica alle droghe del potere e della illusione,
nella misura in cui ritorna giuridicamente e coscientemente padrone
di se stesso e avverte nuovamente la dimensione problematica e
limitante dell’etica terrena soggettiva, che presenta
invariabilmente la costante della singolarità dell’esistenza nel suo
variabile interagire con la forza aggregante e accomunante della
società. Francione si prodiga nel districare questo nodo
escatologico cruciale e apparecchia un’ingegnosa e sagace inventio
postmoderna che fonde la mirabolante imprevedibilità menippea e la
aristofanesca agnizione riequilibratrice. Elena confessa che Mefisto
è il figlio concepito dalla sua antica relazione con Fausto e lo
sgomento ma sollevato ex giudice si riappacifica con il presunto
agente demoniaco, consentendo all’autore di isolare e rendere
prevalente la componente naturalistica e verosimile dell’intreccio,
cioè la agnizione riparatrice della vicenda giudiziaria mediante il
costituirsi espiatorio di entrambi, rei confessi, e purificati dalla
reviviscenza catartica dello Streben secolarizzato, de-misticizzato
e ricondotto all’imperativo categorico kantiano della morale
oggettiva. Con perfetto sincronismo rappresentativo, si affievolisce
fino a dileguarsi l’ormai soppiantato e inservibile contorno
soprannaturale e occultistico: svanisce improvvisamente la filigrana
onirica del fantomatico e forse immaginario patto diabolico, evapora
nella fumisteria superstiziosa la già tenue sostanza favolosa delle
evocazioni e stregonerie infernali.
La nascita improvvisa da un uovo cosmico, che apre uno squarcio
rivelatore del progetto demiurgico dell’autore onnisciente, di una
bambina non generata occasionalmente ma nata dallo spontaneo
accordarsi procreativo delle menti e dei corpi in sintonia reciproca
dei due genitori assume una allusiva valenza propiziatoria. La
Regale Fanciullina si configura nella sue breve vita scenica,
seguita da un’estemporanea e divagante escursione nel mondo reale,
come l’equivalente eudemonico consacrato, più concreto e meno
etereo, più durevole e più incisivo, del fragile e chimerico,
instabile e irredimibile Iperione, concepito, secondo il dettato
goethiano, in un culmine di estasi visionaria da Faust e la imago
animi di Elena, ma fatalmente soccombente alla esiziale evanescenza
insita nell’iconismo figurale ed immateriale della fantastica
idealità in-creata che ne permea la tenue ed immatura parvenza
essoterica.
Il conclusivo trascorrere della bambina profetica di una novella età
aurea, permeata di fertile e virtuoso pan-umanesimo, dal palco alla
platea, per scomparire in un luogo imprecisato dell’edificio
teatrale non adibito alla rappresentazione, travalica i confini
della superfetazione allegorica della procreazione spirituale ed
immateriale insita nella genesi imperfetta e velleitaria
dell’evocato, ma rigettato Homunculus, etereo fino a limiti della
inconsistenza terrena e, quindi, ontologicamente incompleto.
Mediante il movimento leggiadro e il sorriso radioso in direzione
del proscenio, la spensierata ed innocente Fanciullina, simbiosi di
vitalità prorompente e di adamantina incoscienza, messaggera di
riconciliante armonia universale, si libra, sulla soglia labile e
trascolorante tra ‘teatralità’ e ‘realtà’, tra ‘quinta di
palcoscenico’ e ‘proscenio’, in una gaudiosa, evangelica ed augurale
danza propiziatoria, dalle movenze aggraziate e giocose,
rivolgendosi velatamente allo stuolo di spettatori effettivi che la
contornano e la contemplano stupefatti, soggiogati dal fascino
magnetico del suo rallegrante candore irenico, e suggerendo loro
implicitamente la aperta e inesplorata traiettoria etica della
liberazione universale dell’umanità dal gioco plumbeo ed
ottenebrante degli interessi parcellizzanti e delle faziosità
egemonizzanti.
Questo iter di ri-formazione escatologica e psicologica frastagliato
e tumultuoso imbocca molteplici direzioni provvisorie e subisce
svariate scosse sussultorie, scontando cadute rovinose e
innalzandosi a vette numinose, ma resta focalizzato
sull’escatologico traguardo finale auspicato dall’autore: coronare
il sogno non necessariamente proibito di una comunità civile
concorde e sinodale, unanimemente osannante alla inviolabilità
autosufficiente della legge cosmica intersoggettiva e ultraempirica,
meravigliosamente incontaminata dalle urticanti fratture autarchiche
ed egocentriche, spalancatesi a ridosso della conflittuale e
antagonistica degenerazione idolatrica post-edenica e colpevoli di
dilacerare il tessuto sociale e di snaturare il senso autentico
della presenza secolare dell’uomo.
|
|