Un antico scriptorium
LA CULTURA NAPOLETANA
NEL MEDIOEVO AMANUENSE
Dalla Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i
Padri della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da
spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana. Gli
amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino,
copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda
che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio,
trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco e
latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura
agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei testi
pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci
assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo
scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.
I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche,
figuriamoci dodici secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la
lettura, un fastidio epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare.
Nella totale ignoranza del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci
rappresentavano gli unici sostenitori della cultura della Napoli
Vescovile. La lettura è come il vino, va dosata, ma molti napoletani del
popolo preferiscono esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a
leggere nel libro della vita. Infatti, come dice il proverbio, molti
sono quelli che insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere.
I lavori moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga
parte su quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è
improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto
quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria manuale”.
Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico, creativo,
storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi rappresenta,
però, l’embrione delle successive scaturigini culturali medioevali.
Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo Diacono, il
longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al 750. Egli fu il
fautore della poesia epigrafica dell’Italia meridionale.
Vi furono in Campania molti sostenitori di questo
genere letterario, ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò,
però, chi formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come
il Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la
sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano vederci
per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro
bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro,
sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però, non
perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.
Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere,
undici secoli dopo, dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli:
Attenzione, città di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al
malocchio, da un po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.
Un libro copiato e miniato a
mano
Giovanni Diacono storico cristiano lavorò su diversi codici. Un altro Diacono, detto il
napoletano, compì un’altrettanta notevole
opera filologica e traduttiva. Dal IX al X secolo la cultura napoletana
era ancora prevalentemente religiosa. In questo periodo sorsero a Napoli
molti monasteri benedettini, quindi altri scriptorum. L’hora
et labora, per i monaci, consisteva essenzialmente nel copiare
migliaia di codici destinati ad arricchire sempre più le biblioteche
ecclesiastiche. Non c’era monastero, a Napoli, che non avesse la sua
magnifica biblioteca, ricca di pergamene e codici miniati. Solo nel
periodo normanno la cultura napoletana prese una svolta, anche perché la
letteratura primitiva venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che
allora avranno avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale,
basata sulla dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di
letteratura. Già si parlava di medicina e teologia. Nacque
la Scuola Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della
ricerca scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere
planetario, nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi
studiosi, esercitavano la professione di medico.
A pensarci bene questo interesse dei campani per la
medicina è un retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia
dei miei torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università
di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si traducevano
in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII secolo,
assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales,
testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia,
si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca
napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa
importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene - dice
una delle ricette del Regimen Sanitatis - fuggi dalle cure intense e
continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i
napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione
intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi
di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non
trattenere né orina né scorregge. Così vivrai
felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini caratteriali
del mio popolo.
* * *
Ma cosa vuol dire medioevo, l'epoca a cui è ambientato il nostro discorso?
Significa età di mezzo; inizia nel 476 con la caduta dell'impero romano
d'occidente e finisce nel 1492 con la scoperta dell'America. Il medioevo
viene diviso in alto e basso (prima e dopo l'anno Mille). In
questo periodo si sviluppò un sistema politico, economico e sociale
chiamato feudalesimo.
Il signore, o feudatario, concedeva ad un vassallo
il feudo, cioè l'usofrutto di un territorio, in cambio della sua
sottomissione e della sua fedeltà. La vita religiosa si svolgeva intorno
ai monasteri, comunità in cui vivevano i monaci, dediti alla preghiera ma
anche ad altre attività, come la coltivazione della terra e l'allevamento
del bestiame, l'erboristeria e l'assistenza a poveri e malati. Era nei
monasteri, però, che la cultura era custodita e tramandata. I monaci che
si dedicavano a questa attività studiavano filosofia, grammatica,
retorica, matematica, astronomia e alchimia. Alcuni monasteri avevano
biblioteche in cui erano custoditi i preziosi libri salvati dalla
distruzione dei barbari. Nel silenzio dello scriptorium i monaci amanuensi
ricopiavano i libri e li decoravano con miniature a colori.
Agli amanuensi piaceva adornare la lettera iniziale di ogni capitolo o
di ogni pagina con dorature o con vivaci colori come il cremisi,
l’azzurro intenso e il verde; essi, così, inserivano nel testo delle
piccole e bellissime raffigurazioni di angeli, di santi o di scene della
vita di ogni giorno. In qualche libro, i margini di ciascuna pagina
venivano decorati con ghirlande di fiori e di foglie e spesso, in mezzo a
questi bordi infiorati erano anche dipinti animaletti: api, farfalle,
scarabei, libellule.
Un giorno dopo l’altro, un mese dopo l’altro, il paziente monaco nello
“ scriptorium “ fiocamente illuminato oppure nella sua piccola cella,
riempiva di lettere perfette i fogli di pergamena. Lo scrivano provava una
tale gioia quando il lavoro gli riusciva bene, da credere che perfino Dio
se ne rallegrasse.
* * *
La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che ritornano e riflussi. Nel
medioevo la serigrafia non è mai stata applicata. Le esigenze di
decorazione si limitavano a supporti come carta, pergamena e affini
stampabili con la xilografia e la calcografia. I testi scritti venivano
prodotti dalle officine scrittorie, che a Napoli furono sempre numerose,
grazie ai monaci. La stampa serigrafica ha poco da spartire con la
cultura, in passato come oggi, ad eccezione dell’arte pittorica, estesa
alla grafica in serie, poiché la pubblicità a cui essa è asservita,
vanta oggi, bisogna riconoscerlo, delle inconfutabili forme d’arte. Il
medioevo napoletano ricorda una tappa importante per la cultura, la
fondazione dell’Università di Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero
il Normanno a volerla si sono da tempo dissipati dietro studi e
ritrattazioni. Tutti sono concordi che il fondatore di questa fucina di
geni della cultura partenopea fu Federico II di Hohenstaufen, meglio noto
come Federico II di Svevia. Si dice fosse un uomo colto, chissà con quale
parametro, però, lo si giudicasse; voglio sperare non quello della
casata, poiché è trito il concetto che nobili non sono i ricchi, ma
quelli che fanno nobili cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla
influenza della Scuola Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche
Federico operava, fu al centro della cultura italiana dell’epoca.
L’Università (è palese a tutte le matricole che si accalcano
nell’austero edificio ad angolo tra Via Mezzocannone e il Rettifilo)
sorse nel 1224, indi furono istituiti gli studi maggiori: filosofia e
teologia, tanto per variare. Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il
quale, accomunato a tutti i frati dei famosi ordini Domenicano e
Francescano, diffuse la cultura in tutto il regno. Sorrido al ricordo
delle imprecazioni degli studenti che mi supplicano, nella bottega di Via
Purgatorio, di allestire la loro tesi in un paio d’ore, ciancicando
ilari ingiurie all’indirizzo dei baroni bianchi.
* * *
Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da
presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di baronato
doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona pace di S.
Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un intellettuale geniale e
di un religioso fervido e sincero. In più i frati, in quel periodo,
dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le cattedre, poiché tra le
fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si presumeva, ovviamente,
patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in ultima analisi, la lotta
tra Impero e Papato non ostacolò di molto la diffusione della cultura di
priorità teosofica dei cattedratici santi e dei copisti monaci. Anche
Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans. Non come S. Tommaso,
naturalmente, che divenne domenicano proprio a Napoli. Quando
l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora non già
stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla preghiera. Infatti,
a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio
universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice:
bisogna nascere, Ercole o santo!
Cultura e movimento letterario ben vennero anche da
parte dei Frati Minori, gli umili francescani, che sostennero quella
cultura teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della
religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica.
Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento
mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la
poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera il
Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.
Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno
per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta il
paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di frequente si
abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime pulsioni dietro il
paravento descrittivo degli angelici tratti somatici femminili. D’altra
parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo argomenti validi, e quali più
de: la donna e l’inferno, cosi connessi alla luce della psicoanalisi?.
Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a fare il letterato, doveva attendere
l’era gutenberghiana. La figlia Beatrice non sarebbe finita in convento
perché priva di dote. Dante è l’emblema del: Carmina non dant panem.
Un esempio per il sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla
penna alla legatoria, restano nella dimensione degli artisti della
domenica o degli scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del
dono con la dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è
nemmeno velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare,
diffondere quello che sa e quello che pensa. |
Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza
di scomunica del Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del
Clero dotto, sino a lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di
colpa, comunque, non risparmiano nessuno. Federico II sentiva di
tiranneggiare i napoletani, che si ridussero a poche migliaia, spostandosi
in provincia. Forse proprio per questo fondo 1’Università a Napoli,
(oltre che per la sua passione per lo studio) e qui si devono fare le
dovute riserve. Fu per riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo
scarso apprezzamento di certe iniziative, comunque di stampo
aristocratico, con cui i napoletani medioevali avevano poca dimestichezza,
il popolo non si vedeva ripagato con tale ripiego, a giudicare dai
sostanziali e più emergenti privilegi di cui veniva privato; in secondo
luogo la moltitudine non sapeva neppure apprezzare l’importanza dello «Studio
Generale», destinato a primeggiare sulle altre Università del territorio
peninsulare.
Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti
meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica,
grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano
interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un
motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la
diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione
della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione. Certo
era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia
siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la quale
pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna sacra
nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino, a cui ci
si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la benevolenza. Una
passionalità a mezza strada tra il mistico ed il possessivo, che nei
siciliani persiste tuttora. Una integrità monogamica che non consente la
minima infedele trasgressione.
A GIUDICARE DAL CARATTERIALE
VESUVIANO
Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e
dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché
di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti
lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna
borghesia del business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi
vesuviani, sin d’allora, anche per un’atavica scarsa dimestichezza con
la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista
di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra
emendato nel nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la
passionalità distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna,
nel napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono:
vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane);
oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale;
possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di
madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di
madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche
contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione è
sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è
intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della
donna, che prevale sugli altri ruoli.
* * *
Gli scriptorium e le tipografie hanno in fondo diffuso queste
concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico
relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma,
amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare
prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado gli
sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla
stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro,
come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
* * *
L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro il
mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come
nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle
culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là che
si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il globo
terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie culturali
durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi altrettanto
lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni, ma
sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c credenze
millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso, tutto lo
sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione della
stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta indubbio,
allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della diffusione
di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio,
via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello
planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale
orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che
allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini
litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di
risate.
* * *
Nell'antichità i romani chiamavano gli scrivani e i copisti
dell'antichità "servus a manu" che in genere erano schiavi
eruditi. Dagli amanuensi erano trascritti più frequentemente testi
religiosi (di cui la Bibbia fu tra i più riprodotti). Già ad Atene
esisteva il commercio dei libri e copisti e librari avevano le loro
botteghe nell'agorà. Il lavoro dell'amanuense era molto faticoso: in
effetti, erano scritte fino a 12 pagine al giorno e per trascrivere una
Bibbia poteva essere necessario fino a un anno di lavoro. Lo scrivano
provava una tale gioia quando un'opera gli riusciva bene, da credere che
perfino Dio se ne rallegrasse. A tale proposito, egli aggiungeva, a volte,
una breve preghiera alla fine del libro. I salari degli amanuensi erano
calcolati a peciae, cioè per un certo numero di fogli interi, oppure per
quaterni o per singole lettere. Fra il VII e lo XII secolo, l'attività di
scriba fu esercitata esclusivamente nei conventi o nelle scuole
ecclesiastiche.
Nella splendida cornice di
Villa Colloredo l'Antica Bottega Amanuense è l'unico Scriptorium
esistente in Italia ed il maggiore in Europa: al suo interno abili moderni
amanuensi esercitano l'arte dell'antica scrittura.
All'Ordine Benedettino, per l'intensità, la cura e la competenza con cui
si dedicò all'attività scrittoria, siamo debitori della continuità
della tradizione letteraria classica. Fu il romano Cassiodoro che, nello
stesso periodo, capì l'importanza di dover tramandare anche i testi
profani affinché la cultura, le tradizioni delle antiche civiltà non
andassero perdute. Pertanto a Squillace, in Calabria, fondò un convento
in cui i monaci dovevano trascrivere oltre ai testi che diffondessero la
fede cristiana anche quei documenti che in ogni modo dovevano essere
conosciuti e conservati per meglio comprendere i testi del Cristianesimo.
Fra il XII ed il XIII secolo si moltiplicarono copisti che scrivevano in
bella scrittura, ma spesso per scarsa cultura il testo era pieno di errori
d'ogni genere. Presso le università risorse un commercio librario cui si
dedicavano persone che svolgevano altre attività e anche gli scolari, per
mantenersi agli studi, esercitavano tale mestiere. Con l'avvento della
stampa, il lavoro degli amanuensi andò lentamente esaurendosi, ma come in
passato essi hanno permesso la conoscenza di testi altrimenti perduti.
Agli amanuensi piaceva adornare la lettera iniziale di ogni capitolo o di
ogni pagina con dorature o con vivaci colori come rosso (per le prime
linee scritte, le lettere maiuscole, i titoli), verde e azzurro (per le
lettere iniziali), oro e argento (per codici di lusso destinati al culto
religioso); essi così inserivano nel testo delle piccole e bellissime
raffigurazioni di angeli, di santi o di scene della vita di ogni giorno.
In qualche libro, i margini di ciascuna pagina venivano decorati con
ghirlande di fiori e di foglie e spesso, in mezzo a questi bordi infiorati
erano anche dipinti animaletti: api, farfalle, scarabei, libellule. Quando
le pagine erano finite, i monaci le rilegavano in cuoio ed abbellivano il
volume con massicci angoli d'argento lavorato a mano e con grossi
fermagli. Alcuni libri venivano invece ricoperti di velluto o con una
tavoletta d'avorio scolpito in bassorilievo. Qualche esemplare era perfino
rivestito d'una lamina d'oro battuto e riposto negli scrigni insieme con
le perle e gli altri gioielli. Quando un amanuense trascriveva un libro,
di solito, lasciava in bianco la prima lettera di ogni capitolo. Questa
lettera veniva poi miniata. La miniatura era già stata usata come
decorazione di manoscritti ai tempi degli Egizi e dei Greci, ma ebbe un
grande sviluppo soprattutto nel medioevo. La parola " miniatura
" deriva dal latino minium, il colore usato per riquadrare le pagine
e per scrivere i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti. Le
miniature, col passare del tempo, divennero piccoli capolavori contenuti
nello spazio di pochi centimetri quadrati. Le miniature si trovano negli
Evangelari (raccolta di testi sacri, messali), nei Salteri (raccolta di
salmi), nelle Bibbie che ebbero, grazie all'uso dell'oro e della porpora,
un aspetto molto elegante.
Le scritture usate erano diverse:
la scrittura onciale, usata in Irlanda e in Inghilterra;
la scrittura beneventana, che si sviluppò nell'abbazia di Montecassino;
la scrittura carolina, che si diffuse durante il regno di Carlo Magno;
la scrittura gotica, che si diffuse dopo la nascita delle università,
quando aumentò la richiesta di libri.
Il codice medioevale non aveva una pagina dedicata al titolo; iniziava
con la frase scritta con l'inchiostro rosso e con lettere ingrandite: era
l'incipit (inizio) e finiva con la parola explicit (fine), dopo la quale
si poteva trovare la sottoscrizione in cui erano indicati il nome del
copista, la data in cui aveva finito di scrivere e le persone per le quali
aveva scritto.
Miniatura del Medioevo amanuense
Lo scriptorium era una sala spaziosa, ben illuminata da numerose finestre.
Nella posizione più idonea a ricevere la luce erano i tavoli, dove
lavoravano i monaci amanuensi, che di solito erano esonerati dalle
preghiere della terza, sesta e nona ora, per non dover interrompere il
loro lavoro nelle ore di luce.
Non in tutti i monasteri c'era lo scriptorum; in tal caso, i monaci
svolgevano il lavoro di scrittura nel refettorio o nelle celle
individuali. All'interno dello scriptorum, molti erano i ruoli: la
copiatura spettava ai calligrafi, la decorazione ai miniaturisti, mentre i
legatori provvedevano al completamento dell'opera. I copisti utilizzavano
piani d'appoggio, a volte con il piano inclinato; il manoscritto da
copiare era poggiato su un leggio fissato ad un supporto. Tra gli utensili
del copista, il calamaio, alcune penne di grosso volatile (in genere
d'oca, ma anche di corvo o d'aquila), uno stilo con la punta di piombo, un
righello, pietre pomici per cancellare, un coltello. Ai novizi spettavano
in genere lavori di preparazione, come lisciare i fogli di pergamena e
tracciare le linee parallele che avrebbero guidato la mano del copista. Se
l'inchiostro degli sbagli di scrittura era vecchio, serviva anche il
rasorium o navacula per raschiare dalla carta la parola o la frase errata
e trascrivere il testo esatto.
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