I  LIBRI PRIMA  DI GUTEMBERG


Un antico scriptorium

LA CULTURA NAPOLETANA
NEL MEDIOEVO AMANUENSE


Dalla Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i Padri della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana. Gli amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino, copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio, trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco e latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei testi pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.
I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche, figuriamoci dodici secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la lettura, un fastidio epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare. Nella totale ignoranza del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci rappresentavano gli unici sostenitori della cultura della Napoli Vescovile. La lettura è come il vino, va dosata, ma molti napoletani del popolo preferiscono esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a leggere nel libro della vita. Infatti, come dice il proverbio, molti sono quelli che insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere. I lavori moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga parte su quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria manuale”. Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico, creativo, storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi rappresenta, però, l’embrione delle successive scaturigini culturali medioevali. Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo Diacono, il longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al 750. Egli fu il fautore della poesia epigrafica dell’Italia meridionale.
Vi furono in Campania molti sostenitori di questo genere letterario, ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò, però, chi formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come il Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano vederci per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro, sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però, non perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.
Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere, undici secoli dopo, dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli: Attenzione, città di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al malocchio, da un po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.

     
                Un libro copiato e miniato a mano 

Giovanni Diacono storico cristiano lavorò su diversi codici. Un altro Diacono, detto il napoletano, compì un’altrettanta notevole opera filologica e traduttiva. Dal IX al X secolo la cultura napoletana era ancora prevalentemente religiosa. In questo periodo sorsero a Napoli molti monasteri benedettini, quindi altri scriptorum. L’hora et labora, per i monaci, consisteva essenzialmente nel copiare migliaia di codici destinati ad arricchire sempre più le biblioteche ecclesiastiche. Non c’era monastero, a Napoli, che non avesse la sua magnifica biblioteca, ricca di pergamene e codici miniati. Solo nel periodo normanno la cultura napoletana prese una svolta, anche perché la letteratura primitiva venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che allora avranno avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale, basata sulla dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di letteratura. Già si parlava di medicina e teologia. Nacque la Scuola Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della ricerca scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere planetario, nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi studiosi, esercitavano la professione di medico.
A pensarci bene questo interesse dei campani per la medicina è un retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia dei miei torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si traducevano in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII secolo, assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales, testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia, si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene - dice una delle ricette del Regimen Sanitatis - fuggi dalle cure intense e continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non trattenere né orina né scorregge. Così vivrai felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini caratteriali del mio popolo.
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Ma cosa vuol dire medioevo, l'epoca a cui è ambientato il nostro discorso? Significa età di mezzo; inizia nel 476 con la caduta dell'impero romano d'occidente e finisce nel 1492 con la scoperta dell'America. Il medioevo viene diviso in alto e basso (prima e dopo l'anno Mille). In questo periodo si sviluppò un sistema politico, economico e sociale chiamato feudalesimo.
Il signore, o feudatario, concedeva ad un vassallo il feudo, cioè l'usofrutto di un territorio, in cambio della sua sottomissione e della sua fedeltà. La vita religiosa si svolgeva intorno ai monasteri, comunità in cui vivevano i monaci, dediti alla preghiera ma anche ad altre attività, come la coltivazione della terra e l'allevamento del bestiame, l'erboristeria e l'assistenza a poveri e malati. Era nei monasteri, però, che la cultura era custodita e tramandata. I monaci che si dedicavano a questa attività studiavano filosofia, grammatica, retorica, matematica, astronomia e alchimia. Alcuni monasteri avevano biblioteche in cui erano custoditi i preziosi libri salvati dalla distruzione dei barbari. Nel silenzio dello scriptorium i monaci amanuensi ricopiavano i libri e li decoravano con miniature a colori.
Agli amanuensi piaceva adornare la lettera iniziale di ogni capitolo o di ogni pagina con dorature o con vivaci colori come il cremisi, l’azzurro intenso e il verde; essi, così, inserivano nel testo delle piccole e bellissime raffigurazioni di angeli, di santi o di scene della vita di ogni giorno. In qualche libro, i margini di ciascuna pagina venivano decorati con ghirlande di fiori e di foglie e spesso, in mezzo a questi bordi infiorati erano anche dipinti animaletti: api, farfalle, scarabei, libellule.
Un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, il paziente monaco nello “ scriptorium “ fiocamente illuminato oppure nella sua piccola cella, riempiva di lettere perfette i fogli di pergamena. Lo scrivano provava una tale gioia quando il lavoro gli riusciva bene, da credere che perfino Dio se ne rallegrasse.
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La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che ritornano e riflussi. Nel medioevo la serigrafia non è mai stata applicata. Le esigenze di decorazione si limitavano a supporti come carta, pergamena e affini stampabili con la xilografia e la calcografia. I testi scritti venivano prodotti dalle officine scrittorie, che a Napoli furono sempre numerose, grazie ai monaci. La stampa serigrafica ha poco da spartire con la cultura, in passato come oggi, ad eccezione dell’arte pittorica, estesa alla grafica in serie, poiché la pubblicità a cui essa è asservita, vanta oggi, bisogna riconoscerlo, delle inconfutabili forme d’arte. Il medioevo napoletano ricorda una tappa importante per la cultura, la fondazione dell’Università di Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero il Normanno a volerla si sono da tempo dissipati dietro studi e ritrattazioni. Tutti sono concordi che il fondatore di questa fucina di geni della cultura partenopea fu Federico II di Hohenstaufen, meglio noto come Federico II di Svevia. Si dice fosse un uomo colto, chissà con quale parametro, però, lo si giudicasse; voglio sperare non quello della casata, poiché è trito il concetto che nobili non sono i ricchi, ma quelli che fanno nobili cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla influenza della Scuola Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche Federico operava, fu al centro della cultura italiana dell’epoca. L’Università (è palese a tutte le matricole che si accalcano nell’austero edificio ad angolo tra Via Mezzocannone e il Rettifilo) sorse nel 1224, indi furono istituiti gli studi maggiori: filosofia e teologia, tanto per variare. Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il quale, accomunato a tutti i frati dei famosi ordini Domenicano e Francescano, diffuse la cultura in tutto il regno. Sorrido al ricordo delle imprecazioni degli studenti che mi supplicano, nella bottega di Via Purgatorio, di allestire la loro tesi in un paio d’ore, ciancicando ilari ingiurie all’indirizzo dei baroni bianchi.
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Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di baronato doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona pace di S. Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un intellettuale geniale e di un religioso fervido e sincero. In più i frati, in quel periodo, dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le cattedre, poiché tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si presumeva, ovviamente, patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in ultima analisi, la lotta tra Impero e Papato non ostacolò di molto la diffusione della cultura di priorità teosofica dei cattedratici santi e dei copisti monaci. Anche Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans. Non come S. Tommaso, naturalmente, che divenne domenicano proprio a Napoli. Quando l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora non già stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla preghiera. Infatti, a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice: bisogna nascere, Ercole o santo!

Cultura e movimento letterario ben vennero anche da parte dei Frati Minori, gli umili francescani, che sostennero quella cultura teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica. Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera il Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.
Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta il paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di frequente si abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime pulsioni dietro il paravento descrittivo degli angelici tratti somatici femminili. D’altra parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo argomenti validi, e quali più de: la donna e l’inferno, cosi connessi alla luce della psicoanalisi?. Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a fare il letterato, doveva attendere l’era gutenberghiana. La figlia Beatrice non sarebbe finita in convento perché priva di dote. Dante è l’emblema del: Carmina non dant panem. Un esempio per il sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla penna alla legatoria, restano nella dimensione degli artisti della domenica o degli scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del dono con la dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è nemmeno velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare, diffondere quello che sa e quello che pensa.

Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza di scomunica del Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del Clero dotto, sino a lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di colpa, comunque, non risparmiano nessuno. Federico II sentiva di tiranneggiare i napoletani, che si ridussero a poche migliaia, spostandosi in provincia. Forse proprio per questo fondo 1’Università a Napoli, (oltre che per la sua passione per lo studio) e qui si devono fare le dovute riserve. Fu per riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo scarso apprezzamento di certe iniziative, comunque di stampo aristocratico, con cui i napoletani medioevali avevano poca dimestichezza, il popolo non si vedeva ripagato con tale ripiego, a giudicare dai sostanziali e più emergenti privilegi di cui veniva privato; in secondo luogo la moltitudine non sapeva neppure apprezzare l’importanza dello «Studio Generale», destinato a primeggiare sulle altre Università del territorio peninsulare.
Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica, grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione. Certo era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la quale pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna sacra nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino, a cui ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.

A GIUDICARE DAL CARATTERIALE VESUVIANO

Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi vesuviani, sin d’allora, anche per un’atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la passionalità distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna, nel napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli.
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Gli scriptorium e le tipografie hanno in fondo diffuso queste concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma, amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado gli sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro, come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
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L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro il mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là che si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il globo terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie culturali durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi altrettanto lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni, ma sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c credenze millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso, tutto lo sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione della stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta indubbio, allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della diffusione di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio, via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di risate.
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Nell'antichità i romani chiamavano gli scrivani e i copisti dell'antichità "servus a manu" che in genere erano schiavi eruditi. Dagli amanuensi erano trascritti più frequentemente testi religiosi (di cui la Bibbia fu tra i più riprodotti). Già ad Atene esisteva il commercio dei libri e copisti e librari avevano le loro botteghe nell'agorà. Il lavoro dell'amanuense era molto faticoso: in effetti, erano scritte fino a 12 pagine al giorno e per trascrivere una Bibbia poteva essere necessario fino a un anno di lavoro. Lo scrivano provava una tale gioia quando un'opera gli riusciva bene, da credere che perfino Dio se ne rallegrasse. A tale proposito, egli aggiungeva, a volte, una breve preghiera alla fine del libro. I salari degli amanuensi erano calcolati a peciae, cioè per un certo numero di fogli interi, oppure per quaterni o per singole lettere. Fra il VII e lo XII secolo, l'attività di scriba fu esercitata esclusivamente nei conventi o nelle scuole ecclesiastiche.  
      
Nella splendida cornice di Villa Colloredo l'Antica Bottega Amanuense è l'unico Scriptorium esistente in Italia ed il maggiore in Europa: al suo interno abili moderni amanuensi esercitano l'arte dell'antica scrittura.

All'Ordine Benedettino, per l'intensità, la cura e la competenza con cui si dedicò all'attività scrittoria, siamo debitori della continuità della tradizione letteraria classica. Fu il romano Cassiodoro che, nello stesso periodo, capì l'importanza di dover tramandare anche i testi profani affinché la cultura, le tradizioni delle antiche civiltà non andassero perdute. Pertanto a Squillace, in Calabria, fondò un convento in cui i monaci dovevano trascrivere oltre ai testi che diffondessero la fede cristiana anche quei documenti che in ogni modo dovevano essere conosciuti e conservati per meglio comprendere i testi del Cristianesimo. Fra il XII ed il XIII secolo si moltiplicarono copisti che scrivevano in bella scrittura, ma spesso per scarsa cultura il testo era pieno di errori d'ogni genere. Presso le università risorse un commercio librario cui si dedicavano persone che svolgevano altre attività e anche gli scolari, per mantenersi agli studi, esercitavano tale mestiere. Con l'avvento della stampa, il lavoro degli amanuensi andò lentamente esaurendosi, ma come in passato essi hanno permesso la conoscenza di testi altrimenti perduti.
Agli amanuensi piaceva adornare la lettera iniziale di ogni capitolo o di ogni pagina con dorature o con vivaci colori come rosso (per le prime linee scritte, le lettere maiuscole, i titoli), verde e azzurro (per le lettere iniziali), oro e argento (per codici di lusso destinati al culto religioso); essi così inserivano nel testo delle piccole e bellissime raffigurazioni di angeli, di santi o di scene della vita di ogni giorno. In qualche libro, i margini di ciascuna pagina venivano decorati con ghirlande di fiori e di foglie e spesso, in mezzo a questi bordi infiorati erano anche dipinti animaletti: api, farfalle, scarabei, libellule. Quando le pagine erano finite, i monaci le rilegavano in cuoio ed abbellivano il volume con massicci angoli d'argento lavorato a mano e con grossi fermagli. Alcuni libri venivano invece ricoperti di velluto o con una tavoletta d'avorio scolpito in bassorilievo. Qualche esemplare era perfino rivestito d'una lamina d'oro battuto e riposto negli scrigni insieme con le perle e gli altri gioielli. Quando un amanuense trascriveva un libro, di solito, lasciava in bianco la prima lettera di ogni capitolo. Questa lettera veniva poi miniata. La miniatura era già stata usata come decorazione di manoscritti ai tempi degli Egizi e dei Greci, ma ebbe un grande sviluppo soprattutto nel medioevo. La parola " miniatura " deriva dal latino minium, il colore usato per riquadrare le pagine e per scrivere i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti. Le miniature, col passare del tempo, divennero piccoli capolavori contenuti nello spazio di pochi centimetri quadrati. Le miniature si trovano negli Evangelari (raccolta di testi sacri, messali), nei Salteri (raccolta di salmi), nelle Bibbie che ebbero, grazie all'uso dell'oro e della porpora, un aspetto molto elegante.

Le scritture usate erano diverse:
la scrittura onciale, usata in Irlanda e in Inghilterra;
la scrittura beneventana, che si sviluppò nell'abbazia di Montecassino;
la scrittura carolina, che si diffuse durante il regno di Carlo Magno;
la scrittura gotica, che si diffuse dopo la nascita delle università, quando aumentò la richiesta di libri.

Il codice medioevale non aveva una pagina dedicata al titolo; iniziava con la frase scritta con l'inchiostro rosso e con lettere ingrandite: era l'incipit (inizio) e finiva con la parola explicit (fine), dopo la quale si poteva trovare la sottoscrizione in cui erano indicati il nome del copista, la data in cui aveva finito di scrivere e le persone per le quali aveva scritto.

              
                  Miniatura del Medioevo amanuense

Lo scriptorium era una sala spaziosa, ben illuminata da numerose finestre. Nella posizione più idonea a ricevere la luce erano i tavoli, dove lavoravano i monaci amanuensi, che di solito erano esonerati dalle preghiere della terza, sesta e nona ora, per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce.
Non in tutti i monasteri c'era lo scriptorum; in tal caso, i monaci svolgevano il lavoro di scrittura nel refettorio o nelle celle individuali. All'interno dello scriptorum, molti erano i ruoli: la copiatura spettava ai calligrafi, la decorazione ai miniaturisti, mentre i legatori provvedevano al completamento dell'opera. I copisti utilizzavano piani d'appoggio, a volte con il piano inclinato; il manoscritto da copiare era poggiato su un leggio fissato ad un supporto. Tra gli utensili del copista, il calamaio, alcune penne di grosso volatile (in genere d'oca, ma anche di corvo o d'aquila), uno stilo con la punta di piombo, un righello, pietre pomici per cancellare, un coltello. Ai novizi spettavano in genere lavori di preparazione, come lisciare i fogli di pergamena e tracciare le linee parallele che avrebbero guidato la mano del copista. Se l'inchiostro degli sbagli di scrittura era vecchio, serviva anche il rasorium o navacula per raschiare dalla carta la parola o la frase errata e trascrivere il testo esatto.