La
“Chianca” dei Pepe
di Peppe
D'Urzo
Le "chianche" ispirarono a Salvatore di Giacomo dei versi:“Ncoppe e
chianche, int' a na chianca, aggio visto na chianchera, cu nu crespo e
seta janca, c'u cert’uocchie e seta nera".Nel dialetto napoletano, la
ma-
celleria o la beccheria, viene chiamata volgarmente “chianca” ed i
macellai "chianchieri conosciuto a Napoli già nel 1500. La parola
“chianca” deriva da “plax”supetficie piana o tavole,utilizzate per
mettervi in mostra,
distese, le carni per venderle. La Napoli greca aggiornò la sua lingua
trasformando “pl” in ‘chi Anche i muratori nel loro gergo, chiamano le
piccole assi di legno “chiancarelle”. Da “I mestieri di Napoli” di
Pietro Gargano, 2002, Napoli, tascabile, Il Mattino.
Salendo
l’antichissima strada di via Cappuccini, che porta alla chiesa ed al
convento dell’Annunziata del XVI sec, al n. 60, c’è la “chianca” di
Luciano Pepe, 18.08. 1951. Coniugato con Palomba Laura hanno 3
figli,
Anna, Lucia e Cristoforo.In questo locale agli inizi degli anni ’50 del
secolo scorso, lo zio Vincenzo, fratello del padre, aprì quest’attività.
Nel 1958 la cedette al fratello Cristoforo Raimondo (n. 16.03.1926, m.
29.09.2009), detto “’u nano” per la bassa statura, che la gesti fino al
1990. Sposato con Paolino Anna ebbero 4 figli Luciano, Concetta,
Guglielmo e Ciro.Per aggiornamento della lingua chiameremo in seguito
questo
negozio “Chianca”, macelleria. Il nonno paterno, Luciano “’u pizzicato”,
(n.1883, m. 1948), sposato con Coppola Concetta, aveva la macelleria
nella stessa via al n. 9 (attuale negozio Shana) Luciano che gestisce
questa attività dal 1990, ha bei ricordi dei due negozi, era l’epoca
delle case-botteghe, dove
le famiglie
vivevano nel retro, allora era molto comune. La porta del negozio si
chiudeva la sera e la domenica pomeriggio, o rimaneva socchiusa,
“nzeccata”, la vendita era continua ed i clienti a volte entravano anche
dal retro, nel portone (era un clima familiare, che bei tempi). Si
vendeva al dettaglio, la gente comprava quello che serviva in giornata,
ed alcune famiglie facevano “segnare” pagando a fine settimana.
Luciano è
orgoglioso dei suoi clienti, alcuni si servono dai Pepe da oltre 50
anni. La carne si esponeva al pubblico fuori al negozio, si potevano
così vedere appesi ai ganci, quarti di bovino, delle teste di vitello e
suini, contenitori con la soffritta e la “ciquitta”. Vicino all’insegna
si mettevano in bella mostra, le corna di vitello. La sera in alcuni
giorni stabiliti, si preparava il banco fuori al negozio, dove si
esponeva la trippa,
la
centopelle, frattaglia, pere o muss, contornati da limoni, frasche e
zampilli d’acqua, illuminati da una luce elettrica, o fiammelle
alimentate da acetilene. Sembrava l’angolo di un presepe. Anche i
bovini, prima di andare al macello, sostavano per un po' davanti al
negozio, venivano ornati di frasche e ghirlande di fiori. Si mostravano
ai clienti quale era la qualità della merce che si vendeva. Ma questo
come tanti altri, è un mestiere sacrificato, bisognava andare al mercato
a Nocera Inferiore, alle 4 del mattino. Poi portare i “pezzi”
trasportati con un carrettone tirato da un cavallo, poi con i camion, al
macello comunale di Torre del Greco in via Calastro per essere visitati
e macellati. La carne poi veniva conservata al fresco nelle grotte.
Ma si
ricordano anche momenti tristi, quando con le forti piogge, formava lava
d’acqua, proveniente dal Vesuvio, che recava danni materiali all’interno
del negozio. Il venerdì i macellai andavano ad affilare i coltelli dai
mala forbici, nel vico Salvatore Noto, (u vico ri carrozze) ed al corso
Umberto I (mmiezsangaitan). In italiano si dice arrotino, ma da noi
nella parlata |
LE FOTO: BOVINI AL MACELLO 7 COMUNALE;
INAUGURAZIONE MACELLO; MACELLERIA
PEPE
popolare è “’u
malafuorbice”. Si molava la “mannaia”e le “sferre”, grandi coltelli, nella
mia ricerca ho trovato anche la parola “sferrare” che significa duelli di
coltelli, “zumpata”. La carne si vendeva anche di domenica, le donne lo
venivano a comprare dopo l’uscita della prima messa in chiesa. Era la parte
per il “tianiello” (un vaso color rossiccio creta) per fare il ragù, (la
parola viene dal francese Pragout), dove si cuoceva a fuoco lento per molte
ore, e la carne “allacciata” per fare le polpette. Allora non c’era il
tritacarne, e. questa veniva spezzettata con un coltello sul “chianchere”,
un grande ceppo di legno. Era l’epoca quando Torre era un tranquillo paese
di provincia, tutti lavoratori ed artisti... Il tempo trascorreva lento. La
domenica tutti vestiti a festa si andava a messa, il profumo di ragù
irradiava i vicoli, i cortili, gli androni dei palazzi e fabbricati, le
campane segnando l’ora, mandavano i loro rintocchi e gli echi li
accompagnavano lontano. |