Michele Palomba,
"war prisoner"
di Peppe D'Urzo
Siamo andati a trovare Michele Palomba, un vispo ed in gamba ottantenne
nella sua abitazione, una casa colonica di un tempo incontaminato,
ristrutturata con gusto, in via Cavallo n. 14, ove vive circondato
dall'affetto dei suoi cari. Un po' di terreno coltivato ad alberi da
frutta fa da contorno alla dimora di quest'uomo, onesto lavoratore e buon
padre di famiglia. È nato a Torre del Greco il 22.11.1920, da Vincenzo,
marittimo (reparto macchine) con la Cooperativa "Garibaldi", e
da Maria Giuseppa Gargiulo, casalinga. Dei figli, due maschi ed una femmina, solo
Michele è vivente. Originario di via Tironcelli (poi, Agostino
Brancaccio), dopo le scuole elementari fino alla terza in via Scappi,
andrà a lavorare come calzolaio in via Purgatorio da "Mastu Vincenzo",
la cui moglie si chiamava "Rafilina", poi muratore con l'ing. Dolce ed
infine marittimo, in qualità di garzone di cucina con la società "D'Amico"
di Roma.
Nel 1939 va a servire la patria sotto le armi in Esercito; farà
l'esploratore con perlustrazioni e ricognizioni in reparti armati, per
procurarsi informazioni sul nemico. Da Catanzaro viene inviato sulle
assolate e desertiche terre del Nord Africa. Bengasi, Tripoli, Tobruk,
ecc.; viene catturato, dopo un accerchiamento, in terra tunisina e fatto
prigioniero dagli americani ed australiani, dopo la ritirata delle forze
dell'Asse. Da Alessandria d'Egitto fu inviato in un campo di prigionia
in Sud Africa; otto persone sotto una tenda con baracche esterne per i
bisogni: sole e sabbia bianca erano il consueto panorama che faceva da
sfondo agli internati italiani, considerati "war prisoners". Le notti a
volte erano terribili per le tormente di sabbia e per le improvvise
tempeste con tuoni e fulmini; un soldato italiano prigioniero fu colpito
da un violento fulmine che lo carbonizzò; il sottosuolo del campo
era un vasto giacimento di oro e diamanti.
Con Michele v'erano alcuni compaesani, deceduti da qualche tempo. Lo
spazio riservato agli italiani fu diviso in settori: fascisti e
collaborazionisti. Dopo la dichiarazione dell'armistizio dell'8
settembre 1943, fu spedito in Gran Bretagna a Blackburn (Inghilterra
centrale - Lancashire), Southampton (Inghilterra meridionale) e qualche
altra cittadina; qui Michele fu adibito ad un servizio di polizia
interna; vigilava sui camion che arrivavano nei "blocks" a prelevare i
prigionieri che erano condotti all'esterno a lavorare in terre da
coltivare e in zone carbonifere; alla sera rientro al campo. Si mangiava
quello che "il convento passava"; a volte due "ziti", un po' di
granolino, spezzatino di carne di pecora, alcuni semi neri di qualche
pianta, latte, caffè ed il tipico the, made in England.
C'era il famoso Venditti (appartenente ai librai torresi) che cucinava
per la mensa degli italiani. Dopo due anni di permanenza sul suolo
anglosassone, l'agognato rientro in patria e con una nave inglese arrivò
nel porto di Napoli; i prigionieri furono accolti con patriottiche note
musicali. Man mano che si scendeva a terra, una suora sullo scalandrone,
dava a ogni ex "prisonnier" un gavettino con dentro caffè caldo; questa
piccola gavetta è stata conservata come un cimelio da Michele fino a
qualche anno fa; giunse a Torre, con diversi torresi, col treno della
Vesuviana.
Nei pressi di via Cappuccini, la madre, dopo una lunga e tribolata
attesa, gli andò incontro; volle abbracciare il figlio che non vedeva
da molti anni; era vestita di nero per la perdita del caro marito.
L'altro fratello, Domenico (classe 1919, detto "Mimi") era militare
nella Regia Marina in terra d'Etiopia; anch'egli fece ritorno a casa.
Michele ricorda che un internato italiano si ferì in un campo di
prigionia inglese e fu rimpatriato prima di lui. Fu condotto al nostro
ospedale "Principe di Napoli" - Posto di Croce Rossa n. 1 (poi
convalescenziario "Filippo Bottazzi"), ove in seguito morì, poiché si
recise i testicoli...
Dopo il lento incedere del dopoguerra, cominciò a navigare sulle navi da
carico, petroliere e bananiere fino al conseguimento della pensione,
avvenuta nel 1980. Si unì in matrimonio nel dicembre nel 1955 con
Carmela Paparo, nativa di Ercolano (da Nicola, muratore, e da Felicia
Piccolo di Sant'Anastasia) nella chiesa del Sacro Cuore a Cappella
Bianchini; il rito religioso fu celebrato dall'allora parroco don
Carmine Apice.
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Carmela ha vissuto le vicende dell'ultima guerra a Torre, ove abitava in una
casa colonica con la madre.
In zona vi furono alcuni
bombardamenti aerei con la gente che riparava in ricoveri di
circostanza.
Andò ad abitare in via Cavallo n. 14. Un figlio maschio ed una femmina:
Vincenzo, marittimo cuoco e Giuseppina (coniugata col caro amico Aniello Paparo, ex elettrauto all'inizio di via Purgatorio, sulla sinistra); tre
nipoti femmine.
Per rimanere in attività dava una mano in cucina nella
pizzeria "King's" in via Aldo Moro. Quasi ogni mattina scende da casa a
piedi e va a trovare l'amico Raffaele Balzano nel suo negozio di ottica
in via Beato Vincenzo Romano n. 28.
Alla chiusura antimeridiana il buon
Raffaele lo riporta in auto a destinazione. Un classico rituale che
ormai gli appartiene... |