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Pasquale Abbruzzese 
'u stagnariello


di Peppe D'Urzo

I ricordi, per meglio riviverli e fissarli nella mente, passando attraverso il filtro della memoria vanno "trascritti" sui libri o sui giornali che si pubblicano e si continueranno a pubblicare. Dipanando il gomitolo della memoria, "estraiamo" la caratteristica figura di Pasquale Abbruzzese, da Domenico e Anna Romano detto "'u stagnariello" (da stagnaio, ovvero artigiano che salda con lo stagno e fa lavori in latta). Nacque a Torre del Greco il 27 ottobre del 1904, dove mori il 4 gennaio '83.
Sposò Giovanna Nocerino, da cui ebbe quattro figli (tre maschi e una femmina). Colto da un improvviso impulso giovanile ed in cerca di lavoro, si recò a Milano; nel capoluogo lombardo imparò il mestiere di stagnaio, trovò lavoro in una fabbrica, guadagnando abbastanza bene. Dopo aver dato il proprio contributo alla patria (militare di leva in Esercito) nella grande guerra, fece ritorno a Torre, dove, dopo una breve esperienza di marittimo (aiuto panettiere), aprì un piccolo locale nel mezzo di via Piscopia (scendendo, prima dell'angolo con via Teatro), iniziando una lunga e soddisfacente attività artigianale.
Il lavoro consisteva nel raccogliere materiale metallico in genere per poi bruciarlo. Dopo aver conservato ciò che rimaneva, con raffinata maestria ed artistiche virtù, ricavava altri prodotti, come chiodi, manici, bracieri ("rasieri"), piedi per fornacelle, imbuti, giarre di stagno, contenitori per carboni, fornaci per castagne (caldarroste), "vrullere" (recipienti bucati per la cottura delle castagne sul fuoco, uso domestico), placche per fornai e pizzaioli, "brustulature" (recipienti con manico per la cottura dei chicchi di caffè).
Spesso gli dava una mano il figlio Domenico (che prese il nome del nonno paterno, originario di Napoli, dove svolgeva l'attività di panettiere) ed il fratello Salvatore (più piccolo), adibito alla raccolta ed esperto nella vendita itinerante in special modo in quel di Resina e Napoli. Esile nella persona, scuro di pelle, di media statura, era solito fumare un sigaro anche quando trattava la merce, ma il meglio di sé lo dava quando faceva parlare le sue "fornacelle" che trasportava con abilità. Dalla sua viva "voice" usciva: "I furni 'i campagna... Chi vvò 'a furnacella". Fra i tanti frequentatori e clienti di Pasquale, un giovane e promettente Mario Auricchio (1925, Torre del Greco, 1997, sindaco della città), spesso si recava da questo "noble artisan" e, attratto dalle sue doti professionali, acquistava diversi oggetti.

Il locale era una piccola fucina artigianale con volta interna e ridotte dimensioni. Per terra erano sparse diverse "buatte" bruciate, mentre all'esterno era esposto tutto ciò che veniva prodotto col sudore della fronte e con le proprie mani. Tre erano gli attrezzi da lavoro: martello, tronchese e punteruolo. Al centro dell'ambiente, una piccola sedia ed un ferro che partiva da terra, su cui il bravo ed esperto Pasquale forgiava il materiale. Uno spettacolo nello spettacolo era quando si esibiva nel cortile a retro, a far ardere i vari metalli raccolti. Non si


avvalse mai della luce elettrica e quando il sole calava, chiudeva il negozio.
Terminò di lavorare ad oltre settant'anni; morì in seguito ad una banale caduta che gli procurò la frattura del femore.
Tipo tranquillo, rispettoso, religioso, legato alla famiglia, bene educò i figli Domenico (Mimì), Giuseppe (marito di Giuseppina Scotto, detta "'a telaiola"), Nunzio e Anna (detta "Ninacca"), presso la quale, rimasto vedovo da più di trent'anni, andò ad abitare in via Teatro.
Era solito giocare a carte nel proprio "buco" con alcuni amici della zona: il fratello Salvatore, "Giorgio 'u stagnaro" (con negozio quasi di fronte, specialista in saldature di stagno per tubature ed affini), "Alfredo 'u scarparo" (gioioso burlone) e "Giacchino 'u barbiere" (Gioacchino Caiazzo).
L'allegra brigata si recava nella cantina di Carlino (detto "l'augliaro") all'inizio di via Teatro (accedendo sempre da via Piscopia). Ognuno portava qualcosa (salsicce, costatelle, soffritta, baccalà ed altro) ed il tutto veniva "bagnato" dal buon vino. Il nipote Pasquale (impiegato comunale) racconta che quand'era ragazzo si recava nel negozio a chiedergli le solite "dieci lire". Con voce pacata ma infastidita, si sentiva rispondere "ho solo cento lire" e di passare più tardi. Il ricordo del nonno gli è sempre vivo al punto da non fargli trattenere le lacrime.
Esempio di rara onestà e laboriosità, molti ricordano le sue "fornacelle" che le donne portavano nei ricoveri antiaerei (durante l'ultimo conflitto mondiale) per cucinare alla meglio ciò che il convento passava.
Della storica via Piscopia (ex Episcopale), si menzionano, inoltre, "'U palazzo 'dda Marunnella" (una volta comunicante con il IV vico Orto Contessa); la dimora del Beato Vincenzo Romano con il "supportico", comunicante con la V traversa Teatro; "'U furno 'i Biasiello"; Gennaro e Aniello Nocerino (facchini); "Emilia 'a panettera"; "Benito 'u ferraro"; "'A cinese" (Anna Nocerino, titolare di laboratorio con tornio per la lavorazione del corallo); "Cefarotto" (Ciro Ientile, commerciante di scarpe) ed altri che hanno dato vitalità e lustro ad uno "spaccato" di vita cittadina, degno di indiscutibili richiami della memoria.