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Gli Onzo, esperti "cavallari"

di Peppe D'Urzo
 

I componenti della famiglia Onzo (detti "I Cavallari"), originari di Santa Maria Capua Vetere (centro commerciale conosciuto per i suoi prodotti agricoli, mercato di suini e bovini, dal 1927 al 1945 parte della provincia di Napoli, poi in provincia di Caserta) abitavano in via Vittorio Vendo 43 (angolo Circonvallazione), in cui l'ingresso (attuale "Boutique della scarpa" e "Sprint line") vi erano delle stalle per cavalli.
Il capostipite, Francesco (detto "'U capuano"), aveva ereditato per tradizione familiare un vivaio abbastanza consistente di cavalli, animali che erano ben curati dagli addetti. Francesco morì in giovane età per un violento calcio al petto di un purosangue. Dall'unione con Giuseppa Vaccaro nacquero Nicola, Alberto, Francesco, Olimpia e Pasqualina. Si narra che le pietre che servirono per la costruzione dei Molini (che avvenne nel 1909, di proprietà in seguito del varesino Pietro Marzoli, ragioniere e cavaliere del lavoro, deceduto il 23 marzo del 1923) furono trasportate su carri, trainati da cavalli di proprietà degli Onzo.
Le pietre prelevate dalle cave furono condotte in via Calastro (dove attualmente rimangono i resti di quel imponente opificio) in estenuanti e massacranti viaggi. Francesco, il "Pater familias", in ottimi rapporti di sincera amicizia con Marzoli, riuscì ad ottenere l'appalto per il trasporto di farina e grano fuori Torre. Il figlio, anche lui col nome Francesco (detto "Ciccio 'u torrese"), nato nel 1927, coniugalo con Marzia Aurilia, è ben lieto di ripercorrere il periodo della sua spensierata gioventù e di quando lavorava nelle stalle insieme ai familiari (in questa foto d'epoca è ritratto con un cavallo all'esterno della stalla in via Circonvallazione 87).
E facendo mente locale rievoca quel giorno della fine di settembre del '43 che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Aveva 16 anni, una bellissima età. L'età delle speranze e dei sogni, nonostante una tremenda guerra ancora in atto. Già da qualche tempo lavorava per i Molini Meridionali Marzoli (addetto al trasporto di carrette): si trovava nella vicina Torre Annunziata a condurre un carretto carico di farina, pronto per la consegna. Fu fermato dai soldati tedeschi (era il tempo dei folli rastrellamenti) e portato su un camion nello spiazzo della stazione di Boscoreale, dove si trovò in mezzo a tanti altri prigionieri.
Un ufficiale tedesco, in un duro e rabbioso italiano, fece loro intuire che sarebbero andati in Germania nei campi di lavoro. Riuscì a scappare, ma, di nuovo a Torre Annunziala, nei pressi del cimitero, fu ripreso da militi germanici  e condotto, insieme ad altri "sventurati", in quel di Maddaloni (nel casertano) presso un casermone abbandonato, dove il cibo scarseggiava e si stava malissimo. Dopo il terzo giorno di permanenza (le condizioni fisiche erano già precarie), ricevette la visita di uno zio, venuto da Torre, imponente nell'aspetto fisico e ben vestito (anch'egli dipendente dei Molini), che, come comparso per volontà divina e scambiato dai tedeschi per qualche "personalità del regime" (riverito "romanamente"), con notevole sicumera e passo deciso, lo portò fuori dalla caserma dove c'era un calesse con a bordo la madre che lo aspettava.
Neanche il tempo di muoversi che un ufficiale tedesco invitò il "gruppetto di famiglia" a recarsi a dare una mano ad altri lavoratori prigionieri che "gettavano il sangue" vicino un vagone ferroviario in avaria. Improvvisamente il cielo si riempi di aerei alleati che gettarono giù numerose bombe. Ci fu un fuggi fuggi generale fra boati e violente esplosioni. Arrivarono a Napoli (zona Capodichino) e vi trovarono altri tedeschi. Altra fuga tra sentieri di campagna e percorsi di fortuna.
L'arrivo a Torre fu alquanto rocambolesco, e li stette nascosto per un po' di tempo in via Beneduce, fino all'arrivo delle forze interalleate che vide transitare in via Circonvallazione, tra due file festanti di cittadini (stanchi ormai delle pene subite) che lanciavano fiori in cambio di sigarette, caramelle e chewin gum.

                

Gli fu riconosciuto dal governo italiano questo periodo "bellico", e ricevette il "Piano di Combattente" (indennizzo pensionistico). Ex tranviere della ditta "Cutulo" e dell'Azienda Tranviaria, dal 1987 in pensione. Inoltre merita di essere ricordata la terribile esperienza vissuta da Vincenzo, figlio di Olimpia, che si ritrovò coperto da pietre e calcinacci, durante i bombardamenti aerei avvenuti qualche giorno dopo quel tremendo 13 settembre dei 1943 che causarono ingenti danni al palazzo degli Onzo in via Veneto. Si trovava in casa con la madre quando improvvisamente si avvertì un assordante rumore. Il tempo di arrivare sulla soglia di un'altra stanza e avvenne il crollo. Fu recuperato dopo un'ora da alcune persone accorse in aiuto. Trasportato subito in ospedale ("Principe di Piemonte", poi "Filippo Bottazzi") dove i medici gli prestarono le cure dovute, riscontrando escoriazioni varie e qualche ossa rotta. Dopo un po' di tempo fu dimesso: una stampella lo aiutava a camminare. Parte del fabbricato crollò (fu in seguito riparato con un contributo governativo e quindi rivenduto).
Una bomba causò una larga voragine al centro della strada. La madre riuscì a scappare all'esterno e si salvò. Vincenzo, cercando di seguirla, fu invece bloccato da tutto quanto gli cadde addosso. Aveva appena 11 anni. I ricordi di quel periodo lo riportano a quando vide transitare le "allied troops" a Torre (primo ottobre '43) in via Circonvallazione in una gioiosa e liberatrice giornata di giubilo. Fu issato da qualcuno (con la stampella) su di un carro armato, dove fu accolto da soldati felici e sorridenti. Si recò quindi alla reggia di Portici (li sostavano anglo-americani) dove furono trovati molti cavalli morti, ai quali furono tolte numerose selle ed ornamenti. Lui riuscì a portare qualche "pezzo" a Torre che vendette ad un calzolaio al Corso Avezzano (attuale bar-caffetteria "Mucci ").
Non riesce a dimenticare l'atmosfera delle stalle della Onzo "dinasty": gli stanchi cavalli, appena giunti nei locali stallaggi, venivano "curati" dai dipendenti che davano loro da mangiare, mentre i conducenti si riposavano presso il locale di Michele Mocci, maniscalco, padre di "Ciccillo 'u ferracavallo"(odierno bar di Lello Di Donna) in via Circonvallazione 89. Spesso i quadrupedi, dotati di un notevole senso intuitivo, ritornavano alla base da soli, poiché i militari tedeschi (prima di allontanarsi dalla città) si fermavano e razziavano tutto quanto serviva per sfamarsi. Vincenzo (classe 1932) attualmente in pensione, ha trascorso una vita a guidare camion.
Tante le distanze e i tratti percorsi, ma il più bel tratto della sua esistenza l'ha attraversato sotto quelle macerie che gli salvarono la pelle.