Tommaso Vitiello
detto scardifuoco

di Peppe D'Urzo
   

Tommaso Vitiello (“don Tummaso”) era nato a Torre del Greco il 22.02.1914 ed ivi deceduto il 08.06.2007, da Giuseppe, detto “Mastu Pinone”, titolare di un cantiere navale in località “La Scala”, adibito alla costruzione di “paranze” per la pesca del corallo e delle spugne; morì nel 1930 per malattia (era del 1878), e da Alessandrina Cardinale, casalinga. Otto i figli: tre femmine e cinque maschi, di cui solo Virginia vivente. Famiglia originaria di C/so Garibaldi n. 16 di allora. “Tummasino” in giovane età comincia a lavorare come carpentiere in legno, un lavoro che ha sempre amato che lo porterà fino alla pensione. Nel 1935 viene chiamato sotto le armi per il servizio di leva in Esercito.
Con l’entrata in guerra dell’Italia viene richiamato ed inviato sul fronte dell’Africa settentrionale. Andrà a Mellaca (deserto) a 20 Km. da Tripoli; qui iniziano gli addestramenti di guerra con esercitazioni, posizionamenti e marce (180 km. in zona Karjan, denominata la “montagna della morte”); dopo un corso di autista non terminato, incontra il fratello Guglielmo, anch’egli sotto le armi in terra africana, a Bardia (Libia) in una stazione RT. Dopo il rientro al Reggimento (44° Fanteria) e dopo un periodo di quarantena dovuta ad una malattia parassitaria cutanea, c’è la visita del generale Rodolfo Graziani (1882/1955; capo di Stato Maggiore; dicembre 1940 – gennaio 1941 sconfitto in Libia dal generale inglese Wawell).
Poi verso El Alamein, un villaggio sulla costa mediterranea dell’Egitto, 100 km. circa a ovest di Alessandria, al limite settentrionale della depressione di El
Quattara; dal 23 ottobre al 5 novembre 1942 sconfitta italo-tedesca ad opera dell’8^ armata britannica (generale B. Montgomery), battaglia che segnò il passaggio agli anglo-americani dell’iniziativa strategica nel Mediterraneo.
Tommaso si trova nella rocciosa e desertica Cirene in una postazione con trincee (con i tedeschi alle spalle) contro gli inglesi. Nei giorni 13 (Santa Lucia) e 14 (Sant’Aniello) del mese di dicembre del ’42, quest’ultimi attaccarono in massa con le “batterie volanti” (carri armati, trainati da mezzi pesanti). Poi gli italiani, allo stremo, senza acqua e cibo, si arresero, unitamente ai tedeschi, innalzando bandiera bianca. Tommaso ricorda che nel suo caposaldo morirono sette/otto suoi commilitoni; erano circa un centinaio che, dopo aver distrutto le armi e le poche munizioni rimaste, furono presi e fatti prigionieri dai soldati di sua Maestà, con l’onore delle armi (su richiesta di un Ufficiale italiano dal credo fascista…).
Inizia la lunga e forzata prigionia.
Ad Alessandria d’Egitto (cage number 9 - gabbia numero 9); tolti gli abiti della divisa militare, indosserà una camicia grigia (con pezza nera dietro) e pantaloni grigi (con banda nera); lavoro con retribuzione (piastre); di nuovo col fratello Guglielmo, previa autorizzazione delle autorità britanniche. In un nuovo campo (costruito dagli italiani) con fascisti, hitleriani tedeschi, polacchi, turchi, greci, ecc.
Nel 1945 viene inviato in India, ove inizia una nuova prigionia (con eventuale invio al combattimento contro i giapponesi per chi lo volesse…), la cui permanenza dura circa dieci mesi. Rientro al Campo 109 di Alessandria per rimpatrio in Italia; partirono per il rientro prima i Carabinieri, i Finanzieri, i Marinai (fra essi Guglielmo), Avieri, gli invalidi ed i Fanti (in ordine alfabetico). Raggiunse il porto di Taranto con una nave da carico inglese; arrivò a Torre del Greco il 31.01.1946; col treno in rallentamento nei pressi del cimitero vecchio, il Vitiello vi si lanciò, toccando il suolo natio.
Del servizio militare e dell’odissea da prigioniero gli furono retribuite una medaglia ed una croce di guerra al merito. Dopo aver ripreso l’attività lavorativa che aveva lasciato, con l’appellativo di “scard’ ‘i fuoco”, in quanto instancabilmente lavoratore, sempre in movimento e pronto all’occorrenza, si unì in matrimonio con Maria Vincenza Granato (1917/2007) nella storica chiesa di Santa Maria di Portosalvo in data: 04.05.1947.
Da C/so Garibaldi andò ad abitare nel 1962 a P/le Cesare Battisti (attuale via Riscatto Baronale). Sei i figli: quattro femmine: Alessandra, Lenanna, Archetta e Luisa; due maschi: Peppino e Guglielmo; quindici i nipoti. Celebrò nel 1997 in una gioiosa e nello stesso tempo commovente atmosfera, circondato dagli affetti dei suoi cari, le nozze d’oro nella chiesa di Santa Maria del Principio (Sant’Anna) con la sua paziente ed infaticabile compagna di vita che, purtroppo lasciò la vita terrena due mesi prima del suo decesso.
Iscritto all’Associazione Combattenti e Reduci della sezione di Torre del Greco con sede nella villa comunale, ove quando poteva, vi si recava volentieri per giocare a carte con gli amici di sempre.
Era un uomo brioso, spigliato ed esperto; istintivo e a volte esplosivo nei suoi affetti; dalla tempra dura e dal carattere un po' indocile (caratteristica che ha avuto sin da ragazzo); persona coi piedi per terra, unicamente preoccupato di far quadrare il bilancio e di tirare avanti dignitosamente.
Sempre elegante ed impettito con quel suo inseparabile cappello alla “Borsalino” che indossava con garbo e stile. 

  

Nel suo penetrante sguardo e nei suoi vividi occhi di aitante combattente di razza, sono rimasti i ricordi di una gagliarda esistenza ed i segni della vita militare, ben accordati nella sua mente e tramandati alla memoria.
Quando, poi, cominciava a raccontarli un’acuta e grande emozione coglieva lui e chi lo ascoltava… I suoi diletti figli così l’hanno voluto rimembrare: “Impetuoso e forte come l’onda che in sogno mi 
travolge, desideroso di osare contro la natura mi appari, in una continua sfida con la vita e l’età sfuggente, così mentre il testimone simbolico svelto mi passi mi accorgo che il tuo sguardo dolce si sofferma e dei propositi del destino avverso nulla ho da temere”.
La nipote Susy, in onore di nonno Tommaso, così l’ha inteso rappresentare e rammentare: “La mia fotografia è la malattia dell’inventario. Qualcosa di preciso, metodico ed aulico, qualcosa come le ripetizioni omeriche. I cataloghi. Qualcosa che dice come “si fanno le cose”. Come bisogna essere. L’esempio. Questo mi resta di lui. C’era la stanza vuota con un paio di scarpe, emblema della sua furia passeggiatrice. Era sempre in movimento. Ora misuro tutto alle sue pantofole lente. Già perché quella velocità non l’ho conosciuta, ho potuto seguire i suoi passi solo da vecchio. Quando lo accompagnavo nell’altra stanza a prendere le caramelle, o in cucina, durante la processione del pranzo. E in tutto quel “legno” e quell’immobilità sgorgavano lacrime; ne ho viste tante…
Era quasi completamente sordo che pare avesse preso a vivere esclusivamente a occhi. Gli erano diventati piccoli. Hanno guardato fino all’ultimo. Fino a che vedi… la tua visione è lucida. Gli occhi di mio nonno hanno visto il mondo.
La mia più grande domanda è: “Fino a quanto consapevoli?”. Ha visto la guerra nel deserto, improvvisamente scaraventato in Africa, ha visto i fratelli morire. È salito su navi grandissime e le ha costruite, ha visto la sua quasi morte e la vita di ognuno dei suoi nipoti, che si vestono e si comportano in maniera completamente diversa da lui. Ricordo ancora le sue perplessità di fronte a certi cambiamenti, dalle nostre fogge strane alla situazione storica completamente diversa; un’estate gli dissi che sarei andata per un po’ in Germania; lo vidi davvero preoccupato, mi disse di stare attenta, che quelle erano zone pericolose.
Era, come se a un certo punto, avesse perso di vista il mondo, che veloce scorreva via come in un carosello. Però le cure e le attenzioni necessarie a campare erano sempre le stesse. Sarà stato per via di quel suo enorme amore desueto (nei consigli po' bislacchi che sembravano un po' trascorsi…) che mio nonno è stato un exemplum. Un classico, dovunque si trovi vale sempre. Nonno Tommaso ha visto gli aerei (salendoci varie volte; lo immagino con quella contrazione nel viso che è tacita approvazione meravigliata), le gonne accorciarsi, gli uomini snaturarsi, le città riempirsi di palazzi. E lui c’è stato. Sempre. Con una tranquillità e una semplicità che lo rendeva degno. Sembrava che tutto il tempo riuscisse a renderlo banale. Lui era la sostanza che sopravviveva alla mutevolezza degli eventi. Il succo della vita ha un sapore diverso, come le zolle di terra e come il mare. E quando lo guardavi c’era una specie d’onda nei suoi occhi, stagioni e stagioni, con le foglie rosse e inverni freddi… La vita vissuta senza darle peso. Ora che è insostenibile esistenza trascinata che ci ammala tutti…
Con lui se n’è andata una certa leggerezza. Quel suo modo di uscire di casa. Giacca, scarpe lucide, sguardo allo specchio, ti aggiusti il cappello e sorridi… Il rito di una felicità”.