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                                   PRIMA PARTE

Questo libro in edizione cartacea del 1998 fu concepito in formato 16° con 220 pagine più copertina. Nel sito la versione da leggere è di 455 pagine. In questa formattazione Word, per risparmiare carta, è stato impaginato in A4. I margini di “Imposta pagina” Word sono standard: 2 cm. a sinistra, 2 cm. a destra, 2 cm. sotto. 2,5 cm. sopra. Tuttavia, prima di stampate controllare se le pagine vi risultano ben divise, specie tra i capitoli. In caso contrario provvedere a modificare qualche interlinea. Si può chiaramente impaginare in un formato diverso.
Questo testo è stato ricavato con l’OCR. Se, nella traslitterazione, fossero comparsi errori di formattazione: qualche accento mancante, qualche trattino in più, qualche spazio superfluo, ecc, si prega di scusarmi.Il libro è stato scritto e stampato di pugno dall’autore nel 1989. Dopo 13 anni è ancora attuale. Tuttavia, là dove ce n’è stato bisogno è stato apportato qualche ritocco. Noterete pure qualche precisazione N.d.r.: nota del redattore.

Luigi Mari

 

Da Magonza a Torre del Greco

Viaggio nelle arti grafiche con soste nel libro della vita

 

Un libro può essere divertente con molti errori,
o può essere noiosissimo senza neanche un’assurdità.

Oliver Goldsmith


STORIA, TECNOLOGIA POLIGRAFICA, CULTURA, ANEDDOTICA, DIVAGAZIONI,
PROBLEMATICHE, NELLA PLAGA VESUVIANA

La stampa offset e quella rotocalco, non altro che l’evoluzione di due antiche tecniche in letargo: la litografia e la calcografia, hanno quasi soppiantato la scoperta gutenberghiana.l’informatica, applicata ai sistemi planografici, trionfa vittoriosa, ma preclude il lavoro a misura d’uomo. II cervello umano viene in buona parte rimpiazzato. In più le macchine-robot non sbagliano quasi mai, non si angosciano, né pero, sanno amare. Lavoratore comune non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, per nulla esigenti in materia di diritti. Sventurati artigiani in genere; bottegai tipografi campani, sopravviverete sostenuti solo dalla poesia del piombo fuso e dal nostrano proverbiale nutrimento d’aria, sole e canzoni? Care botteghe fuligginose, adattate negli stambugi nascosti dei dedali mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati nelle cupe traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra, fino al Casertano, all’Avellinese, al Beneventano, addio! E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire nuovi malesseri? II benessere edonistico dà l’illusione di una migliore qualità della vita; in realtà il consumismo coercizzato dalla «grancassa», alla quale le arti grafiche si asservono in misura massiccia, risponde essenzialmente ad una inferma domanda di dipendenza oggettuale-alimentare. Ma il vero benessere, l’amore, cioè la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura l’ha mai garantita o la garantirà mai? II domani, intanto, viene deciso prima sulle nostre ginocchia di madri, dalle nostre figure di padri. Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per scardinare l’antica angoscia del suo insoluto esistenziale, vale a dire la devastante consapevolezza del proprio destino di mortale, narcotizzata, invece, con reazioni difensive diversificate e contrapposte, dall’annichilimento mistico alla criminalità?

 

A tutti gli autori mancati, colti o analfabeti,
e a tutti i tipografi del mondo, compresi gli
operatori offset e rotocalco, specie del Nord
Italia, verso cui, nel lavoro, solo apparentemente,
dò l'impressione di non nutrire molta empatia,
un forte abbraccio.

 

INDICE

Premessa
Introduzione

CAP. I
LE ORIGINI DELLA SCRITTURA
Osservazioni preliminari
La scrittura
L’origine dell’alfabeto e i napoletani
L’alfabeto e il popolo vesuviano
L’alfabeto
L’Alfabeto in crisi Il piombo fuso in crisi
Napoletanita in crisi?
Alfabeto, grafia e stili ieri e oggi
Tipi di scrittura Dallo stemma all’ideogramma nella grafica

 

CAP. II
GLI AMANUENSI E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI

Lo scriptorum
on di solo amanuense
Se Gutenberg non fosse nato
Ma Gutenberg fu I caratteri di piombo e il vecchio «padrone»
Breve panoramica sulla diffusione della stampa nel 1500

CAP. III
VEICOLI DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE

I primi «stampati »: xilografia, calcografia, acquaforte
Il proto Nicola
Le nuove scoperte
La meccanizzazione della stampa
Le legature aldine
La contraffazione Scarafone, contraffattore per amore

CAP. IV
MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE

La cultura napoletana alle origini
Il tipografo vecchia maniera
I caratteri di piombo fuso stampano 1’ultimo cuore di Napoli
La Linotype
Mastro Luigi Ficasecca
La progettazione Le arti grafiche (linfa della vecchia Napoli)
Il lavoro delle botteghe La cultura napoletana nel medioevo amanuense
Composizione tipografica in pratica

CAP. V
GLI STAMPATI TIPOGRAFICI

I lavori commerciali del popolo vesuviano
Gli stampati «della strada»
Gli stampati moderni
Le pubblicazioni artigianali
Un tipografo di campagna
I giornali artigianali locali
Le mattizie di bottega

CAP. VI
AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI

Giovanni Paperino, tipografo sventurato
Il cliché di zinco
Il retino
I tipografi dipendenti nel Napoletano
Giorgio, avanguardista autentico
La stampa di foto a colori
La moda offset
Cenni sul rotocalco
La cultura medioevale all’apice dei codex e qualche divagazione
La serigrafia
Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra
La flessografia
Le stereotipie Paolo Fringuelli, giornalista sui generis

CAP. VII
LA CARTA E GLI INCHIOSTRI

La carta
La fabbricazione della carta
I tipi di carta
Mario Esposito, il Robespierre della carta
Caratteristiche cartacee
La cultura napoletana prima di Gutenberg
Inchiostri grafici e loro uso
Io, garzone tipografo

CAP. VIII
I VARI SISTEMI DI STAMPA VISTI DA VICINO

La stampa tipografica
Artigianato obsoleto
Le rotative stereotipiche
La cultura napoletana ai tempi di Gutenberg
Litografia, madre del sistema offset
Le macchine offset
L’offset asettica
Il procedimento offset
Le rotative offset Il sistema rotocalco e lo snob
Le macchine rotocalco Rotocalco, ottimo business

CAP. IX
I VEICOLI DI STAMPA MINORI

La stampa flessografica
Le macchine flessografiche
Il tipografo artigiano e 1’avventore
La serigrafia nel suo largo uso
La stampa nel secolo dei lumi napoletano
Macchine per la stampa serigrafica in piano
L’oggettistica serigrafica nel caratteriale vesuviano
Le macchine per la stampa di oggetti
La stampa serigrafica
La cartaria Genova

CAP. X
L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE

Osservazioni preliminari
Arturo, tipografo erudito
Le nuove tecniche
Progettazione grafica moderna
Il manifesto
La cultura napoletana in piena era della carta
Il prezzo del progresso
Il sogno del giornalismo
Il concetto dell’amore, tema centrale della letteratura
La pubblicità su scala nazionale

CAP. XI
LAVORAZION1 AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE

La legatoria
La stampa a caldo
Totonno pallappese, tipografo iellato
La cartotecnica
Le invenzioni... culturali
I timbri
Le targhe
Il linguaggio oscuro nella letteratura

CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA

 

RIFLESSIONE

II libro, a braccetto con l’evoluzione della stampa, ha raggiunto l’apice dell’affermazione nel secondo dopoguerra. Adulto ed insostituibile strumento di diffusione della cultura, è invecchiato dietro i concorrenti mass-media di natura elettronica. Nella sua obsolescenza rimane un mezzo comunicativo a priorità passiva. Tutti possono esprimersi attraverso il cinema domestico, il teatrino rionale, le riunioni scolastiche e via dicendo; ma, allo stato, rimane proporzionalmente esiguo il numero di autori, rispetto ai potenziali cinque miliardi di lettori. Quando il capo diventa canuto o glabro, ogni uomo si ritrova nello stadio della Recherche proustiana, con un vulcano di reminiscenze che spingono in superficie. Grande stimolo creativo ha la componente nostalgica che favorisce le scaturigini di tutti i libri di memorie. In fondo che cos’è la nostalgia se non l’elegiaca malinconia relativa all’insoluto esistenziale per l’avanzare inesorabile della senilità e la prossimità irreversibile del decesso?. In pratica ci si rammarica perché si rivorrebbe la giovinezza più del periodo in esso vissuta. Non vi è dubbio che tutti gli esseri cogitanti, di ogni rango, fino a quello tribale, custodiscono dentro di se esperienze inedite ed originali. Molti autori antichi sono passati alla storia sol perché rivelati da un lavoro di ermeneutica, pur componendo zavorra contenutistica ed estetica. II letterato moderno insiste sul dottrinario, sul purismo, emarginando l’espressione popolare. Dopo Croce vige il terrore della forma. II libro ritorna lo strumento di pochi iniziati che hanno finito per leggersi tra di loro, con tutto il rispetto per le loro opere, spesso capolavori. Questo lavoro è dedicato a tutti gli autori mancati, eruditi o mediocri, vittime di una sorte ingrata, che non li ha voluti non già filosofi, scrittori o poeti di professione, ma nemmeno modesti bottegai tipografi, come il sottoscritto.

Luigi Mari

 

PREMESSA

Tra i miei sogni nel cassetto c’è stato sempre il desiderio di cavar fuori: un manuale divulgativo, casareccio sulle Arti Grafiche; un libello sui sentimenti umani; una trattazione socio-ambientale sulla tipografia campana; un revival sulla cultura napoletana strettamente connessa all’arte scrittoria, prima, alla stampa tipografica, poi. Troppo dispendioso per un bottegaio tipografo, anche se autoeditore, il quale, infatti, oltre a rimetterci fatica, carta ed inchiostro, nemmeno spera riconoscimenti e plausi, visto il disinteresse generale per certe iniziative, quando vengono proposte da illustri sconosciuti. Giocoforza ho ripiegato con un solo tomo. Che Dio mi guardi almeno dalla lapidazione tramite ortaggi! Ed a proposito di certe espressioni retoriche o banali, non esclusi anacoluti voluti, nel testo, che per lo più sfoggia dottrinarismi settoriali e sforzi dialettici, se ne noterà una presenza frequente, allo scopo di mettere a cimento la seriosità di certa analisi scelta letteraria sostenuta da alcuni sedicenti scrittori, come me non professionisti. Non rinuncio, quindi, al buon umore, che si coglie cosi bene, sotto il Vesuvio, nel doppio senso erotico, accostandomi talvolta ad un Henry Miller o a un Gide. II lavoro, fuori dall’ossatura tecnica, è pregno di argomenti sin troppo seri; è bene che di tanto in tanto la bilancia dello Eros-Thanatos penda sull’istinto di vita. Riguardo il Thanatos, fa eco, in alcuni punti della parte letteraria, l’assunto dello studio sull’insoluto esistenziale magistralmente esposto dal geniale studioso Luigi De Marchi nel suo favoloso libro «Scimmietta ti amo»; teoria che, secondo me, rappresenta l’unica, vera chiave per accedere nell’oscurità dell’origine dei malesseri dell’umanità. Senza la consultazione dei libri citati in bibliografia il testo che segue avrebbe presentato delle lacune per quanto riguarda i dati storici e biografici dei personaggi, e le notizie circa le innovazioni e le avanguardie tecniche sconosciute ad un modesto bottegaio tipografo, per quanto erudito possa ostentare d’essere, e per quanta esperienza diretta possa accumulare nell’autarchia del negozio e dai contatti saltuari con l’ambiente industriale settoriale locale. Le compulsazioni sono passate, comunque, sotto un senso critico personale, il meno possibile pedisseque. Ho creduto, con questa piccola fatica, dalla penna alla legatura del tomo, lanciare un granello d’amore per le arti grafiche nel mare del sociale, data l’esclusione dello scopo di lucro. Senza dubbio vi sarà chi non riuscirà a cogliere il significato traslato del tema principale postulato ripetitivamente nel corso del lavoro. Penserà, costui, che io aneli il riflusso delle carrozzelle ed il ritorno dei focolari con gli alari arrugginiti, a causa, eventualmente, del mio acutizzarsi caratteriale della componente nostalgica. II tema ricorrente nel lavoro, infatti, e un antiprogressismo ostinato, a difesa delle arti applicate a misura d’uomo. So benissimo che se le arti grafiche non avessero avuto lo sviluppo massiccio e repentino in atto, anche dietro migliaia di posti di lavoro (il che non avrebbe guastato), non si sarebbe potuto certo tener testa alla massiccia domanda relativa al megaprogresso in stretta connessione con l’irrefrenabile sviluppo demografico planetario. II problema sta altrove. Ho utilizzato le arti grafiche quale attività umana creativa, come paradigma di tutte le attività catartiche affini, sottolineando l’estrema, nociva industrializzazione di esse, dietro il paravento delle necessità produttive, non solo, ma soprattutto denunciando la perniciosa sovrapproduttività quando questa intacca l’equilibrio psicologico generale dietro il meccanismo infermo della dipendenza consumistica. La natura dell’uomo vuole che un maggiore rilassamento del già preistorico insoluto esistenziale avvenga più nella fase di desiderio che nell’appagamento totale e ripetitivo che presto porta a spossamento e saturazione. La qualità della vita non si misura con gli eccessi quantitativi oggettuali, con il traguardo del possesso, ma con idealismi astratti, come, ad esempio, la realizzazione personale attraverso il lavoro specializzato, fuori dalle corse spasmodiche nel solco del potere che non approdano a nulla di veramente salutare se non all’illusione di un traguardo pari a quello che s’illude di raggiungere chi vuole spegnere il fuoco con la benzina. Affatto semplicisticamente Leopardi recitava in chiave retorica: I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto. Se no come si giustifica la proverbiale solitudine dei ricchi, dei re, dei boss, nel ristretto, squallido ambito elitario asettico, dove aleggia sempre il timore della detronizzazione, quindi l’ossessione della perdita di quello specioso sostegno psichico anti insoluto esistenziale, cosi faticosamente e quasi sempre non molto onestamente accaparrato. Antiprogressista sì, quando scopro tangibilmente che molti rimedi sono risultati peggiori dei mali.

INTRODUZIONE

Nel 1922 usci la prima edizione del famoso romanzo “Ulisse” di James Joyce. II libro, come molti sanno, e un po’ il capostipite della letteratura moderna. A parte la profonda umanità dell’opera, la sperimentazione prosastica poliedrica, la trovata del dialogo interiore, ecc., l’opera eccelle per la totale libertà espressiva, riformando, così, i canoni della prosa classica. La trasgressione dei moduli prestabiliti, in una parola il desueto, vale a dire l’inedito, si affaccia di volta in volta col mutare delle standardizzazioni epocali. Opere zibaldoniche ed eterogenee si ricordano sin dai greci. Nella Commedia dell’Arte, ad esempio, si recitava «a soggetto». I miei torresi hanno sperimentato spesso il canovaccio libero dei ruoli di Razullo e Sarchiapone nell’opera in vernacolo di Antonio Petrucci, alias Casimiro Ruggero Ugone. «La Cantata dei Pastori» viene ancora rappresentata a iosa nel Napoletano grazie proprio alla trasgressione di scaletta prevista. II Decadentismo, visto come radicale sovversione dei movimenti etico-culturali del passato, ci ha spinti metodicamente a trasgredire con progressive riforme millenarismi di cultura stagnante di stampo messianico sia politico che religioso. A questo rinnovamento planetario hanno contribuito le scienze positive e le strabilianti scoperte, tutte appannaggio del mondo imperialista e pragmatico. Come Freud e Nietzsche hanno seriamente scardinato o quanto meno messo in discussione i dogmi politico-religiosi, cosi Croce e Joyce, ciascuno a modo proprio, tra gli altri, hanno sovvertito retorica e pedanteria letteraria. In questo clima d’avanguardismo ancora in fase di assestamento, stendo queste pagine, a verso sciolto, nell’ibrido tecnica-saggistica-narrativa, ma, lo dico subito: senza nessuna ambizione dottrinaria. Un manuale per arti grafiche frammisto d’empirismo di bottega notiziole libresche e aneddoti anche di prima mano. Nel peggiore dei casi ponete che vi siate messi ad ascoltare le ciance di un comune bottegaio tipografo alle falde del Vesuvio. E’ probabile che questo lavoro, come tutti quelli non allineati nelle fasce regolari di distribuzione, finirà sulle bancarelle dei buzzurri convertito in tanti bei coni di carta. Cosa volete, questi sono i sospetti miei e di tutti gli esordienti in materia scrittoria che si accingono ad adoperare ferri del mestiere altrui. Cimentarmi, cioè, a trattare una buona messe di argomenti, peraltro eterogenei, a prescindere da quelli strettamente legati alla mia professione. Spero proprio che ciò non suggerisca un sentore di falsa modestia, un mettere, cioè, le mani avanti a salvaguardia non già di riconoscimenti e plausi, ma per scongiurare eventuali lacune o incongruenze. A ciò sarebbe bastata la dichiarazione di non aver seguito studi regolari perché in solo possesso della licenza elementare. Ma grazie all’affermazione di molti intellettuali autodidatti del nostro secolo questo conta poco: (vedi Moravia, Roberto Bracco, ecc.). D’altra parte un lavoro di compulsazione e di stilatura, nonché di composizione tipografica e di stampa, eseguito nei ritagli di tempo, con l’assenza di limature e rifacimenti, non può ambire che ad un po’ di riconoscenza e di affetto specie dall’uomo della strada, il maggiore utilizzatore di stampati tipografici artigianali. Spero, a proposito, che non venga in mente a nessuno di sospettare che lo scopo recondito di questa modesta fatica sia quello di strumentalizzare il testo a mo’ di materiale promozionale a vantaggio della mia tapina bottega artigiana di Via Purgatorio, vista la frequenza con cui la cito nel corso della stesura. Non solo sono ostile all’aspirazione non dico plutocratica, ma nemmeno altoborghese, e non desidero incrementare di solo mille lire il mio minuscolo fatturato. Oggi, e specie nel nostro Sud, ci vuole ben altro per incrementare le attività, altro che ciarle stampate. Le cause che devitalizzano lo sviluppo economico del Meridione sono annose e ben note. E’ superfluo reiterare ancora la questione meridionale mai risolta e i diabolici nord che vogliono sempre qualche sud sottomesso. Ma lasciamo ad altra sede queste considerazioni che ormai sanno di rancido, sebbene sia lapalissiano che il potere si impugna più con le caustiche leggi del Pentateuco, ad esempio, che con i melici ed annichilanti Vangeli sinottici, cioè con la morale, ma non attraverso la morale. Comunque alcune osservazioni apparentemente di stampo politico sono di natura psicospeculativa. Anche se tutto il pensiero umano, in fondo, acquista natura politica quando postulato con ardore. Nuovi studi di psicologia confermano l’utopia circa il beneficio che le idee sane, ma corporativizzate, possano lasciar godere i popoli. Anche la stampa è stata, per oltre tre secoli dalla sua invenzione, essenzialmente uno strumento politico-religioso. Dal XV secolo in poi vi sono stati riformismi e sovversivismi lenti, ma progressivi, che hanno deviato a mano a mano “l’arte nera” da monopoli stagnanti. Quando si parla di alfabeto e di stampa è inevitabile, tra l’altro, fare riferimento all’arte, quindi alla letteratura, nonché alla scienza e, perché no, al business, in più alla vita interiore dell’uomo e alle complesse manifestazioni dello spirito. Mai più di oggi l’alfabeto e la stampa vengono adoperati come strumento di comunicazione per ogni genere di attività umana. Mi consolo, quindi, di non rischiare mai il «fuori tema». Vista la varietà contenutistica di questo lavoro non posso sottacere che, al termine di una lettura, come dire, promiscua, ibrida e frammentaria, tra voli pindarici ed elucubrazioni, il lettore sarà consapevole di non aver assimilato che, essenzialmente, le nozioni tecniche settoriali, e che il contenuto di contorno, mi auguro almeno di forma gradevole, si riallacci inevitabilmente a schemi narrativi e saggistici consueti. Quindi non dirò niente di nuovo e non verrò filosoficamente a capo di nulla, come accade sempre a chi si ostina di coinvolgere gli altri nelle proprie idee, obliando la certezza palese che tutto già dissero i greci e i latini. Eppure si ha l’impressione che ogni libro, per quanto elementare sia, apra nuovi spunti, che in realtà non sono altro che nuovi nodi, perché le cellule del pensiero si eccitino all’infinito. Tutto sommato, voglio dire, i discorsi tecnici hanno la prerogativa che si possono concludere. Mai nessuna teoria speculativa ha mai risposto, non dico concretamente, ma almeno razionalmente, agli interrogativi degli uomini, ma ha sempre lasciato partorirne altri a quelli già in proponimento.
Un’altra doverosa osservazione da formulare è quella che non intendo affatto salire, con questo scritto, sulla cattedra dell’erudizione, ostentando priorità professionale tecnica teorica nei confronti dei colleghi tipografi artigiani di Torre del Greco e della Campania tutta; davvero non desidero sminuire l’operato di chicchessia. Ciascun operatore di arti applicate, al di là della erudizione teorica, ha tanto da insegnare agli altri. Non venga, questa, interpretata come una nota semplicistica o di comodo. I fastigi del successo non mi allettano: “successo”, secondo il mio ordine d’idee è solo il participio passato del verbo “succedere”, in primo luogo perché sono per natura schivo e riservato, in secondo luogo perché il successo e la priorità dottrinaria hanno come prerogative la sopraffazione nella quasi totalità dei casi. Vadano a farsi fregare, una volta tanto, l’antagonismo, la gelosia di mestiere e l’esoterismo artigianale che affonda le sue radici nel Medioevo.
La scoperta della stampa a caratteri mobili, avvenuta nel 1450 segnò una data importante nella storia, perché rappresenta l’inizio della grande evoluzione tecnica del genere umano, non solo, ma costituì la nascita del più grande strumento di diffusione della cultura, la quale, un tempo, era retaggio di pochi iniziati. Diffondere la cultura in maniera capillare lungo tutto il tessuto sociale significa raggiungere il crinale della civiltà, ma non, forse, del benessere, perché la cultura divulgata vuol dire pure aprire gli occhi alle masse sull’ingiustizia sociale e sulla ricorrente condizione di pauperismo del popolo, non già
più predestinata dalla natura o dal fato, ma arbitraria ed imposta. II proletario fino al piccolo borghese veniva in passato sostenuto psicologicamente dalla suggestione della fedeltà doverosa alla Patria e dalla devozione irreversibile al Padreterno. La diffusione massiccia della stampa, prima, i mass-media teleiconografici, poi, hanno distrutto questi miti palliativi ma necessari, come la morfina contro i mali inguaribili, sostituendoli con altri più speciosi ed effimeri quali gli «dei» dello sport e le stelle dello spettacolo.
L’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo hanno ben usufruito dei rudimentali caratteri mobili e del famigerato torchio. Solo nel 1500 vi fu una profonda trasformazione per l’avanzare quasi contemporaneo di varie nuove tecnologie, atte a trasformare la «scriptura artificialiter» in imprevedibili tecniche parallele, fino a divenire strumenti da multinazionale. II trionfo della meccanica relativa alle arti grafiche perdurava fino al secondo dopoguerra per oltre un secolo. Fino agli anni cinquanta tutto si svolgeva nella dimensione della meccanica più evoluta. Gli automatismi costituivano il complemento alla necessità umana di operare. La presenza fisica, tattile, epidermica e olfattiva dell’uomo era ancora indispensabile, passo passo nelle sia pur lente fasi di lavorazione. La cibernetica, nell’era atomica, preclude all’uomo questa benefica partecipazione emotiva al lavoro ai fini della sua realizzazione. I detentori del potere vengono sostenuti dal «maneggio», gli intellettuali dall’onanismo cogitale, le donne dal ciclo mestruale e dalla maternità, e l’uomo comune? La sua personalità veniva sorretta con la partecipazione diretta ed emotiva al lavoro a misura d’uomo e dalle rasserenanti suggestioni mistiche, quali palliativi reattivo-difensivi contro l’insoluto esistenziale. Caduti i sostegni religiosi di carattere salvifico post-mortale e quelli ideologici politici, fino a quello social-comunista, l’uomo si vede inesorabilmente sottrarre pure la realizzazione nel lavoro dai robot. E non dimentichiamo che l’uomo comune costituisce la massiccia percentuale della massa umana planetaria. II mondo occidentale, in pieno periodo umanistico, lontanissimo dalla follia tecnologica dei tempi nostri, accolse con perplessità l’invenzione dei «caratteri artificiali». L’intellighentzia del momento era presa dallo spolverìo del classicismo antico. Si era ancora avviluppati anima e corpo sotto la gabbana di Nostra Madre Chiesa. Cosi tutti gli scienziati, gli scopritori o comunque neofiti e neofili venivano marchiati spesso di eresia. Solo qualche secolo più avanti, dissipate le perplessità e scongiurate le probabili insidie, si favori la diffusione dell’«arte nera», forse perché insorgevano nuovi pericoli, come le teorie galileiane. Fa d’uopo puntualizzare che tutte le osservazioni formulate lungo questo lavoro circa la Chiesa Cattolica e le religioni in genere hanno carattere storiografico. Se errori o ingiustizie sono stati commessi dalle istituzioni religiose essi sono da imputare solo agli uomini, nella loro fragilità e, talvolta, infermità, che scatenano spesso atteggiamenti reattivo-difensivi sia di totale passività che di estrema aggressività. La realtà transumanica del divino rimane massiccia ed inesplicabile, infinita ed inalterata rispetto a tutte le teorie e le opinioni umane.
Nel XV secolo la Chiesa Cattolica subì la batosta della Riforma. Allora, più che mai, doveva tenere ben saldo nelle mani lo strumento della scrittura. In Italia erano numerose le officine scrittorie dei monaci amanuensi. All’estero l’invenzione fu favorita già
dall’inizio da Lutero, con la traduzione della Bibbia in tedesco, e da tutti coloro che postulavano la Teoria della Grazia. Intanto da noi la lingua italiana era ancora indefinita. All’estero le lingue nazionali si diffusero in epoche antecedenti la scoperta della stampa. In Italia solo nel 1887 la famosa legge Coppino volle l’istruzione obbligatoria. Fino all’unità d’Italia del 1861 il nostro popolo parlava esclusivamente il dialetto regionale. La storia ci insegna che su 25.000.000 di italiani solo un quinto conosceva la lingua nazionale. Ma nel 1940 l’analfabetismo in Italia era ridotto alla misura del 20%.
Lo sviluppo della stampa viene su su a braccetto con la cultura. II popolo italiano, circa la stampa, quindi, ha da poco imparato a leggere, e continua a leggere poco rispetto agli altri popoli occidentali, pur vantando il genio dell’arte, della scienza e della letteratura, nonché dell’editoria veneziana delle origini.
In Italia la punta massima dell’istruzione si è avuta, si può dire, ai giorni nostri, poiché solo nel 1962 la scuola divenne obbligatoria fino ai 14 anni. II boom economico degli anni ’60 rappresentò, per cosi dire, la fissione culturale di massa. Da allora le Università hanno brulicato di studenti. Oggi un italiano su tre adopera l’alfabeto o i numeri come ausilio alla professione. Anche lo Stivale, in questo passato prossimo, usufruì delle più avanzate tecnologie relative alle arti grafiche. La stampa editoriale ebbe il massimo consenso che la storia ricordi, in fatto di produzione. Negli anni passati venivano impresse molteplici serie di collane economiche. Una vera esplosione di carta stampata. La liberalizzazione della radio-teleiconografia privata e lo sviluppo repentino dell’informatica hanno minacciato seriamente l’editoria del settore librario di carattere divulgativo. Gli imprenditori, così, hanno dovuto convertirsi alla rotocalcografia d’informazione e alla produzione dei volumi arredo a priorità iconografica, adatti ad una società consumistica, per la gioia dei bibliomani, inorgogliti di possedere migliaia di dispense legate in falsa bazzana, fregiate con prestigiose impressioni in oro, rivestite da policrome e arredanti sovraccoperte. La letteratura propriamente detta ritorna nelle sole orbite degli addetti ai lavori. Data la concentrazione delle officine editoriali del Nord Italia, nel nostro Sud la crisi e più sentita dai librai che dai tipografi. Giocoforza, le arti grafiche si sono adeguate alle leggi di mercato. La espressività peculiare dell’alfabeto soccombe al mezzo iconografico verista e pragmatico. Inoltre, negli ultimi decenni si è avuto un incremento notevole degli stampati relativi alla società consumistica circa la massiccia esplosione di prodotti preconfezionati. Basti pensare che le salumerie o le farmacie, ad esempio, vendono il trenta per cento di materiale grafico avviluppato intorno a tutti i prodotti. Anche in Italia si riesce a vendere tutto in un astuccio policromo, specie le porcherie; almeno fossero solo sostanze inerti da placebo per le terapie cieca e doppiocieca... In più, su binario parallelo, marcia la grafica relativa all’amministrazione pubblica e privata fino alla moderna modulistica continua.
Come la pubblicità sconfina nell’arte, così questo dirottamento delle arti grafiche nulla toglie, nel suo aspetto commerciale esasperato, all’arte applicata in sé ed al suo fascino primitivo, a prescindere dalla asetticità delle moderne tecnologie. Pur se, come accadde per i prototipografi, le crisi economiche o i problemi di sovrapproduzione cagionano cattiva qualità
del prodotto. In queste transizioni sussiste l’imperizia di operatori inesperti ed improvvisati. Negli anni 60, ad esempio, si verifico in Campania un fenomeno per altro prevedibile, che ha trasformato la struttura gestionale delle arti grafiche regionale. Una vertenza sindacale oggi, una domani... fino a che diverse industrie (avvezze a canoni gestionali, come dire, premarxiani) hanno chiuso i battenti. In simultanea molte navi transoceaniche provviste di tipografia cadevano in disarmo perché sostituite dagli aeromobili. Molti tipografi (buona parte della mia Torre del Greco) hanno dovuto ripiegare con la mini imprenditoria artigianale. Col beneficio delle liquidazioni, gonfiate dalle rivendicazioni sindacali, molti operatori del settore hanno aperto bottega in tutto il territorio campano. Questa pluralità gestionale è stata altresì promossa e caldeggiata dall’incremento di strutture industriali convertite alle nuove tecnologie offset e rotocalco, nonché flessografia, serigrafia, ecc., che hanno lasciato abbondare sul mercato dell’usato centinaia di migliaia di macchine tipografiche propriamente dette, cioè relative alla stampa tradizionale utilizzante i famosi caratteri di piombo monotipici o quelli di volta in volta fondibili: i linotipici. Equipaggiamenti senza dubbio obsoleti, ma sempre efficienti ed economici, di disponibilità artigianale poliedrica perché duttili ad una maggiore manipolazione meccanica e ad un superiore adattamento alla varietà dei lavori commerciali di spicciolame. L’esplosione numerica delle botteghe tipografiche ha fatto estendere l’offerta a dismisura con la conseguente battaglia concorrenziale che presume lavoro scadente e conseguente dequalificazione professionale. La discutibile qualità delle prestazioni, però, sembra non pregiudicare le esigenze della domanda, in primo luogo perché alcune amministrazioni pubbliche e private alimentano il fenomeno della sperequazione imprenditoriale privilegiando alcune ditte talvolta anche per motivi di peculato; in secondo luogo i lavori commerciali di uso domestico commissionati dal cliente comune e offerti a costi bassi, lasciano chiudere un occhio sulla qualità e in qualche caso tutti e due, visto certa porcheria stampata che si vede talvolta in giro.
II popolo partenopeo vive in maggioranza nella dimensione dello stipendio, o del sottostipendio o del nullastipendio, quindi si adatta a certi compromessi. A prescindere da ogni digressione, il mondo della stampa conserva il suo fascino come il paese di Alice, nel suo aspetto esoterico ed impenetrabile. II progresso, per giunta, ha convertito il calore dei mezzi tradizionali della stampa vecchia maniera con sistemi computerizzati freddi e asettici, che adottano una creatività ricca di effetti, ma precostruita e ripetitiva. E guarda caso nel gergo tecnico si dice: vecchio sistema a caldo e nuovo sistema a freddo. So di apparire antiprogressista per non dire misoneista o neofobo, non posso fare a meno, però, di denunciare emblematicamente questo radicale sovvertimento della tecnologia poligrafica come paradigma negativo di tutte le tecnologie robotiche che precludono il lavoro a misura d’uomo, fatto, per dirla in chiave retorica, col braccio, con la mente e col cuore.
Quando si argomenta sul sociale dell’uomo involontariamente si fa politica, specie secondo la forma mentis degli addetti ai lavori. Se cambiamo l’ottica, però, noteremo che diverse considerazioni, lungo questo lavoro, sono apartitiche, formulate solo sotto la luce psicosociale. Non si riscontrano difetti o colpe dentro le ideologie, ma solo nell’uomo. II pensiero è analisi scelta, l’azione è inesorabile. Inottemperanze, prevaricazioni e nefandezze sono imputabili all’infermità esistenziale dell’uomo, alla sua angoscia di mortale, e al conseguente timore della detronizzazione. I regimi operanti sono sempre sotto accusa dietro l’obliterazione dei terrifici malesseri del passato storico. II flemmone, comunque, e l’elaborazione culturale dell’idea di potere, e non l’ideologia che esso asserve. II potere, il più antico e diffuso tentativo dell’uomo di esorcizzare l’angoscia relativa al suo destino di mortale, col dubbio inconscio di una probabile assenza salvifica. Oggi il popolo ricusa, o quanto meno mette in discussione, i dogmi e gli assiomi millenari relativi agli ideali politico-religiosi, sotto il lucore della pluralità d’informazione. Tutti sanno, oramai, che la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la perequazione, sono utopie.
Ah, questo libro anomalo, che ora si eleva, poco dopo si sgonfia. Dal dottrinario assiomatico cala nella mediocrità e nell’incertezza, poi rasenta il banale, ma soprattutto talvolta si contraddice. Quale immagine speculare del mezzo scrittorio di tutti i tempi. La contraddizione e l’uomo autentico, allo stato naturale, quello che non prende posizioni perché sente che la verità e utopia, cioè lo sforzo faticoso e disperato dell’uomo nel tentare di risolvere infruttuosamente l’insoluto esistenziale.
(L’autore)

 

 

L’eterno progresso spirituale non ha niente da vedere
con la volgare ricerca del piacere e della felicità, tanto
che si potrebbe del pari, se cosi piacesse, definirlo un
progresso nel sempre più alto e più complesso dolore umano.

«La storia come pensiero e azione» Benedetto Croce

 

CAP. I


LE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Achille esiste soltanto grazie ad Omero.
Togliete dal mondo l’arte di scrivere
e probabilmente togliete la gloria.

«I Natchez» Chateaubriand

OSSERVAZIONI PRELIMINARI

L’uomo moderno si sottopone a molti tipi di dipendenza di stampo psichico. A prescindere da quella esiziale, di moda, peraltro sempre esistita, ma oggi diffusa per motivi nefandi di lucro: la tossicodipendenza, vi sono droghe legali quanto il tabacco e l’alcool, ma che non si assumono ne per via gastroenterica, né per quella parenterale: la radioteleiconografia e la rotocalcografia. Pochi sanno che vi sona individui, specie del sesso debole (si fa per dire) che sperperano un terzo dello stipendio in edicola perché attratti dall’iconografia prioritaria relativa alle immagini del pettegolezzo di cronaca, del fotoromanzo, oramai tetracromico anch’esso, del fumetto, delle raccolte, degli autoadesivi, delle riviste su ogni argomento, ecc. E ve ne sono di edicole, credete, nella mia terra, in quel contesto geografico detto: cintura vesuviana, alias la Shangai d’Italia, in fatto di densità di mortali.
Il mio popolo, (specie le donne e i giovani), quando cade in overdose televisiva, preferisce l’edicola alla libreria che abbonda di caterve di tomi per lo più noiosi ed astrusi o, nel migliore dei casi, stampati con linguaggi strettamente settoriali o con uno stile aulico e ricercato. Grazie a quei chioschi venditori di sogni l’editoria non è stata completamente soffocata dalla televisione, la quale, chi l’avrebbe mai detto trent’anni or sono, ha mandato in crisi persino una decima musa, nella fattispecie il cinematografo o grande schermo.
Il libro, al di là dei testi scolastici, diventa per la massa consumista uno strumento obsoleto di conoscenza o di apprendimento, o, comunque, di trasmissione di idee, e l’uomo resta, invece, ancora affascinato dalle immagini. La fotografia propriamente detta, ancora più diffusa e in diversi casi migliorata, oserei dire, dai fotoliti, osservata, appunto, nella sorprendente magnificenza delle cromotipie offset, là dove vengono esaltate crominanza e tridimensionalità, non teme, per il momento, dirottamenti di interesse. Le edicole seducono pure me, un po’ dietro la deformazione professionale e per un fenomeno di empatia con gli addetti ai lavori ad esse connessi. Spesso il sabato sera, da Torre del Greco, al centro del Golfo, costeggio in automobile fino al Capoluogo per intrattenermi presso quei chioschi plurisettoriali mastodontici nella Stazione Centrale, che sono a mezza strada tra l’edicola e la libreria. A cospetto delle migliaia di pubblicazioni policrome rimugino sulla nuova concezione della versione popolare dell’espressione Arti grafiche. Otto persone su dieci associano 1’idea “stampa tipografica” essenzialmente ai giornali illustrati, cioè i rotocalchi fiammanti e policromi, starei per dire a gittata ebdomadario o bisettimanale, vista la rapidità con cui arrivano nelle edicole. L’uomo medio, disinformato e distratto, legittimamente digiuno della materia settoriale scivola sul significato etimologico dei lemmi tipo e grafia, nelle loro accezioni originarie e ne poliedricizza in maniera particolarmente arbitraria la significanza che invece sta per tipo (carattere di piombo); grafia (scrittura). Per estensione, intanto, il termine grafia è divenuto poliedricissimo e sta a significare diecine di contenuti che con l’alfabeto e la stampa hanno oramai poco o nulla da spartire; pur se fino a qualche decennio fa la stampa per antonomasia era per tutti: il quotidiano d’informazione, sin dalle prime gazzette. Queste pedanterie etimologiche, peraltro anacronistiche, stanno solo a precisare che la stampa originaria è stata per oltre cinque secoli dalla sua invenzione la pura, unica meccanizzazione dell’alfabeto, quindi della scrittura. La stampa di immagini è stata sempre minoritaria, in passato, nelle tecniche di stampa tabellare, calcografia, acquaforte, ecc. di cui tratterò in seguito.

LA SCRITTURA

Ma ora diamo una capatina al neolitico. Tutti sappiamo che i trogloditi insieme ai suoni gutturali, come tentativo di espressione, hanno pure sperimentato qualche scarabocchio qua e là. Poi la pietra divenne lo strumento naturale per i promemoria, anche se si trattava di semplici tagli o scalfitture che ricordavano date, periodi, avvenimenti, ecc. I primitivi emettevano in origine solo suoni che a mano a mano divenivano più regolari e costanti, quindi convenzionali, fino all’articolazione delle prime parole, sebbene rudimentali e facilmente mutevoli. Il mio popolo (scusate il tono campanilistico ricorrente) ha sempre preferito il metodo socratico della comunicazione verbale, il sistema mnemonico allo strumento fissato e tramandato. Da noi nessuno ha mai imparato le canzoni sugli spartiti. Vantiamo una memoria audiofona che ci contraddistingue. Così pure la filosofia popolare, panacea per la sopravvivenza, antidoto per i soprusi di sempre, non è stata mai scritta. Né Vico, né Croce o De Sanctis, o quelli di passaggio, come il Boccaccio o il Goethe l’hanno mai presa in seria valutazione, così immersi, loro, nello strumento della scrittura. La parola, come mezzo di trasmissione delle idee, germoglioò quando quella sorta di ominidi avvertì l’esigenza della socializzazione. Non si prefiggevano, i primitivi, però, di tradurla in segni da tramandare ai posteri. Erano lungi dal supporre, poveri «incivili», che la parola scritta e tramandata poteva divenire un’arma terrificante, non solo, ma in molti casi l’immagine speculare dell’esasperazione delle idee, cioè della parte inferma dell’uomo. Erano ignari delle apoteosi deliranti di certi santoni o filosofi, e dei vaneggiamenti maniacali di taluni profeti, e dell’inconsapevolezza di alcuni scienziati. Saggi, quest’ultimi, che hanno pensato bene di sostituire lo psicanalista allo stregone, o la lavabiancheria al lavatoio, ma che nel frattempo hanno pure scoperto la fissione dell’atomo perché possa accadere, in un modo o nell’altro, ciò che l’Ebraismo e Confessioni similari stanno preconizzando da sempre, ma questa volta senza sorta di palingenesi. Diceva bene Marcel Pagnol: Bisogna diffidare dei tecnici, cominciano con 1a macchina per cucire e finiscono con la bomba atomica.

L’ORIGINE DELL’ALFABETO E I NAPOLETANI

Sappiamo che la storia ci è stata ricostruita dagli scavi archeologici e da opere (o frammenti di esse) tramandatici da studiosi anche antichissimi. Molti uomini hanno speso la vita nelle loro accanite esegesi. Storici, filologi ed ermeneuti hanno ricombinato le tessere di un mosaico dell’ampiezza di oltre cinquemila anni, senza contare le congetturate epoche antecedenti. Il comportamento umano affonda le sue origini in quei tempi remoti, e poi via via modificato dalle varie culture, specie quella occidentale concentrata, come si sa, nel bacino del mediterraneo.
Anche se, in queste pagine, darò 1’impressione di dir male dei miei convesuviani, e specie dei miei torresi, premetto che il mio sentimento nei loro confronti, pur sfociando in una ironica dicotomia di illaudo-apprezzamento, si dovrà interpretare come un amore irreversibile, come tutti gli innamoramenti mai appaganti. Questo libro, non dimentichiamolo, pianta le sue fondamenta all’ombra del Vesuvio, e da questo sito che i moti dell’animo, le passioni, gli sconvolgimenti, le gioie e i dolori, il folklore, la cultura, la stampa, si convoglieranno in questa prosa. Siamo il popolo più ancestralmente campanilistico del Globo; qui pure quando si truffa o si ammazza è paradossalmente per campanilismo. Io sono convinto che se l’alfabeto, quindi la stampa, non fossero stati mai inventati, il popolo napoletano avrebbe potuto farne a meno, per la sua prerogativa logorroica e mnemonica, non solo, ma se l’uomo non avesse saputo mai parlare, ebbene, il napoletano avrebbe diffuso nel mondo la fonomimica, di cui è detentore da sempre.
Non la pensarono cosi i primitivi, perché a mano a mano che si civilizzarono, dopo i pallottolieri cinesi, le conchiglie, le tavolette d’argilla, ecc. crearono il progenitore dell’alfabeto, che gli addetti ai lavori chiamano pittogramma, il cui significato è facile intuire. Queste parole-concetto avevano molta somiglianza con i geroglifici, di cui oggi si conoscono oltre tremila segni. A titolo di delineamento dirò che i geroglifici erano distinti in scrittura ieratica (religiosa) e demotica (popolare) Una bella mattina un certo JEAN FRANCOISE CHAMPOLLION, nel lontano 1822, si mise in testa di decifrarli tutti. E come tutti i caparbi prese in braccio la famosa Pietra di Rosetta, portata alla luce dal francese PIETRO BOUCHARD e prima di farsela cascare sui piedi la scaravento sul banco del suo laboratorio di ricerche, e allora andò a letto (si fa per dire) quando anche il segno più impercettibile fu smascherato.
Nelle scritture antiche dette cuneiformi si sono addirittura decifrati episodi che hanno attinenza con fatti biblici. Oggi va un po’ scemando l’interesse per l’ermeneutica e l’archeologia. Gli studiosi diranno: a che vale faticare tanto se prima o poi faranno del mondo un cumulo di macerie? Ma dopo 1’invenzione della stampa, dal Rinascimento in poi, vi sono stati molti pionieri dedicati a questi moderni studi e ricerche. Fino al nostro secolo molto tempo umano è stato speso per la decifrazione delle scritture di antichi popoli. Non vi è dubbio che ogni genio umano è sempre un po’ folle, con buona pace di Sant’Agostino e Nietzsche. Diceva Valery: Il genio si muove nella follia, nel senso che si tiene a galla là dove il demente annega. Un certo G. F. GROTEFEN, professore dell’Università di Gottiga, agli albori del 1800, decifro così
bene la scrittura cuneiforme che finì col comunicare egli stesso con chiodi e cunei disposti in modo prestabilito a frequenze ripetibili.
Così, quando doveva dire alla moglie: desidero mangiare, o dormire o fare l’amore, disponeva i suoi chiodi, come dire, ora sul desco, ora sul talamo. Ma la consorte non capiva un chiodo di quel linguaggio, non solo, spesso gli diceva: marito mio, ti sei messo brutti chiodi in testa, perché non utilizzi il tuo tempo per affari più remunerativi?
E le donne, credete, da questo punto di vista sono uguali in tutto il mondo, quindi è inutile darsi pena, cari convesuviani.
Ora, prima di passare ai Fenici, i quali combinarono un alfabeto molto simile al nostro, voglio tergiversare sulla diffusione della scrittura attraverso i tempi, sempre strumento d’elite e di manovra politico-religiosa. A pensarci bene, però, i Re, escluso il glabro Carlo Magno, si sono sempre preoccupati più dei muscoli e delle armi piuttosto che di lettere, ma andiamo avanti. Il popolo, manco a dirlo, sempre solo in apprensione per la via gastroenterica, tutt’al più si poteva interessare a delle ricette culinarie. La scrittura, dalle origini, e stata un macchinismo di pochi iniziati, che una volta si chiamavano scribi, indi sacerdoti poi Padri della Chiesa, ed infine teologi, filosofi ed intellettuali laici. Da sempre, come avviene persino nella mia piccola bottega di Torre del Greco, tutti co1oro non addetti ai lavori, in pratica la grossa fetta di umanità che si trova, per cosi dire, al di là della penna, avverte una sorta di fascino e soggezione a cospetto di quel mucchietto di lettere dell’alfabeto, posizionate in milioni di combinazioni, specie se nella materializzazione di caratteri di piombo. Devo aggiungere, appunto, che una sensazione singolare di rapimento si avverte solo in tipografia, rispetto ad altri ambienti connessi all’alfabeto. Nella mia Torre del Greco, purtroppo, non vi sono tipografie editoriali connesse alla letteratura. Da noi l’edonismo cosiddetto reeganiano (siamo ai tempi di Reegan N.d.r.) viene espresso sotto un simbolismo traslitterato in un pittogramma di araldica suggestione, un carminio frascame, una branca vermiglia di calcare marino che ha più valore dell’oro. Che pregio può avere la carta stampata a cospetto di si tanto valore, tangibile ed immediato? Fu proprio un caro torrese corallaio che un giorno mi disse in quell’ironia socratica che lo contraddistingueva: «Ma se la carta è così
utile per gli incarti, perché vi stampate sopra? Che razza di matti, ciarlatani e perditempo siete voi tipografi!». E già: Carmina non dant panem. La letteratura non ha mai arricchito nessuno, (tranne nei casi di superproduzione di un autore), specie in passato, ai tempi degli incunaboli, quando le tirature non superavano le duecento copie. Oggi coi best sellers il discorso cambia. E dal momento che sotto il mio Campanile non attecchiscono elucubrazioni e transumanazioni, spesso faccio capolino presso qualche tipografia editoriale del Capoluogo. Nelle librerie si ravvisa 1’importanza dell’alfabeto, nelle tipografie editoriali la suggestione, l’incantesimo della copia fresca. L’atto dell’impressione della prima copia costituisce un vero orgasmo intellettuale per 1’autore del testo ed i1 parto professionale per il tipografo.

L’ALFABETO E IL POPOLO VESUVIANO

Non dimentichiamo che l’alfabeto, al di là delle arti grafiche e della letteratura bene, è stato anche il mezzo diretto per esternare i sentimenti più svariati della sfera emotiva dell’uomo. Nella letteratura mondiale solo negli epistolari si è potuto carpire la natura del vero pathos creativo dei grandi autori; nella corrispondenza l’artista si sventra cedendo alla foggia dialettica e alla smania di trasfigurazione artistica, rinunciando alla mascheratura o sublimazione dei suoi istinti caratteriali. Dagli epistolari si attingono le biografie perché la lettera e il vero miraglio dell’anima.
Quante lettere non abbiamo mai scritto! Noi quarantenni ancora trasognamo il fragore delle ultime carrozzelle sull’asfalto di Via Caracciolo o sui basalti del Miglio d’Oro che lega Torre del Greco a Ercolano. Erano i tempi delle interiezioni, della pargolezza che sapeva ancora di candore da Prima Comunione e non di puerizia pilotata da dottrinarismi clinici che tutto prevengano, tranne la predisposizione all’angoscia prematura. Evoluzioni socioscientifiche che hanno dato un taglio netto a due epoche. Le carrozze sui basalti non sonavano fragore o dirugginii, ma accordi melici. Reminiscenze romantiche che hanno sentore nostalgico, d’accordo. Ma l’asetticità dei giorni nostri non sa meno d’infermità.
Una terra ferace, quella vesuviana, che fa invidia alla motriglia del Nilo. Due raccolti l’anno. Fertilità del terreno grazie anche all’«ingerenza» delle sostanze eruttive dello sterminator Vesevo, che si è accanito nei secoli a svellere in rovinose devastazioni ora le mirifiche e sontuose ville vesuviane, ora i tuguri fatiscenti relativi alla letteratura verista e neorealista. Sempre nel quadro della napoletanità i nostri autori a cavallo dei due secoli mettevano 1’accento su di un personaggio ora grottesco, ora romantico, a mezza strada tra il barbassoro e il fattucchiere, che si può definire, senza tema di smentita, una sorta di derivazione dell’amanuense: lo scrivano! Quando, imberbe, apprendevo i primi rudimenti dell’arte tipografica, rammento con nostalgia un vecchio scrivano che, tra 1’altro, ha tanto colorito di lirismo la mia fantasia. Veniva a Torre del Greco, a piedi, naturalmente, dall’allora Resina, e ambulava pacato e monacale puntando frequentemente lo sguardo sulle architetture ora di Villa Favorita, ora dell’Istituto S. Geltrude, fino al Palazzo Vallelonga del Vavitelli, che egli scandagliava lentamente, ponendo sulle costole a manca il viluppo di scartoffie nella cartella di bazzana color porpora. Indi si impancava presso il famoso “Caffè Palumbo” a centellinare una bibita, procacciandosi, intanto, il lavoro tra i passanti. Lo scrivano ha avuto risonanza storica, anche se aneddotica quando partivano i bastimenti, dove diecine di sensali di carne umana trasferivano oltre oceano migliaia di italiani. Lo scrivano era il loro tramite interiore, il loro poeta, colui che coglieva i sentimenti più vivi e sanguinanti dal cuore delle madri, e forse un po’ vizzi e annacquati dall’animo delle mogli, trasmigrandoli nelle Americhe, immortalati sulla carta spesso olezzante di misteriose quintessenze. Lo scrivano adoperava l’alfabeto come un ponte immenso sull’oceano.
So di ditirambeggiare i miei personaggi, ma opino che il tipografo artigiano quello della bottega degli impresepiati centri storici, sia un po’ lo scrivano delle arti grafiche. Una buona parte del suo lavoro sfrutta l’alfabeto come un macchinismo pro-socializzazione. Il bottegaio tipografo napoletano, chissà fino a quando, sviolina i suoi caratteri nel copositoio, concretizzando sentimenti ed emozioni franche ed inaffettate, ora gaudiose o gongolanti, ora meste o austere. Forse nella mia provincia, oggi come mai, tutt’altro che «addormentata», le vampe del sottosuolo igneo ancora premono lo svisceramento dai precordi. Esuberanza, azione, fremito eruttano dall’animo come reciticcio, a mo’ di materiale eruttivo. A questo gaudio spirituale si associa una spiccata tendenza alla concezione epicurea della vita. Questo spiega il pluralismo di una catena di piccoli ristoranti dalle falde del Vesuvio, giù giù lungo tutta la Litoranea, purtroppo devastata dall’urbanistica di natura demagogica della mia Torre del Greco, e poi di nuovo su verso le pendici a sud-ovest del Vulcano, sulle abbarbicate pinete di Boscotrecase e Boscoreale di prischiano ricordo.
Nessun popolo al mondo sublima il banchetto nuziale come quello Vesuviano. Il tripudio della gente semplice si manifesta in quelle lunghe ore di abbandono epicureo dove il luculliano è bazzecola; dove le crisi bulimiche quali smodate voracità d’affetti, si materializzano nella crapula e nel cioncare. Agape mistica, orgia dionisiaca e Convivio dantesco sono tutt’uno. Al culto gastroenterico nessun circumvesuviano è dissidente, neppure l’intellettuale di grido. Anzi. L’alfabeto immortala su partecipazioni, annunci ed inviti la legittimità caratteriale partenopea dell’appagamento mistico, spirituale e metabolico. Documenti che simboleggiano il tripudio delle feste delle unioni (anche se un po’ precarie, dopo); delle nascite (anche se non tutte legittime); e purtroppo delle estinzioni, la cui liceità e inopinabile, tranne, talvolta, durante le consultazioni elettorali...
E a proposito della morte, 1’alfabeto è lo strumento che più di tutti da la idea dell’immortalità dello spirito umano. All’ombra del Vesuvio, però, malgrado la scoperta del thanatos freudiano, la morte viene sempre esorcizzata sotto un travestimento faceto. In quei centri vesuviani con un reddito (sperequato) superiore alla media nazionale, la morte è una trovata da propaganda religiosa, è, cioè, il sonno… quando si e scocciato di ridestarsi.
Torre del Greco è in declivio alle falde del Vesuvio prospicienti il Tirreno. Essa è compresa da nord a sud tra Ercolano e Pompei e da est ad ovest dal cratere al cimitero, sul mare. Ho dato priorità al camposanto rispetto la costa perché la cittadina ha una positura geografica, come dire, necrostorica, non già a causa delle ecatombe degli stermini vesuviani, ma perché il mio popolo è uno dei pochi a custodire così bene la concezione egittologica del trapasso, sebbene qualcuno si ostina a guardare i cimiteri come materia promozionale relativa alla propaganda religiosa: un reiterare costante, in pratica, del memento mori.
«Sono di più le scese o le sagliute?» farfugliò un marmocchio col viso impiastricciato di cippa e di moccio, affacciato all’uscio della mia bottega di Via Purgatorio. Il moccioso sciolse una smorfia di gaudio quando io gli risposi che non vi era differenza fra i due dati topografici. Ce sta ’na scesa ’e cchiù
- bofonchio quegli - chella d’ ’o cimitero, quanno ’a scinne nue ’a saglie cchiù».
Il tipografo artigiano vesuviano forgia e modella l’alfabeto a seconda delle complesse esigenze del suo popolo. Da questo fondamento germogliano le sue progettazioni. Il lavoro nasce e si completa già nella fase ideativa, proprio nell’arco di tempo della richiesta, quasi sempre di getto, verbale, o dietro qualche frettolosa annotazione o un vago diagramma illustrativo. Una progettazione, come dire, estemporanea, al di là della metrica teorica e dei canoni didattici. Una schematizzazione che trova la sua catarsi ancor prima di mettere mano ai caratteri di piombo. Mai come adesso cade bene la locuzione «Chi bene inizia è a meta dell’opera». Il risultato di un indovinato lavoro tipografico di piccola entità dipende da questa breve, ma laboriosa fase creativa, là dove il bottegaio plasma e modella il progetto facendo anche leva sull’espressività contenutistica del testo spesso fiorito e schiccherato, dato gli argomenti domestici, in modo da affacciarsi sul materiale tipografico con le idee chiare, sfruttando appieno la precedente immediatezza creativa.

L’ALFABETO

Ma torniamo alle origini della scrittura. L’alfabeto fenicio consisteva, si dice, in 22 lettere. Gli esperti dicono che da esso deriva l’aramaico e quindi l’ebraico; inoltre il siriano, l’arabo e via dicendo. La palese polemica sulla paternità dei Fenici dell’alfabeto sembra ormai lenita. La storia ci insegna, comunque, che i Fenici non hanno mai brillato in fatto di cultura e civiltà. Ma se avessero estorto davvero l’idea agli egiziani, non ne vedo affatto l’importanza, dal momento che la storia non è che una lunga querimonia di prosa schematica su eccidi, saccheggi ed appropriazioni indebite. Quasi sempre ciascun gruppo etnico vincitore ha frodato a quello sconfitto sostanze, cultura, commerci e carnai umani.
E’ doveroso ricordare, pero, che l’alfabeto il quale ha aperto la strada all’arte scrittoria (intesa come poesia, prosa, teatro, filosofia, quindi teologia, ecc.) è stato quello greco. Non per nulla, come tutti sanno, il termine deriva da Alfa e Beta. L’alfabeto greco era composto da 24 lettere. La lettura, in origine, non era dessiografica, ma procedeva da destra a sinistra. Si dice che il documento greco più antico sia il Papiro di Timoteo risalente al IV secolo a. C. L’alfabeto latino, invece, era formato da 21 lettere, dopo verranno aggiunte G, Y, e Z. Gli addetti ai lavori stabiliscono che l’alfabeto latino si riallaccia agli alfabeti delle precedenti civiltà, compreso il greco. Oggi la letteratura mondiale, diffusa attraverso lo sviluppo editoriale, è penetrata in tutti gli strati sociali, in maniera che ciascun uomo abbia potuto capire quale importanza abbia avuto l’alfabeto nella storia umana.
Come abbiamo visto esso si affermò centinaia di anni fa, quando dai segni legati alle figure si passò a quelli sillabici, dove ogni elemento rappresenta una lettera con un suono proprio. Un insieme di segni, come ènoto, che consente da secoli l’umanità di tramandarsi storia, scienze, religioni, e via dicendo. Il suo valore immenso, chiaramente, sta nella sua combinazione in parole, che sono, in pratica, la traduzione di particelle di pensiero. Mavien da pensare: dal momento che la storia, come ho gia detto, non ricorda che stragi e saccheggi, la religione riflette spesso fanatismi talvolta paranoicali e allucinatori, la poesia e determinata prosa, per certi versi, alimentano nostalgie e malinconie, la filosofia finisce di solito col proporre vaneggiamenti a catena, la scienza sfocia ad estuario nelle catastrofi; e partendo dal presupposto che molta gente beve per dimenticare, l’alfabeto, per svariate ragioni, è stato davvero giovevole all’umanità?

L’ALFABETO IN CRISI

Ora, prima di imbroccare l’argomento della diffusione della stampa vista come moderna uniforme dell’alfabeto, osserviamo cosa ha causato l’obsolescenza dell’invenzione di Gutenberg. Il 3 gennaio 1954, ad esempio, alle ore 11 nasce anche in Italia la Televisione. Personalmente ho avuto la fortuna di raccogliere questo vagito. Avevo nove anni. Il gracchiare della nostra logorata radiogrammofono, dall’aspetto di una cassa sepolcrale, non avrebbe dovuto più ammaliare me e i congiunti, né i condomini prossimi e confinanti, in quel declivio di basalti di mera roccia vesuviana che è via Beneduce. Le nostre condizioni economiche erano ben lungi dal consentirci l’acquisto di uno dei primi apparecchi televisivi. Ma in un locale pubblico potei assistere alla telecronaca diretta dell’inaugurazione dagli studi di Milano. In precedenza avevo raccolto solo le solite voci di corridoio circa le trasmissioni sperimentali del 1953: il film alle 17 e il telegiornale alle 21. Il sortilegio TV incantava tutti. Sui giornali apparivano ampi i programmi della radio e brevi, a margine, quelli della TV.
Allora i librai ed ancor più gli editori del libro propriamente detto non temevano cali, anzi, sei anni dopo, come ho gia accennato, si ebbe il boom editoriale, che andava a braccetto con quello economico; tanto meno temevano alcunché i gestori dei 10.000 cinematografi italiani con i 92 miliardi di incassi l’anno, forse oltre 900 miliardi di oggi. Le piacevoli ore di lettura del 1954 venivano già disturbate dai sia pur brevi e frammentari programmi di Mamma Rai. Le automobili in Italia erano poco più di 600.000 e quasi tutti gli italiani trascorrevano il fine settimana sdraiati in poltrona.
Già da allora l’editoria, forse inconsapevolmente, instradò la produzione sull’iconografia. Come ho già designato,l’abbondanza di immagini nel testo scritto ha una funzione agevolatrice atta a ridurre sia lo sforzo visivo che il processo mentale di traslazione dei segni fonetici in immagini. La mia modesta bottega di Via Purgatorio archivia una serie di piccoli clichès di orientamento iconografico generico da adibire a questo scopo. Testo-illustrazione offre un sistema ibrido di assimilazione dei concetti senza dubbio efficace. Ciò spiega il successo dei fumetti e degli oramai disattuali fotoromanzi, sostituiti ampiamente dalle telenovele.
Se, ad esempio, si parla di mare in un testo di solo scritto, il lettore dovrà associare l’immagine di un altro mare visto da lui in precedenza. Qualche complessità insorge, pero, quando un lettore non ha mai visto il mare nemmeno in cartolina. Deve solo usufruire della descrizione che non sempre è soddisfacente poiché si presume che il mare lo conoscano quasi la totalità delle persone. E sarà pure vero se si parla di mare; ma se si descrive la fissione dell’atomo o la sintesi clorofilliana ? Le illustrazioni, dunque, per i testi scientifici, sono un complemento efficacissimo. Dannose, invece, nei testi letterari o poetici, dove la fantasia personale deve mettersi in moto per ricavarne la catarsi finalizzata nell’opera.
Le moderne composizioni grafiche costituite da assemblaggi la dove predomina l’immagine scuotono indubbiamente la pigrizia mentale verso la lettura, tipica dell’uomo medio italiano, così
propenso all’evasione, pressato da un ritmo di vita sempre più frenetico, quindi malproprio alla lettura e alla sua prerogativa: la concentrazione. Questi nuovi avvenimenti hanno ottenebrato non solo il fascino del prodotto delle stamperie, ma la stessa forza espressiva del pensiero combinato in parole attraverso l’alfabeto, uno dei maggiori strumenti capaci di stimolare e fertilizzare la fantasia.
Il processo di stimolazione mentale della trasfigurazione artistica ha mutato i canoni compositivi nella pittura, nella letteratura e nelle arti applicate ad esse affini. L’ambiguità del reale è conforme al mistero della vita e della morte, quindi all’insoluto esistenziale più intenso. Le pulsioni sessuali, ad esempio, vengono alimentate dal «celato» o, meglio ancora dall’immaginato, in molti casi. Le culture planetarie di stampo religioso, dal canto loro, hanno allenato l’uomo per millenni ad atteggiamenti comportamentali scaturiti dalle speculazioni teosofiche, dove i composti lasciavano spaziare la fantasia con trasognamenti, speranze, illusioni, delizie, meccanismi intellettivi che impegnavano la mente e spesso conciliavano il sonno. In ultima analisi: sognare, di giorno e di notte. Un filosofo diceva: «Guai all’uomo quando smetterà di sognare!» Cert’è che oggi non solo si sogna poco, ma si dorme pochissimo. Chissà quali utilità arrecano all’uomo le scienze positive, a parte l’apparente benessere fisiologico. Il corpo e analizzato e curato in ogni cellula, ma al di la del cancro e dell’AIDS, la mente chi la cura ? La salute mentale collettiva e individuale, quale scienza o psicologia la garantisce in maniera empirica. Pure la psicologia, idonea per la prevenzione dell’angoscia si rivela dubbia per la terapia. Le scuole in materia si moltiplicano, come un tempo con la filosofia, polemizzano tra loro, prevalgono dottrinarismi categorici ma teorici, spesso perentori e sussiegosi. Le teorie non sperimentate non allettano nessuno. L’alfabeto vecchia maniera spaziava, trasognava, sconfinava, ora si concentrava, ora si rarefava, e la gente dormiva almeno otto ore per notte.

IL PIOMBO FUSO IN CRISI

Il piombo di Gutenberg basisce lentamente da più lustri, come e romantico ma arcaico dire. L’elettronica, nella fattispecie l’informatica, per non scomodare la cibernetica, ne sta praticando l’eutanasia. Ma diversi noi quarantenni, in alternativa ai disagi di uno squallido dopoguerra, fino ad oggi mai sanato per i nuovi malesseri, abbiamo assorbito, sin da quell’infanzia travagliata, gli ultimi vapori del romanticismo, che rasentava, certo, un genere d’infermità, ma non esiziale o apocalittica come quella odierna. Quei trasognamenti e suggestioni mistiche denominati valori etici ed ideali, altrimenti detti sostegni psichici, erano atti a scongiurare ed esorcizzare 1’insoluto esistenziale di sempre, ed in special modo le pressioni negative di una società asettica e disumana come quella odierna, che concentra nel sistema, al di la dei colori politici, angherie di potere coercizioni consumistiche, vessazioni camuffate di democrazia.
Ah, care, vetuste, fuligginose tipografie artigiane napoletane; oscuri anfratti, ferite nere dei dedali infestati di bucato, gemme brune della cultura partenopea, disposte a raggiera intorno al Corpo di Napoli. Antri sgraziati, disadorni, bizzarri; prestigio ideologico dei dedali fatiscenti, onore del sottoproletariato urbano. Non scomparite nell’asetticità del cemento, restate là
come diamanti ideali incastonate tra bassi e portoni spagnoli, fra letti e fornelli. Ecco un seno nutre a ridosso di tomi ancora intonsi nell’effluvio della résina. Bottega, dimora e strada, una cosa sola. Nessun auto, oggetto o persona può sostare a lungo nei dedali del centro storico perché è come soggiornare in casa altrui senza consenso.

NAPOLETANITA’ IN CRISI?

Certo, sa di anacronismo reiterare qui moduli veristi o neorealisti della Napoli delle cartoline. Ma l’immagine dei dedali di Forcella infestati di bucato sciorinato sulle corde di canapa in un contesto di metropoli-giungla, la dove un quindicenne si buca dietro un portello e due dodicenni scippano, non e retorica. E’ la vecchia Napoli che non regge più alle pressioni dell’europeizzazione edonistica. I ghetti del sottoproletariato sono l’altra faccia del progresso. Tuttavia, malgrado lo squallore e le lordure volute anche dalla contaminazione capitalistica, in questi siti si può ancora attingere calore umano e soprattutto solidarietà, credo, purtroppo, ancora per poco tempo. I rioni del Centro storico di Napoli somigliano alle piccole polis del vecchio mondo, autocrate e solidali. Comunità un po’ fuori dalla storia, là dove certe forme comportamentali di solidarietà restano istintuali, caratteriali, un sociale allo stato brado, mai culturalizzato in pieno. La famigerata arte dell’arrangiarsi scaturisce da un metodo autarchico di gestire la propria pelle, sia pure in maniera eslege, nella inconsapevolezza ovvia e cronicizzata di un popolo, come dire, storicizzato a metà. Un piccolo stato nello stato. Il popolo napoletano, quello originario dei bassi fatiscenti, è uno di quelli che ancora disdegna l’operato di Garibaldi. Una comunità legata alla strada, alla splendida costa, incapace di rinunciare all’elio e talassoterapia buona parte dell’anno, ed ancor meno al culto gastroenterico, alle vecchie strutture spagnole fitte di bassi e case giardino, portoni, portelle, balaustrate ed ampi davanzali sempre ingombri di opulenze femminili. Gente, malgrado le apparenze, emotiva, scrupolosa e tradizionalista, che si nutre di passato, di retorica, di suggestioni mistiche. La razza che, pur pressata a rinunciare alla fede, non disdegna i tabernacoli e confonde il rituale religioso con quello pagano in fusione totale alla superstizione. E una volta che non riesce a rimuovere le parossistiche crisi esistenziali preferisce ancora 1’Apocalisse alla catastrofe atomica. Ma ecco che il progresso, lentamente come un tarlo, continua a strappare questo popolo dal suo habitat. La strada da palcoscenico diviene giungla urbana. L’equilibrio incomincia ad incrinarsi; 1’artigianato secolare soccombe. Gradualmente scompare il lavoro a misura d’uomo, il rapporto di gomito, 1’afflato del mercanteggiare.
La Serao ci ricorda nella sua dilogia i tipografi sottopagati della sua epoca; ma forse beneficiavano di condizioni psichiche migliori rispetto a quelle dei giovani tipografi mancati di oggi per ragioni che è superfluo reiterare; poveri figli di mamma finiti inevitabilmente nella rete della malavita o incappati nella ruota della tossicodipendenza. Ogni dieci artigiani che chiudono bottega dovrebbero essere sostituiti da un centro di formazione professionale; questi, invece, non solo non si moltiplicano, ma tendono a calare e ad impoverirsi strutturalmente. I tipografi artigiani vecchia maniera, dunque, sono ancora i soli, autentici sostenitori della romantica tradizione gutemberghiana; singolari superstiti e testimoni veri della riproduzione veloce degli scritti, quindi della diffusione della cultura e quel che di benevolo, egregio, propizio essa ha dato all’umanità. Il lavoro artigiano, se pure meccanizzato dal secolo scorso, era nella vita. La cibernetica sa di robotica extraterrestre, non ha nulla di umano come le cellule. Conciliare il micro col macrocosmo è una grave castroneria dell’uomo.

ALFABETO,GRAFIA E STILI IERI E OGGI

Tentiamo ora di focalizzare bene l’argomento relativo agli stili grafici. L’alfabeto adoperato a tutt’oggi in occidente è quello derivato dal Romano maiuscolo, divenuto minuscolo successivamente. Chi ha avuto modo di osservare il carattere Romano su riproduzioni di documenti antichi o sulle insegne romane attraverso il cinematografo, può notare come i tratti spigolosi, nel passare degli anni, abbiano preso forme sinuose, allo scopo di poter scrivere più rapidamente. Solo il gotico rimane, per così dire, la pecora nera degli stili. E’ palese che il gotico tedesco sia la scrittura più difficile da scriversi e da leggersi. Tutti i caratteri usati nel mondo occidentale prendono la denominazione di Antiqua in contrapposizione al Gotico e ai suoi derivati, sebbene (e qui il paradosso) il gotico non è altro che un forma esasperata dell’alfabeto latino.
Oggi la bella scrittura come materia didattica è stata soppressa. Il lettore dalla chioma canuta rammenterà quante rigate nel palmo delle mani ha patito, da scolaro, quando veniva imputato di sgorbiare il proprio scartabello. La calligrafia, detta poi scienza degli asini, ha impiegato cinque secoli per essere declassificata, poiché essa, è chiaro, è stata retaggio dell’arte degli amanuensi. Attualmente operano sul territorio nazionale svariate scuole di formazione professionale per tipografi, per lo più di gestione clericale (sempre di numero esiguo secondo me). Molte, tanto per variare, sono concentrate in testa allo stivale. In Campania e famosa quella di Pompei in seno all’Istituto BARTOLO LONGO, singolare fucina di provetti operatori del settore, dove si sono formati molti miei colleghi di Ercolano, Torre Annunziata e della mia Torre del Greco. Il programma comprende, oltre alla pratica d’officina, le nozioni teoriche affini. Ma la società consumistica tende a riformare i canoni tradizionali relativi alla stampa come meccanizzazione dell’alfabeto ed amplia la materia inerente la grafica pubblicitaria e la cartotecnica legata al confezionamento dei prodotti di consumo, e via dicendo. La diffusione dell’alfabeto ha raggiunto i fastigi intorno al mezzo secolo XX, per poi declinare lentamente.
Non a caso oggi si parla di grafica in luogo di tipografia con esplicito riferimento alle elaborazioni policrome, seppure artificiose. Il tipo, ovvero il carattere, un tempo prioritario, trova sempre minore spazio negli stampati. Le immagini e gli ampi margini, per motivi di estetica moderna, sono maggioritari. Il tipografo di domani non sarà altro che un astucciaio, un bustaio, o, bene che vada, un rotocalchista.
Ma noialtri tapini bottegai tipografi artigiani come reagiamo al deperire della stampa relativa all’alfabeto? I tipografi artigiani campani, malgrado la precarietà di sempre sanno eseguire, in ogni caso, lavori ricchi di inventiva e ricercatezza, entro i limiti quantitativi, naturalmente, anche con attrezzature decisamente obsolete. Spesso si improvvisano aggeggi autocostruiti onde emulare i congegni sofisticati moderni. Senza tema di smentita noi circumvesuviani siamo i progenitori del fai da te. Congegni strani e bizzarri scaturiscono dell’estro e, come diciamo noi, dalla forza della disperazione. Quasi sempre si fa uso di materiale di fortuna, come assicelle di legno, cordicelle di nylon, scotch e polvere di sapone (boro talco).
Un folle genio tipografo, che bazzica Torre del Greco perché la sua consorte va matta per i ninnoli di corallo, un giorno folleggio l’impresa di combinare assieme due vecchie carrette tipografiche. Fu naturalmente deriso dagli importatori milanesi. Non solo l’esperimento andò in porto, ma ottenne dall’artificio una velocità di rotazione quasi duplicata rispetto a quella consentita, sebbene 1’ordigno si spostasse di frequente sul pavimento, malgrado i perni di fissaggio. Quando finalmente si fusero le bronzine e l’arnese si ridusse ad un rottame il collega impreco collerico contro i costumi corrotti dei costruttori teutonici perché, probabilmente, avevano adoperato materie prime di scarto. Devo aggiungere, inoltre, che il collega geniale espleta esclusivamente l’operato di impressore poiché, per sua sfortuna, è analfabeta irrecuperabile. Per evitare di stampare righi capovolti ha escogitato il sistema di trasfigurare le lettere dell’alfabeto. Egli, suggestionato da reminiscenze puerili le immagina come tanti pargoli che si tengono per mano distinguendone, quindi, la posizione eretta. Spesso lo sentivo esclamare: “Gua’ quanto so’ bellilli ‘sti fetentielli!”. Si trattava di titoli realizzati in carattere fantasia. E non immaginava per nulla, il candido, che tutti gli stili dell’alfabeto relativi al carattere Antiqua sono somiglianti nella loro struttura madre ai caratteri latini. Infatti fanno un po’ eccezione i cosiddetti caratteri fantasia, nelle loro forme esasperate e bizzarre.

TIPI DI SCRITTURA

E’ un errore pensare che, nel periodo antecedente 1’invenzione della stampa a caratteri mobili, gli stili calligrafici fossero uno o due. Gli amanuensi ne adottarono numerosi, definiti e classificati. Ve ne era quasi uno per ogni dottrina, per ogni indirizzo letterario. Infatti gli stili, come sempre, andavano pure a braccetto con i movimenti culturali e religiosi del tempo, sempre sotto 1’influsso delle correnti pittoriche e architettoniche, proprio come avviene adesso con i caratteri da stampa. Alcuni paesi d’Oriente, come la Cina e il Giappone, pur rimanendo fedeli alle loro antichissime tradizioni di stile, pur conservando le loro scritture classiche originali, utilizzano per motivi commerciali, culturali o politici, anche le scritture dell’Occidente, traslitterando, in pratica, tutti i testi del caso.
E’ arrivato il momento di superare lo scoglio della descrizione, sebbene a grossi tratti, della cronologia dei tipi di scrittura. Fate come me in questo momento, date fuoco ad una sigaretta per ingannare la noia. Veniamo a noi. Dopo le scritture cuneiformi, i geroglifici egiziani, e via dicendo, abbiamo, grazie agli ermeneuti, una classificazione delle scritture affermatesi nei secoli. Gia dal V secolo a. C. si scriveva con uno stile ripetitivo e ben articolato: la Lapidaria greca. Nel II secolo a. C. comparve la Lapidaria romana. Solo dal II secolo in poi si affermo la Capitalis quadrata, che fu adoperata fino al V secolo d. C. Come il lettore annoiato può immaginare, questa era una scrittura appunto larga e quadrata, bella a vedersi, chiara e intelligibile, ma divorava molto papiro o cartapecora per cui dal V secolo vi si contrappose la Rustica, che non ha niente a che fare con i siti agresti, una scrittura stretta, ma un po’ incerta. Dal IV secolo e per tutto il periodo carolingio si affermò la scrittura Onciale, e nemmeno questa ha a che fare con l’unità di misura di peso, ma che si può decisamente definire la scrittura principe della letteratura cristiana. Quindi la Semi-Onciale del V secolo, pur essendo sempre maiuscola incomincia ad accennare una scrittura alta e bassa, come diciamo noi tipografi, con un chiaro riferimento all’idea di maiuscolo e minuscolo. La prima scrittura minuscola fu la Carolingia, altrimenti detta Minuscola romana, apparsa nell’VIII secolo. Dopo di che scribi ed amanuensi pensarono bene di concedersi un po’ di riposo che durò, scusateli se fu poco, fino all’Umanesimo. Ci dovette pur essere in questo periodo qualche scrittura minore, ma la storia ricorda la Textura con la quale Gutenberg stampò la famosa Bibbia dalle 42 linee. La Textura, quindi, fu la prima scrittura imitata artificialmente con i caratteri di piombo. Segue la Rotunda del XV secolo, in pratica il gotico. Sempre nel XV secolo abbiamo la Minuscola umanistica o Antiqua, che, per antonomasia, dà il nome a tutti i caratteri oggi usati che si contrappongono al gotico. Nel XVI secolo si affermo la Franktur, nuova versione della Textura. Poi andò delineandosi la scrittura classicistica del XVIII secolo. Ed infine il corsivo classicistico sempre di questo periodo, molto simile a cio che oggi va detto Stile inglese.

DALLO STEMMA ALL’IDEOGRAMMA NELLA GRAFICA

E così, ce l’abbiamo fatta, caro amico, abbiamo quasi concluso il primo capitolo di questa chiacchierata a senso unico, perché dire monologo mi fa sentire solo, e soli, dice il saggio, non si sta bene neppure in paradiso. Andiamo avanti. Non a caso i ragazzi che si affacciano sull’uscio della mia bottega di Via Purgatorio chiedendomi uno stemma, desiderano invece un adesivo commerciale.
Nei paragrafi relativi alla serigrafia paleserò quanta importanza abbia per noi campani il simbolismo inerente 1’oggettistica, che affonda le sue radici nell’istinto primario animistico. Oggetto come feticcio totemico con finalità apotropaiche. Noi napoletani e campani tutti, non esclusi i miei torresi, siamo, forse, i cristiani più pagani d’Italia in fatto iconografico. L’individuo, soggiogato da una coscienza collettiva, cerca nell’autoadesivo moderno non solo l’ideogramma grafico attuale, ma il simbolismo araldico di un tempo, se non l’ideogramma primario pre-alfabetico. Il ragazzo di quest’epoca squinternata, dove si registra la più alta percentuale di confusione mentale della storia, si identifica non solo con la fuoriserie o la moto-razzo, ma finanche con un semplice autoadesivo che rappresenti, pero, the best, riproducente ora un big della canzone, ora il marchio di uno stilista di grido. Qualcosa che «valga», insomma, come gli elementi della vecchia simbologia araldica.
Il mondo non cambia, l’uomo sostituisce, ma non annulla i suoi sostegni psichici, anche con quelli più effimeri e puerili. La simbologia araldica, come si sa, comprende le corone dette, ad esempio, di conte, di barone, di principe, di duca, di marchese, di patrizio, e via discorrendo. Le croci: latina, greca, di Malta, di Loxena, Papale, fino all’uncinata nazista, alias la svastica. In più abbiamo gli scudi (da cui: scudetto) quindi stemma per autoadesivo. Gli scudi erano detti: svizzero, sannitico, inglese, ancile, a losanga, e via dicendo. Inoltre vi erano gli scudi-pellicce: ermellino e vaio. Le partizioni: scudo troncato, tagliato, trinciato, inquartato, ecc. Le pezze onorevoli: palo, sbarra, banda, ed altre. Dulcis in fundo gli scudi con figure ideali come il drago, la sirena, 1’idra, il liocorno, le cinquefoglie, il giglio, le anatrelle e, come e sfizioso dire, chi più ne ha più ne metta.
Dunque, abbiamo appreso che la grafica relativa agli emblemi si riallaccia alla simbologia ideografica e all’araldica. Lo stemma araldico, come il marchio commerciale o il simbolo politico non sono altro che la simbolizzazione di una idea. Ogni ideogramma, intanto, al di là della concezione estetica e formale, è studiato perché si inserisca nella sfera psichica dell’osservatore, influenzandola positivamente. Perché il marchio tipografico sia di stampo ideografico lo dimostra pure la segnaletica stradale che assicura messaggi elementari ed inequivocabili. In Campania vi è una doppia segnaletica, quella relativa alla circolazione e quella dei grafomani, forse tipografi mancati. Alcune scritte sono facete, altre drammatiche. A iosa si legge: Dio c’e; Gesù salva. Altro come: O voti di qua o di là sempre in c… (nei fondelli) ti arriverà. Tutti i marchi moderni hanno come prerogativa la stilizzazione dei tratti e l’elementarietà del concetto per garantire la massima comprensione. Non mancano, di certo, i marchi di contenuto ermetico allo scopo di stimolare la curiosità e la fantasia, a discapito, pero, dell’intellegibilità. Inoltre una certa pubblicità, per così
dire minore, gioca d’ambiguità con ideogrammi e scritte camuffate allo scopo di confondere dei prodotti con altri più famosi.
E’ arrivato il momento di concludere il primo capitolo di un libro che potrebbe apparire un elogio alla stampa tipografica tradizionale. E’ chiaro che molto spesso mi lascio prendere la mano dalla deformazione professionale, avendo senza dubbio il piombo nel sangue, non nel senso del saturnismo, grazie a Dio. Bisogna provarla questa droga del piombo fuso. E qui voglio ricordare il fraterno amico Franco Penza che alla fine degli anni ’60 redigeva i due suoi originali, «scapigliati» giornali: «Il Penzatore» e «L’infinito», nella mia bottega nascente di Via Purgatorio. Egli si interessava di Critica d’Arte; io notavo l’aspetto psicologico (dietro una divertente ironia goliardica) di alcuni sedicenti pittori e attori torresi, ciascuno sempre inevitabilmente al centro di un eliocentrismo gigionesco o di un egocentrismo assolutista da genio incompreso. Dividevamo con loro le illusioni, le gioie fittizie, l’orgasmo spasmodico all’apparire della prima copia del manifesto o del depliant relativo al loro singolare operato.
Ah, questa mania dell’animale uomo di primeggiare e di sentirsi inimitabile! Tutta brava gente, in fondo, tutti cari amici, soggiogati dall’allucinazione del sogno mirifico della trasfigurazione artistica. Nulla tolgono, però, queste osservazioni all’operato di questi simpatici facinorosi estremisti dell’arte, il cui giudizio peculiare non mi compete. L’aspetto psico-caratteriale dell’artista è
estraneo alla valutazione delle sue opere. Quanti visi in deliquio! Misteriosa forza della Tipografia, sempre legata a tutti i generi artistici! Ma sono passati nella mia bottega anche personaggi torresi affermati in campo nazionale ed internazionale. Forse anche noi, Franco Penza, facciamo tesoro delle illusioni? Tu che riferendoti a questo lavoro hai azzardato simpaticamente che il Marinismo rivive nel Mari la sua nuova epopea? Io la reincarnazione di Gian Battista Marino? Non esageriamo, caro amico dei sogni letterari sempre vividi. Per nostra fortuna prendiamo ancora tutto come un gioco e non ci immoliamo sotto il giogo di questo spinoso sentiero delle ambizioni artistiche.

II progresso è una piacevole malattia.
«One times on» - Edward Estlin Cummings

 

CAP. II

GLI AMANUENSI E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI

C’è, per le scoperte un tempo di maturazione,
prima del quale le ricerche sembrano infruttuose.
Una verità aspetta per sbocciare la riunione dei
suoi elementi.

«Enciclopedie» Jean-Frangoise Marmontel

LO SCRIPTORUM

Tutti sappiamo, oramai, che furono i monaci medioevali i maggiori amanuensi della storia. Lo scriptorum era un’officina scrittoria fornita, come nelle aule scolastiche, di regolari sgabelli. Assorti nel loro lavoro, i certosini, e il caso di dire, sbuffavano quando, probabilmente, secondo il rituale, un collega si affacciava sull’uscio per rammentare il memento mori. Dal momento che non era stato ancora inventato il vetro, si dice che i poveretti incontrassero molte difficoltà durante il lavoro. Sebbene adoperassero oggetti adeguati per fermare le scartoffie, non vi erano, purtroppo, le aspirine per combattere i frequenti raffreddori. I cenobiti, in genere, non erano avvezzi a tabacco e a Venere, ma in quanto a Bacco... Altro che prevenzione dei malanni! Poi, grazie all’avvento della carta oleata, gli amanuensi trovarono maggiore difesa contro le scalmane. Si dice che i monaci, tra l’altro buone forchette, divorassero bulimicamente, date le diverse astinenze, pecore e selvaggina, scuoiate allo scopo di ricavare la materia prima per fabbricare il supporto destinato alla scrittura. Alcuni religiosi fungevano pure da miniaturisti per disegnare quelle complesse maiuscole e per illustrare qua e là i codex. Vi erano dei testi così estesi e complicati che spesso non bastava 1’intera vita di un amanuense per realizzarne una copia. Prima ancora che sorgesse la copiatura laica quasi tutti i testi, non teosofici, venivano burattati da dissolutezze ed impudicizie. Per fortuna il Decamerone non cadde mai nelle grinfie dei monaci...
E’ superfluo aggiungere che la copiatura avveniva sia attraverso il lavoro individuale che dietro dettatura del bibliotecario. E quante volte, c’è da immaginarselo, un po’ per il tedio, un po’ per il sonno, l’uno avrà dettato patate e 1’altro avrà scritto cipolle. In ogni modo i monaci avevano libero arbitrio di purgare, modificare, intrapolare o estrapolare. Gia ai tempi dei romani, però, esistevano officine scrittorie frequentate da schiavi. Dall’anno uno ab urbe condita, al 1450 dell’Era Cristiana gli amanuensi hanno rappresentato il lungo periodo di preludio della storia della stampa, perché, appunto, sono stati i precursori pazienti e un po’ secchioni, delle arti grafiche. Fu probabilmente il loro superlavoro a suggerire 1’invenzione a Gutenberg. Gia dal VII secolo, intanto, esistevano delle sparute officine laiche che si moltiplicarono, nel tempo, molto lentamente.

NON DI SOLO AMANUENSE

Non bisogna dimenticare, però, che uno dei primi sistemi di stampa fu inventato dai cinesi. Gli orientali adoperarono dapprima caratteri di terracotta per stampare i loro singolari giornali. Nel VII secolo apparvero i primi caratteri di rame e altre leghe. Il metodo si rivelò problematico se si considera che l’alfabeto cinese comprende circa cinquemila segni. Così, mai scoraggiati, inventarono la stampa tabellure, altrimenti detta xilografia. Essa consiste (perché per finalità artistiche ancora si pratica) nell’utilizzare come matrice una tavoletta per lo più di legno incisa a mano. Il risultato era pressappoco simile a quello dei clichè zincografici, ottenuti con 1’ausilio di un negativo fotografico, la luce attinica e la morsura d’acido, adoperati tutt’oggi dalle tipografie tradizionali.
Idonea per la riproduzione di immagini, la xilografia non risolveva il problema della composizione alfabetica. Diffusasi pure in Europa non cadde in disuso, infatti dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili venne utilizzata come ausilio alla nuova scoperta per illustrare le opere stampate, data la sua ottima compatibilità col torchio. E’ pur vero che sulla tavoletta era possibile incidere quante lettere dell’alfabeto si volesse, ma a parte la laboriosità del sistema, la matrice, essendo monoblocco, non consentiva correzioni; inoltre lo strofinio vigoroso degli xilografi nella parte posteriore del foglio non concedeva la possibilità di stampare ripetutamente sul fronte retro. I caratteri mobili risolsero ogni problema. Sebbene alcune polemiche sulla paternità assoluta di Gutenberg della stampa tipografica non si siano mai del tutto dissipate, la storia vuole che 1’orefice di Magonza, nel 1450, iniziasse a sperimentare gli strani bastoncini di piombo fuso, aventi sull’estremità superiore il rilievo delle lettere a rovescio. Come è facile capire, lo scopo che si era prefisso quell’astuto di tedesco fu quello di rendere rapida non già la formazione delle pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimate. Johan Gutenberg, come ho detto, era orefice di professione e, guarda caso, Torre del Greco, la mia città, ovunque riconosciuta come Patria del Corallo, trabocca di orafi ed orefici. Ma sono certo che nessun torrese trascurerebbe l’oro per mettersi a fondere il piombo. Gutenberg lo fece, ma posso assicurarvi che non era uno stupido. Cercava sì
la gloria ma, come gli alchimisti, riteneva la sua invenzione una vera pietra filosofale, perché, appunto, tentava di trasformare il piombo in oro, coi ricavi del suo notabile operato, in origine, comunque, non poco contrastato, come tutte le grandi innovazioni della storia.

SE GUTENBERG NON FOSSE NATO

Certamente, se Gutenberg non fosse nato, per certi versi l’umanità non sarebbe stata coinvolta nelle maglie di quella rete inesplicabile della cultura dotta, che rimpinza, per dirla in tono arcaico, persino i poveri cerebri dei pitocchi. La cultura, con le sue aporie e i suoi macchinismi cogitali ha turbato il sonno finanche ai poveri cristi. I barboni talvolta diventano barbassori, i coltivatori diretti culturalisti, con almeno un figlio prete o avvocato. Ma il se, come si e soliti dire, non ha fatto mai storia, cosi, quel figlio di una buona tedesca, Gutenberg, scoperchiò la fissione dell’alfabeto. Mettiamo, per, che la fotografia fosse stata scoperta nel XV secolo, si sarebbe subito utilizzata la sostanza sensibile alla luce onde sperimentare 1’incisione agevolata e ripetitiva, in pratica il clichè, e provveduto, quindi, a celerizzare il lavoro xilografico, calcografico e via dicendo. Il teutonico, ochi per esso, avrebbe, forse, riprodotto le pagine dei codici amanuensi nella loro scrittura originale con la riproduzione anastatica, invece che con i caratteri mobili, evitando, in questo modo, di sentirsi rimbrottare continuamente che i libri stampati con i suoi diabolici bastoncini di piombo fossero, in definitiva, null’altro che delle fallaci contraffazioni dei codex. E dal momento che l’orefice sperimentava i caratteri con i testi di moda, quelli sacri, tanto per variare..., non avrebbe mai corso l’alea di una condanna per eresia, stregoneria o che dir si voglia, rischiando di finire arrostito sul rogo dal Tribunale del Santo Uffizio.
Ciò non avvenne perché, tutto sommato, ai monaci amanuensi, oziosi e sbuccioni per seconda vocazione, faceva comodo che qualcuno, finalmente, smaltisse loro un po’ di fatica, anche se dietro artifici dissacratori... Ma, come mai si continuava ad usare i caratteri mobili anche dopo la effettiva scoperta delle prime dagherrotipie, quindi del clichè, avvenuta nel secolo scorso? Intanto si colse a volo la scoperta zincografica per utilizzarla come impareggiabile alternativa alle lente, laboriose e malagevoli tecniche xilografiche e calcografiche.
Il clichè, come tutti i sistemi fototecnici pre-fotocompositivi, risolveva il problema della riproduzione anastatica, ma non quello della composizione di sana pianta detta a caratteri mobili, anche perché i caratteri mobili, rispetto alla calligrafia erano ripetitivamente precisi e regolari. Il clichè, quindi, miracoloso per la riproduzioni. di codex o di libri già stampati, era disadatto per le opere inedite. Tanto più, in solco binario con la fotomeccanica, l’invenzione di Gutemberg fu meccanizzata e resa veloce da OTTMAR MERGENTHALER, il quale, nel 1883, ebbe la felice idea di mettere a punto il prototipo definitivo della gia parzialmente sperimentata compositrice automatica monolineare, meglio nota col sostantivo Linotype. La disfatta, però, della geniale invenzione della stampa a caratteri mobili non è da imputare alla fotomeccanica, né alla stampa offset o .alla sua consorella rotocalco, tanto meno ai sistemi dattiloscrivibili elettronici o meno, a pallina o a margherita, ma al calcolatore elettronico, nella fattispecie la fotocomposizione!
Se Gutemberg non fosse venuto alla luce probabilmente il clichè di zinco avrebbe riprodotto i codex ottenendone la stampa veloce. FIRMIN MILLOT sfruttò la fotografia per realizzare i suoi clichè. Già nel 1850 incise la prima lastra di zinco tramite morsura di acido nitrico, utilizzando la luce e un negativo fotografico che fungeva da maschera sulla lastra sensibilizzata con una vernice trattata. II clichè aveva emesso il primo vagito, ma non avrà lunga vita. Caratteri automatizzati linotipici e clichè piani di zinco hanno dominato 1’arte nera fino alla metà del XX secolo. Le poche officine di alcune Testate che ancora non si sono convertite alle nuove tecnologie tuttora formano le pagine di giornale con piombo linotipico e clichè, specie il giornalismo minore. (Oggi 2002 non più. N.d.r.). Ed è proprio in questi vetusti opifici che si ascolta il rantolo letale del piombo fuso. E’ proprio in questi nostalgici casermoni di minuscoli soldatini di piombo che gli anta di animo lirico e ispirato sentono salire il groppa alla gola. Intanto la sgherra fototecnica, ormai computerizzata (sistema a freddo, contrapposto al sistema a caldo del piombo fuso) avanza con i cosiddetti passi da gigante, e, nella scorreria impietosa, si modifica e migliora, solo ai fini produttivi, naturalmente, requiando uno dei fattori fondamentali del lavoro creati- vo e delle arti applicate tutte: la partecipazione emotiva, il contatto epidermico, l’afflato diretto con la materia da plasmare con le dita come l’artista con l’argilla. Il sistema a freddo squassa la sua criniera reiterando di continuo la fredda compiacenza delle vittorie, dove il traguardo del bottino estorto, però, non alimenta che nuove bramosie e concupiscenze.
Se Gutenberg non fosse nato la cintura vesuviana non avrebbe neppure beneficiato dei sostegni etici positivi che certamente si recuperano dal groviglio di nodi della diffusione della cultura. Quale mestiere avrebbero esercitato i nostri Vico, Croce e De Sanctis dietro la consapevolezza che le loro analisi andavano. trascritte. in una o due copie di codex, destinati al massimo ad arricchire le sontuose ville vesuviane degli altoborghesi? Cosa avrebbero fatto i nostri. Ferdinando Martello ed Emanuele Melisurgo se non fosse esistita la vecchia partenopea tipografia Flautina che stampava uno dei primi giornali umoristici della storia, intorno alla meta del secolo scorso: L’Arlecchino?. Fossilizzazioni borboniche avrebbero stagnato il torpore di un popolo in perpetua precarietà, sempre dominato e prevaricato dall’alto e dal basso. Sarebbe stato ancora condizionato ad oziose controre nei dedali spagnoli, negli androni sgraziati e disadorni dei centri storici di provincia, nell’acre delle fatiscenze, là dove visi olivastri statuavano assisi, in un’etra infestata da aculeati frugiferi (scusatemi i termini dell’epoca).
Non si sarebbe diffuso, certo, alla fine del XIX secolo il famoso Monsignor Perrelli, che dettava i primi veri spunti o sputi, se più vi piace, polemici ed anticonformisti, in contrapposizione ai millenni di oppressione stagnante, allineandosi ai grandi riformatori del pensiero scientifico del secolo scorso, se Gutenberg non fosse nato. E, d’altro canto, come si sarebbero diffusi gli spunti de’ Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard o i Tre saggi sulla sessualità di Freud, o ancora le crude, assideranti “verità” dell’elegiaco Leopardi o del caustico Nietzsche? Insomma, come avremmo fatto a vivere ancora peggio attraverso il doppiotaglio della conoscenza? Il vecchio saggio napoletano diceva: chi capisce patisce.
Se Gutenberg non fosse nato, Antonio Scarfoglio non avrebbe potuto pubblicare il primo rotocalco d’Italia Il Mattino Illustrato, del 1924, perché la moderna, meccanizzata versione della vecchia calcografia, non avrebbe potuto beneficiare della composizione alfabetica dei caratteri mobili. Se quel calabrese di tedesco, volitivo e testardo come tutte le persone geniali, non fosse esistito, ce la saremmo sognata a Napoli la rinomata Emeroteca Tucci e la Biblioteca Nazionale ai Cavalli di Bronzo (Largo Castello) che nacque con la raccolta farnesiana di Carlo III di Borbone e arricchita con la fusione di altre biblioteche napoletane. (Non tutti i campani sanno che si tratta di una delle più importanti biblioteche d’Europa, dove è possibile osservare, oltre ai famosi Papiri di Ercolano, incunaboli, manoscritti e codici miniati di diversi orientamenti culturali). Grazie a Nonno Gutenberg la nostra Napoli ha potuto sfoggiare anche le sue tradizioni culturali, riallacciate anche alla vecchia Scuola Salernitana.
Ah, costa campana, perché ti sei europeizzata (l’accezione non è quella relativa all’unione europea, alla moneta comune, ecc., siamo negli anni 80. N.d.r.), perché ti sei deturpata nell’urbanistica? Leggiadra fetta di ecumene principe che va dall’amena Pozzuoli e via via con le alture di Posillipo, lungo la invidiata Caracciolo, e giù per la storica Ercolano, per la mia ferace Torre del Greco e la fastosa Pompei, indi Castellammare, dove termina la fascia vesuviana tirrena, proseguendo ancora per la suggestiva Vietri e la impresepiata Amalfi, quindi la notabile Salerno fino alla talassoterapeutica Pesto dei Greci. Una terra (alla faccia degli antiretorici) decantata dai miti più antichi, dalle sirene di Ulisse; bersaglio degli insediamenti magnagrecisti, dimora amena e tranquilla per svaghi e riposo dei romani antichi.
La terra vesuviana, oggi in degrado, ha esternato in passato il suo genio interiore creativo ed intellettivo con la filosofia popolare-verbale e cattedratica, con la poesia più intensa e vibrante, con la scienza e le arti, aderendo alla diffusione della stampa, sempre utilizzata e seguita nelle sue fasi evolutive. Grazie anche all’orefice di Magonza l’amena costa vesuviana non è
rimasta solo una figura leggiadra di venere seducente, ma vacua, come molte belle donne. Peccato che il flemmone della bramosia di potere si stia allargando a macchia d’olio in tutte le fasce sociali. Per la prima volta nella storia il malessere scaturisce dall’individuo, emarginato dalla recrudescenza del suo insoluto esistenziale. Il male dell’uomo moderno è sociale solo per conseguenza. Anche Napoli, purtroppo, diventa un capoluogo di folla-sola.
L’unico antidoto contro il babelico ordinamento comportamentale suggerito dai mass-media è la loro nociva grancassa propagandistica inneggiante al consumismo, potrebbe essere una sana lettura, oserei dire pre-culturale. Ricusare l’intricato onanismo intellettuale delle elucubrazioni dottrinarie e delle speculazioni filosofiche senza sbocco. Una lettura inedita, che non coinvolge il lettore negli interessi pratici o ideologici dell’autore; una lettura puerile, bonaria ed amorevole, antiscolastica, antisapienza, antistorica, che non si prefigge di insegnare nulla se non la riscoperta di saper stare insieme nella piena gioia di vivere. Semplicismo o qualunquismo? Banalità, retorica? Signori, con la mania della critica, dell’analisi scelta, del the best artistico abbiamo distrutto la spontaneità espressiva, abbiamo contorto e complicato tutto, abbiamo deformato il corso autentico e naturale della vita persino con le favole dei bambini, ricche di trasfigurazioni e contorsioni della realtà, con la mania dell’arte, del desueto, dell’ambiguità creativa, dell’effetto. Abbiamo finito per trasmettere ai bambini la parte inferma della creatività artistica. Lasciamo che i bambini scrivino i libri per noi, i bambini appena accostati ai rudimenti lessicali, i bambini incolti e incontaminati dalla cultura, i bambini come immagine speculare degli uomini di Neanderthal, semplici, bonari e pacifici perché appunto incolti, ignari dell’elaborazione culturale dell’angoscia umana legata all’idea del decesso e la probabile assenza salvifica o alla devastante idea del peccato. I bambini lontani da TV e computer, gli ultimi e più terrifici strumenti di una cultura in saturazione; i bambini nuovi, pasturanti nei prati virenti e rigogliosi, nutriti con more e aromatici agrumi, lontani dalle derrate martoriate nei laboratori per la conservazione o dalle mattanze della vivisezione.. Lasciamo che tali bambini scrivano i libri per noi e bruciamo le biblioteche, forse assisteremo alla nascita di una umanità diversa, almeno per qualche millennio... Perché l’unica salvezza del mondo, la vera non utopia e quella di creare una umanità la cui ragione sia finalmente aliena da tutte le elaborazioni culturali accumulate nei millenni, comprese queste mie considerazioni scritte..
E così, cadendo io stesso nella prosa scolastica, cedendo alla mania, come tutti coloro che usano lo strumento della scrittura, di coinvolgere gli altri nelle proprie idee, tronco tosto la dissertazione osservando, invece, che la stampa a caratteri mobili di piombo fuso è ormai agonizzante anche perché il progresso, inteso soprattutto come evoluzione fisiocratica, fa pressione sulla domanda crescente relativa al movimento demografico. Devo spezzare una lancia in favore dei progressisti riconoscendo che le tecniche veloci sono più idonee al fabbisogno planetario di stampati. E’ discutibile, pero, (ricompongo la lancia) se questo tipo di fabbisogno sia necessario o superfluo, se non dannoso. L’inventore d’altra parte, oblia 1’aspetto speculativo di ogni scoperta, per non dire quello esiziale (vedi la bomba atomica) perché spinto innanzitutto dalla molla dell’affermazione personale.

MA GUTENBERG FU

Ora soffermiamoci un tantino sulla nascita della stampa a caratteri mobili. JOHAN GENSFLEISH GUTENBERG, nato nel 1394?, sperimentò il sistema per moltiplicare gli scritti in un tempo di gran lunga inferiore a quello impiegato dagli amanuensi. Come ho già accennato, sebbene i caratteri di piombo fossero più simmetrici e regolari tra loro, quindi più gradevoli e facili da leggere rispetto alla scrittura manuale, lo stesso Gutenberg definiva i suoi libri «scripture artificialiter». Come informano diverse attendibili fonti, senza voler togliere nulla ai tedeschi, l’orefice non fu l’inventore della stampa in assoluto, ma essenzialmente il più accanito e costante sperimentatore dei caratteri mobili e del torchio da stampa ricavato, sembra, da un torchio da vino. Sarà per invidia, sarà perché al mondo è difficile che qualcuno si faccia i cavoli propri, alcuni pedanti e zelantoni affermano che il teutonico (uso questo termine nell’accezione di: preciso e tenace, non in senso dispregiativo, amo nonno Gutemberg) si avvalse di esperienze analoghe già praticate in tutto il mondo e in ogni tempo. In quel periodo sembra abbiano tentato esperimenti equivalenti: PANFILO CASTALDI di Feltre, il fiorentino BERNARO CENNINI, il tedesco LAURENT COSTER, e via dicendo. Con molta probabilità era già esistente lo spionaggio industriale, attività difficile e perigliosa, perché le delazioni, come per i ladri in Oriente, venivano castigate con l’amputazione di un arto. E... ora sto sbellicandomi dalle risate all’idea che tali estreme sanzioni fossero comminate oggi in Campania e anche altrove, d’altra parte,... sai quanti moncherini si vedrebbero in giro.
La stampa a caratteri mobili in pieno Rinascimento fu subito conosciuta in tutto il mondo occidentale, ma ricevette, all’inizio, solo parziali consensi. E’ strano constatare che una tipografia cinque-seicentesca, anche la più importante, non avesse altra attrezzatura che una esigua scorta di caratteri, un modesto torchio da vino modificato, dei compositori più o meno incerti e dei robusti torcolieri.
Ed io, tapino e modesto bottegaio, nell’ottica del capitalismo, con il ginepraio di arnesi usati e la varietà di risoluzioni tecniche adoperate o inventate, cosa potevo rappresentare allora? Le officine Mondadori? Ho senza dubbio sbagliato epoca per mettermi a fare il tipografo nella bottega-bazar di Via Purgatorio. Ché, poi, questa Via Purgatorio suggerisce sempre tono di dileggio alle verbalità telefoniche dei fornitori per arti grafiche irriducibilmente e irrimediabilmente milanesi. Ma andiamo avanti. I tipografi di allora (voci di corridoio) erano gelosissimi dei propri caratteri, (come se adesso non lo fossero) Li custodivano come reliquie, e pure adesso, poco ci manca, a parte alcuni tipografi sciagurati di mia conoscenza, che fanno una tale bruzzaglia o mmescafrancesca e ’nfranzesaggine, per dirla in gergo, che, sempre per dirla a modo nostro, il Padreterno ne vuole il cuore.
Si dice che allora la fusione dei caratteri avvenisse manualmente, attraverso arnesi rudimentali autofabbricati. Proprio come accade oggi da noi per attuare soluzioni ottenibili, invece, con zuppe sostanziose, alla milanese... Adesso capisco perché dicono che siamo arretrati di cinque secoli. Il torchio da stampa, dopo aver spremuto anni ed anni vino, indossava la marsina o il pastrano e si dava alle lettere. Il famoso mezzo di stampa, a parte le freddure da goliardo, ebbe lunga vita. Era costituito da una base molto pesante, dal piano portaforme (dove veniva inserita la composizione, cioè i caratteri allineati in righi uguali), e dalla grossa vite che veniva manovrata da una leva, il cui movimento permetteva al piano di pressione superiore di abbassarsi dolcemente, ma con tutto il suo peso, sulla carta inumidita, poggiata sui caratteri preventivamente inchiostrati, del piano inferiore. I rulli erano di cuoio.
Pare, pero, che in quel periodo le madri degli inventori prendessero la pillola, o comunque adoperassero anticoncezionali molto efficaci, dal momento che il travaglioso torchio, come direbbero i siculi, fu impiegato per oltre trecento anni. I primi libri stampati, com’è noto, vengono detti incunaboli (in culla). Il periodo degli incunaboli va dall’inizio della scoperta della stampa fino alla meta del diciottesimo secolo. Fu un periodo duro per l’affermazione della stampa. Un giorno i tipografi scesero in piazza insieme ad una sorta di rappresentanti di categoria, postulando che bisognava smetterla, una buona volta, di ritenere il libro stampato una contraffazione. Infatti, nei giorni seguenti, gli incisori di matrici (poiché la petizione era stata respinta a suon di carciofi e cavolfiori, dai monaci che minacciavano scomuniche in tono sussiegoso e perentorio) non si risparmiavano nessuno sforzo non già allo scopo di creare caratteri ripetitivamente uguali e perfetti, ma irregolari ed il più possibile fedeli alla scrittura manuale. Ma guarda le fisime dei conservatori! Solo molto tardi la stampa fu riconosciuta, non solo come invenzione utile, ma come moderna forma d’arte. I caratteri, cosi, presero il sopravvento sulla scrittura manuale. Un po’ come fanno molte mogli dopo i primi anni di matrimonio.
All’origine i libri avevano un aspetto molto diverso da quello d’oggi. La carta, ad esempio, spesso conservava il suo aspetto ondulato a causa delle bagnature sulla parte posteriore, onde favorire il contatto del foglio con i caratteri. Veniva lasciato molto margine intorno allo scritto e soprattutto il libro se richiesto rilegato dal cliente era consegnato intonso. Gli incunaboli non avevano le pagine numerate, né rontespizio, né soscrizione o colophon, come dicono all’estero. Si dice che la massima tiratura. non superasse le duecento copie. (Come avranno fatto a contare - tutte le tirature di allora?). Mah, questi storici e filologi, faranno come gli amanuensi, di tanto in tanto qualcosa se la inventano, Ma andiamo avanti.
Verso la fine del 1500 si ebbe la prima fioritura della nuova scoperta. Gli studiosi, fedelmente o meno, ci ricordano che agli albori del 1600 si contavano in Italia ben 150 tipografie. (Oggi manca poco che si contano nella mia piccola Torre del Greco). Ma, bando alle ciance. La capitale del libro fu Napoli... Domando: fu Napoli? Pare proprio di no, purtroppo.. (Fosse mai stata la capitale di qualcosa). Fu la languida Venezia. Il maggiore prototipografo italiano fu ALDO MANUZIO. Egli si può considerare il padre dell’editoria italiana. A libro affermato i prototipografi avevano più fans degli autori di libri. Manuzio produsse molti esti classici aumentando la tiratura da duecento a mille copie. (Ci crediamo?). Con molta probabilità nelle vene di quell’uomo dovera scorrere sangue milanese o giapponese, perché aveva davvero il cosiddetto bernoccolo degli affari. Avvalendosi della locuzione: Carmina non
dant panem, la modificò n: Imprimer carmina dant panem, e non andava errato. Fu lideatore, in nuce, tanto per stare in tema di latino, di ciò che oggi chiamiamo le collane economiche. Ne produsse una gran quantità (saggiamente non ci affermano quante) il cui basso costo favoriva la diffusione. Si dice ancora che Aldo Manuzio avesse una particolare sensibilità artistica, cosa raramente presente in chi ha molto fiuto per il danaro. Penso di condensare gli scritti per economizzare carta e inchiostro e per rendere i libri più maneggevoli ma nello stesso tempo non trascurò di offrire una lettura gradevole, per questo si fece disegnare da FRANCESCO GRIFFI il famoso corsivo detto appunto delle edizioni aldine. Il corsivo, in genere, viene detto anche italico dai fabbricanti internazionali di macchine da scrivere con riferimento al carattere di Griffi. L’arte della stampa si affermòmano mano non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale. Nel 1700 emigrò oltreoceano.
Nel Nuovo Mondo ne fu pioniere BENIAMINO FRANKLIN di Boston, che fondò inoltre una cartiera, una grande biblioteca, e stampò la Pennsylvania Gazetz, il primo giornale americano, e scusatelo se fu poco. I plutocrati sono sempre esistiti, non mi spiego, però, come mai, i Berlusconi e gli Agnelli non nascano mai a Napoli. Nello stivale le tipografie si diffusero in modo sorprendente, non certo nella misura in cui si sono diffuse in Campania ai giorni nostri. Ma in entrambi i casi, oggi come allora, si verifica il fenomeno del regresso qualitativo per motivi di concorrenza. Le arti grafiche subirono, per una ragione o per l’altra, una sia pur leggera flessione negativa e persero alla fine del 1700, un po’ del loro prestigio relativo alla prima affermazione del secolo precedente.
Anche questo si dice, che a sollevare il tenore della tipografia italiana dal 1700 in poi fu GIANBATTISTA BODONI, da cui il famoso carattere Bodoni. Egli rappresentò un’altra pietra miliare nel lento cammino della stampa italiana. Non solo valorizzò di nuovo la nobile arte, ma la miglioro nell’estetica portandola a fastigi mai raggiunti. Erano lontani, oramai, i tempi in cui i libri venivano considerati delle imitazioni. Napoli, purtroppo, figura raramente nella storia italiana della stampa, se non per un riflesso culturale. Le notizie storiche sulla evoluzione della stampa napoletana sono inserite in maniera frammentaria nelle pagine seguenti nel quadro generale della cultura napoletana in relazione al- l’arte scrittoria fino all’Illuminismo e via via lungo i secoli successivi di lenta aderenza allo sviluppo dell’arte nera.

I CARATTERI DI PIOMBO E IL VECCHIO «PADRONE»

I tipografi non hanno mai brutti caratteri... perché, come ho gia detto, tutti i caratteri usati in Occidente discendono da un’unica nobile famiglia: 1’Antiqua. Il gotico, figliuol prodigo, in declino sin dal 1500, è ritornato nelle tipografie di tutto il mondo. Rivisitato e modernizzato fa, comunque, la sua sporadica presenza in molti tipi di stampati. Il capostipite dell’Antiqua, non dimentichiamolo, è il carattere Romano. Il carattere di piombo da stampa è costituito da un parallelepipedo poco più alto di due centimetri. Il fusto di un carattere da libro, come quello che avete sotto gli occhi, è poco più spesso di un fiammifero da cucina. La lettera e incisa sull’estremità superiore in rilievo (a rovescio). Sulla parte inferiore del fusto vi è un solco tacca, che serve al senso tattile del compositore onde allineare i fusti nel compositoio senza bisogno di guardare. Ho sentito doverosa questa sommaria descrizione perché fra qualche anno si finirà solo col descrivere la salma di questi famigerati, e diciamolo pure, valorosi soldatini.
Chissà quale intruglio adoperò Gutenberg per realizzare i suoi caratteri, credo pressappoco la lega odierna: piombo, antimonio e stagno. Il piombo per la duttilità l’antimonio per la resistenza, lo stagno come antiossidante, e talvolta un pizzico di rame per rendere fluida la lega.
Fino a qualche decennio fa alcuni giornali venivano ancora composti con i minuscoli caratteri mobili. Ricordo con nostalgia un personaggio, in una parola, grottesco, della tipografia napoletana: Don Pietro. Ma sì voglio immortalarlo: DON PIETRO riusciva a comporre un rigo di libro in 15 secondi (in media 50 lettere) quasi 4 bastoncini al secondo e questo per la durata delle giornate lavorative di una volta. In più componendo, si scioglieva in lazzi e scurrilità facete. La palpebra dell’occhio destro si era perpetuamente anchilosata nell’atto di chiudersi nelle ripetute attese delle scoppole in testa, del padrone, che a quei tempi si concedeva diverse angherie. Sappiamo bene come il mercimonio operaio riprese nell’immediato secondo dopoguerra. Lavoro intenso e paghe da fame.
L’ultima volta che vidi Don Pietro fu quando mi fece visita nella bottega di via Purgatorio nell’ottobre del 75. Era radioso. Aveva riscattato la sua dignità di lavoratore sotto l’egida dei sindacati e aveva finalmente maritato tutte e otto le figlie femmine. Si rammaricava solo che a nessuna di esse era toccato in sorte un marito tipografo. «Il vecchio padrone - mi disse quella volta - era un vero tiranno». Pochi diritti erano tollerati. La rivoluzione sociale del 1831 aveva perso, con le guerre, il suo mordente. Nessun Marx poteva garantire la scodella di minestra per un nucleo di dieci bocche. Né venivano riconosciuti i diritti conquistati a cavallo del secolo da movimenti come quelli di Metello di Vasco Pratolini. In ogni caso la parola d’ordine era: là sta ’a porta!
Poi con l’ironia che contraddistingue ogni napoletano autentico Don Pietro biascicò: «Ma oggi... povero padrone. Quello mio, attuale, non fa altro che piangere miseria. Veste dimesso, lesina sugli acquisti. E’ annichilato dai sindacati. E’ capace di ingerire il danaro che incassa se lo sguardo bieco o sornione di un dipendente gli piomba addosso. Povero padrone; la sua dichiarazione dei redditi e sempre inferiore a quella del suo garzone. Davvero una vita da cane. Immagina che, spesso, (sempre per evitare di vendere uno dei suoi quaranta appartamenti di Napoli o qualche acro di terreno di Afragola) chiede in prestito a noi dipendenti, ora i soldi per le sigarette, ora la mancia per il cartaio... Il Natale scorso - concluse Don Pietro - cadde in un tale stato di abbattimento che noi dipendenti pensammo di risollevarlo regalandogli un panettone con la bottiglia e la pazziella per la befana al suo unico figlio. Sai, lo facemmo spontaneamente. Non siamo mica padroni, noi!».
A mezzo di quegli esili bastoncini di piombo la stampa, che per trecento anni aveva essenzialmente asservito il libro, raggiungeva la sua totale affermazione. Il libro, appunto, era ormai perfezionato nella sua struttura fisica ed estetica. Era completo di frontespizio, mai visto negli incunaboli, tanto meno nei codici amanuensi; affermato pure il colophon o soscrizione: Finito di stampare coi tipi, ecc. Anzi il frontespizio rappresentava proprio l’emblema dei libri stampati rispetto ai codex. Le pagine ormai sempre numerate. Si affermò la segnatura, una sorta di ciak cinematografico, che aiuta ancora
oggi a riordinare progressivamente i quinterni in 32’, 16, 8’, ecc. (Il numero indica quante volte il foglio da stampa è stato suddiviso per ottenere la pagina). Frequentissimi i titoli dei capitoli, i sottotitoli, gli occhielli, le epigrafi, le dediche, ecc. Già era:in uso l’ex libris. Alla fine del 1700 il libro gia aveva l’aspetto attuale.

BREVE PANORAMICA SULLA DIFFUSIONE DELLA STAMPA NEL 1500

La patria della stampa a caratteri mobili, per antonomasia, è la Germania. Negli annali di storia della stampa, insieme a Gutenberg, figurano sempre altri due nomi: JOHANNES FÜST e PETER SHÖFFER. Füst era un avvocato di Magonza. che spesso dava ossigeno all’orefice per finanziare l’azienda. E così, ottocento fiorini oggi, ottocento domani, divenne socio dell’impresa che produceva nientemeno che scritti artificiali. L’avvocato, non.riscontrando subito i frutti dell’investimento, ben presto incominciò a lagnare i diritti di creditore. (Dice un mio caro torrese: Le società andrebbero compiute con membri di numero. dispari, inferiori a tre…). E accade sempre che tra i due litiganti un terzo goda. Ecco l’ultimo del trinomio: Schöffer, il quale, adottando 1’infallibile arma degli affetti, si appropriò ben presto di tutte le sostanze e le attrezzature impalmando la figlia di Füst. Potenza della mentula! Dopo altre peripezie, non escluso frequenti successi, Gutenberg capì che non si può essere artisti e plutocrati contemporaneamente, (oggi si direbbe: conflitto di interessi N.d.r.) e poiché i suoi manager dimostravano più interesse per il danaro che per la cultura, determinò che a.questo mondo non si può servire appunto Dio e mammona. Si rese conto che non era possibile ricavare 1’oro dal piombo in maniera nobile e lecita. Come tutti gli uomini geniali ed estrosi che non si piegano ai compromessi si affacciò alla vecchiaia sostenuto da una. pensione elargitagli da un arcivescovo. Morì il 3 febbraio 1468. Prima.che facesse capolino il XVI.secolo la Germania.aveva centinaia. di tipografie efficienti. Alcune città tipografe furono Magonza, Bamberga, Augusta, Bruges, Strasburgo, Colonia, Norimberga, Lubecca, ecc. Per dovere cronistorico citerò qualche nome di grandi stampatori. A Strasburgo JOHAN MENTELIN, a Basilea BERTHOLD RUPPEL, allievo di Gutenberg, ad Augusta GUTHER ZAINER, a Norimberga ANTON KOBERGER, a Colonia ULRICH ZELL, a Lubecca STEFFEN ARNDES. Magonza, naturalmente, fu la culla della stampa.
Alla morte del genero di Füst successe il figlio JOHAN SHOFFER, appassionato di archeologia produsse molti libri del settore. In Francia le città più sensibili all’arte nera furono Parigi e Lione. Una importante tipografia fu impiantata in seno al grosso centro intellettuale transalpino La Sorbona. La famosa Università si avvalse di valenti tipografi tedeschi come PASQUIER BONHOMME.
L’Inghilterra fu iniziata all’arte della stampa da un bizzarro signore di nome WILLIAM CAXTON, dopo escursioni culturali e viaggi in Germania impiantò la sua tipografia nell’Abbazia di Westministery. La Spagna ebbe in massima parte stampatori tedeschi immigrati, che operarono a Valencia, Barcellona e Saragozza. Tipografi famosi JOHAN
von SALZBURG, PAUL HURUS, ecc. Un aborigeno fu ARNAO GUILLEN DE BROCAR che operava in seno alla giovane Università di Alcalà.
Dulcis in fundo 1’Italia conclude questa odiosa sfilza di nomi, comunque molto, ma molto sommaria. Roma capitale della Chiesa, fucina della produzione di codex da sempre, maggiore mercato librario del mediterraneo con le migliaia e migliaia di codici scritti dai monaci amanuensi, disponeva, sin dagli albori dell’invenzione della stampa, il maggior numero di libri stampati, rispetto alle altre grandi città europee. I migliori stampatori italiani furono, come ho già etto, i veneziani, ma Roma ricorda due tipografi famosi: UDOVICO DEGLI ARRIGHI e ANTONIO BLADO A Venezia, però, i primi stampatori furono tedeschi: JOHANN e WENDELIN VON SPEYER.
Aldo Manuzio, più volte citato, fu il genio dell’editoria libraria del 1500. Iniziato alla cultura dall’amico Pico della Mirandola, all’età di 40 anni aprì
a Venezia la sua stamperia, la quale si mantenne onorevole per oltre un secolo. Alla sua morte l’eredità passò prima al suocero Andrea Orsolano, quindi a suo figlio Paolo, infine ad Aldo il giovane, figlio di Manuzio. Gli eredi, però, uomini di cultura, ben lungi dall’idea di imbrattarsi le mani, lasciarono la stamperia in mani disposte a impeciarsi, ma inesperte. Così la tipografia chiuse nel 1590. Altri editori veneziani furono FRANCESCO MARCOLINI e GIOVANNI GIOLITO DE FERRARI.

 

L’uomo ragionevole si adatta al mondo; l’irragionevole
insiste nel tentare di adattare il mondo a se.
Quindi, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole
.
«Uomo e superuomo» G. B. Shaw

CAP. III

VEICOLI DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE

La grande storia vera è quella delle invenzioni.
Sono le invenzioni quelle che provocano la storia,
sul fondo dei dati statistici, biologici e geografici.

«Batons, chiffres et lettres» Raymand Queneau

I PRIMI «STAMPI» XILOGRAFIA, CALCOGRAFIA, ACQUAFORTE

Uno dei più antichi sistemi di stampa del mondo è quello cosiddetto xilografico. La matrice, come già ho accennato, è costituita da una tavoletta di legno su cui viene inciso a mano, col bulino, una immagine, delle lettere o altro. Si legge sovente nelle storie della letteratura che tale antico sistema fu inventato dai cinesi nel VII secolo. Le xilografie illustravano i libri degli amanuensi e continuarono ad apparire nei libri stampati fino alla meta del 1800, sino a quando, lo ripeto, fu scoperta la fotomeccanica, altrimenti detta fabbricazione di cliché. Furono realizzate xilografie a più colori sovrapposti, ed alcune eseguite addirittura con tecniche chiaroscurali di eccezionale finezza da non aver davvero nulla da invidiare alle moderne elaborazioni fototecniche; quest’ultime forse più, come dire, ripetitivamente perfette, grazie ai mezzi, ma senz’altro inferiori alle prime come valore artistico. L’esigenza di moltiplicare le immagini fu pressante.
I caratteri di piombo non erano sufficienti ad estrinsecare alcuni concetti che sono e saranno sempre di carattere visivo. Fu sperimentata, ad esempio la calcografia, inventata nel 1450 da TOMMASO FINIGUERRA, parallelamente ai caratteri di Gutenberg. La tecnica consiste nell’incidere col bulino delle lastre di metallo, ma in negativo, in maniera che, all’atto dell’impressione, l’inchiostro, depositato nei solchi, aderisca alla carta con gradevoli caratteristiche di morbidezza. Con buona pace di Gutenberg, questo sistema di produrre uno stampo costituiva già allora il rudimento della moderna stampa rotocalco che sostiene, oggi, forse il 30% del mercato grafico generale. Tratterò ampiamente l’argomento più avanti. Solo nella metà del secolo XVIII la calcografia si traduceva in rotocalco, grazie ai componenti chimici fototecnici. Fu scoperto che collodio e bicromato divenivano sensibili alla luce, così
sulle lastre di metallo veniva spalmata una colla mista a bicromato di potassio. Sovrapponendo alla lastra presensibilizzata una garza nera che fungeva da retino (ma in questo caso produceva alveoli e non punti a rilievo) insieme alla maschera costituente il disegno, la si esponeva al sole. Durante lo sviluppo la colla si scioglieva nelle parti non colpite dalla luce. Sulla lastra rimaneva la forma della figura copiata. Dopo la morsura dell’acido, si otteneva una matrice composta da una miriade di alveoli, al contrario del retino del cliché, costituito da migliaia di puntini in rilievo. Quindi: impronta digitale come cliché tipografico, sudore dai pori come rotocalcografia. Furono dei pittori: DURER, tedesco e il nostro PARMIGIANINO a sperimentare un’altra tecnica per riprodurre illustrazioni: 1’acquaforte. Eravamo intorno al 1500. Gli artisti stendevano sulla lastra di metallo una resina speciale e provvedevano a scalfire la vernice indurita senza intaccare il metallo. A disegno ultimato si immergeva la lastra nell’acquaforte (acido nitrico) perché corrodesse le parti scoperte da vernice. Una volta ripulita la lastra da tutti i residui si procedeva per la stampa. Le matrici calcografiche e quelle ottenute con l’cquaforte non presentavano sostanziali differenze, sebbene ottenute con tecniche diverse. Quando lacquafortista, però incideva le lastre procedeva ad una vera e propria fase creativa. Impiegava tutto lingegno e l’estro nel comporre il disegno graffiando la vernice. E’ da notare, però, che a differenza delle altre tecniche ortodosse, non vi era malta possibilità di correzioni e modifiche.

IL PROTO NICOLA

Con 1’acquaforte, aguardiente, alcool o che dir si voglia, voleva risolvere i suoi problemi Nicola, un anziano tipografo napoletano che conobbi una ventina d’anni or sono all’ingresso di uno stabilimento tipografico campano. Era quella che si suol dire: una fredda mattinata di febbraio cinerea di bruma. S’intravedeva la figura curva di Nicola che, malgrado il primo dilucolo, compiva il gesto ripetitivo di portarsi la bottiglia alle labbra. Lo osservavo incupito e sentivo le estemità inferiori gelare nella guazza, quando il comando automatico provoco al cancello il suo rigoroso dirugginio.
Qualche minuto dopo Nicola mi esibiva le foto della consorte e dei tre figliuoli in età scolare, che diceva di adorare. Aggiunse che quel mattino aveva fatto storie con la moglie, forse per via del bere, ed era angosciato perché i ragazzi avevano assistito all’alterco. Quando il custode della fabbrica mi favori l’ingresso, Nicola si era gia dileguato nella nebbia trascinando una gamba. L’uomo mi prese sottobraccio e mi suggerì di non far caso a quello che diceva Nicola. Mi assicurò che una volta era il proto dello stabilimento grafico. Il custode si fece scivolare la mano manca sulla guancia canuta come per celare il disagio. Subito ciancicò che era stato adibito alle pulizie. Concluse che erano trascorsi dieci anni, ormai, da quel maledetto giorno che lo volle alla guida della sua Fiat 128, peraltro nuova fiammante, la prima ed ultima auto nuova della sua vita.
Quando la macchina andò a incastrarsi sotto la cabina di un autotreno sulla tortuosa Napoli-Pompei, la moglie e i tre figli morirono sul colpo. Nicola fu superstite per un vero miracolo. Miracolo? I giudici lo condannarono a... vivere insieme all’acquaforte. Quando nel ’70 tornai da Colonia, da emigrante, per mettere su la tanto agognata bottega a Torre del Greco, mi recai da Nicola. Certo: lo prendevo con me, giammai come spazzino, come proto. Bevevo con lui, se necessario, a costo di rigirare a bettola la tipografia nascente. Non sei solo Nicola, sei innocente. Sei in gamba, sai, ilmiglior proto di Napoli. Siamo intorno a te Nicola, non ti vogliamo spazzino. Siamo i napoletani di sempre, dimentichi il nostro cuore, la nostra solidarietà? Lancia via la bottiglia, ti vogliamo bene.
Il custode, quando mi avvistòsul ciglio del viale, abbasso gli occhi. Lungo la strada, nella mia sbandellata Fiat 600 arsa dal solleone, mi si chiuse la gola. Mai gli occhi bassi di un uomo avevano così
bene traslitterato lalfabeto. Immaginai inequivocabili le parole. Aggiunsi nel mio pensiero: forse Nicola era gia morto da un pezzo.

LE NUOVE SCOPERTE

Sino alla fine del 1800 nulla di nuovo accadde per emendare in modo sostanziale la stampa a caratteri mobili e le tecniche grafiche parallele. L’arte tipografica, espletata essenzialmente tramite la raccolta manuale dei bastoncini di piombo dagli scomparti delle casse di legno, aveva permesso la diffusione della cultura ancora soltanto tra le classi superiori, le uniche a conoscere il latino e litaliano. Ad allargare lindirizzo della cultura in Italia è tata non già solo la diffusione dell’istruzione relativa alla legge Coppino ed altri provvedimenti, ma l’evoluzione delle arti grafiche grazie, finalmente, alle nuove scoperte. Il periodo che va dal 1800 in poi è ricco di innovazioni tecniche e non solo per l’arte tipografica, d’altra parte.
L’arte nera, meccanizzata ed automatizzata, sfociava a mo’ di estuario nella vastità del popolo in continua espansione, attraverso la realizzazione di opere massicce relative al sapere ed all’informazione. Nacque in quel periodo il giornale da rotativa. Furono realizzati i primi lessici, le prime raccolte antologiche ed encidopediche, non certo facilmente riproducibili, bisogna riconoscere, con l’al- lineamento certosino dei rudimentali soldatini di piombo e con la insufficiente produzione di carta fabbricata a mano. Ma solo agli albori de1 XX secolo si è raggiunti 1’Everest della diffusione della stampa come meccanizzazione dell’alfabeto, tanto che la letteratura, di fronte ad un nuovo pubblico, ha modificato il contenuto e trasformato o sovvertito l’orientamento. Arte letteraria ed informazione sono penetrate in tutte le fasce sociali. Il linguaggio aulico e ricercato ricco di virtuosismi strategici, frutto, secondo me, di un allenamento assiduo ed estenuante, resta quello dei filosofi, degli scrittori e dei poeti di puro stampo intellettuale che, spesso, grazie a sperimentalismi e sovvertimenti garantiti dalla fama del proprio nome, si guadagnano 1’attributo di capiscuola, provocando così, una pluralità vastissima di correnti artistiche.
La diffusione della stampa ha creato un’altra esigenza, quella di classificare un linguaggio fedele alla realtà sociale di massa per consentire lo smaltimento della grossa produzione destinata proprio al popolo, nel consumismo fino al collo. Mi riferisco alla letteratura cosiddetta di terz’ordine, il fumettone, la novella da settimanale femminile, insomma ciò che viene detta in gergo zavorra letteraria, ma si tratta, appunto, di un prodotto di largo consumo, che la massa mastica facilmente. Attenzione a non far confusione con gli sperimentalismi moderni ricchi di voluti solecismi, anacoluti, dialettalismi ecc. che, alla fine, sono entrati nel vocabolario per il loro largo uso.
L’evoluzione della stampa, grazie alla notevole meccanizzazione del XIX secolo, è intesa pure come rivoluzione culturale, per così
dire, demotica, al di là delle grosse riforme cattedratiche di un De Sanctis, di un Croce, di un Flora. La terza età delle arti grafiche ha visto la luce negli anni 80 con l’informatica. Lo stile letterario, col suo valore precipuo di espressione univoca, inteso come tecnica artistica di estroversione o trasfigurazione di pensiero e sentimenti viene compromesso e svalutato non solo dai nuovi mezzi concorrenti come il cinema e soprattutto la televisione, ma modificato in sé stesso, nelle viscere, dai sistemi creativi moderni relativi ai calcolatori, che escludono parzialmente non solo la priorità dell’opera umana, ma propongono una concezione estetica e di contenuto prefabbricato o aleatorio o addirittura schematizzato e ripetitivo. Tutto avviene in seno al gioco arido e asettico dei calcolatori che la nostra esterofilia fa chiamare computer. Diacronia, cronologia, posposizioni, scelta lessicale, inventiva, creatività scaturiscono da un cervello artificiale, specie nel campo giornalistico. Il computer stabilisce la forma e l’ampiezza delle notizie in base a moduli predeterminati per farla in barba ai costi.

LA MECCANIZZAZIONE DELLA STAMPA

Ma come avvenne la meccanizzazione della stampa gutenberghiana? FIRMIN DIDOT (famoso tipografo che determinò la metrica tipografica e finanzio la prima macchina automatica per la carta di ROBERT) riprese gli esperimenti dello scozzese WILLIAM GED di Edimburgo che ideò il sistema per realizzare una copia della pagina di caratteri composti, onde poterla riutilizzare a favore di eventuali ristampe in maniera da riadoperare i caratteri per altri lavori. Il sistema consisteva nel formare una impronta di gesso sulla superficie dei caratteri composti in pagina. La matrice ottenuta, negativa, serviva per ricavarne la seconda, positiva, dalle caratteristiche di stampabilità pressoché identiche alla pagina composta di caratteri mobili. Il metodo, oggi in disuso per la stampa, prende il nome esplicito di stereotipia. Da questo sistema si ricavò quello, in largo uso nei decenni passati, per la fabbricazione dei timbri, oggi compromesso dalla tecnica fotopolimerica (vedi paragrafo specifico). Stereotipico era pure il sistema usato in passato da tutte le officine dei quotidiani per ottenere le matrici curve monoblocco delle rotative, ricavate dalla pagina di piombo assemblata con cliché zincografici.
Finalmente il vecchio torchio di legno fu sostituito con torchi in lega, capaci di stampare composizioni tipografiche più estese. Poi fu la volta del famoso torchio meccanico, costruito da FEDERICO KOENING e ANDREAS BAUER, progenitori dei costruttori di macchine tipografiche. Il nuovo torchio col la battuta di stampa automatica fu presto sostituito da una nuova macchina dove la stampa non avveniva più tramite contatto piano, ma attraverso un cilindro su cui aderiva il foglio per mezzo di pinze. Il cilindro, ruotando su se stesso, vedeva scorrere sotto il suo punto di contatto le composizioni di caratteri bloccate su di un carrello mobile che consentiva la successiva stampa con un andirivieni.
Era nata la prima macchina tipografica, la quale, sebbene rudimentale, aveva le caratteristiche essenziali e soprattutto il principio di funzionamento identico a quello delle macchine tipografiche, via via perfezionate ed ulteriormente accessoriate, che hanno dominato il mercato fino al secondo dopoguerra. E ancora ruotano in migliaia di tipografie artigiane, come quella negletta di Via Purgatorio.
Nel 1868 fu inventata la rotativa, costruita per il giornale Times, la quale produceva già allora oltre diecimila giornali l’ora. Una cifra, come si suol dire, da capogiro, se si considera che fino a qualche decennio prima i torchi non consentivano tirature superiori a mille copie giornaliere di una sola forma. L’alta velocità di stampa fu possibile perché la rotativa, come tutte le macchine moderne tipo offset e rotocalco a bobina, sfruttano il principio della ruota, non sono ostacolate, cioè, dall’arresto, sia pur fulmineo, e dell’andirivieni del carrello delle macchine tipografiche. Determinante per le rotative fu 1’invenzione della stereotipia di GED, poiché il principio fondamentale di queste macchine è proprio la stampa cilindrica o semicilindrica, quindi la possibilità dell’immissione della carta continua a bobine. Le macchine, una volta abbrivate, non subiscono più nessuna fase di rallentamento.
Proprio come la corsa dell’uomo verso il danaro che qualcuno definisce: lo sterco del diavolo.

LE LEGATURE ALDINE

Prima di concludere 1’argomento delle nuove scoperte mi diverte farvi sapere che i libri copiati dagli amanuensi venivano forniti al lettore quasi sempre a fogli sciolti, o uniti insieme alla meglio. E non è solo un pretesto per chiacchierare un po’ sullo sviluppo dell’editoria. Ciò accadeva perché 1’antica arte della legatoria era scissa da quella della scrittura o della stampa. L’acquirente del libro, se lo riteneva opportuno, lo faceva legare secondo il suo gusto o la qualità desiderata. E’ proprio vero che le mode ritornano. Dopo oltre cinque secoli di stampa e interi millenni di scriptorum, le case editrici moderne adottano lo stesso sistema con le numerosissime pubblicazioni a dispense. Chissà se il mio amico Natale il legatore sa che 1’arte della legatoria risale a Giulio Cesare. In passato la legatura di un libro rappresentava, in molti casi, 1’esecuzione di una vera opera d’arte. Solo nel XVI secolo Aldo Manuzio, primo genio editoriale italiano, ideò le collane economiche fissate in copertine standard e denominate le semplici legature aldine, di cui molti cultori del libro (o forse bibliomani) disapprovavano. Questo dimostra che la fissazione oggettuale non è un fenomeno moderno. Spesso l’aristocrazia amava trasformare le proprie dimore in un tripudio di arazzi, porcellane, legni intarsiati e favolose rilegature, specie all’epoca barocca. A prescindere dall’eccezione di Manuzio solo nel 1930 nacque la legatura meccanica automatizzata che determinò, in un certo senso il declino dell’arte della legatura classica. Molte officine grafiche campane usufruiscono della legatoria annessa, sebbene nel Napoletano si pubblichi poco. Per le piccole e medie tirature di noi artigiani provvedono molte legatorie dislocate intorno a Spaccanapoli e all’Università, diverse delle quali trasferitesi in aree circummetropolitane più vaste, come, d’altra parte, molte tipografie incrementate. Questi complessi, sia pur di numero esiguo, napoletani o dei centri provinciali economicamente sviluppati e più densi di popolazione, come la mia Torre del Greco, Portici, Torre Annunziata, la stessa Salerno, ecc., preferiscono avere legatoria e cartotecnica annesse, che provvedono all’allestimento e alla manifattura di stampati relativi all’editoria e, in ispecial modo, ai prodotti commerciali di largo consumo. Lo sviluppo editoriale dell’inizio del secolo ha favorito le industrie grafiche, anche grazie all’evoluzione del settore cartario, con l’uso della pasta di legno che ne aumentò la disponibilità riducendone i costi, a discapito, chiaramente, della qualità. ’O sparagno nun e mai guaragno, diciamo in gergo.
La produzione raggiunse, qualche decennio fa, livelli mai toccati. Ancora oggi tutti gli stampati commerciali o editoriali non destinati alla lunga conservazione vengono impressi sulla carta fabbricata con pasta di legno. Negli anni ’50 rifiorirono molte case editrici in tutta Europa per rimpiazzare le centinaia distrutte nel corso dell’ultimo conflitto mondiale. L’editoria napoletana ha conservato solo la fama di un tempo, quella relativa al primo giornale italiano con disegni illustrati; L’Arlecchino, uscito nella metà del secolo scorso, o al primo rotocalco d’Italia: Il Mattino Illustrato, o al primo periodico a fumetti: Il Corriere dei Grandi.

LA CONTRAFFAZIONE

Vediamo ora come nacque il Copyright. Il problema che assillava i primi produttori di libri fu il plagio, eventualmente perpetrato più allo stampatore che all’autore. In Italia fu naturalmente Venezia ad adottare dei provvedimenti a favore della protezione degli stampatori contro edizioni contraffatte. Restava la difficoltà di far rispettare queste legittime regole oltre frontiera. L’importanza della stampa era ritenuta tale che lo stampatore aveva priorità sull’autore, anche perché la paternità di opere classiche era inconfutabile; inoltre gli intellettuali dell’epoca capaci di scaturigini si contavano sulla punta delle dita, e nessuno osava firmare 1’opera di un altro. Il Copyright Act inglese del XVIII secolo pose in parte fine a certe illegalità.
Un’altra legge francese, sembra della fine di quel secolo, proteggeva questa volta anche l’autore per appena due anni dopo la sua morte. Avevano fatto lo sforzo. I tedeschi, ma qui cade bene i teutonici, emanarono un’altra legge che li proteggeva oltre trent’anni dalla loro dipartita. Ma ciò che pose fine definitivamente allo sconcio del plagio fu, come molti sanno, la Convenzione di Berna, che riconosceva il Principio Internazionale dei Diritti d’Autore. E finalmente nel 1950, e questa è storia contemporanea, 1’UNESCO promosse la Convenzione Universale del Copyright, esclusi i paesi dell’Est.
Ed ora, ahi, ahi, ahi, mi tocca sfiorare una nota dolente. Le parole contraffazione, quindi illegalità, truffa, plagio o che dir si voglia, chiamano in ballo i napole
tani. Questo modo antico di sbarcare il lunario, oggi, bisogna riconoscere, degenerato, ha origine lazzaronica, nato dall’esigenza di sfamarsi. I lazzaroni, come è noto, erano una torma di emarginati senz’arte ne parte, immigrati a Napoli da ogni dove. Dal Vicereame alla Repubblica le cose per il popolo napoletano proletario non sono cambiate, anzi, la televisione gli ricorda che se non spende, o va in fuoriserie, o fa le vacanze e il fine settimana è un uomo da niente, che non serve, oggetto di scherno da parte del condominio (o dell’agglomerato di bassi fatiscenti) e ce ne sono ancora molti nel centro storico e in tutta la provincia povera. La Campania progredita maschera bene questo squallore. E’ essenzialmente da questi siti, in solco binario del consumismo che si è rinnovata la piaga del disorientamento generale. Oggi, più che mai, essere povero è una vergogna, una umiliazione, in un mondo di ricchi. Una volta i poveri erano moltissimi, e la gente si sentiva dignitosa nella miseria; si riteneva vicina a Dio.
Oggi sono molti gli agiati, proprio come a New York, e i poveri sono solo emarginati, da ghetto. Anche se non giustifico niente e nessuno posso assicurare che, a prescindere dalle estorsioni, dal contrabbando, che si riallaccia ai traffici con gli angloamericani, o la droga, piaga planetaria, in Campania, ai giorni nostri, la contraffazione sfama migliaia e migliaia di persone, in più accelera il successo di certi marchi con la maggiore diffusione. Non certo per questo, però, va sostenuta o favorita. Da noi la contraffazione interessa i discografici e i videografici o la moda, più che gli editori.

SCARAFONE CONTRAFFATTORE PER AMORE

Incontrai Giorgio Scarafone all’ingresso degli scavi di Ercolano, 1’estate scorsa. L’appellativo di scarafone si giustifica dietro la sovrapproduzione melaninica della sua epidermide. Egli, però, si difende dicendo che i1 suo colorito è consone alla sua professione di tipografo, data la denominazione di arte nera attribuita alla stampa. Giorgio mi narrò, quel giorno, che era costretto, negli ultimi tempi, a lavorare, ironia della sorte, come un negro, nella sua bottega artigiana, non certo per essere coerente con i nostri tempi, cioè per avidità di danaro, ma perché, diagnosticato da molti specialisti come affetto da sindrome da ipersessualità cronica, riusciva ad ottenere adesione dalla consorte, nei continui, postulati rapporti, solo nei casi di congruo incasso quotidiano. «Quando le macchine stanno ferme, caro Mari, me la vedo brutta. E dire che avevo trovato il sistema per fregarla, in tutti i sensi... La sera portavo a casa due o tre assegni finti, sai quelli che stampiamo a scopo pubblicitario. Dove mettevo due milioni, dove cinque, per un mese intero, Marittiello mio, fu Sodoma e Gomorra! Una bella mattina quella stroscia che fa? Porta gli assegni in banca... Povero me! Mi costringerà a stampare i soldi falsi, un giorno!».