Ecco alcuni stralci
di Luigi Mari che
vi introdurranno allo spitito di
Torreomnia:
(E'
determinante leggerli!).
Flavio Russo è un chiaro esempio di valenza torrese non
sufficientemente divulgata, non solo per la mole intensa e cospicua di
lavoro letterario settoriale svolto, ma per il senso umano, umile,
solare di presentare e presentarsi, raccontare e raccontarsi, indagare,
scoprire, scrutare, analizzare con meticoloso acume, quasi
nell'estremizzazione del dettaglio, nell'esasperazione del particolare,
per amore e fede della storia e della verità storica, facendo di se
stesso il tessuto connettivo tra archeologia e architettura; una
venerazione del reperto, della pietra, della struttura, quali
testimonianze inconfutabili del nostro, spesso, glorioso passato;
riesumando, per riflesso, il substrato psicologico e soprattutto la
natura, le radici del nostro caratteriale, quello un di popolo (come si
suol dire) di poeti, santi e navigatori.
A prescindere dal nostro accreditato e affermato Flavio Russo non solo
nei confini nazionali, la cultura locale spesso non evidenzia o trascura
certi valori, penalizzando personaggi di ottima levatura, con i masi
chiusi di certo razzismo diplomatico, e col "dannoso e annoso
provincialismo" (inteso, purtroppo, non solo come goffaggine,
impaccio e cattivo gusto, ma talvolta come inclinazione al livore,
all'astio, alla rivalità, specie tra gli addetti ai lavori di
determinata intellighentzia o di una cultura di stampo demagogico),
atteggiamenti assenti in questi personaggi, come dire,
"rieducati" o acculturati in etnie differenti, extra-moenia,
predisposti ad una visione formativa, cognitiva e criteriale molto
ampia, che spazia nel sociale, nella dimensione europea e via via
planetaria. Trasporti e fervori negativi, invece, che allignano anche
dentro le mura di città che vantano "intelletti" e valentie,
dipanate sin dalla gloriosa imparagonabile Scuola Salernitana.
E quello che sconcerta è la diffusione, nei mass-media, del frivolo,
dell'apparire e della "notizia", spesso inutile canard.
Cosicché il furticello, la sniffata, le turbolenze civiche o le
esplosioni della moda o pseudo-moda o i concerti dei big, diventano
notizia e cultura di capillare dominio pubblico. Intanto milioni di
persone non conoscono il nome di chi ha scoperto la penicillina, o di
chi spende la propria vita sulle "sudate carte", per amore
della cultura, per capire e diffondere il sapere, creando saggi e
narrazioni atti, rispettivamente, a studiare o infiorire la materia
fisica, ad esaltare o condannare, sublimare o ricusare il benevolo e
l'iniquo della storia; per affondare, altresì, nella conoscenza delle
nostre origini, cromosomicamente perpetuate nei secoli sino ad oggi e
forse proiettate verso un domani speriamo migliore.
L'operato di Flavio Russo, ribadisco, è di notevole spessore culturale,
e Torreomnia, apolitico, libero e indipendente, nella persona del
sottoscritto, intende ulteriormente propagare. I lavori del nostro si
allargano ad estuario nel campo della saggistica storico-architettonica
o archeologico-ambientale, non solo partendo dall'ottica della storia
militare. Ciò soprattutto perché le fatiche di questo prolifico
studioso torrese beneficino tutti coloro che condividono con lui lo
stesso amore per il sapere; senza il pretesto, qui, di intessere una
edulcorata apologia ad un compaesano più o meno erudito.
I saggi di Flavio Russo pur essendo tecnicistici e settoriali rasentano
un ibrido di saggistica e narrazione, ma quest'ultima solo apparente,
subdorabile, non priva di sia pur sparuti accenni aneddotici altrettanto
mimnetizzati, non esplicitamente descritti, quasi tutto immaginario,
intuibile, al di qua e al di là della penna: un canovaccio interiore
ventriloquo e spontaneo, diafano e rutilante che non si legge ma c'è e
si coglie come radi sprazzi di luce, sino, spesso, a sfiorare
l'umanistico. E mi chiedo se di questo l'autore sia consapevole perché
per nulla voluto, ma sentito, non strumentale, che esula da giochi di
maniera o da tecniche scrittorie mestieranti. Quasi si evince uno stile
letterario, anche se apparente, di solito inesistente, quanto meno
desueto nella saggistica, ma che, questa volta, fonde la materia
scientifica all'etica e alla morale e ad un sentimentalismo partenopeo
non difficilmente riconoscibile.
D'altra parte, giocoforza, è quasi un retaggio lirico nascere tra mare
e Vesuvio. Pargoli, con la brezza di Calastro o quella della
talassoterapeutica litoranea, sia pur decaduta, col profumo amorevole
delle pietanze materne fatte di profumate cime di rapa, scapece o
melenzane e peperoni, toccasana per l'ansia cromosomica delle eruzioni.
Ambascia "in cantina" ritualizzata da inconsce giaculatorie
atte ad esorcizzare la catastrofe, inneggianti il vivere, insufflanti
per alimentare le ultime fiammelle di romanticismo e poesia negli anta,
per così dire, dotti.
Come si può, con tali presupposti, mettere mano alla penna e stagnare,
ad esempio, nei confini asettici dell'ingegneria, punto e stop. In tal
modo Flavio Russo sarebbe un "vesuviano pentito", un
meridionale snaturato e non vanterebbe l'umiltà, il sorriso, il carisma
e la bontà che emana confabulando, con i suoi occhi intelligenti
diritti in quelli dell'interlocutore, nel puerile atteggiamento dei puri
d'animo.
I saggi di Flavio Russo si distinguono per questo alone di napoletanità
o della parente vecchia torresità, pur se vagamente
percettibile, per questo più fantasiosa e personalmente interpretabile,
ma che prende corpo e consistenza specie ne "L'oro rosso di Torre
del Greco" oltre che, in generale, per la precipua prerogativa di
opere univoche nel settore.
I moti dell'animo della nostra maggioranza di popolo buono ci spingono
ora a genufletterci ai tabernacoli, ora a sottometterci alla cabala, ora
ad ammirare monumenti, antiche torri, vetusti castelli e fortini, non
disdegnando il quotidiano nutrirci di pane cafone farcito di
interiezioni, nella speranza e nella gioia di vincere il timore del
Vesuvio, di casa nel DNA, da noi. Ciò perché persistano nei
circumvesuviani reazioni difensive ed esorcizzanti, contro la temuta
catastrofe, moti eterogenei o contrapposti: invidia, gelosia,
aggressività, o amore smisurato per lo studio, per l'arte applicata,
per la glittica, per l'imprenditoria. Sensazioni, consapevolezze e prese
di coscienza delle più variegate, presenti, da sempre, perché secolare
è l'ansia endemica ed endogena dello "sterminator vesevo",
non di meno, pure, ad esempio, nella creazione di un falansterio, di una
torre saracena; oppure nella progettazione di un bunker nazista, di una
Villa Sora e una Terme Ginnasio, immortalate e conviventi gomito a
gomito nella nostra Torre del Greco, perpetuandosi nei millenni.
Per questo i tomi di Flavio sono speciali perché egli è figlio di
questo terreno igneo ferace e impietoso, generoso e ingrato, come i
devastanti errori a fin di bene di molte mamme verso i figli, le quali,
come diceva Nietzsche non li amano, ma si amano in loro. Ed è proprio
l'amore-odio dell'uomo per questa terra, che ce lo ricambia, inconscio o
consapevole, unico al mondo, che forgia e sventra la creatività,
l'acume, la scaltrezza fino al nutrimento di un coraggio pari
all'estremizzazione dell'incoscienza, nella sfida folle e immotivata che
si regge solo su di uno sfrenato sentimento di palingenesi, di
redenzione fino, in alternativa, alla catarsi salvifica post-mortale.
Sono certo che questa chiave di lettura dell'operato del Russo e di
tutti i torresi creativi non è una rivelazione del sottoscritto inedita
e stravolgente, ma intuibile dagli estimatori delle numerose opere, dai
militari del suo ambiente di lavoro, dai giornalisti della Rivista
Marittima, dai suoi lettori.
Deferente verso Russo, questo infaticabile scrittore che insieme ai
collaboratori tutti di Torreomnia, specie quelli fuori le mura, fanno
riscoprire in me la gioia di vivere in quel meridione relativo alla nota
"questione" mai risolta, alimentando altresì la smarrita
fierezza di essere torrese; ma mi vergogno come un ladro pentito, mi
vergogno per la gratificazione, l'amore, la bontà, l'altruismo,
sentimenti a iosa, trasmessomi e comunicatomi di persona o per
telecomunicazioni da questi numerosi bravi, buoni, onesti torresi; mi
vergogno rispetto alle migliaia di compaesani che pur essendo
altrettanto buoni, bravi onesti, amorevoli non hanno modo, mezzo e luogo
per ricevere questo ampio privilegio e beneficio dai concittadini
disposti e raggianti di torresità, insieme alla nostra aria salubre e
al sole generoso vesuviano. Mi vergogno perché costoro, rispetto a me,
non compenseranno mai ciò che talora subiamo dall'ambiente interno le
mura, cioè cattiverie, gelosie, talvolta lordure. Vorrei dividere con
gli altri, con tutti i torresi, fratelli in Torre, la gratificazione e
l'amicizia disinteressata dei numerosi collaboratori ed estimatori di
Torreomnia e la sua ampia utenza sfegatata, e non sentirmi solo vorace
ed ingordo d'amore, d'affetto e di uno sviscerato campanilismo.
Luigi Mari
Da "L'oro rosso di Torre del Greco
Argomentando di "Salvatore in quel di
Bologna", slogan, questo, a cui sono affezionato, mi viene
spontaneo dire "il caso Argenziano". Caso perché egli
rappresenta l'emblematico di una essenziale sfaccettatura della rosa di
problematiche dell'area vesuviana, nella fattispecie il malore endemico:
edonismo-egotismo di una Torre del Greco allineata alle città italiane
con un reddito, sperequato, s'intende, di gran lunga superiore alla
media nazionale e condizionata da specifici masi chiusi economici di
settore.
Il pragmatismo, si sa, fa a cazzotti con l'antica napoletanità
umanistica, pregna di suggestioni etico-religiose che non tenevano conto
delle differenze di classe se non per una logica gerarchica, ma che
riusciva ad accomunare il malato ricco con il malato povero davanti a
Dio; anche se meno davanti al medico.
Il "caso Argenziano" è visto tale perché dimostra come la
perdita di pregi morali, elevatezze d'animo ed altri valori, dipendono
più da un fatto endemico geografico che da cause epocali di etnicismo
più ampio o, addirittura di vastità planetaria.
Torrese DOC, (e mi piace ripetere alla De Curtis: torresi si nasce e lui
lo nacque), Salvatore Argenziano con la sua collaborazione
incondizionata a Torreomnia, tiene alto il vessillo del torrese vecchia
maniera, quello della parola mantenuta o della solidarietà, della
disponibilità; il torrese dei baratti sui ballatoi di a laccia e
putrusino; quello della "napoletana fumante" che penetrava
usci, porte e portelle di architettura spagnola, oramai quasi totalmente
falciate dalla ricostruzione.
Per il nostro concittadino il "tempo torrese" si è fermato
nel momento in cui mise piedi fuori la Porta di Capotorre; ideale
pargolo imberbe con alcuni anta, rivive oggi nitide le processioni
profuse d'incenso e di afrore degli anni cinquanta, le pollastre dei
poveri fumanti lungo il ciglio delle strade, i cazzabbocchi della
Carmenella, i ceci e i semi di zucca tostati dei miraggi hollyoodiani
dei Gradoni e Canali.
L'evocazione nei "Ricordi" rivela i primi turbamenti giovanili
dell'autore causati dai tedeschi e dagli anglo-americani. Una "Recherche",
tuttavia, poetica, metricamente libera, quindi descrittivamente più
autentica.
La Torre del Greco di mezzo novecento insieme a Salvatore Argenziano
sono l'idillio, due pargoli amanti, castigati dal sortilegio dell'amore
indissolubile, una Giulietta e un Romeo divisi da un destino
incontrastabile, ma uniti per sempre nell'animo.
Il torrese, in genere, che vive fuori porta (nella fattispecie di
Capotorre) idealizza e sublima la Patria del Corallo, soggiace alla
nostalgia e al lucore soffuso dei ricordi e questo lo risolleva dal
giogo delle problematiche epocali attuali dell'area geografica che lo
ospita. Dietro questa molla Salvatore Argenziano ha donato ai suoi
compaesani, tramite Torreomnia, due gemme, per il momento:
"Ricordi" e il "lessico torrese-italiano", che spera
di ampliare con la collaborazione fattiva dei concittadini.
Dal primo componimento si evince la lirica che scaturisce dalla
componente onirica, prevalente sul fatto epico, eventi, date,
bombardamenti, sfollati, eruzione, ecc.
Tuttavia una storicità a mezza strada tra la storiografia e la cronaca,
come fatto descrittivo, ma tutto diafano, incerto e sicuro insieme, come
il pensiero lontano, come un perduto amore.
Una prosa in versi e dei versi in prosa, quelli di Salvatore Argenziano,
che descrivono e sottolineano non già solo l'accaduto, ma la velata
apprensione dell'accadibile che coinvolgono esistenzialmente la sfera
affettiva di ogni genere di lettore, fuori del tempo, fuori del luogo,
fuori della realtà, perché coinvolgono il dilemma eterno dell'uomo,
animale sempre ossessionato dai dualismi male-bene, amore-odio che
allignano soprattutto nei conflitti bellici, specie quello descritto
appunto dall'Argenziano.
Ma, forse senza saperlo, o semplicemente perché egli vive fuori Torre,
le note amare del racconto, le bassezze e lo squallore di una guerra
così malapartianamente devastante hanno nociuto soprattutto non già
solo sul morale quanto la moralità dei vesuviani; Argenziano, quindi,
vedeva preannunciato quello che poi si doveva rivelare quel certo
degrado della qualità della vita nella cintura vesuviana, come una
cancrena morale mai sanata, ma consolidata dalle leggi spietate del
business, dei mass-media-grancassa, dei feroci pseudo modelli sociali
propinati indiscriminatamente e gratuitamente anche in un'area sociale
che adoperava panacee e toccasana come le icone dei Santi, e gli
scongiuri in un unico ibrido rituale.
La nostalgica descrizione dei "Ricordi" si ricuce diritta alle
odierne guerre dell'animo umano, tra le stesse mura domestiche, tra lo
stesso condominio, tra la stessa città. E' importante leggere lo
spaccato descrittivo dell'Argenziano che subdorava già una vaga idea di
un probabile 68 il quale, insieme a giuste rivendicazioni, ha causato un
distacco troppo netto e repentino tra due generazioni favorendo, come
dire, manodopera per i gestori dei mutamenti epocali in fatto di
edonismo, consumismo, europeizzazione fino alla globalizzazione;
mutamenti che saranno pure coerenti e consoni alle esigenze
tecnico-scientifiche e demografiche attuali ma che hanno compromesso
fino all'osso i tradizionali valori, i rapporti generazionali in un
clima di totale incomprensione, confusione e disadattabilità con i
modelli sociali.
La seconda fatica di Salvatore Argenziano è il "vocabolario
torrese-italiano", un'opera meritoria che solo un torrese
irriducibile come lui poteva stendere. Egli compie una minuziosa ricerca
per i termini più reconditi. Un recupero di parole ed espressioni che
vanno perdendosi nei meandri del tempo. Proprio perché egli, lontano
dalla terra natia, quindi meno contaminato dai malesseri endemici della
specifica area vesuviana, poteva progettare e stendere con generosità,
senza riserve e quant'altro di negativo per Torre del Greco. Chiaramente
si spera nella collaborazione di tutti perché questo lavoro possa
crescere, poiché molti termini precipui, di stretta settorialità
vengono tramandati solo verbalmente.
Ribadisco quello che ho detto in apertura: "il caso Argenziano"
sia antesignano per le vere iniziative culturali per Torre, fuori dai
masi chiusi della cultura locale; lontano dagli individualismi
dottrinari e dai feticisti della raccolta storica di notizie e foto,
materiale spesso finito nelle pattumiere dopo le inevitabili dipartite a
cui è predestinato ognuno di noi.
Non dimentichiamo le parole del saggio: "il dolore può bastare a
noi stessi, ma per vivere veramente una gioia bisogna condividerla con
gli altri".
Luigi Mari
Da Introduzione Argenziano
...La poesia di Ciccio Raimondo ha
forza nella voce caustica del "trasgressivo a tutti i costi",
in una dimensione e un parallelo, come dire, pre-evolutivo; un
messaggio, perciò, anche candido, quasi una religiosità nella
fisiologia erotica, che rasenta talvolta una sorta di venerazione
deistico-verginale della donna, un eterno femminino comunque emendato
nei suoi canoni classici, una sublimazione del fisiologico, ma devastato
immediatamente o contemporaneamente, spesso per ingerenze dalla stessa
donna, o della donna rivale nel ruolo di suocera, per subito rimanerne
ammaliati, per poi odiare, amare ed odiare ancora.
Una voce, in questi versi, che ha la pregnanza dell'autentico e la
spontanea icasticità dello scatto linguistico se pur costruito sul
vernacolo partenopeo ortodosso, speculare e modellato, però,
sull'idioma torrese che, pur non graficamente presente, verrà comunque
colto dai corallini, che ne sentiranno la musicalità, il ritmo.
Il vivianesco, il russiano, fino al digiacomiano soccombono, però, come
parametri soliti, non già per l'originalità dell'autobiografismo
evidente, ma per la profonda e complessa tematica psicosessuale di
stampo partenopeo tipica degli anni 60, che il Raimondo sembra solo
sfiorare, con tocchi ironici lazzi e frizzi, come a voler celare e
difendere il lettore alleggerendo questa problematica che comunque si
evince. Esorcizzare con la nostra capacità di sdrammatizzare, noi,
vesuviani, che se dobbiamo dire: "Mi fai piangere" diciamo
"Mi fai ridere sotto gli occhi".
Uno spaccato dei sentimenti, dei pregiudizi, dei timori, degli egoismi e
degli egotismi, fuori etica, fino ad un mercanteggiamento della materia
corpo come fonte di benessere, come investimento di potere e di
successo, come strumento di plagio e di sopraffazione, come arma di
tattiche meschine; comunque la violenza psicologica dell'uomo contro
l'uomo. Ciò evidenziato in un contesto geografico con un reddito
(sperequato) superiore alla media nazionale.
E sono certo che persino all'autore, infondo, possa sorgere il dubbio di
quali siano le vittime e quali i carnefici, se ci sono, o se sono
da ritenere tali, vista questa penosa instabilità epocale, tra screzi,
ripicche, tradimenti, immaturità, e folleggiamenti delineati nei
personaggi descritti.
Luigi Mari
Da: Poesie di Ciccio Raimondo"
...(si era
nell'immediato dopoguerra), ed entrambi, quindicenni, parallelamente, ci
preparavamo a soggiacere sotto un avvenire ostico, intricato, spinoso
che si dipanava da disarmonie domestiche, tristi retaggi di molte
famiglie d'allora, spesso schiacciate nei risvolti di un mantice che
ancora insufflava quotidianamente fame ed inedia. Disagi e disequilibri
alimentati dal disagio esistenziale della consapevolezza della finibilità
specie allora, superstiti, reduci e convalescenti dell'inedia,
dell'umiliazione, dello squallore in cui cade lo spirito durante i
conflitti bellici lunghi e devastanti.
Snaturalezze, separazioni, odi e rancori oppure annchilimento mistico,
rassegnazione, abbandono di se.
Dietro tale architettura di eventi, intrecciati in un disegno di
esistenza ora allucinante, ora onirico, soave e dolcissimo, nell'impeto
e l'irruenza di esorcizzare malori e fantasmi insidiatesi in infanzia,
giovinezza e maturità aspre e virulente, anche se non prive di gioie...
Luigi Mari
Da Personaggi "Gaetano Della Gatta"
Peppe D'Urzo è un
autore prolifico e singolare. Le sue ricerche sono incredibilmente
analitiche, di introvabile valore didattico. I lavori che vengon fuori
sono "ritratti" dove non sfugge nemmeno il particolare più
minuto. Non solo.
Mentre
una foto ritrae tutto ciò che è visibile, presente, Peppe allarga ad
estuario il suo pensiero ora sulla località, adesso sul personaggio,
sempre nel tepore della memoria, in maniera tale da rendere inevitabile
quel sapore poetico presente in tutte le reminiscenze. La Torre del
Greco di Peppe è Durzo stesso! Come diceva di se Marotta: "la
Napoli che racconto sono io, perché solo di me so qualcosa, se lo
so".
|
Gli scritti di Peppe D'Urzo non ostentano analisi scelta, egli non
adopera schiccherature mestieranti, dialettiche accattivanti per
soggiogare e intimidire il lettore, sacrificando la notizia, il
contenuto. Il testo, di primo acchito, va appena oltre la dimensione
dell'annotazione, della cronaca, della storiografia lineare, ma la prosa
è certamente straordinariamente ancorata al tessuto connettivo dei
precordi, delle intense emozioni di un umanistico, fidente, franco
passato, quello dei nostri nonni, lontani dai covoni bancari, dal
pragmatismo e dall'asetticità.
I suoi racconti, dunque, i suoi "graffiti", le sue interviste
celate e mimetizzate nel componimento aperto e spontaneo fuggono a tutti
i costi l'artificiosità, ma scatenano l'emozione come le vecchie
lettere degli emigranti intrise di quintessenze.
Un secondo aspetto, non meno prezioso, che quasi passa inosservato perché
scontato persino per l'autore, è quello mimetico dei dialoghi,
apparentemente inesistenti; ma soprattutto emerge la certosina fatica
glottologica che spesso si estende sino alla filologia, poiché la
terminologia torrese antica vastissima e spesso sconosciuta, perché
vetusta, è ricercata minuziosamente non solo nell'etimologia, ma nella
storicità della coniatura. Quasi un richiamo alla sperimentazione
gaddo-pasoliniana del dopoguerra. Testi, quelli del D'Urzo, che,
apparentemente lineari e illetterati nel senso artistico, (comunque
privi di artificiosità di mestiere, con buona pace di Croce o di Flora)
, si rivelano uno studio storico-aneddotico introvabile in tutti i suoi
predecessori torresi.
Se si affonda nel substrato, intanto, si raccoglie, comunque, anche una
prosa dove contenuti e forma sfiorano, sforano e ritornano in un candore
narrativo, per così dire lirico, ispirato, ideale, fantasioso, anche se
a tratti tremendamente crudo di realtà materiale e biologica, con
eventi anche tragici: lutti, angosce, fusi immediatamente prima e dopo
con esultanze, letizie, atti d'amore. Ma come in ogni assimilazione
letteraria molto dipende anche dalla soggettività del lettore, dal suo
gusto, dalla sua preparazione culturale, dalla sua condizione emotiva,
sociale, anagrafica infine.
E sono, senza dubbio, proprio atti d'amore dedicati alla sua cara Torre
del Greco che Peppe d'Urzo compie, quasi religiosamente, nell'emozione
più intensa e recondita, ogni volta che mette penna su carta. Ed egli
ama Torre ogni ora, ogni giorno, da sempre; da quando, pargolo,
d'estate, sentiva il tepore del nostro sole generoso sotto i plantari
sullo scoglio francese, con le nari narcotizzate dagli aromi delle
pietanze materne traboccanti d'amore e di benevolenza.
Solo un grande amore per le proprie mura, per la propria gente,
giustifica la fatica immane che compie da anni, instancabile,
insaziabile di storie e di fatti, di eventi e tradizioni.
Grazie, Peppe D'Urzo, grazie di amare così tanto la nostra città. Ti
voglio bene. Spesso, quando ti leggo, mi fai quasi "ridere sotto
gli occhi...".
Luigi
Mari
Da Personaggi e località D'Urzo
Basilio Liverino quella mattina era solo l'uomo Basilio, un pezzo di
Torre vecchia maniera, un crostone del Campanile di S. Croce, un basalto
vulcanico tiepido dei marciapiedi delle antiche strade torresi dove
sedevamo spensierati e scapigliati mezzo secolo fa, col tepore che
sentivamo sotto le della Scala, con i corpicini d'infante rinfrescati
immediatamente dopo nelle estenuanti nuotate sotto il sole allo zenit o
con i "cazzabbocchi" della "Carmenella", il pioniere
dei trans, per poi sdraiarci sulle candide lenzuola delle nostre magioni-giardino di Torre antica.
Sapevo che egli, nei suoi precordi custodiva l'altro tesoro: la sua
terra, la sua gente, la sua infanzia, l'odore
della salsedine sulla
scarpetta vulcanica a Portosalvo, le semmolelle con le alici
salate alle prime luci dell'alba, i panzarotti e le arachidi
tostate di "mmiez''a Torre", il profumo dell'incenso nelle
veglie natalizie di Santa Croce, l'odore intenso, narcotizzante, del
corallo nelle ceste ai piedi del suo letto.
Quel rosso carminio più costoso dell'oro, si scioglie come plasma
nelle sue vene di poeta del corallo, di vigoroso vesuviano, per
alimentare il suo geniale ciclo vitale, per nutrire il suo cuore celatamente generoso
di napoletano vecchia maniera, come lava ignea mai solidificata, come il
sangue di S. Gennaro nella sua teca che alimenta speranza, futuro, forza
vitale.Basilio Liverino è la personificazione del corallo, è il corallo
stesso. Ai nostri tempi i bambini nascevano dal cavolo, dalla zucca,
Basilio è nato dalla fauna marina.
Chissà se è venuto alla luce nei fondali di Sciacca, negli oceani o,
forse, la sua cara mamma raccolse il suo rametto fetale nelle scogliere
della Scala perché, staccatosi dai banchi coralliferi, è venuto ad
adagiarsi nel nostro dolce, caro mare vesuviano, quello della nostra
magnifica, gloriosa, martoriata terra torrese risorta sempre come Araba
fenice.
Luigi Mari
Da Corallarte "Basilio, l'uomo"
...Eppure, cari giovani torresi, siete migliori di
noi anta, credete, meno scaltri, più sinceri, meno cattivi, ma molto,
molto, molto più confusi ed indifesi. Noi anta siamo feroci nei giudizi: quando la tigre ammazza l'uomo la
chiamiamo "ferocia", quando l'uomo ammazza la tigre lo
chiamiamo "sport".
Un affermato artista torrese ha detto: "Non posso entrare nel
sito di Mari, ci sono anche artisti umili, terra terra"; un
altro: "...e che mi metto nel sito dove stanno pure gli
zingari?" cioè i meno abbienti, coloro i quali la civiltà
e la libertà di pensiero danno una sia pur flebile voce, perché ancora
impera il raccapricciante detto torrese " 'e denare so' 'a voce
'e ll'omme!".
O si fa riferimento ad artisti umili, non
"protocollati" dai masi chiusi di certa intellighentzia,
senza nome e legami clientelari. (Fatti il nome e piscia a letto,
diranno che hai sudato).
Che squallore! Che solitudine! ...E, retorica
permettendo, molto spesso dimentichiamo, come diceva Aulo Cellio, che la
nostra vita è un attimo, il resto o lo abbiamo già vissuto o non
sappiamo se lo vivremo; e dimentichiamo pure che, "dopo morti,
puzziamo tutti allo stesso modo".
Per questo vi amo, cari
giovani, perché a molti di voi almeno la cattiveria, l'egoismo e
l'egotismo non vi sfiorano, siete fuori dai baronati anche se siete
tutti uguali, portate una sorta di divisa interiore, non vi vedete mai
bene sulle foto perché i vecchi volponi detentori del potere soffocare
in voi l'autostima, sono gelosi della vostra intelligenza, della vostra
cultura e della vostra giovinezza, infine.
Per questo, forse, tutti tornate tardi la notte, vi destate tardi il
giorno dopo, parlate alla stessa maniera, trasgredite alla stessa
maniera, amate alla stessa maniera, addirittura, talvolta, morite alla
stessa maniera. SEMBRA SIATE STATI PROCREATI DALLA STESSA MADRE E
DALLO STESSO PADRE!!!, cari, meravigliosi giovani contemporanei,
grazie di esistere. E' grazie a voi che i "vecchi lupi
consolidati" non divorano tutto e tutti come i pirana e si dannano
nella chimera del potere, nel terrore dei essere detronizzati dal vostro
futuro...
Luigi Mari
Da "Considerazioni"
...L'unico modo di non esser fratello a Torre è
quello d'esser parente, non già perché non si ami il proprio sangue,
ma perché il fratello uterino si ama da morto prima che da vivo.
Infatti questa maniera d'esser fratello, che è la meno ortodossa, fa
sì che il fratello, morto in vita, nasca non appena è sottoterra. Non
ho mai visto amare un fratello vivo, nella mia città, come l'ho visto
fare con uno morto. La gioia, la felicità, la lealtà che gli si nega
da vivo gli si dà da morto. Veder amare un vivo a Torre è una cosa
disgustosa. Se si suol dire "i figli si baciano nel sonno"si
può anche dire, a Torre, i fratelli si baciano da morti. Si spenderanno
centinaia di migliaia di lire per il proprio cadavere, fiori, e avvisi
di lutto enormi; si verseranno mare di lagrime, ci si tormenterà allo
spasimo, si impazzirà dal dolore, là quando non s'aveva mai speso un
soldo, per il vivo, mai tormentati e mai impazziti. E' uno spettacolo
commovente e angoscioso, tanto che vale la pena di non esser fratello, e
l'unico modo per non esser fratello, a Torre, e quello d'essere figli
alla stessa madre, da vivi; figli di Dio da morti...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70 "Fratello Torrese"
...E' grazie a mammà che la gioventù torrese, sin
dalla Creazione è la più bella del mondo. Che non si provi il Signore
Dio, con tutto il rispetto, a ficcare il naso nelle famiglie torresi e
pretendere che la sanità, il valore e soprattutto la bellezza dei
giovani, che sono soprattutto figli, sia anche merito suo. Che il
Signore, a Torre, ancora con tutto il rispetto, si interessi dei propri
figli che son tanti sparsi in tutto il mondo, perché i figli di Dio
torresi sono prima figli di mammà. Ma se il Signore dovesse proprio
insistere che fare i figli belli sia anche o, addirittura, solo merito
suo, allora le mamme torresi finiranno con l'indispettirsi. E non si
lagnino i ministri di Dio se le mamme torresi finiscono con il non
andare spesso in chiesa e col pregare di meno, dicendo che il Signore da
un po' di tempo a questa parte va in giro dicendo che i giovani sono
suoi figli più dei vecchi, e che di figli vecchi non ha di che farsene,
dal momento che gli «attempati» sono solo «servi» di Dio. E provati
a toccare un figlio a Torre, e guarda cosa ti capita. Già, che un
figlio è figlio fino alla morte. Perché solo dopo la morte gli si da
il permesso di vivere dove vuole e come vuole. E non c'è da stupirsi, a
Torre, se è il maschio a dire «torno da mammà». Ché se si prova una
femmina di tornare a casa materna viene presa a calci nel sedere; ché
se si prova una femmina a battere in ritirata gli vien rotta la testa e
gli vien detto che non sarà mai una mamma degna del propri figli (filgli
maschi, s'intende) perché essere madre dì femmine, a Torre, è la cosa
più inutile di questo mondo...
Luigi Mari
Da Giornalismo anni 70
"Gioventù torrese, ah
che beata!"
...Spulciamo ora le note caratteriali dei miei
torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente
affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai
mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani
fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Noi vesuviani, sin d'allora, anche per un'atavica
scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente
quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino;
forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee;
soggiaciamo a mezza strada tra la passionalità deisticoverginale e
quella femminomatriarcale. La donna, nel napoletano, è da temere, da
venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili
nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la
copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da
suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma
l'essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che
sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene
osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male.
In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali,
ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di
essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli...
Luigi Mari
da "Narrando sotto il Vesuvio"
I quartieri popolari con vecchie architetture
spagnole, porte e portelle, terrazze e balaustre, vasetti di garofani e
rose. Il cuore del proletariato torrese pre-post bellico. Il
pidocchietto con Mammella nei miraggi hollioodiani con i
vari Ehston, Reves, Scott, Matur, Baker, Weissmüller; il
sentore acre e soffuso delle fatiscenze, carnacotta e fichi
d'india, Feola l'Acquaiola, in una Torre del Greco
agro-dolce di un folklore ed una cultura proletari quasi autarchici, a
tratti fuori dalla storia, pur se dipanati da canoni ancora imbevuti di
viceregno e, talvolta, di logiche lazzaroniche; una Torre del
Greco, tuttavia, incancrenita da eruzioni, dopoguerre, e
suggestioni mistiche, in un contesto epocale lirico, destinato a
soggiacere per estinguersi sotto le sgherre pressioni di una involuzione
etica, un edonismo devastante, un pragmatismo ed un meccanicismo fuori
d'ogni misura d'uomo.
Luigi Mari
Da Opere "Gradoni e canali"
Discorrere d'amore, oggi, in maniera declamatoria e
fiorita, dietro l'inevitabile apparenza messianica, risulta quanto meno
frusto e retorico, per non dire anacronistico. Non posso dire,
retoricamente, che ormai l'uomo è incapace di beneficiare delle virtù
e dei valori di un tempo. Non citerò la rancida massima: "Il migliore affare è
quello di comprare gli uomini per quello che valgono e venderli per
quello che credono di valere".
Intanto pure un bimbo di terza elementare sa che l'equilibrio del
consorzio umano rivacilla dopo corsi e ricorsi epocali perché sono
venuti a mancare non già i valori etico-religiosi in sé, ma i sostegni
psichici che pure tra follie di masse e battaglie cruente suggerivano al
singolo la scelta di una presenza terrena intellettivo-istintuale ora
atarassica, per dirla con il tanto partenopeo Epicuro, ora apotropaica,
atta a scongiurare il negativo esistenziale relativo all'interrogativo
primario, inconscio, dell'uomo di carattere salvifico post-mortale.
Al cospetto delle centinaia di foto antiche di questo sito ci sembrerà
di inspirare la fragranza di quintessenze orientali, per dirla ancora in
chiave retorica, dove compare qua e là un ciuffo d'erba, qualche viale
alberato, un brolo nei dedali, un verziere sullo sfondo di un androne.
Le strade palcoscenico si tramutano oggi in giungla urbana; gli interni,
sottomessi alle coercitive leggi di mercato; l'abbigliamento soggiogato
dalle convenzioni di un mercato pilotato da diaboliche strategie di
marketing. Torre del Greco, come tutte le città moderne, affoga nel
concetto di benessere, concretizzato pure da pressioni snobistiche, da
smanie di sopraffazione. Le vecchie foto sono una testimonianza
inconfutabile rispetto alla rappresentazione alfabetica di uno scrittore
che, se pur in buona fede, soggiace sotto lo spirito campanilistico,
alterando certi aspetti, purgandone altri fino a mascherare certe
lordure.
Ma non basta; i contrasti interdomestici tra due generazioni conviventi,
dovuti ad un mutamento troppo rapido di ideologie e un crescendo di
sovvertimenti politico-sociali hanno causato persino nelle nostre
famiglie di stampo patriarcale vere e proprie idiosincrasie nei rapporti
di gomito. A queste crisi ha contribuito non poco un certo lassismo dei
genitori, l'ingerenza protettiva materna che offusca la figura del padre
dietro ciechi cromosomici desideri di riscatto di stampo femminista.
Ma dove sono finite le filastrocche risuonanti lungo le contrade
barrocciabili, dove qualche nonno, assiso su una pietra miliare
farfugliava al nipote: "Cicci bacco 'ncopp''a votta, chi 'o
tira e chi 'o votta, chi 'o votta 'nda cantina, Cicci bacco beve 'o
vino"?
Dov'è finito il vociare logorroico, nelle due piazzette torresi, delle
sode e belle massaie, ignare dell'ossessione di scippi od estorsioni o
del fantasma interno dell'anoressia. E il gesticolare delle ragazze,
chissà perché, sempre copiose di forme, nel mercanteggiare quelle
derrate che alimentavano in modo genuino la loro opulenza fuori dal
bisogno di cibarie sintetiche o composti di laboratorio da assumere per
via parenterale.
Mi urge uno stralcio retorico: sono andati per sempre i baci delle
fanciulle, che svaporavano la fragranza della clorofilla. Erano i tempi
dei baci ad occhi chiusi (oggi si dice come stupidi), per lasciare
involare l'immaginazione: due colombi cabravano sui crinali dei monti,
indi veleggiavano indomiti, poi andavano a posarsi leggeri sui prati
intrisi di guazza primaverile nelle ville vesuviane alle falde del
Vesuvio, onde poter compiere, nei campi elisi, un atto d' amore, giammai
contaminati da glaciali introspezioni post-freudiane, frigidizzanti e
svirilizzanti.
Ma il benessere non è salute mentale, cioè amore. Il concetto
dell'amore assoluto e puro si riduce in una sola parola: Dio. Non ho
detto cristianità, buddismo, islamismo, ecc. queste sono dottrine,
veicoli per condurre a Dio che prevedono Dio-amore=immortalità.
Demonio-male=assenza salvifica, quindi è un amore che deriva spesso dal
timore di soffrire. Dio non è ciò. Dio è amore e basta, dentro e
fuori di noi. Sempre.
Basta con l'analisi scelta, benvengano dialetti, solecismi, anacoluti,
evviva Gadda e Pasolini. Necessitano le nostre origini. Rinominiamo i
nostri figli. Basta con i Patty, Genny, Paul ed Omar. Concludo con una
bella immagine di Luciano De Crescenzo: Gli uomini sono angeli con
una sola ala, non possono volare che abbracciati".
Luigi Mari
Da: "Torre antica come messaggio d'Amore"
...Qualcosa che va al di là della suggestione o
dell'ubbia. Un recupero fisico vero, reale e non realistico, vivo e
palpitante, come è vera l'inesistenza di un confine tra la realtà e la
fantasia anche quando si parla di amore. Realtà e fantasia si fondono
nel vero e nel metaforico e attingono i lontani puerili candori e le
purezze, oggi sotto il giogo di nostalgiche reminiscenze, prigionieri di
svigorimento ed inabilità per l'inevitabile dissoluzione di benessere e
letizia, destinati a sparire con la lucida, scientifica, devastante
consapevolezza del finire delle cose; e soprattutto del nostro
inevitabile finire.
Quindi un messaggio di recupero della materia utile ed attuale, che
coinvolge e sottintende, però, il recupero più nobile e sublime della
psiche, della felicità come salute mentale, come infinibilità
dell'amore.
Amalia Vernacchia per certi aspetti ha realizzato in oggetti l'assunto
del famoso romanzo di Oscar Wild: "Il ritratto di Dorian Gray".
L'eterno dilemma della finibilità che può non finire se lo
vogliamo?...
Luigi Mari
Da Artisti "Amalia Vernacchia"
Una sorta di autodifesa senza note caustiche, priva
di toni polemici non sarebbe tale; non sarebbe democrazia. Non trovando
altro appiglio certa intellighentzia, insomma gli addetti ai lavori,
criticano la grafica elementare e variopinta di questo sito, (perché
dei contenuti si guardano bene dal parlarne).
Certo, la nostra è una società di facciata, di conformismo, ma in
Torreomnia la pagnotta non c'entra; prevale sostenere la libertà,
almeno lo sforzo di farlo.
I criticoni, ossessionati dalla loro incapacità di costruire contenuti,
sono conformisti fradici e sostenitori del luk attuale, portabandiera
dell'immagine impeccabile e conforme: poi non sanno aprir bocca. Per
loro creare significa somigliare. Succubi della filosofia
pappagallesca rivolta solo ad intimidire e prevaricare con una sorta di
nuovo insignificante latinorum, penalizzando infine, tra l'altro, i poco
iniziati che impiegheranno anni prima di imparate a scovare i link
mirmicolanti da microscopio presenti in quei rebus a cui somigliano
certe pagine web più quotate.
E' lo scotto delle dottrine acquisite, delle nozioni da esoterismo
mestierante, della seriosità e della pseudo professionalità. Diceva
Galilei: La differenza che passa tra il filosofo e il laureato in
filiosofia è quella che intercorre tra l'artista che crea il proprio
quadro e il pittore che lo copia.
Luigi Mari
Da "Considerazioni" in questo sito
|