e

Da quasi mezzo secolo: 
mille soluzioni 
ai costi più bassi

Da Magonza a Torre  450 pag.
Da Magonza versione web
da Guttemberg a Bill Gates  

"DA MAGONZA TORRE DEL GRECO" un sito nel sito da leggere o scaricare! 
STORIA, TECNOLOGIA POLIGRAFICA, CULTURA, ANEDDOTICA, DIVAGAZIONI, UMORISMO, PROBLEMATICHE ARTIGIANALI, NELLA PLAGA VESUVIANA. 
Argomentazioni mai trattate in maniera così piacevole.
 
La stampa offset e quella rotocalco, non altro che l’evoluzione di due antiche tecniche in letargo. La cibernetica, applicata ai sistemi planografici, trionfa vittoriosa, ma preclude il lavoro a misura d’uomo. II cervello umano viene in buona parte rimpiazzato. In più le macchine-robot non sbagliano quasi mai, non si angosciano, né, però, sanno amare. Lavoratore comune non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, per nulla esigenti in materia di diritti. Sventurati artigiani in genere: ciabattini, orologiai, sarti, falegnami, addio! Bottegai tipografi campani, sopravviverete sostenuti solo dalla poesia del piombo fuso e dal nostrano proverbiale nutrimento d’aria, sole e canzoni? Care botteghe fuligginose, adattate negli stambugi nascosti dei dedali mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati 

nelle cupe traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra, fino al Casertano, all’Avellinese, al Beneventano, addio! E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire nuovi malesseri? II benessere edonistico dà I’illusione di una migliore qualità della vita; in realtà il consumismo coercizzato dalla «grancassa», alla quale le arti grafiche si asservono in misura massiccia, risponde essenzialmente ad una inferma domanda di dipendenza oggettuale-alimentare. Ma il vero benessere, l’amore, cioè la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura I’ha mai garantita o la garantirà mai? Il domani, intanto, viene deciso prima sulle nostre ginocchia di madri, dalle nostre figure di padri.

Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per scardinare l’antica angoscia del suo insoluto esistenziale, vale a dire la devastante consapevolezza del proprio destino di mortale, narcotizzata, invece, con reazioni difensive diversificate e contrapposte, dall’annichilimento mistico alla criminalità?
                                               Luigi Mari

Ecco alcuni stralci di Luigi Mari che
vi introdurranno allo spitito di 
Torreomnia:
(E' determinante leggerli!).
Flavio Russo è un chiaro esempio di valenza torrese non sufficientemente divulgata, non solo per la mole intensa e cospicua di lavoro letterario settoriale svolto, ma per il senso umano, umile, solare di presentare e presentarsi, raccontare e raccontarsi, indagare, scoprire, scrutare, analizzare con meticoloso acume, quasi nell'estremizzazione del dettaglio, nell'esasperazione del particolare, per amore e fede della storia e della verità storica, facendo di se stesso il tessuto connettivo tra archeologia e architettura; una venerazione del reperto, della pietra, della struttura, quali testimonianze inconfutabili del nostro, spesso, glorioso passato; riesumando, per riflesso, il substrato psicologico e soprattutto la natura, le radici del nostro caratteriale, quello un di popolo (come si suol dire) di poeti, santi e navigatori.
A prescindere dal nostro accreditato e affermato Flavio Russo non solo nei confini nazionali, la cultura locale spesso non evidenzia o trascura certi valori, penalizzando personaggi di ottima levatura, con i masi chiusi di certo razzismo diplomatico, e col  "dannoso e annoso provincialismo" (inteso, purtroppo, non solo come goffaggine, impaccio e cattivo gusto, ma talvolta come inclinazione al livore, all'astio, alla rivalità, specie tra gli addetti ai lavori di determinata intellighentzia o di una cultura di stampo demagogico), atteggiamenti assenti in questi personaggi, come dire, "rieducati" o acculturati in etnie differenti, extra-moenia, predisposti ad una visione formativa, cognitiva e criteriale molto ampia, che spazia nel sociale, nella dimensione europea e via via planetaria. Trasporti e fervori negativi, invece, che allignano anche dentro le mura di città che vantano "intelletti" e valentie, dipanate sin dalla gloriosa imparagonabile Scuola Salernitana.
E quello che sconcerta è la diffusione, nei mass-media, del frivolo, dell'apparire e della "notizia", spesso inutile canard. Cosicché il furticello, la sniffata, le turbolenze civiche o le esplosioni della moda o pseudo-moda o i concerti dei big, diventano notizia e cultura di capillare dominio pubblico. Intanto milioni di persone non conoscono il nome di chi ha scoperto la penicillina, o di chi spende la propria vita sulle "sudate carte", per amore della cultura, per capire e diffondere il sapere, creando saggi e narrazioni atti, rispettivamente, a studiare o infiorire la materia fisica, ad esaltare o condannare, sublimare o ricusare il benevolo e l'iniquo della storia; per affondare, altresì, nella conoscenza delle nostre origini, cromosomicamente perpetuate nei secoli sino ad oggi e forse proiettate verso un domani speriamo migliore.
L'operato di Flavio Russo, ribadisco, è di notevole spessore culturale, e Torreomnia, apolitico, libero e indipendente, nella persona del sottoscritto, intende ulteriormente propagare. I lavori del nostro si allargano ad estuario nel campo della saggistica storico-architettonica o archeologico-ambientale, non solo partendo dall'ottica della storia militare. Ciò soprattutto perché le fatiche di questo prolifico studioso torrese beneficino tutti coloro che condividono con lui lo stesso amore per il sapere; senza il pretesto, qui, di intessere una edulcorata apologia ad un compaesano più o meno erudito.
I saggi di Flavio Russo pur essendo tecnicistici e settoriali rasentano un ibrido di saggistica e narrazione, ma quest'ultima solo apparente, subdorabile, non priva di sia pur sparuti accenni aneddotici altrettanto mimnetizzati, non esplicitamente descritti, quasi tutto immaginario, intuibile, al di qua e al di là della penna: un canovaccio interiore ventriloquo e spontaneo, diafano e rutilante che non si legge ma c'è e si coglie come radi sprazzi di luce, sino, spesso, a sfiorare l'umanistico. E mi chiedo se di questo l'autore sia consapevole perché per nulla voluto, ma sentito, non strumentale, che esula da giochi di maniera o da tecniche scrittorie mestieranti. Quasi si evince uno stile letterario, anche se apparente, di solito inesistente, quanto meno desueto nella saggistica, ma che, questa volta, fonde la materia scientifica all'etica e alla morale e ad un sentimentalismo partenopeo non difficilmente riconoscibile.
D'altra parte, giocoforza, è quasi un retaggio lirico nascere tra mare e Vesuvio. Pargoli, con la brezza di Calastro o quella della talassoterapeutica litoranea, sia pur decaduta, col profumo amorevole delle pietanze materne fatte di profumate cime di rapa, scapece o melenzane e peperoni, toccasana per l'ansia cromosomica delle eruzioni. Ambascia "in cantina" ritualizzata da inconsce giaculatorie atte ad esorcizzare la catastrofe, inneggianti il vivere, insufflanti per alimentare le ultime fiammelle di romanticismo e poesia negli anta, per così dire, dotti.
Come si può, con tali presupposti, mettere mano alla penna e stagnare, ad esempio, nei confini asettici dell'ingegneria, punto e stop. In tal modo Flavio Russo sarebbe un "vesuviano pentito", un meridionale snaturato e non vanterebbe l'umiltà, il sorriso, il carisma e la bontà che emana confabulando, con i suoi occhi intelligenti diritti in quelli dell'interlocutore, nel puerile atteggiamento dei puri d'animo.
I saggi di Flavio Russo si distinguono per questo alone di napoletanità o della parente vecchia torresità, pur se   vagamente percettibile, per questo più fantasiosa e personalmente interpretabile, ma che prende corpo e consistenza specie ne "L'oro rosso di Torre del Greco" oltre che, in generale, per la precipua prerogativa di opere univoche nel settore.
I moti dell'animo della nostra maggioranza di popolo buono ci spingono ora a genufletterci ai tabernacoli, ora a sottometterci alla cabala, ora ad ammirare monumenti, antiche torri, vetusti castelli e fortini, non disdegnando il quotidiano nutrirci di pane cafone farcito di interiezioni, nella speranza e nella gioia di vincere il timore del Vesuvio, di casa nel DNA, da noi. Ciò perché persistano nei circumvesuviani reazioni difensive ed esorcizzanti, contro la temuta catastrofe, moti eterogenei o contrapposti: invidia, gelosia, aggressività, o amore smisurato per lo studio, per l'arte applicata, per la glittica, per l'imprenditoria. Sensazioni, consapevolezze e prese di coscienza delle più variegate, presenti, da sempre, perché secolare è l'ansia endemica ed endogena dello "sterminator vesevo", non di meno, pure, ad esempio, nella creazione di un falansterio, di una torre saracena; oppure nella progettazione di un bunker nazista, di una Villa Sora e una Terme Ginnasio, immortalate e conviventi gomito a gomito nella nostra Torre del Greco, perpetuandosi nei millenni.
Per questo i tomi di Flavio sono speciali perché egli è figlio di questo terreno igneo ferace e impietoso, generoso e ingrato, come i devastanti errori a fin di bene di molte mamme verso i figli, le quali, come diceva Nietzsche non li amano, ma si amano in loro. Ed è proprio l'amore-odio dell'uomo per questa terra, che ce lo ricambia, inconscio o consapevole, unico al mondo, che forgia e sventra la creatività, l'acume, la scaltrezza fino al nutrimento di un coraggio pari all'estremizzazione dell'incoscienza, nella sfida folle e immotivata che si regge solo su di uno sfrenato sentimento di palingenesi, di redenzione fino, in alternativa, alla catarsi salvifica post-mortale. Sono certo che questa chiave di lettura dell'operato del Russo e di tutti i torresi creativi non è una rivelazione del sottoscritto inedita e stravolgente, ma intuibile dagli estimatori delle numerose opere, dai militari del suo ambiente di lavoro, dai giornalisti della Rivista Marittima, dai suoi lettori.
Deferente verso Russo, questo infaticabile scrittore che insieme ai collaboratori tutti di Torreomnia, specie quelli fuori le mura, fanno riscoprire in me la gioia di vivere in quel meridione relativo alla nota "questione" mai risolta, alimentando altresì la smarrita fierezza di essere torrese; ma mi vergogno come un ladro pentito, mi vergogno per la gratificazione, l'amore, la bontà, l'altruismo, sentimenti a iosa, trasmessomi e comunicatomi di  persona o per telecomunicazioni da questi numerosi bravi, buoni, onesti torresi; mi vergogno rispetto alle migliaia di compaesani che pur essendo altrettanto buoni, bravi onesti, amorevoli non hanno modo, mezzo e luogo per ricevere questo ampio privilegio e beneficio dai concittadini disposti e raggianti di torresità, insieme alla nostra aria salubre e al sole generoso vesuviano. Mi vergogno perché costoro, rispetto a me, non compenseranno mai ciò che talora subiamo dall'ambiente interno le mura, cioè cattiverie, gelosie, talvolta lordure. Vorrei dividere con gli altri, con tutti i torresi, fratelli in Torre, la gratificazione e l'amicizia disinteressata dei numerosi collaboratori ed estimatori di Torreomnia e la sua ampia utenza sfegatata, e non sentirmi solo vorace ed ingordo d'amore, d'affetto e di uno sviscerato campanilismo.              
Luigi Mari
Da "L'oro rosso di Torre del Greco

                                                       


Argomentando di "Salvatore in quel di Bologna", slogan, questo, a cui sono affezionato, mi viene spontaneo dire "il caso Argenziano". Caso perché egli rappresenta l'emblematico di una essenziale sfaccettatura della rosa di problematiche dell'area vesuviana, nella fattispecie il malore endemico: edonismo-egotismo di una Torre del Greco allineata alle città italiane con un reddito, sperequato, s'intende, di gran lunga superiore alla media nazionale e condizionata da specifici masi chiusi economici di settore.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica napoletanità umanistica, pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto delle differenze di classe se non per una logica gerarchica, ma che riusciva ad accomunare il malato ricco con il malato povero davanti a Dio; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la perdita di pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono più da un fatto endemico geografico che da cause epocali di etnicismo più ampio o, addirittura di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui lo nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione incondizionata a Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia maniera, quello della parola mantenuta o della solidarietà, della disponibilità; il torrese dei baratti sui ballatoi di a laccia e putrusino; quello della "napoletana fumante" che penetrava usci, porte e portelle di architettura spagnola, oramai quasi totalmente falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato nel momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale pargolo imberbe con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni profuse d'incenso e di afrore degli anni cinquanta, le pollastre dei poveri fumanti lungo il ciglio delle strade, i cazzabbocchi della Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei miraggi hollyoodiani dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche", tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano sono l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino incontrastabile, ma uniti per sempre nell'animo.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di Capotorre) idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla nostalgia e al lucore soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal giogo delle problematiche epocali attuali dell'area geografica che lo ospita. Dietro questa molla Salvatore Argenziano ha donato ai suoi compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il momento: "Ricordi" e il "lessico torrese-italiano", che spera di ampliare con la collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla componente onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date, bombardamenti, sfollati, eruzione, ecc.
Tuttavia una storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca, come fatto descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come il pensiero lontano, come un perduto amore.
Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano, che descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata apprensione dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera affettiva di ogni genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo, fuori della realtà, perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo, animale sempre ossessionato dai dualismi male-bene, amore-odio che allignano soprattutto nei conflitti bellici, specie quello descritto appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre, le note amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra così malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già solo sul morale quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi, vedeva preannunciato quello che poi si doveva rivelare quel certo degrado della qualità della vita nella cintura vesuviana, come una cancrena morale mai sanata, ma consolidata dalle leggi spietate del business, dei mass-media-grancassa, dei feroci pseudo modelli sociali propinati indiscriminatamente e gratuitamente anche in un'area sociale che adoperava panacee e toccasana come le icone dei Santi, e gli scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle odierne guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo stesso condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo spaccato descrittivo dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di un probabile 68 il quale, insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un distacco troppo netto e repentino tra due generazioni favorendo, come dire, manodopera per i gestori dei mutamenti epocali in fatto di edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla globalizzazione; mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze tecnico-scientifiche e demografiche attuali ma che hanno compromesso fino all'osso i tradizionali valori, i rapporti generazionali in un clima di totale incomprensione, confusione e disadattabilità con i modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese irriducibile come lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca per i termini più reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che vanno perdendosi nei meandri del tempo. Proprio perché egli, lontano dalla terra natia, quindi meno contaminato dai malesseri endemici della specifica area vesuviana, poteva progettare e stendere con generosità, senza riserve e quant'altro di negativo per Torre del Greco. Chiaramente si spera nella collaborazione di tutti perché questo lavoro possa crescere, poiché molti termini precipui, di stretta settorialità vengono tramandati solo verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano" sia antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai masi chiusi della cultura locale; lontano dagli individualismi dottrinari e dai feticisti della raccolta storica di notizie e foto, materiale spesso finito nelle pattumiere dopo le inevitabili dipartite a cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare a noi stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con gli altri".
Luigi Mari
Da Introduzione Argenziano



...La poesia di Ciccio Raimondo ha forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi", in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però, sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi, vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo "Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi, ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei personaggi descritti.          
Luigi Mari
Da: Poesie di Ciccio Raimondo"

...(si era nell'immediato dopoguerra), ed entrambi, quindicenni, parallelamente, ci preparavamo a soggiacere sotto un avvenire ostico, intricato, spinoso che si dipanava da disarmonie domestiche, tristi retaggi di molte famiglie d'allora, spesso schiacciate nei risvolti di un mantice che ancora insufflava quotidianamente fame ed inedia. Disagi e disequilibri alimentati dal disagio esistenziale della consapevolezza della finibilità specie allora, superstiti, reduci e convalescenti dell'inedia, dell'umiliazione, dello squallore in cui cade lo spirito durante i conflitti bellici lunghi e devastanti. 
Snaturalezze, separazioni, odi e rancori oppure annchilimento mistico, rassegnazione, abbandono di se.
Dietro tale architettura di eventi, intrecciati in un disegno di esistenza ora allucinante, ora onirico, soave e dolcissimo, nell'impeto e l'irruenza di esorcizzare malori e fantasmi insidiatesi in infanzia, giovinezza e maturità aspre e virulente, anche se non prive di gioie...
Luigi Mari
Da Personaggi "Gaetano Della Gatta"

Peppe D'Urzo è un autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più minuto. Non solo.                      
Mentre una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio, sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo so".    
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Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi, apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che, apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora) , si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva, sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo, d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente, giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile, insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto gli occhi...".

Luigi Mari
Da Personaggi e località D'Urzo

Basilio Liverino quella mattina era solo l'uomo Basilio, un pezzo di Torre vecchia maniera, un crostone del Campanile di S. Croce, un basalto vulcanico tiepido dei marciapiedi delle antiche strade torresi dove sedevamo spensierati e scapigliati mezzo secolo fa, col tepore che sentivamo sotto le  della Scala, con i corpicini d'infante rinfrescati immediatamente dopo nelle estenuanti nuotate sotto il sole allo zenit o con i "cazzabbocchi" della "Carmenella", il pioniere dei trans, per poi sdraiarci sulle candide lenzuola delle nostre magioni-giardino di Torre antica. 
Sapevo che egli, nei suoi precordi custodiva l'altro tesoro: la sua terra, la sua gente, la sua infanzia, l'odore 
della salsedine sulla scarpetta vulcanica a Portosalvo, le semmolelle con le alici salate alle prime luci dell'alba, i panzarotti e le arachidi tostate di "mmiez''a Torre", il profumo dell'incenso nelle veglie natalizie di Santa Croce, l'odore intenso, narcotizzante, del corallo nelle ceste ai piedi del suo letto.
Quel rosso carminio più costoso dell'oro,  si scioglie come plasma nelle sue vene di poeta del corallo, di vigoroso  vesuviano, per alimentare il suo geniale ciclo vitale, per nutrire il suo cuore celatamente generoso di napoletano vecchia maniera, come lava ignea mai solidificata, come il sangue di S. Gennaro nella sua teca che alimenta speranza, futuro, forza vitale.Basilio Liverino è la personificazione del corallo, è il corallo stesso. Ai nostri tempi i bambini nascevano dal cavolo, dalla zucca, Basilio è nato dalla fauna marina.
Chissà se è venuto alla luce nei fondali di Sciacca, negli oceani o, forse, la sua cara mamma raccolse il suo rametto fetale nelle scogliere della Scala perché, staccatosi dai banchi coralliferi, è venuto ad adagiarsi nel nostro dolce, caro mare vesuviano, quello della nostra magnifica, gloriosa, martoriata terra torrese risorta sempre come Araba fenice.
Luigi Mari
Da Corallarte "Basilio, l'uomo"

...Eppure, cari giovani torresi, siete migliori di noi anta, credete, meno scaltri, più sinceri, meno cattivi, ma molto, molto, molto più confusi ed indifesi. Noi anta siamo feroci nei giudizi: quando la tigre ammazza l'uomo la chiamiamo "ferocia", quando l'uomo ammazza la tigre lo chiamiamo "sport".
Un affermato artista torrese ha detto: "Non posso entrare nel sito di Mari, ci sono anche artisti umili, terra terra"; un altro: "...e che mi metto nel sito dove stanno pure gli zingari?" cioè i meno abbienti, coloro i quali la civiltà e la libertà di pensiero danno una sia pur flebile voce, perché ancora impera il raccapricciante detto torrese " 'e denare so' 'a voce 'e ll'omme!".
O si fa riferimento ad artisti umili, non "protocollati" dai masi chiusi di certa intellighentzia, senza nome e legami clientelari. (Fatti il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato).
Che squallore! Che solitudine! ...E, retorica permettendo, molto spesso dimentichiamo, come diceva Aulo Cellio, che la nostra vita è un attimo, il resto o lo abbiamo già vissuto o non sappiamo se lo vivremo; e dimentichiamo pure che, "dopo morti, puzziamo tutti allo stesso modo". 
Per questo vi amo, cari giovani, perché a molti di voi almeno la cattiveria, l'egoismo e l'egotismo non vi sfiorano, siete fuori dai baronati anche se siete tutti uguali, portate una sorta di divisa interiore, non vi vedete mai bene sulle foto perché i vecchi volponi detentori del potere soffocare in voi l'autostima, sono gelosi della vostra intelligenza, della vostra cultura e della vostra giovinezza, infine.
Per questo, forse, tutti tornate tardi la notte, vi destate tardi il giorno dopo, parlate alla stessa maniera, trasgredite alla stessa maniera, amate alla stessa maniera, addirittura, talvolta, morite alla stessa maniera. SEMBRA SIATE STATI PROCREATI DALLA STESSA MADRE E DALLO STESSO PADRE!!!, cari, meravigliosi giovani contemporanei, grazie di esistere. E' grazie a voi che i "vecchi lupi consolidati" non divorano tutto e tutti come i pirana e si dannano nella chimera del potere, nel terrore dei essere detronizzati dal vostro futuro...
Luigi Mari
Da "Considerazioni"

...L'unico modo di non esser fratello a Torre è quello d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue, ma perché il fratello uterino si ama da morto prima che da vivo. Infatti questa maniera d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa sì che il fratello, morto in vita, nasca non appena è sottoterra. Non ho mai visto amare un fratello vivo, nella mia città, come l'ho visto fare con uno morto. La gioia, la felicità, la lealtà che gli si nega da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre è una cosa disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel sonno"si può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si spenderanno centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e avvisi di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un soldo, per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo commovente e angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e l'unico modo per non esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli alla stessa madre, da vivi; figli di Dio da morti...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 "Fratello Torrese"

...E' grazie a mammà che la gioventù torrese, sin dalla Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore Dio, con tutto il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e pretendere che la sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei giovani, che sono soprattutto figli, sia anche merito suo. Che il Signore, a Torre, ancora con tutto il rispetto, si interessi dei propri figli che son tanti sparsi in tutto il mondo, perché i figli di Dio torresi sono prima figli di mammà. Ma se il Signore dovesse proprio insistere che fare i figli belli sia anche o, addirittura, solo merito suo, allora le mamme torresi finiranno con l'indispettirsi. E non si lagnino i ministri di Dio se le mamme torresi finiscono con il non andare spesso in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da un po' di tempo a questa parte va in giro dicendo che i giovani sono suoi figli più dei vecchi, e che di figli vecchi non ha di che farsene, dal momento che gli «attempati» sono solo «servi» di Dio. E provati a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa ti capita. Già, che un figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la morte gli si da il permesso di vivere dove vuole e come vuole. E non c'è da stupirsi, a Torre, se è il maschio a dire «torno da mammà». Ché se si prova una femmina di tornare a casa materna viene presa a calci nel sedere; ché se si prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e gli vien detto che non sarà mai una mamma degna del propri figli (filgli maschi, s'intende) perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa più inutile di questo mondo...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 
"Gioventù torrese, ah che beata!"

...Spulciamo ora le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Noi vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiaciamo a mezza strada tra la passionalità deisticoverginale e quella femminomatriarcale. La donna, nel napoletano, è da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l'essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli...
Luigi Mari
da "Narrando sotto il Vesuvio"

I quartieri popolari con vecchie architetture spagnole, porte e portelle, terrazze e balaustre, vasetti di garofani e rose. Il cuore del proletariato torrese pre-post bellico. Il pidocchietto con Mammella nei  miraggi hollioodiani con i vari Ehston, Reves, Scott, Matur,  Baker, Weissmüller; il sentore acre e soffuso delle fatiscenze,  carnacotta e fichi d'india, Feola l'Acquaiola, in una Torre del Greco agro-dolce di un folklore ed una cultura proletari quasi autarchici, a tratti fuori dalla storia, pur se dipanati da canoni ancora imbevuti di viceregno e, talvolta, di logiche lazzaroniche;  una Torre del Greco, tuttavia,  incancrenita da eruzioni, dopoguerre, e suggestioni mistiche, in un contesto epocale lirico, destinato a soggiacere per estinguersi sotto le sgherre pressioni di una involuzione etica, un edonismo devastante, un pragmatismo ed un meccanicismo fuori d'ogni misura d'uomo.                      
Luigi Mari
Da Opere "Gradoni e canali"

Discorrere d'amore, oggi, in maniera declamatoria e fiorita, dietro l'inevitabile apparenza messianica, risulta quanto meno frusto e retorico, per non dire anacronistico. Non posso dire, retoricamente, che ormai l'uomo è incapace di beneficiare delle virtù e dei valori di un tempo. Non citerò la rancida massima: "Il migliore affare è quello di comprare gli uomini per quello che valgono e venderli per quello che credono di valere".
Intanto pure un bimbo di terza elementare sa che l'equilibrio del consorzio umano rivacilla dopo corsi e ricorsi epocali perché sono venuti a mancare non già i valori etico-religiosi in sé, ma i sostegni psichici che pure tra follie di masse e battaglie cruente suggerivano al singolo la scelta di una presenza terrena intellettivo-istintuale ora atarassica, per dirla con il tanto partenopeo Epicuro, ora apotropaica, atta a scongiurare il negativo esistenziale relativo all'interrogativo primario, inconscio, dell'uomo di carattere salvifico post-mortale.
Al cospetto delle centinaia di foto antiche di questo sito ci sembrerà di inspirare la fragranza di quintessenze orientali, per dirla ancora in chiave retorica, dove compare qua e là un ciuffo d'erba, qualche viale alberato, un brolo nei dedali, un verziere sullo sfondo di un androne.
Le strade palcoscenico si tramutano oggi in giungla urbana; gli interni, sottomessi alle coercitive leggi di mercato; l'abbigliamento soggiogato dalle convenzioni di un mercato pilotato da diaboliche strategie di marketing. Torre del Greco, come tutte le città moderne, affoga nel concetto di benessere, concretizzato pure da pressioni snobistiche, da smanie di sopraffazione. Le vecchie foto sono una testimonianza inconfutabile rispetto alla rappresentazione alfabetica di uno scrittore che, se pur in buona fede, soggiace sotto lo spirito campanilistico, alterando certi aspetti, purgandone altri fino a mascherare certe lordure.
Ma non basta; i contrasti interdomestici tra due generazioni conviventi, dovuti ad un mutamento troppo rapido di ideologie e un crescendo di sovvertimenti politico-sociali hanno causato persino nelle nostre famiglie di stampo patriarcale vere e proprie idiosincrasie nei rapporti di gomito. A queste crisi ha contribuito non poco un certo lassismo dei genitori, l'ingerenza protettiva materna che offusca la figura del padre dietro ciechi cromosomici desideri di riscatto di stampo femminista.
Ma dove sono finite le filastrocche risuonanti lungo le contrade barrocciabili, dove qualche nonno, assiso su una pietra miliare farfugliava al nipote: "Cicci bacco 'ncopp''a votta, chi 'o tira e chi 'o votta, chi 'o votta 'nda cantina, Cicci bacco beve 'o vino"?
Dov'è finito il vociare logorroico, nelle due piazzette torresi, delle sode e belle massaie, ignare dell'ossessione di scippi od estorsioni o del fantasma interno dell'anoressia. E il gesticolare delle ragazze, chissà perché, sempre copiose di forme, nel mercanteggiare quelle derrate che alimentavano in modo genuino la loro opulenza fuori dal bisogno di cibarie sintetiche o composti di laboratorio da assumere per via parenterale.
Mi urge uno stralcio retorico: sono andati per sempre i baci delle fanciulle, che svaporavano la fragranza della clorofilla. Erano i tempi dei baci ad occhi chiusi (oggi si dice come stupidi), per lasciare involare l'immaginazione: due colombi cabravano sui crinali dei monti, indi veleggiavano indomiti, poi andavano a posarsi leggeri sui prati intrisi di guazza primaverile nelle ville vesuviane alle falde del Vesuvio, onde poter compiere, nei campi elisi, un atto d' amore, giammai contaminati da glaciali introspezioni post-freudiane, frigidizzanti e svirilizzanti.
Ma il benessere non è salute mentale, cioè amore. Il concetto dell'amore assoluto e puro si riduce in una sola parola: Dio. Non ho detto cristianità, buddismo, islamismo, ecc. queste sono dottrine, veicoli per condurre a Dio che prevedono Dio-amore=immortalità. Demonio-male=assenza salvifica, quindi è un amore che deriva spesso dal timore di soffrire. Dio non è ciò. Dio è amore e basta, dentro e fuori di noi. Sempre.
Basta con l'analisi scelta, benvengano dialetti, solecismi, anacoluti, evviva Gadda e Pasolini. Necessitano le nostre origini. Rinominiamo i nostri figli. Basta con i Patty, Genny, Paul ed Omar. Concludo con una bella immagine di Luciano De Crescenzo: Gli uomini sono angeli con una sola ala, non possono volare che abbracciati".
Luigi Mari
Da: "Torre antica come messaggio d'Amore"

...Qualcosa che va al di là della suggestione o dell'ubbia. Un recupero fisico vero, reale e non realistico, vivo e palpitante, come è vera l'inesistenza di un confine tra la realtà e la fantasia anche quando si parla di amore. Realtà e fantasia si fondono nel vero e nel metaforico e attingono i lontani puerili candori e le purezze, oggi sotto il giogo di nostalgiche reminiscenze, prigionieri di svigorimento ed inabilità per l'inevitabile dissoluzione di benessere e letizia, destinati a sparire con la lucida, scientifica, devastante consapevolezza del finire delle cose; e soprattutto del nostro inevitabile finire.
Quindi un messaggio di recupero della materia utile ed attuale, che coinvolge e sottintende, però, il recupero più nobile e sublime della psiche, della felicità come salute mentale, come infinibilità dell'amore.
Amalia Vernacchia per certi aspetti ha realizzato in oggetti l'assunto del famoso romanzo di Oscar Wild: "Il ritratto di Dorian Gray". L'eterno dilemma della finibilità che può non finire se lo vogliamo?...
Luigi Mari
Da Artisti "Amalia Vernacchia"

Una sorta di autodifesa senza note caustiche, priva di toni polemici non sarebbe tale; non sarebbe democrazia. Non trovando altro appiglio certa intellighentzia, insomma gli addetti ai lavori, criticano la grafica elementare e variopinta di questo sito, (perché dei contenuti si guardano bene dal parlarne). 
Certo, la nostra è una società di facciata, di conformismo, ma in Torreomnia la pagnotta non c'entra; prevale sostenere la libertà, almeno lo sforzo di farlo.
I criticoni, ossessionati dalla loro incapacità di costruire contenuti, sono conformisti fradici e sostenitori del luk attuale, portabandiera dell'immagine impeccabile e conforme: poi non sanno aprir bocca. Per loro creare significa somigliare. Succubi della filosofia pappagallesca rivolta solo ad intimidire e prevaricare con una sorta di nuovo insignificante latinorum, penalizzando infine, tra l'altro, i poco iniziati che impiegheranno anni prima di imparate a scovare i link mirmicolanti da microscopio presenti in quei rebus a cui somigliano certe pagine web più quotate.
E' lo scotto delle dottrine acquisite, delle nozioni da esoterismo mestierante, della seriosità e della pseudo professionalità. Diceva Galilei: La differenza che passa tra il filosofo e il laureato in filiosofia è quella che intercorre tra l'artista che crea il proprio quadro e il pittore che lo copia.
Luigi Mari
Da "Considerazioni" in questo sito