Lo sciopero del 29 giugno '59:
Torre del Greco
giorno di colpevole follia
Quando
si comincia una ricerca su un avvenimento accaduto molti anni prima lo si fa per
vari motivi: curiosità, ricerca della verità, verifica dei fatti, con la
segreta speranza che salti fuori qualche novità, ma si procede con molta
cautela e con l’intento di non lasciarsi coinvolgere personalmente.
Fare
una ricerca significa mettere assieme le tessere di un grande puzzle del quale
si conosce il quadro finale ma sembra sempre che manchi qualche tassello. La
ricerca della verità, quella con la V maiuscola, è molto difficile, perché vi
sono sempre diverse verità e ognuno difende strenuamente la sua.
Proprio
per questi motivi ho ritenuto necessario interpellare qualche protagonista
superstite. Ormai sono rimasti in pochi e tutti hanno parlato pochissimo, come
per un blocco psicologico. Ho parlato con persone presenti casualmente quel
giorno per strada ed anche con coloro che erano nelle proprie abitazioni e
tremavano di paura al suono delle sirene della polizia.
Oggi,
a mente fredda, dopo cinquanta anni di sedimentazione storica, di quel lontano
29 giugno 1959 penso si possa fare una disamina quanto più possibile
particolareggiata e magari azzardare qualche giudizio.
Prima di entrare nel
vivo degli indimenticabili avvenimenti che andremo a trattare, occorre fare una
doverosa premessa.
Siamo nel 1959, e la marineria mercantile
italiana era in agitazione da diversi mesi per sollecitare il rinnovo del
Contratto di Lavoro. Per le società dell’armamento sovvenzionato non veniva
rinnovato da quattro anni e per l’armamento privato da oltre cinque. Nei porti
italiani e in quelli esteri del Brasile, Cile, Senegal, Stati Uniti, le nostre
navi erano praticamente ferme.
C'erano, inoltre, ragioni di carattere di
costume e normativo.
A quel tempo, infatti, per poter ricevere
una chiamata d’imbarco, i lavoratori marittimi erano soliti stazionare
nell’ufficio di collocamento dall’alba fino alla chiusura. Molti nostri
concittadini, inoltre, si trasferivano a Genova o a Livorno dov’era più
facile imbarcare. Ma anche questo sacrificio non era sempre sufficiente per
assicurarsi l’imbarco, perché molte agenzie telefonavano ad ufficio chiuso,
oppure inviavano il loro uomo direttamente all’estero nel porto di approdo
della nave.
Di contratti di lavoro, poi, vi erano
diverse tipologie. Innanzitutto una precisazione: il lavoratore marittimo, a
differenza di tutti gli altri lavoratori, non firmava un contratto di lavoro
bensì un contratto di arruolamento, condizione questa che lo vincolava
alla nave in maniera diversa, quasi come fosse un militarizzato. Sulle navi,
infine, non esisteva la figura del rappresentante sindacale. C'erano comunque il
contratto a tempo indeterminato; quello a viaggio (dove il marittimo poteva
essere sbarcato alla fine di qualsiasi approdo); ma la perla dei contratti per
il naviglio minore era quello a compartecipazione ovvero “alla parte”, come
veniva definito dagli addetti ai lavori. Ovviamente erano contratti validissimi,
benedetti dal Ministero della Marina Mercantile e dalle Organizzazioni
sindacali.
COME
INIZIARONO
GLI INCIDENTI
C’era
in quei giorni molto fermento nell’aria: da diverse settimane le uniche
notizie che ricevevamo sull'agitazione – io mi trovavo ai Caraibi, sulla
motonave Megara - provenivano tramite la corrispondenza dei familiari o
ci giungevano via radio dai colleghi imbarcati dall’Italia. I notiziari ANSA
irradiavano solo poche scarne notizie, che nulla dicevano sulla reale
situazione. Avevamo la sensazione che le notizie fossero manipolate e,
purtroppo, il tempo avrebbe confermato quelle nostre impressioni. Sembrava
d’essere in tempo di guerra, quando l’unica protagonista era la censura
sulla corrispondenza.
Tutti
tentavano
di minimizzare tutto.
Le società armatrici, per forzare la mano
agli equipaggi e accelerare la fine dello sciopero, diedero precise disposizioni
ai comandi di bordo di chiudere le cucine e alle agenzie locali di non dare
alcuna assistenza tecnica e materiale. Le maestranze mancavano quindi di viveri
ed erano state lasciate senza alcuna forma di assistenza e senza notizie dalle
famiglie.
Pare che alcune società di navigazione avessero sospeso, in quei
giorni, anche i versamenti dei contributi previdenziali all’INPS. Per
prevenire simili forme di sciopero, poi, le società del gruppo PIN (Preminente
Interesse Nazionale) negli anni successivi imbarcarono come passeggeri alcune
figure professionali, come i radiotelegrafisti, da utilizzare nell’evenienza.
All’epoca
dei fatti Torre del Greco era una ridente, tranquilla, addirittura sonnacchiosa
cittadina vesuviana, dove fino a quei giorni non era mai successo nulla di
rilevante, a parte il bombardamento degli americani del 13 settembre 1943, l’eruzione del Vesuvio nella primavera del 1944 e
l’affondamento dell'Andrea Doria il 26 luglio 1956. Oltre alle feste
patronali, ovviamente.
La
popolazione maschile era costituita per la maggior parte di lavoratori
marittimi; gli altri erano dediti ad altre attività pur sempre collegate al
mare, come la pesca e la lavorazione del corallo, il commercio delle perle, la
cantieristica navale.
In seguito al prolungarsi dello sciopero a
Torre del Greco si era formato un comitato di agitazione composto da marittimi e
sindacalisti. Questo comitato, durante un incontro con l’allora Sindaco
Raffaele Capano, chiese aiuto all’amministrazione comunale per trovare una
soluzione che sbloccasse l’irrigidimento delle parti e ponesse fine alle
tantissime difficoltà in cui versavano i marittimi in sciopero, specialmente
quelli all’estero.
In questa ottica furono preparati
congiuntamente alcuni telegrammi che vennero inviati al Ministero della Marina
Mercantile e al Governo affinché dessero disposizioni ai nostri Consolati di
prendere gli opportuni provvedimenti per alleviare il disagio degli equipaggi.
In quella riunione fu anche concordato di proclamare uno sciopero cittadino per
sensibilizzare i commercianti torresi e l’opinione pubblica.
Gli
incidenti iniziarono nell’ultimo tratto di Via Diego Colamarino, in prossimità
di Piazza Santa Croce.
Molto
probabilmente non sapremo mai la verità su chi innescò la scintilla, ma la
versione più accreditata racconta che gli incidenti iniziarono quando le forze
dell'ordine che affiancavano il corteo spinsero con veemenza un manifestante
claudicante munito di stampella, forse perché era anche il più ribelle del
gruppo. Quest'ultimo, vistosi spintonato in malo modo, reagì in maniera analoga
e venne alle mani con l'agente autore dello spintone.
Infine, forse memore di
qualche vecchia reminiscenza scolastica, utilizzò anche la stampella, tanto per
intenderci, alla Enrico Toti. Le forze dell'ordine caricarono di
conseguenza i dimostranti i quali reagirono in maniera altrettanto ferma e
determinata e, essendo anche più numerosi, vinsero il primo round.
Un'altra
versione è la seguente: era abitudine dei manifestanti circondarsi di donne e
bambini, perché rappresentavano gli assenti, perché difendevano gli
interessi di coloro che erano in mare e che nessun altro poteva difendere.
Probabilmente c'era anche l'intenzione di creare una sorta di cuscinetto
ammortizzatore tra i manifestanti e le forze dell'ordine. Anche quella volta
tale prassi venne rispettata, e il nucleo duro dei manifestanti era circondato
da donne e bambini, mogli, madri, sorelle e figli degli assenti. Senza dubbio
tra i manifestanti vi erano anche tanti curiosi che nulla avevano a che fare con
il mare e i suoi problemi e, secondo una fonte bene informata, anche molti
provocatori, tutti elementi di estrema sinistra provenienti da altri paesi
vesuviani. Un cordone di poliziotti, carabinieri e vigili urbani affiancava i
dimostranti. Tra questi i ragazzi erano naturalmente i più vivaci, e da questo
gruppo partì un insulto (forse
anche uno sputo) verso un vigile urbano che reagì spintonando il ragazzo. Non
l'avesse mai fatto; a Napoli, si sa, i figli so’ piezze e’ core.
Davanti
al sagrato della Chiesa di San Michele, in Via Diego Colamarino, stazionava un
gruppo di poliziotti della Celere, al comando di un commissario torrese, mentre
un altro gruppo di celerini stazionava al termine di Via Venerabile Vincenzo
Romano. I due gruppi intervennero immediatamente accerchiando il corteo e
manganellando i dimostranti.
Questi
ultimi reagirono rabbiosamente, usando i pali utilizzati per gli addobbi della
Festa dei Quattro Altari appena terminata a mo' di arieti e randelli, ma la
polizia alzò il livello dello scontro rispondendo con i gas lacrimogeni. Alcuni
giornalisti scrissero anche di colpi d'arma da fuoco sparati ad altezza d'uomo,
e alcune foto d'epoca sembrerebbero confermarlo. Qualche anziano conoscente mi
ha confermato che bossoli delle armi utilizzate dalla polizia furono trovati
conficcati negli alberi che circondavano la piazza.
I
manifestanti diedero fuoco alle camionette della polizia e dei vigili del fuoco
che erano accorsi a dare man forte, e a quel punto la ragione e il buon senso di
entrambe le parti andarono a farsi benedire.
Dovette
intervenire la questura di Napoli con decine di camionette ed altri agenti
reclutati in tutta fretta nel circondario per imporre alla sonnacchiosa
cittadina vesuviana ed ai suoi abitanti lo stato d'assedio.
Mentre
nell’aria incombeva un’intensa ed acre nuvola nera che attanagliava la gola,
molti nostri concittadini assistettero impotenti e impauriti nel vedere numerosi
feriti trasportati all’ospedale
Maresca, all’epoca ubicato nella villa comunale, sui carrettini dei
fruttivendoli.
Alcuni
manifestanti furono arrestati immediatamente.
Nei
giorni successivi ai disordini furono arrestati anche i componenti della
commissione che si era recata dal sindaco Capano.
Successivamente,
mediante lo studio delle foto pubblicate sui giornali e di altre scattate dalla
stessa polizia, nonché dai racconti di un pentito ante
litteram,
furono effettuati, tra i manifestanti, ulteriori e innumerevoli fermi; molti dei
fermati furono in seguito incarcerati e restarono dentro per diversi mesi in
attesa dei processi.
Molte
persone, più o meno sindacalmente corresponsabili, ma anche chi
nell’occasione fu semplice spettatore, per evitare di essere arrestati
scapparono via da Torre del Greco rifugiandosi presso famiglie amiche nelle
vicine campagne.
Gli
strascichi giudiziari di quella giornata durarono diversi anni.
Dopo cinquant’anni dagli incidenti, possiamo dire senza timore di
essere smentiti, che il 29 giugno del 1959 fu un giorno di follia collettiva.
La
mia opinione è che gli organizzatori della manifestazione non si resero conto
della effettiva e incontrollabile forza di una folla esasperata, mal guidata e
senza un efficace servizio d’ordine interno. Da notare che uno dei maggiori
responsabili del comparto sindacale marittimi era addirittura fuori Torre del
Greco, in missione.
Ma
anche le forze dell’ordine - l'eco della mano del ministro Tambroni era ancora
forte, evidentemente - eccedettero nell’interpretazione del loro ruolo.
Antonio Raiola
Torre
del Greco, 9 giugno 2009
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