PRIMA PARTE
Questo libro in
edizione cartacea del 1998 fu concepito in formato 16° con 220 pagine
più copertina. Nel sito la versione da leggere è di 455 pagine. In
questa formattazione Word, per risparmiare carta, è stato impaginato
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accento mancante, qualche trattino in più, qualche spazio superfluo,
ecc, si prega di scusarmi.Il libro è stato scritto e stampato di
pugno dall’autore nel 1989. Dopo 13 anni è ancora attuale.
Tuttavia, là dove ce n’è stato bisogno è stato apportato qualche
ritocco. Noterete pure qualche precisazione N.d.r.: nota del
redattore.
Luigi Mari
Da Magonza a Torre del Greco
Viaggio nelle
arti grafiche con soste nel libro della vita
Un libro può essere divertente
con molti errori,
o può essere noiosissimo senza neanche un’assurdità.
Oliver Goldsmith
STORIA, TECNOLOGIA POLIGRAFICA, CULTURA, ANEDDOTICA, DIVAGAZIONI,
PROBLEMATICHE, NELLA PLAGA VESUVIANA
La stampa offset e quella rotocalco, non altro che
l’evoluzione di due antiche tecniche in letargo: la litografia e la
calcografia, hanno quasi soppiantato la scoperta gutenberghiana.l’informatica,
applicata ai sistemi planografici, trionfa vittoriosa, ma preclude il
lavoro a misura d’uomo. II cervello umano viene in buona parte
rimpiazzato. In più le macchine-robot non sbagliano quasi mai, non si
angosciano, né pero, sanno amare. Lavoratore comune non servi più,
altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te, meno costosi, per nulla
esigenti in materia di diritti. Sventurati artigiani in genere;
bottegai tipografi campani, sopravviverete sostenuti solo dalla poesia
del piombo fuso e dal nostrano proverbiale nutrimento d’aria, sole e
canzoni? Care botteghe fuligginose, adattate negli stambugi nascosti
dei dedali mai risanati della Napoli povera di delbalziana memoria, o
nei tuguri addossati nelle cupe traverse dei numerosi centri urbani
abbarbicati alle pendici del Vesuvio, o quelli che vanno da Capo
Miseno alla Punta della Campanella, o altri ancora dell’entroterra,
fino al Casertano, all’Avellinese, al Beneventano, addio! E’
destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba subire
nuovi malesseri? II benessere edonistico dà
l’illusione di una migliore
qualità della vita; in realtà il consumismo coercizzato dalla
«grancassa», alla quale le arti grafiche si asservono in misura
massiccia, risponde essenzialmente ad una inferma domanda di
dipendenza oggettuale-alimentare. Ma il vero benessere, l’amore,
cioè la salute mentale, quale società, quale reame, quale cultura l’ha
mai garantita o la garantirà mai? II domani, intanto, viene deciso
prima sulle nostre ginocchia di madri, dalle nostre figure di padri.
Possibile che l’uomo non trovi una strada finalmente idonea per
scardinare l’antica angoscia del suo insoluto esistenziale, vale a
dire la devastante consapevolezza del proprio destino di mortale,
narcotizzata, invece, con reazioni difensive diversificate e
contrapposte, dall’annichilimento mistico alla criminalità?
A tutti gli autori mancati, colti o analfabeti,
e a tutti i tipografi del mondo, compresi gli
operatori offset e rotocalco, specie del Nord
Italia, verso cui, nel lavoro, solo apparentemente,
dò l'impressione di non nutrire molta empatia,
un forte abbraccio.
INDICE
Premessa
Introduzione
CAP. I
LE ORIGINI DELLA SCRITTURA
Osservazioni preliminari
La scrittura
L’origine dell’alfabeto e i napoletani
L’alfabeto e il popolo vesuviano
L’alfabeto
L’Alfabeto in crisi Il piombo fuso in crisi
Napoletanita in crisi?
Alfabeto, grafia e stili ieri e oggi
Tipi di scrittura Dallo stemma all’ideogramma nella grafica
CAP. II
GLI AMANUENSI E LA STAMPA A CARATTERI MOBILI
Lo scriptorum
on di solo amanuense
Se Gutenberg non fosse nato
Ma Gutenberg fu I caratteri di piombo e il vecchio «padrone»
Breve panoramica sulla diffusione della stampa nel 1500
CAP. III
VEICOLI DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE
I primi «stampati »: xilografia, calcografia,
acquaforte
Il proto Nicola
Le nuove scoperte
La meccanizzazione della stampa
Le legature aldine
La contraffazione Scarafone, contraffattore per amore
CAP. IV
MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE
La cultura napoletana alle origini
Il tipografo vecchia maniera
I caratteri di piombo fuso stampano 1’ultimo cuore di Napoli
La Linotype
Mastro Luigi Ficasecca
La progettazione Le arti grafiche (linfa della vecchia Napoli)
Il lavoro delle botteghe La cultura napoletana nel medioevo amanuense
Composizione tipografica in pratica
CAP. V
GLI STAMPATI TIPOGRAFICI
I lavori commerciali del popolo vesuviano
Gli stampati «della strada»
Gli stampati moderni
Le pubblicazioni artigianali
Un tipografo di campagna
I giornali artigianali locali
Le mattizie di bottega
CAP. VI
AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI
Giovanni Paperino, tipografo sventurato
Il cliché di zinco
Il retino
I tipografi dipendenti nel Napoletano
Giorgio, avanguardista autentico
La stampa di foto a colori
La moda offset
Cenni sul rotocalco
La cultura medioevale all’apice dei codex e qualche
divagazione
La serigrafia
Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra
La flessografia
Le stereotipie Paolo Fringuelli, giornalista sui generis
CAP. VII
LA CARTA E GLI INCHIOSTRI
La carta
La fabbricazione della carta
I tipi di carta
Mario Esposito, il Robespierre della carta
Caratteristiche cartacee
La cultura napoletana prima di Gutenberg
Inchiostri grafici e loro uso
Io, garzone tipografo
CAP. VIII
I VARI SISTEMI DI STAMPA VISTI DA VICINO
La stampa tipografica
Artigianato obsoleto
Le rotative stereotipiche
La cultura napoletana ai tempi di Gutenberg
Litografia, madre del sistema offset
Le macchine offset
L’offset asettica
Il procedimento offset
Le rotative offset Il sistema rotocalco e lo snob
Le macchine rotocalco Rotocalco, ottimo business
CAP. IX
I VEICOLI DI STAMPA MINORI
La stampa flessografica
Le macchine flessografiche
Il tipografo artigiano e 1’avventore
La serigrafia nel suo largo uso
La stampa nel secolo dei lumi napoletano
Macchine per la stampa serigrafica in piano
L’oggettistica serigrafica nel caratteriale vesuviano
Le macchine per la stampa di oggetti
La stampa serigrafica
La cartaria Genova
CAP. X
L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE
Osservazioni preliminari
Arturo, tipografo erudito
Le nuove tecniche
Progettazione grafica moderna
Il manifesto
La cultura napoletana in piena era della carta
Il prezzo del progresso
Il sogno del giornalismo
Il concetto dell’amore, tema centrale della letteratura
La pubblicità su scala nazionale
CAP. XI
LAVORAZION1 AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE
La legatoria
La stampa a caldo
Totonno pallappese, tipografo iellato
La cartotecnica
Le invenzioni... culturali
I timbri
Le targhe
Il linguaggio oscuro nella letteratura
CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA
RIFLESSIONE
I I libro, a
braccetto con l’evoluzione della stampa, ha raggiunto l’apice dell’affermazione
nel secondo dopoguerra. Adulto ed insostituibile strumento di
diffusione della cultura, è invecchiato dietro i concorrenti
mass-media di natura elettronica. Nella sua obsolescenza rimane un
mezzo comunicativo a priorità passiva. Tutti possono esprimersi
attraverso il cinema domestico, il teatrino rionale, le riunioni
scolastiche e via dicendo; ma, allo stato, rimane proporzionalmente
esiguo il numero di autori, rispetto ai potenziali cinque miliardi di
lettori. Quando il capo diventa canuto o glabro, ogni uomo si ritrova
nello stadio della Recherche proustiana, con un vulcano di
reminiscenze che spingono in superficie. Grande stimolo creativo ha la
componente nostalgica che favorisce le scaturigini di tutti i libri di
memorie. In fondo che cos’è la nostalgia se non l’elegiaca
malinconia relativa all’insoluto esistenziale per l’avanzare
inesorabile della senilità e la prossimità irreversibile del
decesso?. In pratica ci si rammarica perché si rivorrebbe la
giovinezza più del periodo in esso vissuta. Non vi è dubbio che
tutti gli esseri cogitanti, di ogni rango, fino a quello tribale,
custodiscono dentro di se esperienze inedite ed originali. Molti
autori antichi sono passati alla storia sol perché rivelati da un
lavoro di ermeneutica, pur componendo zavorra contenutistica ed
estetica. II letterato moderno insiste sul dottrinario, sul purismo,
emarginando l’espressione popolare. Dopo Croce vige il terrore della
forma. II libro ritorna lo strumento di pochi iniziati che hanno
finito per leggersi tra di loro, con tutto il rispetto per le loro
opere, spesso capolavori. Questo lavoro è dedicato a tutti gli autori
mancati, eruditi o mediocri, vittime di una sorte ingrata, che non li
ha voluti non già filosofi, scrittori o poeti di professione, ma
nemmeno modesti bottegai tipografi, come il sottoscritto.
Luigi Mari
PREMESSA
Tra i miei sogni nel
cassetto c’è stato sempre il desiderio di cavar fuori: un manuale
divulgativo, casareccio sulle Arti Grafiche; un libello sui sentimenti
umani; una trattazione socio-ambientale sulla tipografia campana; un
revival sulla cultura napoletana strettamente connessa all’arte
scrittoria, prima, alla stampa tipografica, poi. Troppo dispendioso
per un bottegaio tipografo, anche se autoeditore, il quale, infatti,
oltre a rimetterci fatica, carta ed inchiostro, nemmeno spera
riconoscimenti e plausi, visto il disinteresse generale per certe
iniziative, quando vengono proposte da illustri sconosciuti.
Giocoforza ho ripiegato con un solo tomo. Che Dio mi guardi almeno
dalla lapidazione tramite ortaggi! Ed a proposito di certe espressioni
retoriche o banali, non esclusi anacoluti voluti, nel testo, che per
lo più sfoggia dottrinarismi settoriali e sforzi dialettici, se ne
noterà una presenza frequente, allo scopo di mettere a cimento la
seriosità di certa analisi scelta letteraria sostenuta da alcuni
sedicenti scrittori, come me non professionisti. Non rinuncio, quindi,
al buon umore, che si coglie cosi bene, sotto il Vesuvio, nel doppio
senso erotico, accostandomi talvolta ad un Henry Miller o a un Gide.
II lavoro, fuori dall’ossatura tecnica, è pregno di argomenti sin
troppo seri; è bene che di tanto in tanto la bilancia dello
Eros-Thanatos penda sull’istinto di vita. Riguardo il Thanatos, fa
eco, in alcuni punti della parte letteraria, l’assunto dello studio
sull’insoluto esistenziale magistralmente esposto dal geniale
studioso Luigi De Marchi nel suo favoloso libro «Scimmietta ti
amo»; teoria che, secondo me, rappresenta l’unica, vera chiave
per accedere nell’oscurità dell’origine dei malesseri dell’umanità.
Senza la consultazione dei libri citati in bibliografia il testo che
segue avrebbe presentato delle lacune per quanto riguarda i dati
storici e biografici dei personaggi, e le notizie circa le innovazioni
e le avanguardie tecniche sconosciute ad un modesto bottegaio
tipografo, per quanto erudito possa ostentare d’essere, e per quanta
esperienza diretta possa accumulare nell’autarchia del negozio e dai
contatti saltuari con l’ambiente industriale settoriale locale. Le
compulsazioni sono passate, comunque, sotto un senso critico
personale, il meno possibile pedisseque. Ho creduto, con questa
piccola fatica, dalla penna alla legatura del tomo, lanciare un
granello d’amore per le arti grafiche nel mare del sociale, data l’esclusione
dello scopo di lucro. Senza dubbio vi sarà chi non riuscirà a
cogliere il significato traslato del tema principale postulato
ripetitivamente nel corso del lavoro. Penserà, costui, che io aneli
il riflusso delle carrozzelle ed il ritorno dei focolari con gli alari
arrugginiti, a causa, eventualmente, del mio acutizzarsi caratteriale
della componente nostalgica. II tema ricorrente nel lavoro, infatti, e
un antiprogressismo ostinato, a difesa delle arti applicate a misura d’uomo.
So benissimo che se le arti grafiche non avessero avuto lo sviluppo
massiccio e repentino in atto, anche dietro migliaia di posti di
lavoro (il che non avrebbe guastato), non si sarebbe potuto certo
tener testa alla massiccia domanda relativa al megaprogresso in
stretta connessione con l’irrefrenabile sviluppo demografico
planetario. II problema sta altrove. Ho utilizzato le arti grafiche
quale attività umana creativa, come paradigma di tutte le attività
catartiche affini, sottolineando l’estrema, nociva
industrializzazione di esse, dietro il paravento delle necessità
produttive, non solo, ma soprattutto denunciando la perniciosa
sovrapproduttività quando questa intacca l’equilibrio psicologico
generale dietro il meccanismo infermo della dipendenza consumistica.
La natura dell’uomo vuole che un maggiore rilassamento del già
preistorico insoluto esistenziale avvenga più nella fase di desiderio
che nell’appagamento totale e ripetitivo che presto porta a
spossamento e saturazione. La qualità della vita non si misura con
gli eccessi quantitativi oggettuali, con il traguardo del possesso, ma
con idealismi astratti, come, ad esempio, la realizzazione personale
attraverso il lavoro specializzato, fuori dalle corse spasmodiche nel
solco del potere che non approdano a nulla di veramente salutare se
non all’illusione di un traguardo pari a quello che s’illude di
raggiungere chi vuole spegnere il fuoco con la benzina. Affatto
semplicisticamente Leopardi recitava in chiave retorica: I fanciulli
trovano il tutto nel nulla, gli adulti il nulla nel tutto. Se no come
si giustifica la proverbiale solitudine dei ricchi, dei re, dei boss,
nel ristretto, squallido ambito elitario asettico, dove aleggia sempre
il timore della detronizzazione, quindi l’ossessione della perdita
di quello specioso sostegno psichico anti insoluto esistenziale, cosi
faticosamente e quasi sempre non molto onestamente accaparrato.
Antiprogressista sì, quando scopro tangibilmente che molti rimedi
sono risultati peggiori dei mali.
INTRODUZIONE
Nel 1922 usci la prima
edizione del famoso romanzo “Ulisse” di James Joyce. II libro,
come molti sanno, e un po’ il capostipite della letteratura moderna.
A parte la profonda umanità dell’opera, la sperimentazione
prosastica poliedrica, la trovata del dialogo interiore, ecc., l’opera
eccelle per la totale libertà espressiva, riformando, così, i canoni
della prosa classica. La trasgressione dei moduli prestabiliti, in una
parola il desueto, vale a dire l’inedito, si affaccia di volta in
volta col mutare delle standardizzazioni epocali. Opere zibaldoniche
ed eterogenee si ricordano sin dai greci. Nella Commedia dell’Arte,
ad esempio, si recitava «a soggetto». I miei torresi hanno
sperimentato spesso il canovaccio libero dei ruoli di Razullo e
Sarchiapone nell’opera in vernacolo di Antonio Petrucci, alias
Casimiro Ruggero Ugone. «La Cantata dei Pastori» viene ancora
rappresentata a iosa nel Napoletano grazie proprio alla trasgressione
di scaletta prevista. II Decadentismo, visto come radicale sovversione
dei movimenti etico-culturali del passato, ci ha spinti metodicamente
a trasgredire con progressive riforme millenarismi di cultura
stagnante di stampo messianico sia politico che religioso. A questo
rinnovamento planetario hanno contribuito le scienze positive e le
strabilianti scoperte, tutte appannaggio del mondo imperialista e
pragmatico. Come Freud e Nietzsche hanno seriamente scardinato o
quanto meno messo in discussione i dogmi politico-religiosi, cosi
Croce e Joyce, ciascuno a modo proprio, tra gli altri, hanno
sovvertito retorica e pedanteria letteraria. In questo clima d’avanguardismo
ancora in fase di assestamento, stendo queste pagine, a verso sciolto,
nell’ibrido tecnica-saggistica-narrativa, ma, lo dico subito: senza
nessuna ambizione dottrinaria. Un manuale per arti grafiche frammisto d’empirismo
di bottega notiziole libresche e aneddoti anche di prima mano. Nel
peggiore dei casi ponete che vi siate messi ad ascoltare le ciance di
un comune bottegaio tipografo alle falde del Vesuvio. E’ probabile
che questo lavoro, come tutti quelli non allineati nelle fasce
regolari di distribuzione, finirà sulle bancarelle dei buzzurri
convertito in tanti bei coni di carta. Cosa volete, questi sono i
sospetti miei e di tutti gli esordienti in materia scrittoria che si
accingono ad adoperare ferri del mestiere altrui. Cimentarmi, cioè, a
trattare una buona messe di argomenti, peraltro eterogenei, a
prescindere da quelli strettamente legati alla mia professione. Spero
proprio che ciò non suggerisca un sentore di falsa modestia, un
mettere, cioè, le mani avanti a salvaguardia non già di
riconoscimenti e plausi, ma per scongiurare eventuali lacune o
incongruenze. A ciò sarebbe bastata la dichiarazione di non aver
seguito studi regolari perché in solo possesso della licenza
elementare. Ma grazie all’affermazione di molti intellettuali
autodidatti del nostro secolo questo conta poco: (vedi Moravia,
Roberto Bracco, ecc.). D’altra parte un lavoro di compulsazione e di
stilatura, nonché di composizione tipografica e di stampa, eseguito
nei ritagli di tempo, con l’assenza di limature e rifacimenti, non
può ambire che ad un po’ di riconoscenza e di affetto specie dall’uomo
della strada, il maggiore utilizzatore di stampati tipografici
artigianali. Spero, a proposito, che non venga in mente a nessuno di
sospettare che lo scopo recondito di questa modesta fatica sia quello
di strumentalizzare il testo a mo’ di materiale promozionale a
vantaggio della mia tapina bottega artigiana di Via Purgatorio, vista
la frequenza con cui la cito nel corso della stesura. Non solo sono
ostile all’aspirazione non dico plutocratica, ma nemmeno
altoborghese, e non desidero incrementare di solo mille lire il mio
minuscolo fatturato. Oggi, e specie nel nostro Sud, ci vuole ben altro
per incrementare le attività, altro che ciarle stampate. Le cause che
devitalizzano lo sviluppo economico del Meridione sono annose e ben
note. E’ superfluo reiterare ancora la questione meridionale
mai risolta e i diabolici nord che vogliono sempre qualche sud
sottomesso. Ma lasciamo ad altra sede queste considerazioni che ormai
sanno di rancido, sebbene sia lapalissiano che il potere si impugna
più con le caustiche leggi del Pentateuco, ad esempio, che con i
melici ed annichilanti Vangeli sinottici, cioè con la morale, ma non
attraverso la morale. Comunque alcune osservazioni apparentemente di
stampo politico sono di natura psicospeculativa. Anche se tutto il
pensiero umano, in fondo, acquista natura politica quando postulato
con ardore. Nuovi studi di psicologia confermano l’utopia circa il
beneficio che le idee sane, ma corporativizzate, possano lasciar
godere i popoli. Anche la stampa è stata, per oltre tre secoli dalla
sua invenzione, essenzialmente uno strumento politico-religioso. Dal
XV secolo in poi vi sono stati riformismi e sovversivismi lenti, ma
progressivi, che hanno deviato a mano a mano “l’arte nera”
da monopoli stagnanti. Quando si parla di alfabeto e di stampa è
inevitabile, tra l’altro, fare riferimento all’arte, quindi alla
letteratura, nonché alla scienza e, perché no, al business, in più
alla vita interiore dell’uomo e alle complesse manifestazioni dello
spirito. Mai più di oggi l’alfabeto e la stampa vengono adoperati
come strumento di comunicazione per ogni genere di attività umana. Mi
consolo, quindi, di non rischiare mai il «fuori tema». Vista la
varietà contenutistica di questo lavoro non posso sottacere che, al
termine di una lettura, come dire, promiscua, ibrida e frammentaria,
tra voli pindarici ed elucubrazioni, il lettore sarà
consapevole di non aver assimilato che,
essenzialmente, le nozioni tecniche settoriali, e che il contenuto di
contorno, mi auguro almeno di forma gradevole, si riallacci
inevitabilmente a schemi narrativi e saggistici consueti. Quindi non
dirò niente di nuovo e non verrò filosoficamente a capo di nulla,
come accade sempre a chi si ostina di coinvolgere gli altri nelle
proprie idee, obliando la certezza palese che tutto già dissero i
greci e i latini. Eppure si ha l’impressione che ogni libro, per
quanto elementare sia, apra nuovi spunti, che in realtà non sono
altro che nuovi nodi, perché le cellule del pensiero si eccitino all’infinito.
Tutto sommato, voglio dire, i discorsi tecnici hanno la prerogativa
che si possono concludere. Mai nessuna teoria speculativa ha mai
risposto, non dico concretamente, ma almeno razionalmente, agli
interrogativi degli uomini, ma ha sempre lasciato partorirne altri a
quelli già in
proponimento.
Un’altra doverosa osservazione da formulare è quella che non
intendo affatto salire, con questo scritto, sulla cattedra dell’erudizione,
ostentando priorità professionale tecnica teorica nei confronti dei
colleghi tipografi artigiani di Torre del Greco e della Campania
tutta; davvero non desidero sminuire l’operato di chicchessia.
Ciascun operatore di arti applicate, al di là della erudizione
teorica, ha tanto da insegnare agli altri. Non venga, questa,
interpretata come una nota semplicistica o di comodo. I fastigi del
successo non mi allettano: “successo”, secondo il mio ordine d’idee
è solo il participio passato del verbo “succedere”, in primo
luogo perché sono per natura schivo e riservato, in secondo luogo
perché il successo e la priorità dottrinaria hanno come prerogative
la sopraffazione nella quasi totalità dei casi. Vadano a farsi
fregare, una volta tanto, l’antagonismo, la gelosia di mestiere e l’esoterismo
artigianale che affonda le sue radici nel Medioevo.
La scoperta della stampa a caratteri mobili, avvenuta nel 1450 segnò
una data importante nella storia, perché rappresenta l’inizio della
grande evoluzione tecnica del genere umano, non solo, ma costituì la
nascita del più grande strumento di diffusione della cultura, la
quale, un tempo, era retaggio di pochi iniziati. Diffondere la cultura
in maniera capillare lungo tutto il tessuto sociale significa
raggiungere il crinale della civiltà, ma non, forse, del benessere,
perché la cultura divulgata vuol dire pure aprire gli occhi alle
masse sull’ingiustizia sociale e sulla ricorrente condizione di
pauperismo del popolo, non già
più predestinata dalla
natura o dal fato, ma arbitraria ed imposta. II proletario fino al
piccolo borghese veniva in passato sostenuto psicologicamente dalla
suggestione della fedeltà doverosa alla Patria e dalla devozione
irreversibile al Padreterno. La diffusione massiccia della stampa,
prima, i mass-media teleiconografici, poi, hanno distrutto questi miti
palliativi ma necessari, come la morfina contro i mali inguaribili,
sostituendoli con altri più speciosi ed effimeri quali gli «dei»
dello sport e le stelle dello spettacolo.
L’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo hanno ben usufruito
dei rudimentali caratteri mobili e del famigerato torchio. Solo nel
1500 vi fu una profonda trasformazione per l’avanzare quasi
contemporaneo di varie nuove tecnologie, atte a trasformare la «scriptura
artificialiter» in imprevedibili tecniche parallele, fino a
divenire strumenti da multinazionale. II trionfo della meccanica
relativa alle arti grafiche perdurava fino al secondo dopoguerra per
oltre un secolo. Fino agli anni cinquanta tutto si svolgeva nella
dimensione della meccanica più evoluta. Gli automatismi costituivano
il complemento alla necessità umana di operare. La presenza fisica,
tattile, epidermica e olfattiva dell’uomo era ancora indispensabile,
passo passo nelle sia pur lente fasi di lavorazione. La cibernetica,
nell’era atomica, preclude all’uomo questa benefica partecipazione
emotiva al lavoro ai fini della sua realizzazione. I detentori del
potere vengono sostenuti dal «maneggio», gli intellettuali dall’onanismo
cogitale, le donne dal ciclo mestruale e dalla maternità, e l’uomo
comune? La sua personalità veniva sorretta con la partecipazione
diretta ed emotiva al lavoro a misura d’uomo e dalle rasserenanti
suggestioni mistiche, quali palliativi reattivo-difensivi contro l’insoluto
esistenziale. Caduti i sostegni religiosi di carattere salvifico
post-mortale e quelli ideologici politici, fino a quello
social-comunista, l’uomo si vede inesorabilmente sottrarre pure la
realizzazione nel lavoro dai robot. E non dimentichiamo che l’uomo
comune costituisce la massiccia percentuale della massa umana
planetaria. II mondo occidentale, in pieno periodo umanistico,
lontanissimo dalla follia tecnologica dei tempi nostri, accolse con
perplessità l’invenzione dei «caratteri artificiali». L’intellighentzia
del momento era presa dallo spolverìo del classicismo antico. Si era
ancora avviluppati anima e corpo sotto la gabbana di Nostra Madre
Chiesa. Cosi tutti gli scienziati, gli scopritori o comunque neofiti e
neofili venivano marchiati spesso di eresia. Solo qualche secolo più
avanti, dissipate le perplessità e scongiurate le probabili insidie,
si favori la diffusione dell’«arte nera», forse perché
insorgevano nuovi pericoli, come le teorie galileiane. Fa d’uopo
puntualizzare che tutte le osservazioni formulate lungo questo lavoro
circa la Chiesa Cattolica e le religioni in genere hanno carattere
storiografico. Se errori o ingiustizie sono stati commessi dalle
istituzioni religiose essi sono da imputare solo agli uomini, nella
loro fragilità e, talvolta, infermità, che scatenano spesso
atteggiamenti reattivo-difensivi sia di totale passività che di
estrema aggressività. La realtà transumanica del divino rimane
massiccia ed inesplicabile, infinita ed inalterata rispetto a tutte le
teorie e le opinioni umane.
Nel XV secolo la Chiesa Cattolica subì la batosta della Riforma.
Allora, più che mai, doveva tenere ben saldo nelle mani lo strumento
della scrittura. In Italia erano numerose le officine scrittorie dei
monaci amanuensi. All’estero l’invenzione fu favorita già
dall’inizio da Lutero,
con la traduzione della Bibbia in tedesco, e da tutti coloro che
postulavano la Teoria della Grazia. Intanto da noi la lingua
italiana era ancora indefinita. All’estero le lingue nazionali si
diffusero in epoche antecedenti la scoperta della stampa. In Italia
solo nel 1887 la famosa legge Coppino volle l’istruzione
obbligatoria. Fino all’unità d’Italia del 1861 il nostro popolo
parlava esclusivamente il dialetto regionale. La storia ci insegna che
su 25.000.000 di italiani solo un quinto conosceva la lingua
nazionale. Ma nel 1940 l’analfabetismo in Italia era ridotto alla
misura del 20%.
Lo sviluppo della stampa viene su su a braccetto con la cultura. II
popolo italiano, circa la stampa, quindi, ha da poco imparato a
leggere, e continua a leggere poco rispetto agli altri popoli
occidentali, pur vantando il genio dell’arte, della scienza e della
letteratura, nonché dell’editoria veneziana delle origini.
In Italia la punta massima dell’istruzione si è avuta, si può
dire, ai giorni nostri, poiché solo nel 1962 la scuola divenne
obbligatoria fino ai 14 anni. II boom economico degli anni ’60
rappresentò, per cosi dire, la fissione culturale di massa. Da
allora le Università hanno brulicato di studenti. Oggi un italiano su
tre adopera l’alfabeto o i numeri come ausilio alla professione.
Anche lo Stivale, in questo passato prossimo, usufruì delle
più avanzate tecnologie relative alle arti grafiche. La stampa
editoriale ebbe il massimo consenso che la storia ricordi, in fatto di
produzione. Negli anni passati venivano impresse molteplici serie di
collane economiche. Una vera esplosione di carta stampata. La
liberalizzazione della radio-teleiconografia privata e lo sviluppo
repentino dell’informatica hanno minacciato seriamente l’editoria
del settore librario di carattere divulgativo. Gli imprenditori,
così, hanno dovuto convertirsi alla rotocalcografia d’informazione
e alla produzione dei volumi arredo a priorità iconografica, adatti
ad una società consumistica, per la gioia dei bibliomani, inorgogliti
di possedere migliaia di dispense legate in falsa bazzana, fregiate
con prestigiose impressioni in oro, rivestite da policrome e arredanti
sovraccoperte. La letteratura propriamente detta ritorna nelle sole
orbite degli addetti ai lavori. Data la concentrazione delle officine
editoriali del Nord Italia, nel nostro Sud la crisi e più sentita dai
librai che dai tipografi. Giocoforza, le arti grafiche si sono
adeguate alle leggi di mercato. La espressività peculiare dell’alfabeto
soccombe al mezzo iconografico verista e pragmatico. Inoltre, negli
ultimi decenni si è avuto un incremento notevole degli stampati
relativi alla società consumistica circa la massiccia esplosione di
prodotti preconfezionati. Basti pensare che le salumerie o le
farmacie, ad esempio, vendono il trenta per cento di materiale grafico
avviluppato intorno a tutti i prodotti. Anche in Italia si riesce a
vendere tutto in un astuccio policromo, specie le porcherie; almeno
fossero solo sostanze inerti da placebo per le terapie cieca e
doppiocieca... In più, su binario parallelo, marcia la grafica
relativa all’amministrazione pubblica e privata fino alla moderna
modulistica continua.
Come la pubblicità sconfina nell’arte, così questo dirottamento
delle arti grafiche nulla toglie, nel suo aspetto commerciale
esasperato, all’arte applicata in sé ed al suo fascino primitivo, a
prescindere dalla asetticità delle moderne tecnologie. Pur se, come
accadde per i prototipografi, le crisi economiche o i problemi di
sovrapproduzione cagionano cattiva qualità
del prodotto. In queste
transizioni sussiste l’imperizia di operatori inesperti ed
improvvisati. Negli anni 60, ad esempio, si verifico in Campania un
fenomeno per altro prevedibile, che ha trasformato la struttura
gestionale delle arti grafiche regionale. Una vertenza sindacale oggi,
una domani... fino a che diverse industrie (avvezze a canoni
gestionali, come dire, premarxiani) hanno chiuso i battenti. In
simultanea molte navi transoceaniche provviste di tipografia cadevano
in disarmo perché sostituite dagli aeromobili. Molti tipografi (buona
parte della mia Torre del Greco) hanno dovuto ripiegare con la mini
imprenditoria artigianale. Col beneficio delle liquidazioni, gonfiate
dalle rivendicazioni sindacali, molti operatori del settore hanno
aperto bottega in tutto il territorio campano. Questa pluralità
gestionale è stata altresì promossa e caldeggiata dall’incremento
di strutture industriali convertite alle nuove tecnologie offset
e rotocalco, nonché flessografia, serigrafia, ecc., che hanno
lasciato abbondare sul mercato dell’usato centinaia di migliaia di
macchine tipografiche propriamente dette, cioè relative alla stampa
tradizionale utilizzante i famosi caratteri di piombo monotipici o
quelli di volta in volta fondibili: i linotipici. Equipaggiamenti
senza dubbio obsoleti, ma sempre efficienti ed economici, di
disponibilità artigianale poliedrica perché duttili ad una maggiore
manipolazione meccanica e ad un superiore adattamento alla varietà
dei lavori commerciali di spicciolame. L’esplosione numerica delle
botteghe tipografiche ha fatto estendere l’offerta a dismisura con
la conseguente battaglia concorrenziale che presume lavoro scadente e
conseguente dequalificazione professionale. La discutibile qualità
delle prestazioni, però, sembra non pregiudicare le esigenze della
domanda, in primo luogo perché alcune amministrazioni pubbliche e
private alimentano il fenomeno della sperequazione imprenditoriale
privilegiando alcune ditte talvolta anche per motivi di peculato; in
secondo luogo i lavori commerciali di uso domestico commissionati dal
cliente comune e offerti a costi bassi, lasciano chiudere un occhio
sulla qualità e in qualche caso tutti e due, visto certa porcheria
stampata che si vede talvolta in giro.
II popolo partenopeo vive in maggioranza nella dimensione dello
stipendio, o del sottostipendio o del nullastipendio, quindi si
adatta a certi compromessi. A prescindere da ogni digressione, il
mondo della stampa conserva il suo fascino come il paese di Alice, nel
suo aspetto esoterico ed impenetrabile. II progresso, per giunta, ha
convertito il calore dei mezzi tradizionali della stampa
vecchia maniera con sistemi computerizzati freddi e asettici,
che adottano una creatività ricca di effetti, ma precostruita e
ripetitiva. E guarda caso nel gergo tecnico si dice: vecchio
sistema a caldo e nuovo sistema a freddo. So di apparire
antiprogressista per non dire misoneista o neofobo, non posso fare a
meno, però, di denunciare emblematicamente questo radicale
sovvertimento della tecnologia poligrafica come paradigma negativo di
tutte le tecnologie robotiche che precludono il lavoro a misura d’uomo,
fatto, per dirla in chiave retorica, col braccio, con la mente e col
cuore.
Quando si argomenta sul sociale dell’uomo involontariamente si fa
politica, specie secondo la forma mentis degli addetti ai lavori. Se
cambiamo l’ottica, però, noteremo che diverse considerazioni, lungo
questo lavoro, sono apartitiche, formulate solo sotto la luce
psicosociale. Non si riscontrano difetti o colpe dentro le ideologie,
ma solo nell’uomo. II pensiero è analisi scelta, l’azione è
inesorabile. Inottemperanze, prevaricazioni e nefandezze sono
imputabili all’infermità esistenziale dell’uomo, alla sua
angoscia di mortale, e al conseguente timore della detronizzazione. I
regimi operanti sono sempre sotto accusa dietro l’obliterazione dei
terrifici malesseri del passato storico. II flemmone, comunque, e l’elaborazione
culturale dell’idea di potere, e non l’ideologia che esso asserve.
II potere, il più antico e diffuso tentativo dell’uomo di
esorcizzare l’angoscia relativa al suo destino di mortale, col
dubbio inconscio di una probabile assenza salvifica. Oggi il popolo
ricusa, o quanto meno mette in discussione, i dogmi e gli assiomi
millenari relativi agli ideali politico-religiosi, sotto il lucore
della pluralità d’informazione. Tutti sanno, oramai, che la
libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la perequazione, sono utopie.
Ah, questo libro anomalo, che ora si eleva, poco dopo si sgonfia. Dal
dottrinario assiomatico cala nella mediocrità e nell’incertezza,
poi rasenta il banale, ma soprattutto talvolta si contraddice. Quale
immagine speculare del mezzo scrittorio di tutti i tempi. La
contraddizione e l’uomo autentico, allo stato naturale, quello
che non prende posizioni perché sente che la verità e utopia, cioè
lo sforzo faticoso e disperato dell’uomo nel tentare di risolvere
infruttuosamente l’insoluto esistenziale.
(L’autore)
L’eterno progresso
spirituale non ha niente da vedere
con la volgare ricerca del piacere e della felicità, tanto
che si potrebbe del pari, se cosi piacesse, definirlo un
progresso nel sempre più alto e più complesso dolore umano.
«La storia come pensiero e azione» Benedetto Croce
CAP. I
LE ORIGINI DELLA SCRITTURA
Achille esiste soltanto
grazie ad Omero.
Togliete dal mondo l’arte di scrivere
e probabilmente togliete la gloria.
«I Natchez» Chateaubriand
OSSERVAZIONI PRELIMINARI
L’uomo moderno si sottopone a molti tipi di
dipendenza di stampo psichico. A prescindere da quella esiziale, di
moda, peraltro sempre esistita, ma oggi diffusa per motivi nefandi di
lucro: la tossicodipendenza, vi sono droghe legali quanto il tabacco e
l’alcool, ma che non si assumono ne per via gastroenterica, né
per quella parenterale: la
radioteleiconografia e la rotocalcografia. Pochi sanno che vi sona
individui, specie del sesso debole (si fa per dire) che sperperano un
terzo dello stipendio in edicola perché attratti dall’iconografia
prioritaria relativa alle immagini del pettegolezzo di cronaca, del
fotoromanzo, oramai tetracromico anch’esso, del fumetto, delle
raccolte, degli autoadesivi, delle riviste su ogni argomento, ecc. E
ve ne sono di edicole, credete, nella mia terra, in quel contesto
geografico detto: cintura vesuviana, alias la Shangai d’Italia,
in fatto di densità di mortali.
Il mio popolo, (specie le donne e i giovani), quando cade in overdose
televisiva, preferisce l’edicola alla libreria che abbonda di
caterve di tomi per lo più noiosi ed astrusi o, nel migliore dei
casi, stampati con linguaggi strettamente settoriali o con uno stile
aulico e ricercato. Grazie a quei chioschi venditori di sogni l’editoria
non è stata completamente soffocata dalla televisione, la quale, chi
l’avrebbe mai detto trent’anni or sono, ha mandato in crisi
persino una decima musa, nella fattispecie il cinematografo o grande
schermo.
Il libro, al di là dei testi scolastici, diventa per la massa
consumista uno strumento obsoleto di conoscenza o di apprendimento, o,
comunque, di trasmissione di idee, e l’uomo resta, invece, ancora
affascinato dalle immagini. La fotografia propriamente detta, ancora
più diffusa e in diversi casi migliorata, oserei dire, dai
fotoliti, osservata, appunto, nella sorprendente magnificenza
delle cromotipie offset, là dove vengono esaltate crominanza e
tridimensionalità, non teme, per il momento, dirottamenti di
interesse. Le edicole seducono pure me, un po’ dietro la
deformazione professionale e per un fenomeno di empatia con gli
addetti ai lavori ad esse connessi. Spesso il sabato sera, da Torre
del Greco, al centro del Golfo, costeggio in automobile fino al
Capoluogo per intrattenermi presso quei chioschi plurisettoriali
mastodontici nella Stazione Centrale, che sono a mezza strada tra l’edicola
e la libreria. A cospetto delle migliaia di pubblicazioni policrome
rimugino sulla nuova concezione della versione popolare dell’espressione
Arti grafiche. Otto persone su dieci associano 1’idea “stampa
tipografica” essenzialmente ai giornali illustrati, cioè i
rotocalchi fiammanti e policromi, starei per dire a gittata
ebdomadario o bisettimanale, vista la rapidità con cui arrivano nelle
edicole. L’uomo medio, disinformato e distratto, legittimamente
digiuno della materia settoriale scivola sul significato etimologico
dei lemmi tipo e grafia, nelle loro accezioni originarie
e ne poliedricizza in maniera particolarmente arbitraria la
significanza che invece sta per tipo (carattere di piombo);
grafia (scrittura). Per estensione, intanto, il termine grafia
è divenuto poliedricissimo e sta a significare diecine di contenuti
che con l’alfabeto e la stampa hanno oramai poco o nulla da
spartire; pur se fino a qualche decennio fa la stampa per antonomasia
era per tutti: il quotidiano d’informazione, sin dalle prime
gazzette. Queste pedanterie etimologiche, peraltro anacronistiche,
stanno solo a precisare che la stampa originaria è stata per oltre
cinque secoli dalla sua invenzione la pura, unica meccanizzazione dell’alfabeto,
quindi della scrittura. La stampa di immagini è stata sempre
minoritaria, in passato, nelle tecniche di stampa tabellare,
calcografia, acquaforte, ecc. di cui tratterò in seguito.
LA SCRITTURA
Ma ora diamo una capatina al neolitico. Tutti
sappiamo che i trogloditi insieme ai suoni gutturali, come tentativo
di espressione, hanno pure sperimentato qualche scarabocchio
qua e là. Poi la pietra divenne lo strumento naturale per i
promemoria, anche se si trattava di semplici tagli o scalfitture che
ricordavano date, periodi, avvenimenti, ecc. I primitivi emettevano in
origine solo suoni che a mano a mano divenivano più regolari e
costanti, quindi convenzionali, fino all’articolazione delle prime
parole, sebbene rudimentali e facilmente mutevoli. Il mio popolo
(scusate il tono campanilistico ricorrente) ha sempre preferito il
metodo socratico della comunicazione verbale, il sistema mnemonico
allo strumento fissato e tramandato. Da noi nessuno ha mai imparato le
canzoni sugli spartiti. Vantiamo una memoria audiofona che ci
contraddistingue. Così pure la filosofia popolare, panacea per la
sopravvivenza, antidoto per i soprusi di sempre, non è stata mai
scritta. Né Vico, né Croce o De Sanctis, o quelli di passaggio, come
il Boccaccio o il Goethe l’hanno mai presa in seria valutazione,
così immersi, loro, nello strumento della scrittura. La parola, come
mezzo di trasmissione delle idee, germoglioò quando quella sorta di
ominidi avvertì l’esigenza della socializzazione. Non si
prefiggevano, i primitivi, però, di tradurla in segni da tramandare
ai posteri. Erano lungi dal supporre, poveri «incivili», che la
parola scritta e tramandata poteva divenire un’arma terrificante,
non solo, ma in molti casi l’immagine speculare dell’esasperazione
delle idee, cioè della parte inferma dell’uomo. Erano ignari delle
apoteosi deliranti di certi santoni o filosofi, e dei vaneggiamenti
maniacali di taluni profeti, e dell’inconsapevolezza di alcuni
scienziati. Saggi, quest’ultimi, che hanno pensato bene di
sostituire lo psicanalista allo stregone, o la lavabiancheria al
lavatoio, ma che nel frattempo hanno pure scoperto la fissione dell’atomo
perché possa accadere, in un modo o nell’altro, ciò che l’Ebraismo
e Confessioni similari stanno preconizzando da sempre, ma questa volta
senza sorta di palingenesi. Diceva bene Marcel Pagnol: Bisogna
diffidare dei tecnici, cominciano con 1a macchina per cucire e
finiscono con la bomba atomica.
L’ORIGINE DELL’ALFABETO E I NAPOLETANI
Sappiamo che la storia ci è stata ricostruita
dagli scavi archeologici e da opere (o frammenti di esse) tramandatici
da studiosi anche antichissimi. Molti uomini hanno speso la vita nelle
loro accanite esegesi. Storici, filologi ed ermeneuti hanno
ricombinato le tessere di un mosaico dell’ampiezza di oltre
cinquemila anni, senza contare le congetturate epoche antecedenti. Il
comportamento umano affonda le sue origini in quei tempi remoti, e poi
via via modificato dalle varie culture, specie quella occidentale
concentrata, come si sa, nel bacino del mediterraneo.
Anche se, in queste pagine, darò 1’impressione di dir male dei miei
convesuviani, e specie dei miei torresi, premetto che il mio
sentimento nei loro confronti, pur sfociando in una ironica dicotomia
di illaudo-apprezzamento, si dovrà interpretare come un amore
irreversibile, come tutti gli innamoramenti mai appaganti. Questo
libro, non dimentichiamolo, pianta le sue fondamenta all’ombra del
Vesuvio, e da questo sito che i moti dell’animo, le passioni, gli
sconvolgimenti, le gioie e i dolori, il folklore, la cultura, la
stampa, si convoglieranno in questa prosa. Siamo il popolo più
ancestralmente campanilistico del Globo; qui pure quando si truffa o
si ammazza è paradossalmente per campanilismo. Io sono convinto che
se l’alfabeto, quindi la stampa, non fossero stati mai inventati, il
popolo napoletano avrebbe potuto farne a meno, per la sua prerogativa
logorroica e mnemonica, non solo, ma se l’uomo non avesse saputo mai
parlare, ebbene, il napoletano avrebbe diffuso nel mondo la fonomimica,
di cui è detentore da sempre.
Non la pensarono cosi i primitivi, perché a mano a mano che si
civilizzarono, dopo i pallottolieri cinesi, le conchiglie, le
tavolette d’argilla, ecc. crearono il progenitore dell’alfabeto,
che gli addetti ai lavori chiamano pittogramma, il cui
significato è facile intuire. Queste parole-concetto avevano molta
somiglianza con i geroglifici, di cui oggi si conoscono oltre tremila
segni. A titolo di delineamento dirò che i geroglifici erano distinti
in scrittura ieratica (religiosa) e demotica (popolare)
Una bella mattina un certo JEAN FRANCOISE CHAMPOLLION, nel lontano
1822, si mise in testa di decifrarli tutti. E come tutti i caparbi
prese in braccio la famosa Pietra di Rosetta, portata alla luce
dal francese PIETRO BOUCHARD e prima di farsela cascare sui piedi la
scaravento sul banco del suo laboratorio di ricerche, e allora andò a
letto (si fa per dire) quando anche il segno più impercettibile fu
smascherato.
Nelle scritture antiche dette cuneiformi si sono
addirittura decifrati episodi che hanno attinenza con fatti biblici.
Oggi va un po’ scemando l’interesse per l’ermeneutica e l’archeologia.
Gli studiosi diranno: a che vale faticare tanto se prima o poi faranno
del mondo un cumulo di macerie? Ma dopo 1’invenzione della stampa,
dal Rinascimento in poi, vi sono stati molti pionieri dedicati a
questi moderni studi e ricerche. Fino al nostro secolo molto tempo
umano è stato speso per la decifrazione delle scritture di antichi
popoli. Non vi è dubbio che ogni genio umano è sempre un po’
folle, con buona pace di Sant’Agostino e Nietzsche. Diceva Valery:
Il genio si muove nella follia, nel senso che si tiene a galla là
dove il demente annega. Un certo G. F. GROTEFEN, professore dell’Università
di Gottiga, agli albori del 1800, decifro così
bene la scrittura cuneiforme che
finì col
comunicare egli stesso con chiodi e cunei disposti in modo
prestabilito a frequenze ripetibili.
Così, quando doveva dire alla moglie: desidero mangiare, o dormire o
fare l’amore, disponeva i suoi chiodi, come dire, ora sul desco, ora
sul talamo. Ma la consorte non capiva un chiodo di quel linguaggio,
non solo, spesso gli diceva: marito mio, ti sei messo brutti chiodi in
testa, perché non utilizzi il tuo tempo per affari più remunerativi?
E le donne, credete, da questo
punto di vista sono uguali in tutto il mondo, quindi è inutile darsi
pena, cari convesuviani.
Ora, prima di passare ai Fenici, i quali combinarono un alfabeto molto
simile al nostro, voglio tergiversare sulla diffusione della scrittura
attraverso i tempi, sempre strumento d’elite e di manovra
politico-religiosa. A pensarci bene, però, i Re, escluso il glabro
Carlo Magno, si sono sempre preoccupati più dei muscoli e delle armi
piuttosto che di lettere, ma andiamo avanti. Il popolo, manco a dirlo,
sempre solo in apprensione per la via gastroenterica, tutt’al più
si poteva interessare a delle ricette culinarie. La scrittura, dalle
origini, e stata un macchinismo di pochi iniziati, che una volta si
chiamavano scribi, indi sacerdoti poi Padri della
Chiesa, ed infine teologi, filosofi ed intellettuali laici.
Da sempre, come avviene persino nella mia piccola bottega di Torre del
Greco, tutti co1oro non addetti ai lavori, in pratica la grossa fetta
di umanità che si trova, per cosi dire, al di là della penna,
avverte una sorta di fascino e soggezione a cospetto di quel
mucchietto di lettere dell’alfabeto, posizionate in milioni di
combinazioni, specie se nella materializzazione di caratteri di
piombo. Devo aggiungere, appunto, che una sensazione singolare di
rapimento si avverte solo in tipografia, rispetto ad altri ambienti
connessi all’alfabeto. Nella mia Torre del Greco, purtroppo, non vi
sono tipografie editoriali connesse alla letteratura. Da noi l’edonismo
cosiddetto reeganiano (siamo ai tempi di Reegan N.d.r.) viene espresso
sotto un simbolismo traslitterato in un pittogramma di araldica
suggestione, un carminio frascame, una branca vermiglia di calcare
marino che ha più valore dell’oro. Che pregio può avere la carta
stampata a cospetto di si tanto valore, tangibile ed immediato? Fu
proprio un caro torrese corallaio che un giorno mi disse in quell’ironia
socratica che lo contraddistingueva: «Ma se la carta è così
utile per gli incarti, perché vi
stampate sopra? Che razza di matti, ciarlatani e perditempo siete voi
tipografi!». E già:
Carmina non dant panem. La letteratura non ha mai arricchito
nessuno, (tranne nei casi di superproduzione di un autore), specie in
passato, ai tempi degli incunaboli, quando le tirature non
superavano le duecento copie. Oggi coi best sellers il discorso
cambia. E dal momento che sotto il mio Campanile non attecchiscono
elucubrazioni e transumanazioni, spesso faccio capolino presso qualche
tipografia editoriale del Capoluogo. Nelle librerie si ravvisa 1’importanza
dell’alfabeto, nelle tipografie editoriali la suggestione, l’incantesimo
della copia fresca. L’atto dell’impressione della prima copia
costituisce un vero orgasmo intellettuale per 1’autore del
testo ed i1 parto professionale per il tipografo.
L’ALFABETO E IL
POPOLO VESUVIANO
Non dimentichiamo che l’alfabeto, al di là delle
arti grafiche e della letteratura bene, è stato anche il mezzo
diretto per esternare i sentimenti più svariati della sfera emotiva
dell’uomo. Nella letteratura mondiale solo negli epistolari si è
potuto carpire la natura del vero pathos creativo dei grandi autori;
nella corrispondenza l’artista si sventra cedendo alla foggia
dialettica e alla smania di trasfigurazione artistica, rinunciando
alla mascheratura o sublimazione dei suoi istinti caratteriali. Dagli
epistolari si attingono le biografie perché la lettera e il vero
miraglio dell’anima.
Quante lettere non abbiamo mai scritto! Noi quarantenni ancora
trasognamo il fragore delle ultime carrozzelle sull’asfalto di Via
Caracciolo o sui basalti del Miglio d’Oro che lega Torre del Greco a
Ercolano. Erano i tempi delle interiezioni, della pargolezza che
sapeva ancora di candore da Prima Comunione e non di puerizia pilotata
da dottrinarismi clinici che tutto prevengano, tranne la
predisposizione all’angoscia prematura. Evoluzioni socioscientifiche
che hanno dato un taglio netto a due epoche. Le carrozze sui basalti
non sonavano fragore o dirugginii, ma accordi melici. Reminiscenze
romantiche che hanno sentore nostalgico, d’accordo. Ma l’asetticità
dei giorni nostri non sa meno d’infermità.
Una terra ferace, quella vesuviana, che fa invidia alla motriglia del
Nilo. Due raccolti l’anno. Fertilità del terreno grazie anche all’«ingerenza»
delle sostanze eruttive dello sterminator Vesevo, che si è
accanito nei secoli a svellere in rovinose devastazioni ora le
mirifiche e sontuose ville vesuviane, ora i tuguri fatiscenti relativi
alla letteratura verista e neorealista. Sempre nel quadro della
napoletanità i nostri autori a cavallo dei due secoli mettevano 1’accento
su di un personaggio ora grottesco, ora romantico, a mezza strada tra
il barbassoro e il fattucchiere, che si può definire, senza tema di
smentita, una sorta di derivazione dell’amanuense: lo scrivano!
Quando, imberbe, apprendevo i primi rudimenti dell’arte tipografica,
rammento con nostalgia un vecchio scrivano che, tra 1’altro, ha
tanto colorito di lirismo la mia fantasia. Veniva a Torre del Greco, a
piedi, naturalmente, dall’allora Resina, e ambulava pacato e
monacale puntando frequentemente lo sguardo sulle architetture ora di
Villa Favorita, ora dell’Istituto S. Geltrude, fino al
Palazzo Vallelonga del Vavitelli, che egli scandagliava
lentamente, ponendo sulle costole a manca il viluppo di scartoffie
nella cartella di bazzana color porpora. Indi si impancava presso il
famoso “Caffè Palumbo” a centellinare una bibita, procacciandosi,
intanto, il lavoro tra i passanti. Lo scrivano ha avuto risonanza
storica, anche se aneddotica quando partivano i bastimenti, dove
diecine di sensali di carne umana trasferivano oltre oceano migliaia
di italiani. Lo scrivano era il loro tramite interiore, il loro poeta,
colui che coglieva i sentimenti più vivi e sanguinanti dal cuore
delle madri, e forse un po’ vizzi e annacquati dall’animo delle
mogli, trasmigrandoli nelle Americhe, immortalati sulla carta spesso
olezzante di misteriose quintessenze. Lo scrivano adoperava l’alfabeto
come un ponte immenso sull’oceano.
So di ditirambeggiare i miei personaggi, ma opino che il tipografo
artigiano quello della bottega degli impresepiati centri storici, sia
un po’ lo scrivano delle arti grafiche. Una buona parte del suo
lavoro sfrutta l’alfabeto come un macchinismo pro-socializzazione.
Il bottegaio tipografo napoletano, chissà fino a quando, sviolina i
suoi caratteri nel copositoio, concretizzando sentimenti ed emozioni
franche ed inaffettate, ora gaudiose o gongolanti, ora meste o
austere. Forse nella mia provincia, oggi come mai, tutt’altro che
«addormentata», le vampe del sottosuolo igneo ancora premono lo
svisceramento dai precordi. Esuberanza, azione, fremito eruttano dall’animo
come reciticcio, a mo’ di materiale eruttivo. A questo gaudio
spirituale si associa una spiccata tendenza alla concezione epicurea
della vita. Questo spiega il pluralismo di una catena di piccoli
ristoranti dalle falde del Vesuvio, giù giù lungo tutta la
Litoranea, purtroppo devastata dall’urbanistica di natura demagogica
della mia Torre del Greco, e poi di nuovo su verso le pendici a
sud-ovest del Vulcano, sulle abbarbicate pinete di Boscotrecase e
Boscoreale di prischiano ricordo.
Nessun popolo al mondo sublima il banchetto nuziale come quello
Vesuviano. Il tripudio della gente semplice si manifesta in quelle
lunghe ore di abbandono epicureo dove il luculliano è bazzecola; dove
le crisi bulimiche quali smodate voracità d’affetti, si
materializzano nella crapula e nel cioncare. Agape mistica, orgia
dionisiaca e Convivio dantesco sono tutt’uno. Al culto
gastroenterico nessun circumvesuviano è dissidente, neppure l’intellettuale
di grido. Anzi. L’alfabeto immortala su partecipazioni, annunci ed
inviti la legittimità caratteriale partenopea dell’appagamento
mistico, spirituale e metabolico. Documenti che simboleggiano il
tripudio delle feste delle unioni (anche se un po’ precarie, dopo);
delle nascite (anche se non tutte legittime); e purtroppo delle
estinzioni, la cui liceità e inopinabile, tranne, talvolta, durante
le consultazioni elettorali...
E a proposito della morte, 1’alfabeto è lo strumento che più di
tutti da la idea dell’immortalità dello spirito umano. All’ombra
del Vesuvio, però, malgrado la scoperta del thanatos freudiano, la
morte viene sempre esorcizzata sotto un travestimento faceto. In quei
centri vesuviani con un reddito (sperequato) superiore alla media
nazionale, la morte è una trovata da propaganda religiosa, è, cioè,
il sonno… quando si e scocciato di ridestarsi.
Torre del Greco è in declivio alle falde del Vesuvio prospicienti il
Tirreno. Essa è compresa da nord a sud tra Ercolano e Pompei e da est
ad ovest dal cratere al cimitero, sul mare. Ho dato priorità al
camposanto rispetto la costa perché la cittadina ha una positura
geografica, come dire, necrostorica, non già a causa delle ecatombe
degli stermini vesuviani, ma perché il mio popolo è uno dei pochi a
custodire così bene la concezione egittologica del trapasso, sebbene
qualcuno si ostina a guardare i cimiteri come materia promozionale
relativa alla propaganda religiosa: un reiterare costante, in pratica,
del memento mori.
«Sono di più le scese o le sagliute?» farfugliò un
marmocchio col viso impiastricciato di cippa e di moccio, affacciato
all’uscio della mia bottega di Via Purgatorio. Il moccioso sciolse
una smorfia di gaudio quando io gli risposi che non vi era differenza
fra i due dati topografici. Ce sta ’na scesa ’e cchiù
- bofonchio quegli - chella
d’ ’o cimitero, quanno ’a scinne nue ’a saglie cchiù».
Il tipografo artigiano vesuviano forgia e modella l’alfabeto a
seconda delle complesse esigenze del suo popolo. Da questo fondamento
germogliano le sue progettazioni. Il lavoro nasce e si completa già
nella fase ideativa, proprio nell’arco di tempo della richiesta,
quasi sempre di getto, verbale, o dietro qualche frettolosa
annotazione o un vago diagramma illustrativo. Una progettazione, come
dire, estemporanea, al di là della metrica teorica e dei canoni
didattici. Una schematizzazione che trova la sua catarsi ancor prima
di mettere mano ai caratteri di piombo. Mai come adesso cade bene la
locuzione «Chi bene inizia è a meta dell’opera». Il risultato di
un indovinato lavoro tipografico di piccola entità dipende da questa
breve, ma laboriosa fase creativa, là dove il bottegaio plasma e
modella il progetto facendo anche leva sull’espressività
contenutistica del testo spesso fiorito e schiccherato, dato gli
argomenti domestici, in modo da affacciarsi sul materiale tipografico
con le idee chiare, sfruttando appieno la precedente immediatezza
creativa.
L’ALFABETO
Ma torniamo alle origini della scrittura. L’alfabeto
fenicio consisteva, si dice, in 22 lettere. Gli esperti dicono che da
esso deriva l’aramaico e quindi l’ebraico; inoltre il siriano, l’arabo
e via dicendo. La palese polemica sulla paternità dei Fenici dell’alfabeto
sembra ormai lenita. La storia ci insegna, comunque, che i Fenici non
hanno mai brillato in fatto di cultura e civiltà. Ma se avessero
estorto davvero l’idea agli egiziani, non ne vedo affatto l’importanza,
dal momento che la storia non è che una lunga querimonia di prosa
schematica su eccidi, saccheggi ed appropriazioni indebite. Quasi
sempre ciascun gruppo etnico vincitore ha frodato a quello sconfitto
sostanze, cultura, commerci e carnai umani.
E’ doveroso ricordare, pero, che l’alfabeto il quale ha aperto la
strada all’arte scrittoria (intesa come poesia, prosa, teatro,
filosofia, quindi teologia, ecc.) è stato quello greco. Non per
nulla, come tutti sanno, il termine deriva da Alfa e Beta. L’alfabeto
greco era composto da 24 lettere. La lettura, in origine, non era
dessiografica, ma procedeva da destra a sinistra. Si dice che il
documento greco più antico sia il Papiro di Timoteo risalente
al IV secolo a. C. L’alfabeto latino, invece, era formato da 21
lettere, dopo verranno aggiunte G, Y, e Z. Gli addetti ai lavori
stabiliscono che l’alfabeto latino si riallaccia agli alfabeti delle
precedenti civiltà, compreso il greco. Oggi la letteratura mondiale,
diffusa attraverso lo sviluppo editoriale, è penetrata in tutti gli
strati sociali, in maniera che ciascun uomo abbia potuto capire quale
importanza abbia avuto l’alfabeto nella storia umana.
Come abbiamo visto esso si affermò centinaia di anni fa, quando dai
segni legati alle figure si passò a quelli sillabici, dove ogni
elemento rappresenta una lettera con un suono proprio. Un insieme di
segni, come ènoto, che consente da secoli l’umanità di tramandarsi
storia, scienze, religioni, e via dicendo. Il suo valore immenso,
chiaramente, sta nella sua combinazione in parole, che sono, in
pratica, la traduzione di particelle di pensiero. Ma…vien da
pensare: dal momento che la storia, come ho gia detto, non ricorda che
stragi e saccheggi, la religione riflette spesso fanatismi talvolta
paranoicali e allucinatori, la poesia e determinata prosa, per certi
versi, alimentano nostalgie e malinconie, la filosofia finisce di
solito col proporre vaneggiamenti a catena, la scienza sfocia ad
estuario nelle catastrofi; e partendo dal presupposto che molta gente
beve per dimenticare, l’alfabeto, per svariate ragioni, è stato
davvero giovevole all’umanità?
L’ALFABETO IN CRISI
Ora, prima di imbroccare l’argomento della
diffusione della stampa vista come moderna uniforme dell’alfabeto,
osserviamo cosa ha causato l’obsolescenza dell’invenzione di
Gutenberg. Il 3 gennaio 1954, ad esempio, alle ore 11 nasce anche in
Italia la Televisione. Personalmente ho avuto la fortuna di
raccogliere questo vagito. Avevo nove anni. Il gracchiare della nostra
logorata radiogrammofono, dall’aspetto di una cassa sepolcrale, non
avrebbe dovuto più ammaliare me e i congiunti, né i condomini
prossimi e confinanti, in quel declivio di basalti di mera roccia
vesuviana che è via Beneduce. Le nostre condizioni economiche erano
ben lungi dal consentirci l’acquisto di uno dei primi apparecchi
televisivi. Ma in un locale pubblico potei assistere alla telecronaca
diretta dell’inaugurazione dagli studi di Milano. In precedenza
avevo raccolto solo le solite voci di corridoio circa le trasmissioni
sperimentali del 1953: il film alle 17 e il telegiornale alle 21. Il
sortilegio TV incantava tutti. Sui giornali apparivano ampi i
programmi della radio e brevi, a margine, quelli della TV.
Allora i librai ed ancor più gli editori del libro propriamente detto
non temevano cali, anzi, sei anni dopo, come ho gia accennato, si ebbe
il boom editoriale, che andava a braccetto con quello economico; tanto
meno temevano alcunché i gestori dei 10.000 cinematografi italiani
con i 92 miliardi di incassi l’anno, forse oltre 900 miliardi di
oggi. Le piacevoli ore di lettura del 1954 venivano già disturbate
dai sia pur brevi e frammentari programmi di Mamma Rai. Le
automobili in Italia erano poco più di 600.000 e quasi tutti gli
italiani trascorrevano il fine settimana sdraiati in poltrona.
Già da allora l’editoria, forse inconsapevolmente, instradò la
produzione sull’iconografia. Come ho già designato,l’abbondanza
di immagini nel testo scritto ha una funzione agevolatrice atta a
ridurre sia lo sforzo visivo che il processo mentale di traslazione
dei segni fonetici in immagini. La mia modesta bottega di Via
Purgatorio archivia una serie di piccoli clichès di orientamento
iconografico generico da adibire a questo scopo. Testo-illustrazione
offre un sistema ibrido di assimilazione dei concetti senza dubbio
efficace. Ciò spiega il successo dei fumetti e degli oramai
disattuali fotoromanzi, sostituiti ampiamente dalle telenovele.
Se, ad esempio, si parla di mare in un testo di solo scritto, il
lettore dovrà associare l’immagine di un altro mare visto da lui in
precedenza. Qualche complessità insorge, pero, quando un lettore non
ha mai visto il mare nemmeno in cartolina. Deve solo usufruire della
descrizione che non sempre è soddisfacente poiché si presume che il
mare lo conoscano quasi la totalità delle persone. E sarà pure vero
se si parla di mare; ma se si descrive la fissione dell’atomo o la
sintesi clorofilliana ? Le illustrazioni, dunque, per i testi
scientifici, sono un complemento efficacissimo. Dannose, invece, nei
testi letterari o poetici, dove la fantasia personale deve mettersi in
moto per ricavarne la catarsi finalizzata nell’opera.
Le moderne composizioni grafiche costituite da assemblaggi la dove
predomina l’immagine scuotono indubbiamente la pigrizia mentale
verso la lettura, tipica dell’uomo medio italiano, così
propenso all’evasione, pressato
da un ritmo di vita sempre più frenetico, quindi malproprio alla
lettura e alla sua prerogativa: la concentrazione. Questi nuovi
avvenimenti hanno ottenebrato non solo il fascino del prodotto delle
stamperie, ma la stessa forza espressiva del pensiero combinato in
parole attraverso l’alfabeto, uno dei maggiori strumenti capaci di
stimolare e fertilizzare la fantasia.
Il processo di stimolazione mentale della trasfigurazione artistica ha
mutato i canoni compositivi nella pittura, nella letteratura e nelle
arti applicate ad esse affini. L’ambiguità del reale è conforme al
mistero della vita e della morte, quindi all’insoluto esistenziale
più intenso. Le pulsioni sessuali, ad esempio, vengono alimentate dal
«celato» o, meglio ancora dall’immaginato, in molti casi. Le
culture planetarie di stampo religioso, dal canto loro, hanno allenato
l’uomo per millenni ad atteggiamenti comportamentali scaturiti dalle
speculazioni teosofiche, dove i composti lasciavano spaziare la
fantasia con trasognamenti, speranze, illusioni, delizie, meccanismi
intellettivi che impegnavano la mente e spesso conciliavano il sonno.
In ultima analisi: sognare, di giorno e di notte. Un filosofo diceva:
«Guai all’uomo quando smetterà di sognare!» Cert’è che oggi
non solo si sogna poco, ma si dorme pochissimo. Chissà quali utilità
arrecano all’uomo le scienze positive, a parte l’apparente
benessere fisiologico. Il corpo e analizzato e curato in ogni cellula,
ma al di la del cancro e dell’AIDS, la mente chi la cura ? La salute
mentale collettiva e individuale, quale scienza o psicologia la
garantisce in maniera empirica. Pure la psicologia, idonea per la
prevenzione dell’angoscia si rivela dubbia per la terapia. Le scuole
in materia si moltiplicano, come un tempo con la filosofia,
polemizzano tra loro, prevalgono dottrinarismi categorici ma teorici,
spesso perentori e sussiegosi. Le teorie non sperimentate non
allettano nessuno. L’alfabeto vecchia maniera spaziava, trasognava,
sconfinava, ora si concentrava, ora si rarefava, e la gente dormiva
almeno otto ore per notte.
IL PIOMBO FUSO IN
CRISI
Il piombo di Gutenberg basisce lentamente da più
lustri, come e romantico ma arcaico dire. L’elettronica, nella
fattispecie l’informatica, per non scomodare la cibernetica, ne sta
praticando l’eutanasia. Ma diversi noi quarantenni, in alternativa
ai disagi di uno squallido dopoguerra, fino ad oggi mai sanato per i
nuovi malesseri, abbiamo assorbito, sin da quell’infanzia
travagliata, gli ultimi vapori del romanticismo, che rasentava, certo,
un genere d’infermità, ma non esiziale o apocalittica come quella
odierna. Quei trasognamenti e suggestioni mistiche denominati valori
etici ed ideali, altrimenti detti sostegni psichici, erano atti a
scongiurare ed esorcizzare 1’insoluto esistenziale di sempre, ed in
special modo le pressioni negative di una società asettica e disumana
come quella odierna, che concentra nel sistema, al di la dei colori
politici, angherie di potere coercizioni consumistiche, vessazioni
camuffate di democrazia.
Ah, care, vetuste, fuligginose tipografie artigiane napoletane; oscuri
anfratti, ferite nere dei dedali infestati di bucato, gemme brune
della cultura partenopea, disposte a raggiera intorno al Corpo di
Napoli. Antri sgraziati, disadorni, bizzarri; prestigio ideologico
dei dedali fatiscenti, onore del sottoproletariato urbano. Non
scomparite nell’asetticità del cemento, restate là
come diamanti ideali incastonate
tra bassi e portoni spagnoli, fra letti e fornelli. Ecco un seno nutre
a ridosso di tomi ancora intonsi nell’effluvio della résina.
Bottega, dimora e strada, una cosa sola. Nessun auto, oggetto o
persona può sostare a lungo nei dedali del centro storico perché è
come soggiornare in casa altrui senza consenso.
NAPOLETANITA’ IN
CRISI?
Certo, sa di anacronismo reiterare qui moduli
veristi o neorealisti della Napoli delle cartoline. Ma l’immagine
dei dedali di Forcella infestati di bucato sciorinato sulle corde di
canapa in un contesto di metropoli-giungla, la dove un quindicenne si
buca dietro un portello e due dodicenni scippano, non e retorica. E’
la vecchia Napoli che non regge più alle pressioni dell’europeizzazione
edonistica. I ghetti del sottoproletariato sono l’altra faccia del
progresso. Tuttavia, malgrado lo squallore e le lordure volute anche
dalla contaminazione capitalistica, in questi siti si può ancora
attingere calore umano e soprattutto solidarietà, credo, purtroppo,
ancora per poco tempo. I rioni del Centro storico di Napoli somigliano
alle piccole polis del vecchio mondo, autocrate e solidali.
Comunità un po’ fuori dalla storia, là dove certe forme
comportamentali di solidarietà restano istintuali, caratteriali, un
sociale allo stato brado, mai culturalizzato in pieno. La famigerata
arte dell’arrangiarsi scaturisce da un metodo autarchico di gestire
la propria pelle, sia pure in maniera eslege, nella inconsapevolezza
ovvia e cronicizzata di un popolo, come dire, storicizzato a metà. Un
piccolo stato nello stato. Il popolo napoletano, quello originario dei
bassi fatiscenti, è uno di quelli che ancora disdegna l’operato di
Garibaldi. Una comunità legata alla strada, alla splendida costa,
incapace di rinunciare all’elio e talassoterapia buona parte dell’anno,
ed ancor meno al culto gastroenterico, alle vecchie strutture spagnole
fitte di bassi e case giardino, portoni, portelle, balaustrate ed ampi
davanzali sempre ingombri di opulenze femminili. Gente, malgrado le
apparenze, emotiva, scrupolosa e tradizionalista, che si nutre di
passato, di retorica, di suggestioni mistiche. La razza che,
pur pressata a rinunciare alla fede, non disdegna i tabernacoli e
confonde il rituale religioso con quello pagano in fusione totale alla
superstizione. E una volta che non riesce a rimuovere le parossistiche
crisi esistenziali preferisce ancora 1’Apocalisse alla catastrofe
atomica. Ma ecco che il progresso, lentamente come un tarlo, continua
a strappare questo popolo dal suo habitat. La strada da palcoscenico
diviene giungla urbana. L’equilibrio incomincia ad incrinarsi; 1’artigianato
secolare soccombe. Gradualmente scompare il lavoro a misura d’uomo,
il rapporto di gomito, 1’afflato del mercanteggiare.
La Serao ci ricorda nella sua dilogia i tipografi sottopagati della
sua epoca; ma forse beneficiavano di condizioni psichiche migliori
rispetto a quelle dei giovani tipografi mancati di oggi per ragioni
che è superfluo reiterare; poveri figli di mamma finiti
inevitabilmente nella rete della malavita o incappati nella ruota
della tossicodipendenza. Ogni dieci artigiani che chiudono bottega
dovrebbero essere sostituiti da un centro di formazione professionale;
questi, invece, non solo non si moltiplicano, ma tendono a calare e ad
impoverirsi strutturalmente. I tipografi artigiani vecchia maniera,
dunque, sono ancora i soli, autentici sostenitori della romantica
tradizione gutemberghiana; singolari superstiti e testimoni veri della
riproduzione veloce degli scritti, quindi della diffusione della
cultura e quel che di benevolo, egregio, propizio essa ha dato all’umanità.
Il lavoro artigiano, se pure meccanizzato dal secolo scorso, era
nella vita. La cibernetica sa di robotica extraterrestre, non ha
nulla di umano come le cellule. Conciliare il micro col macrocosmo è
una grave castroneria dell’uomo.
ALFABETO,GRAFIA E STILI IERI E OGGI
Tentiamo ora di focalizzare bene l’argomento
relativo agli stili grafici. L’alfabeto adoperato a tutt’oggi in
occidente è quello derivato dal Romano maiuscolo, divenuto
minuscolo successivamente. Chi ha avuto modo di osservare il carattere
Romano su riproduzioni di documenti antichi o sulle insegne romane
attraverso il cinematografo, può notare come i tratti spigolosi, nel
passare degli anni, abbiano preso forme sinuose, allo scopo di poter
scrivere più rapidamente. Solo il gotico rimane, per così
dire, la pecora nera degli stili.
E’ palese che il gotico tedesco sia la scrittura più difficile da
scriversi e da leggersi. Tutti i caratteri usati nel mondo occidentale
prendono la denominazione di Antiqua in contrapposizione al
Gotico e ai suoi derivati, sebbene (e qui il paradosso) il gotico non
è altro che un forma esasperata dell’alfabeto latino.
Oggi la bella scrittura come materia didattica è stata
soppressa. Il lettore dalla chioma canuta rammenterà quante rigate
nel palmo delle mani ha patito, da scolaro, quando veniva imputato di
sgorbiare il proprio scartabello. La calligrafia, detta poi scienza
degli asini, ha impiegato cinque secoli per essere declassificata,
poiché essa, è chiaro, è stata retaggio dell’arte degli
amanuensi. Attualmente operano sul territorio nazionale svariate
scuole di formazione professionale per tipografi, per lo più di
gestione clericale (sempre di numero esiguo secondo me). Molte, tanto
per variare, sono concentrate in testa allo stivale. In Campania e
famosa quella di Pompei in seno all’Istituto BARTOLO LONGO,
singolare fucina di provetti operatori del settore, dove si sono
formati molti miei colleghi di Ercolano, Torre Annunziata e della mia
Torre del Greco. Il programma comprende, oltre alla pratica d’officina,
le nozioni teoriche affini. Ma la società consumistica tende a
riformare i canoni tradizionali relativi alla stampa come
meccanizzazione dell’alfabeto ed amplia la materia inerente la
grafica pubblicitaria e la cartotecnica legata al confezionamento dei
prodotti di consumo, e via dicendo. La diffusione dell’alfabeto ha
raggiunto i fastigi intorno al mezzo secolo XX, per poi declinare
lentamente.
Non a caso oggi si parla di grafica in luogo di tipografia
con esplicito riferimento alle elaborazioni policrome, seppure
artificiose. Il tipo, ovvero il carattere, un tempo
prioritario, trova sempre minore spazio negli stampati. Le immagini e
gli ampi margini, per motivi di estetica moderna, sono maggioritari.
Il tipografo di domani non sarà altro che un astucciaio, un bustaio,
o, bene che vada, un rotocalchista.
Ma noialtri tapini bottegai tipografi artigiani come reagiamo al
deperire della stampa relativa all’alfabeto? I tipografi artigiani
campani, malgrado la precarietà di sempre sanno eseguire, in ogni
caso, lavori ricchi di inventiva e ricercatezza, entro i limiti
quantitativi, naturalmente, anche con attrezzature decisamente
obsolete. Spesso si improvvisano aggeggi autocostruiti onde emulare i
congegni sofisticati moderni. Senza tema di smentita noi
circumvesuviani siamo i progenitori del fai da te. Congegni
strani e bizzarri scaturiscono dell’estro e, come diciamo noi,
dalla forza della disperazione. Quasi sempre si fa uso di
materiale di fortuna, come assicelle di legno, cordicelle di nylon,
scotch e polvere di sapone (boro talco).
Un folle genio tipografo, che bazzica Torre del Greco perché la sua
consorte va matta per i ninnoli di corallo, un giorno folleggio l’impresa
di combinare assieme due vecchie carrette tipografiche. Fu
naturalmente deriso dagli importatori milanesi. Non solo l’esperimento
andò in porto, ma ottenne dall’artificio una velocità di rotazione
quasi duplicata rispetto a quella consentita, sebbene 1’ordigno si
spostasse di frequente sul pavimento, malgrado i perni di fissaggio.
Quando finalmente si fusero le bronzine e l’arnese si ridusse ad un
rottame il collega impreco collerico contro i costumi corrotti dei
costruttori teutonici perché, probabilmente, avevano adoperato
materie prime di scarto. Devo aggiungere, inoltre, che il collega
geniale espleta esclusivamente l’operato di impressore poiché, per
sua sfortuna, è analfabeta irrecuperabile. Per evitare di stampare
righi capovolti ha escogitato il sistema di trasfigurare le lettere
dell’alfabeto. Egli, suggestionato da reminiscenze puerili le
immagina come tanti pargoli che si tengono per mano distinguendone,
quindi, la posizione eretta. Spesso lo sentivo esclamare: “Gua’
quanto so’ bellilli ‘sti fetentielli!”. Si trattava di
titoli realizzati in carattere fantasia. E non immaginava per nulla,
il candido, che tutti gli stili dell’alfabeto relativi al carattere
Antiqua sono somiglianti nella loro struttura madre ai caratteri
latini. Infatti fanno un po’ eccezione i cosiddetti caratteri
fantasia, nelle loro forme esasperate e bizzarre.
TIPI DI SCRITTURA
E’ un errore pensare che, nel periodo antecedente
1’invenzione della stampa a caratteri mobili, gli stili calligrafici
fossero uno o due. Gli amanuensi ne adottarono numerosi, definiti e
classificati. Ve ne era quasi uno per ogni dottrina, per ogni
indirizzo letterario. Infatti gli stili, come sempre, andavano pure a
braccetto con i movimenti culturali e religiosi del tempo, sempre
sotto 1’influsso delle correnti pittoriche e architettoniche,
proprio come avviene adesso con i caratteri da stampa. Alcuni paesi d’Oriente,
come la Cina e il Giappone, pur rimanendo fedeli alle loro
antichissime tradizioni di stile, pur conservando le loro scritture
classiche originali, utilizzano per motivi commerciali, culturali o
politici, anche le scritture dell’Occidente, traslitterando, in
pratica, tutti i testi del caso.
E’ arrivato il momento di superare lo scoglio della descrizione,
sebbene a grossi tratti, della cronologia dei tipi di scrittura. Fate
come me in questo momento, date fuoco ad una sigaretta per ingannare
la noia. Veniamo a noi. Dopo le scritture cuneiformi, i geroglifici
egiziani, e via dicendo, abbiamo, grazie agli ermeneuti, una
classificazione delle scritture affermatesi nei secoli. Gia dal V
secolo a. C. si scriveva con uno stile ripetitivo e ben articolato: la
Lapidaria greca. Nel II secolo a. C. comparve la Lapidaria
romana. Solo dal II secolo in poi si affermo la Capitalis
quadrata, che fu adoperata fino al V secolo d. C. Come il lettore
annoiato può immaginare, questa era una scrittura appunto larga e
quadrata, bella a vedersi, chiara e intelligibile, ma divorava molto
papiro o cartapecora per cui dal V secolo vi si contrappose la
Rustica, che non ha niente a che fare con i siti agresti, una
scrittura stretta, ma un po’ incerta. Dal IV secolo e per tutto il
periodo carolingio si affermò la scrittura Onciale, e nemmeno
questa ha a che fare con l’unità di misura di peso, ma che si può
decisamente definire la scrittura principe della letteratura
cristiana. Quindi la Semi-Onciale del V secolo, pur essendo
sempre maiuscola incomincia ad accennare una scrittura alta e
bassa, come diciamo noi tipografi, con un chiaro riferimento all’idea
di maiuscolo e minuscolo. La prima scrittura minuscola fu la
Carolingia, altrimenti detta Minuscola romana, apparsa nell’VIII
secolo. Dopo di che scribi ed amanuensi pensarono bene di concedersi
un po’ di riposo che durò, scusateli se fu poco, fino all’Umanesimo.
Ci dovette pur essere in questo periodo qualche scrittura minore, ma
la storia ricorda la Textura con la quale Gutenberg stampò la
famosa Bibbia dalle 42 linee. La Textura, quindi, fu la
prima scrittura imitata artificialmente con i caratteri di piombo.
Segue la Rotunda del XV secolo, in pratica il gotico. Sempre
nel XV secolo abbiamo la Minuscola umanistica o Antiqua,
che, per antonomasia, dà il nome a tutti i caratteri oggi usati che
si contrappongono al gotico. Nel XVI secolo si affermo la Franktur,
nuova versione della Textura. Poi andò delineandosi la scrittura
classicistica del XVIII secolo. Ed infine il corsivo classicistico
sempre di questo periodo, molto simile a cio che oggi va detto
Stile inglese.
DALLO STEMMA ALL’IDEOGRAMMA NELLA GRAFICA
E così, ce l’abbiamo fatta, caro amico, abbiamo
quasi concluso il primo capitolo di questa chiacchierata a
senso unico, perché dire monologo mi fa sentire solo, e soli, dice il
saggio, non si sta bene neppure in paradiso. Andiamo avanti. Non a
caso i ragazzi che si affacciano sull’uscio della mia bottega di Via
Purgatorio chiedendomi uno stemma, desiderano invece un adesivo
commerciale.
Nei paragrafi relativi alla serigrafia paleserò quanta importanza
abbia per noi campani il simbolismo inerente 1’oggettistica, che
affonda le sue radici nell’istinto primario animistico. Oggetto come
feticcio totemico con finalità apotropaiche. Noi napoletani e campani
tutti, non esclusi i miei torresi, siamo, forse, i cristiani più
pagani d’Italia in fatto iconografico. L’individuo, soggiogato da
una coscienza collettiva, cerca nell’autoadesivo moderno non solo l’ideogramma
grafico attuale, ma il simbolismo araldico di un tempo, se non l’ideogramma
primario pre-alfabetico. Il ragazzo di quest’epoca squinternata,
dove si registra la più alta percentuale di confusione mentale della
storia, si identifica non solo con la fuoriserie o la moto-razzo, ma
finanche con un semplice autoadesivo che rappresenti, pero, the
best, riproducente ora un big della canzone, ora il marchio di uno
stilista di grido. Qualcosa che «valga», insomma, come gli elementi
della vecchia simbologia araldica.
Il mondo non cambia, l’uomo sostituisce, ma non annulla i suoi
sostegni psichici, anche con quelli più effimeri e puerili. La
simbologia araldica, come si sa, comprende le corone dette, ad
esempio, di conte, di barone, di principe, di duca, di marchese, di
patrizio, e via discorrendo. Le croci: latina, greca, di Malta,
di Loxena, Papale, fino all’uncinata nazista, alias la
svastica. In più abbiamo gli scudi (da cui: scudetto) quindi
stemma per autoadesivo. Gli scudi erano detti: svizzero,
sannitico, inglese, ancile, a losanga, e via dicendo. Inoltre vi
erano gli scudi-pellicce: ermellino e vaio. Le partizioni: scudo
troncato, tagliato, trinciato, inquartato, ecc. Le pezze
onorevoli: palo, sbarra, banda, ed altre. Dulcis in fundo gli
scudi con figure ideali come il drago, la sirena, 1’idra, il
liocorno, le cinquefoglie, il giglio, le anatrelle e, come e
sfizioso dire, chi più ne ha più ne metta.
Dunque, abbiamo appreso che la grafica relativa agli emblemi si
riallaccia alla simbologia ideografica e all’araldica. Lo stemma
araldico, come il marchio commerciale o il simbolo politico non sono
altro che la simbolizzazione di una idea. Ogni ideogramma, intanto, al
di là della concezione estetica e formale, è studiato perché si
inserisca nella sfera psichica dell’osservatore, influenzandola
positivamente. Perché il marchio tipografico sia di stampo
ideografico lo dimostra pure la segnaletica stradale che assicura
messaggi elementari ed inequivocabili. In Campania vi è una doppia
segnaletica, quella relativa alla circolazione e quella dei grafomani,
forse tipografi mancati. Alcune scritte sono facete, altre
drammatiche. A iosa si legge: Dio c’e; Gesù salva. Altro
come: O voti di qua o di là sempre in c… (nei fondelli) ti
arriverà. Tutti i marchi moderni hanno come prerogativa la
stilizzazione dei tratti e l’elementarietà del concetto per
garantire la massima comprensione. Non mancano, di certo, i marchi di
contenuto ermetico allo scopo di stimolare la curiosità e la
fantasia, a discapito, pero, dell’intellegibilità. Inoltre una
certa pubblicità, per così
dire minore, gioca d’ambiguità
con ideogrammi e scritte camuffate allo scopo di confondere dei
prodotti con altri più famosi.
E’ arrivato il momento di concludere il primo capitolo di un libro
che potrebbe apparire un elogio alla stampa tipografica tradizionale.
E’ chiaro che molto spesso mi lascio prendere la mano dalla
deformazione professionale, avendo senza dubbio il piombo nel sangue,
non nel senso del saturnismo, grazie a Dio. Bisogna provarla questa
droga del piombo fuso. E qui voglio ricordare il fraterno amico Franco
Penza che alla fine degli anni ’60 redigeva i due suoi originali,
«scapigliati» giornali: «Il Penzatore» e «L’infinito»,
nella mia bottega nascente di Via Purgatorio. Egli si interessava di
Critica d’Arte; io notavo l’aspetto psicologico (dietro una
divertente ironia goliardica) di alcuni sedicenti pittori e attori
torresi, ciascuno sempre inevitabilmente al centro di un eliocentrismo
gigionesco o di un egocentrismo assolutista da genio incompreso.
Dividevamo con loro le illusioni, le gioie fittizie, l’orgasmo
spasmodico all’apparire della prima copia del manifesto o del
depliant relativo al loro singolare operato.
Ah, questa mania dell’animale uomo di primeggiare e di sentirsi
inimitabile! Tutta brava gente, in fondo, tutti cari amici, soggiogati
dall’allucinazione del sogno mirifico della trasfigurazione
artistica. Nulla tolgono, però, queste osservazioni all’operato di
questi simpatici facinorosi estremisti dell’arte, il cui giudizio
peculiare non mi compete. L’aspetto psico-caratteriale dell’artista
è estraneo
alla valutazione delle sue opere. Quanti visi in deliquio! Misteriosa
forza della Tipografia, sempre legata a tutti i generi artistici! Ma
sono passati nella mia bottega anche personaggi torresi affermati in
campo nazionale ed internazionale. Forse anche noi, Franco Penza,
facciamo tesoro delle illusioni? Tu che riferendoti a questo lavoro
hai azzardato simpaticamente che il Marinismo rivive nel
Mari la sua nuova epopea? Io la reincarnazione di Gian Battista
Marino? Non esageriamo, caro amico dei sogni letterari sempre vividi.
Per nostra fortuna prendiamo ancora tutto come un gioco e non ci
immoliamo sotto il giogo di questo spinoso sentiero delle ambizioni
artistiche.
II progresso è una piacevole
malattia.
«One times on» - Edward Estlin Cummings
CAP. II
GLI AMANUENSI E LA
STAMPA A CARATTERI MOBILI
C’è, per le scoperte un
tempo di maturazione,
prima del quale le ricerche sembrano infruttuose.
Una verità aspetta per sbocciare la riunione dei
suoi elementi.
«Enciclopedie» Jean-Frangoise Marmontel
LO SCRIPTORUM
Tutti sappiamo, oramai, che furono i monaci
medioevali i maggiori amanuensi della storia. Lo scriptorum era
un’officina scrittoria fornita, come nelle aule scolastiche, di
regolari sgabelli. Assorti nel loro lavoro, i certosini, e il
caso di dire, sbuffavano quando, probabilmente, secondo il rituale, un
collega si affacciava sull’uscio per rammentare il memento mori.
Dal momento che non era stato ancora inventato il vetro, si dice che i
poveretti incontrassero molte difficoltà durante il lavoro. Sebbene
adoperassero oggetti adeguati per fermare le scartoffie, non vi erano,
purtroppo, le aspirine per combattere i frequenti raffreddori. I
cenobiti, in genere, non erano avvezzi a tabacco e a Venere,
ma in quanto a Bacco... Altro che prevenzione dei malanni! Poi,
grazie all’avvento della carta oleata, gli amanuensi trovarono
maggiore difesa contro le scalmane. Si dice che i monaci, tra l’altro
buone forchette, divorassero bulimicamente, date le diverse astinenze,
pecore e selvaggina, scuoiate allo scopo di ricavare la materia prima
per fabbricare il supporto destinato alla scrittura. Alcuni religiosi
fungevano pure da miniaturisti per disegnare quelle complesse
maiuscole e per illustrare qua e là i codex. Vi erano dei testi così
estesi e complicati che spesso non bastava 1’intera vita di un
amanuense per realizzarne una copia. Prima ancora che sorgesse la
copiatura laica quasi tutti i testi, non teosofici, venivano burattati
da dissolutezze ed impudicizie. Per fortuna il Decamerone non
cadde mai nelle grinfie dei monaci...
E’ superfluo aggiungere che la copiatura avveniva sia attraverso il
lavoro individuale che dietro dettatura del bibliotecario. E quante
volte, c’è da immaginarselo, un po’ per il tedio, un po’ per il
sonno, l’uno avrà dettato patate e 1’altro avrà scritto
cipolle. In ogni modo i monaci avevano libero arbitrio di purgare,
modificare, intrapolare o estrapolare. Gia ai tempi dei romani, però,
esistevano officine scrittorie frequentate da schiavi. Dall’anno uno
ab urbe condita, al 1450 dell’Era Cristiana gli amanuensi hanno
rappresentato il lungo periodo di preludio della storia della stampa,
perché, appunto, sono stati i precursori pazienti e un po’
secchioni, delle arti grafiche. Fu probabilmente il loro superlavoro a
suggerire 1’invenzione a Gutenberg. Gia dal VII secolo, intanto,
esistevano delle sparute officine laiche che si moltiplicarono, nel
tempo, molto lentamente.
NON DI SOLO AMANUENSE
Non bisogna dimenticare, però, che uno dei primi
sistemi di stampa fu inventato dai cinesi. Gli orientali adoperarono
dapprima caratteri di terracotta per stampare i loro singolari
giornali. Nel VII secolo apparvero i primi caratteri di rame e altre
leghe. Il metodo si rivelò problematico se si considera che l’alfabeto
cinese comprende circa cinquemila segni. Così, mai scoraggiati,
inventarono la stampa tabellure, altrimenti detta
xilografia. Essa consiste (perché per finalità artistiche ancora
si pratica) nell’utilizzare come matrice una tavoletta per lo più
di legno incisa a mano. Il risultato era pressappoco simile a quello
dei clichè zincografici, ottenuti con 1’ausilio di un negativo
fotografico, la luce attinica e la morsura d’acido, adoperati tutt’oggi
dalle tipografie tradizionali.
Idonea per la riproduzione di immagini, la xilografia non risolveva il
problema della composizione alfabetica. Diffusasi pure in Europa non
cadde in disuso, infatti dopo l’invenzione della stampa a caratteri
mobili venne utilizzata come ausilio alla nuova scoperta per
illustrare le opere stampate, data la sua ottima compatibilità col
torchio. E’ pur vero che sulla tavoletta era possibile incidere
quante lettere dell’alfabeto si volesse, ma a parte la laboriosità
del sistema, la matrice, essendo monoblocco, non consentiva
correzioni; inoltre lo strofinio vigoroso degli xilografi nella parte
posteriore del foglio non concedeva la possibilità di stampare
ripetutamente sul fronte retro. I caratteri mobili risolsero ogni
problema. Sebbene alcune polemiche sulla paternità assoluta di
Gutenberg della stampa tipografica non si siano mai del tutto
dissipate, la storia vuole che 1’orefice di Magonza, nel 1450,
iniziasse a sperimentare gli strani bastoncini di piombo fuso, aventi
sull’estremità superiore il rilievo delle lettere a rovescio. Come
è facile capire, lo scopo che si era prefisso quell’astuto di
tedesco fu quello di rendere rapida non già la formazione delle
pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimate. Johan Gutenberg,
come ho detto, era orefice di professione e, guarda caso, Torre del
Greco, la mia città, ovunque riconosciuta come Patria del Corallo,
trabocca di orafi ed orefici. Ma sono certo che nessun torrese
trascurerebbe l’oro per mettersi a fondere il piombo. Gutenberg lo
fece, ma posso assicurarvi che non era uno stupido. Cercava sì
la gloria ma, come gli alchimisti,
riteneva la sua invenzione una vera pietra filosofale, perché,
appunto, tentava di trasformare il piombo in oro, coi ricavi del suo
notabile operato, in origine, comunque, non poco contrastato, come
tutte le grandi innovazioni della storia.
SE GUTENBERG NON FOSSE NATO
Certamente, se Gutenberg non fosse nato, per
certi versi l’umanità non sarebbe stata coinvolta nelle maglie di
quella rete inesplicabile della cultura dotta, che rimpinza, per dirla
in tono arcaico, persino i poveri cerebri dei pitocchi. La cultura,
con le sue aporie e i suoi macchinismi cogitali ha turbato il sonno
finanche ai poveri cristi. I barboni talvolta diventano barbassori, i
coltivatori diretti culturalisti, con almeno un figlio prete o
avvocato. Ma il se, come si e soliti dire, non ha fatto mai
storia, cosi, quel figlio di una buona tedesca, Gutenberg, scoperchiò
la fissione dell’alfabeto. Mettiamo, per, che la fotografia
fosse stata scoperta nel XV secolo, si sarebbe subito utilizzata la
sostanza sensibile alla luce onde sperimentare 1’incisione agevolata
e ripetitiva, in pratica il clichè, e provveduto, quindi, a
celerizzare il lavoro xilografico, calcografico e via dicendo. Il
teutonico, ochi per esso, avrebbe, forse, riprodotto le pagine dei
codici amanuensi nella loro scrittura originale con la riproduzione
anastatica, invece che con i caratteri mobili, evitando, in questo
modo, di sentirsi rimbrottare continuamente che i libri stampati con i
suoi diabolici bastoncini di piombo fossero, in definitiva, null’altro
che delle fallaci contraffazioni dei codex. E dal momento che l’orefice
sperimentava i caratteri con i testi di moda, quelli sacri, tanto per
variare..., non avrebbe mai corso l’alea di una condanna per eresia,
stregoneria o che dir si voglia, rischiando di finire arrostito sul
rogo dal Tribunale del Santo Uffizio.
Ciò non avvenne perché, tutto sommato, ai monaci amanuensi, oziosi e
sbuccioni per seconda vocazione, faceva comodo che qualcuno,
finalmente, smaltisse loro un po’ di fatica, anche se dietro
artifici dissacratori... Ma, come mai si continuava ad usare i
caratteri mobili anche dopo la effettiva scoperta delle prime
dagherrotipie, quindi del clichè, avvenuta nel secolo scorso?
Intanto si colse a volo la scoperta zincografica per utilizzarla come
impareggiabile alternativa alle lente, laboriose e malagevoli tecniche
xilografiche e calcografiche.
Il clichè, come tutti i sistemi fototecnici pre-fotocompositivi,
risolveva il problema della riproduzione anastatica, ma non quello
della composizione di sana pianta detta a caratteri mobili, anche
perché i caratteri mobili, rispetto alla calligrafia erano
ripetitivamente precisi e regolari. Il clichè, quindi, miracoloso per
la riproduzioni. di codex o di libri già stampati, era disadatto per
le opere inedite. Tanto più, in solco binario con la fotomeccanica, l’invenzione
di Gutemberg fu meccanizzata e resa veloce da OTTMAR MERGENTHALER, il
quale, nel 1883, ebbe la felice idea di mettere a punto il prototipo
definitivo della gia parzialmente sperimentata compositrice automatica
monolineare, meglio nota col sostantivo Linotype. La disfatta,
però, della geniale invenzione della stampa a caratteri mobili non è
da imputare alla fotomeccanica, né alla stampa offset o .alla sua
consorella rotocalco, tanto meno ai sistemi dattiloscrivibili
elettronici o meno, a pallina o a margherita, ma al calcolatore
elettronico, nella fattispecie la fotocomposizione!
Se Gutemberg non fosse venuto alla luce probabilmente il clichè di
zinco avrebbe riprodotto i codex ottenendone la stampa veloce. FIRMIN
MILLOT sfruttò la fotografia per realizzare i suoi clichè. Già nel
1850 incise la prima lastra di zinco tramite morsura di acido nitrico,
utilizzando la luce e un negativo fotografico che fungeva da maschera
sulla lastra sensibilizzata con una vernice trattata. II clichè aveva
emesso il primo vagito, ma non avrà lunga vita. Caratteri
automatizzati linotipici e clichè piani di zinco hanno dominato 1’arte
nera fino alla metà del XX secolo. Le poche officine di alcune
Testate che ancora non si sono convertite alle nuove tecnologie
tuttora formano le pagine di giornale con piombo linotipico e clichè,
specie il giornalismo minore. (Oggi 2002 non più. N.d.r.). Ed è
proprio in questi vetusti opifici che si ascolta il rantolo letale del
piombo fuso. E’ proprio in questi nostalgici casermoni di minuscoli
soldatini di piombo che gli anta di animo lirico e ispirato
sentono salire il groppa alla gola. Intanto la sgherra fototecnica,
ormai computerizzata (sistema a freddo, contrapposto al sistema
a caldo del piombo fuso) avanza con i cosiddetti passi da gigante,
e, nella scorreria impietosa, si modifica e migliora, solo ai fini
produttivi, naturalmente, requiando uno dei fattori fondamentali del
lavoro creati- vo e delle arti applicate tutte: la partecipazione
emotiva, il contatto epidermico, l’afflato diretto con la materia da
plasmare con le dita come l’artista con l’argilla. Il sistema a
freddo squassa la sua criniera reiterando di continuo la fredda
compiacenza delle vittorie, dove il traguardo del bottino estorto,
però, non alimenta che nuove bramosie e concupiscenze.
Se Gutenberg non fosse nato la cintura vesuviana non avrebbe neppure
beneficiato dei sostegni etici positivi che certamente si recuperano
dal groviglio di nodi della diffusione della cultura. Quale mestiere
avrebbero esercitato i nostri Vico, Croce e De Sanctis dietro la
consapevolezza che le loro analisi andavano. trascritte. in una o due
copie di codex, destinati al massimo ad arricchire le sontuose ville
vesuviane degli altoborghesi? Cosa avrebbero fatto i nostri.
Ferdinando Martello ed Emanuele Melisurgo se non fosse esistita la
vecchia partenopea tipografia Flautina che stampava uno dei
primi giornali umoristici della storia, intorno alla meta del secolo
scorso: L’Arlecchino?. Fossilizzazioni borboniche avrebbero
stagnato il torpore di un popolo in perpetua precarietà, sempre
dominato e prevaricato dall’alto e dal basso. Sarebbe stato ancora
condizionato ad oziose controre nei dedali spagnoli, negli androni
sgraziati e disadorni dei centri storici di provincia, nell’acre
delle fatiscenze, là dove visi olivastri statuavano assisi, in un’etra
infestata da aculeati frugiferi (scusatemi i termini dell’epoca).
Non si sarebbe diffuso, certo, alla fine del XIX secolo il famoso
Monsignor Perrelli, che dettava i primi veri spunti o sputi,
se più vi piace, polemici ed anticonformisti, in contrapposizione ai
millenni di oppressione stagnante, allineandosi ai grandi riformatori
del pensiero scientifico del secolo scorso, se Gutenberg non fosse
nato. E, d’altro canto, come si sarebbero diffusi gli spunti de’
Il concetto dell’angoscia di Kierkegaard o i Tre saggi sulla
sessualità di Freud, o ancora le crude, assideranti “verità”
dell’elegiaco Leopardi o del caustico Nietzsche?
Insomma, come avremmo fatto a vivere ancora peggio attraverso il
doppiotaglio della conoscenza? Il vecchio saggio napoletano diceva:
chi capisce patisce.
Se Gutenberg non fosse nato, Antonio Scarfoglio non avrebbe potuto
pubblicare il primo rotocalco d’Italia Il Mattino Illustrato,
del 1924, perché la moderna, meccanizzata versione della vecchia
calcografia, non avrebbe potuto beneficiare della composizione
alfabetica dei caratteri mobili. Se quel calabrese di tedesco,
volitivo e testardo come tutte le persone geniali, non fosse esistito,
ce la saremmo sognata a Napoli la rinomata Emeroteca Tucci e la
Biblioteca Nazionale ai Cavalli di Bronzo (Largo Castello) che
nacque con la raccolta farnesiana di Carlo III di Borbone e arricchita
con la fusione di altre biblioteche napoletane. (Non tutti i campani
sanno che si tratta di una delle più importanti biblioteche d’Europa,
dove è possibile osservare, oltre ai famosi Papiri di Ercolano,
incunaboli, manoscritti e codici miniati di diversi orientamenti
culturali). Grazie a Nonno Gutenberg la nostra Napoli ha potuto
sfoggiare anche le sue tradizioni culturali, riallacciate anche alla
vecchia Scuola Salernitana.
Ah, costa campana, perché ti sei europeizzata (l’accezione
non è quella relativa all’unione europea, alla moneta comune, ecc.,
siamo negli anni 80. N.d.r.), perché ti sei deturpata nell’urbanistica?
Leggiadra fetta di ecumene principe che va dall’amena Pozzuoli e via
via con le alture di Posillipo, lungo la invidiata Caracciolo, e giù
per la storica Ercolano, per la mia ferace Torre del Greco e la
fastosa Pompei, indi Castellammare, dove termina la fascia vesuviana
tirrena, proseguendo ancora per la suggestiva Vietri e la impresepiata
Amalfi, quindi la notabile Salerno fino alla talassoterapeutica Pesto
dei Greci. Una terra (alla faccia degli antiretorici) decantata dai
miti più antichi, dalle sirene di Ulisse; bersaglio degli
insediamenti magnagrecisti, dimora amena e tranquilla per svaghi e
riposo dei romani antichi.
La terra vesuviana, oggi in degrado, ha esternato in passato il suo
genio interiore creativo ed intellettivo con la filosofia
popolare-verbale e cattedratica, con la poesia più intensa e
vibrante, con la scienza e le arti, aderendo alla diffusione della
stampa, sempre utilizzata e seguita nelle sue fasi evolutive. Grazie
anche all’orefice di Magonza l’amena costa vesuviana non è
rimasta solo una figura leggiadra
di venere seducente, ma vacua, come molte belle donne. Peccato che il
flemmone della bramosia di potere si stia allargando a macchia d’olio
in tutte le fasce sociali. Per la prima volta nella storia il
malessere scaturisce dall’individuo, emarginato dalla recrudescenza
del suo insoluto esistenziale. Il male dell’uomo moderno è sociale
solo per conseguenza. Anche Napoli, purtroppo, diventa un capoluogo di
folla-sola.
L’unico antidoto contro il babelico ordinamento comportamentale
suggerito dai mass-media è la loro nociva grancassa
propagandistica inneggiante al consumismo, potrebbe essere una
sana lettura, oserei dire pre-culturale. Ricusare l’intricato
onanismo intellettuale delle elucubrazioni dottrinarie e delle
speculazioni filosofiche senza sbocco. Una lettura inedita, che non
coinvolge il lettore negli interessi pratici o ideologici dell’autore;
una lettura puerile, bonaria ed amorevole, antiscolastica,
antisapienza, antistorica, che non si prefigge di insegnare nulla se
non la riscoperta di saper stare insieme nella piena gioia di vivere.
Semplicismo o qualunquismo? Banalità, retorica? Signori, con la mania
della critica, dell’analisi scelta, del the best artistico
abbiamo distrutto la spontaneità espressiva, abbiamo contorto e
complicato tutto, abbiamo deformato il corso autentico e naturale
della vita persino con le favole dei bambini, ricche di
trasfigurazioni e contorsioni della realtà, con la mania dell’arte,
del desueto, dell’ambiguità creativa, dell’effetto. Abbiamo
finito per trasmettere ai bambini la parte inferma della creatività
artistica. Lasciamo che i bambini scrivino i libri per noi, i bambini
appena accostati ai rudimenti lessicali, i bambini incolti e
incontaminati dalla cultura, i bambini come immagine speculare degli
uomini di Neanderthal, semplici, bonari e pacifici perché appunto
incolti, ignari dell’elaborazione culturale dell’angoscia umana
legata all’idea del decesso e la probabile assenza salvifica o alla
devastante idea del peccato. I bambini lontani da TV e computer, gli
ultimi e più terrifici strumenti di una cultura in saturazione; i
bambini nuovi, pasturanti nei prati virenti e rigogliosi, nutriti con
more e aromatici agrumi, lontani dalle derrate martoriate nei
laboratori per la conservazione o dalle mattanze della vivisezione..
Lasciamo che tali bambini scrivano i libri per noi e bruciamo le
biblioteche, forse assisteremo alla nascita di una umanità diversa,
almeno per qualche millennio... Perché l’unica salvezza del mondo,
la vera non utopia e quella di creare una umanità la cui ragione sia
finalmente aliena da tutte le elaborazioni culturali accumulate
nei millenni, comprese queste mie considerazioni scritte..
E così, cadendo io stesso nella prosa scolastica, cedendo alla mania,
come tutti coloro che usano lo strumento della scrittura, di
coinvolgere gli altri nelle proprie idee, tronco tosto la
dissertazione osservando, invece, che la stampa a caratteri mobili di
piombo fuso è ormai agonizzante anche perché il progresso, inteso
soprattutto come evoluzione fisiocratica, fa pressione sulla domanda
crescente relativa al movimento demografico. Devo spezzare una lancia
in favore dei progressisti riconoscendo che le tecniche veloci sono
più idonee al fabbisogno planetario di stampati. E’ discutibile,
pero, (ricompongo la lancia) se questo tipo di fabbisogno sia
necessario o superfluo, se non dannoso. L’inventore d’altra parte,
oblia 1’aspetto speculativo di ogni scoperta, per non dire quello
esiziale (vedi la bomba atomica) perché spinto innanzitutto dalla
molla dell’affermazione personale.
MA GUTENBERG FU
Ora soffermiamoci un tantino sulla nascita della
stampa a caratteri mobili. JOHAN GENSFLEISH GUTENBERG, nato nel 1394?,
sperimentò il sistema per moltiplicare gli scritti in un tempo di
gran lunga inferiore a quello impiegato dagli amanuensi. Come ho già
accennato, sebbene i caratteri di piombo fossero più simmetrici e
regolari tra loro, quindi più gradevoli e facili da leggere rispetto
alla scrittura manuale, lo stesso Gutenberg definiva i suoi libri «scripture
artificialiter». Come informano diverse attendibili fonti, senza
voler togliere nulla ai tedeschi, l’orefice non fu l’inventore
della stampa in assoluto, ma essenzialmente il più accanito e
costante sperimentatore dei caratteri mobili e del torchio da stampa
ricavato, sembra, da un torchio da vino. Sarà per invidia, sarà
perché al mondo è difficile che qualcuno si faccia i cavoli propri,
alcuni pedanti e zelantoni affermano che il teutonico (uso questo
termine nell’accezione di: preciso e tenace, non in senso
dispregiativo, amo nonno Gutemberg) si avvalse di esperienze analoghe
già praticate in tutto il mondo e in ogni tempo. In quel periodo
sembra abbiano tentato esperimenti equivalenti: PANFILO CASTALDI di
Feltre, il fiorentino BERNARO CENNINI, il tedesco LAURENT COSTER, e
via dicendo. Con molta probabilità era già esistente lo spionaggio
industriale, attività difficile e perigliosa, perché le delazioni,
come per i ladri in Oriente, venivano castigate con l’amputazione di
un arto. E... ora sto sbellicandomi dalle risate all’idea che tali
estreme sanzioni fossero comminate oggi in Campania e anche altrove, d’altra
parte,... sai quanti moncherini si vedrebbero in giro.
La stampa a caratteri mobili in pieno Rinascimento fu subito
conosciuta in tutto il mondo occidentale, ma ricevette, all’inizio,
solo parziali consensi. E’ strano constatare che una tipografia
cinque-seicentesca, anche la più importante, non avesse altra
attrezzatura che una esigua scorta di caratteri, un modesto torchio da
vino modificato, dei compositori più o meno incerti e dei robusti
torcolieri.
Ed io, tapino e modesto bottegaio, nell’ottica del capitalismo, con
il ginepraio di arnesi usati e la varietà di risoluzioni tecniche
adoperate o inventate, cosa potevo rappresentare allora? Le officine
Mondadori? Ho senza dubbio sbagliato epoca per mettermi a fare il
tipografo nella bottega-bazar di Via Purgatorio. Ché, poi,
questa Via Purgatorio suggerisce sempre tono di dileggio alle verbalità
telefoniche dei fornitori per arti grafiche irriducibilmente e
irrimediabilmente milanesi. Ma andiamo avanti. I tipografi di allora
(voci di corridoio) erano gelosissimi dei propri caratteri, (come se
adesso non lo fossero) Li custodivano come reliquie, e pure adesso,
poco ci manca, a parte alcuni tipografi sciagurati di mia conoscenza,
che fanno una tale bruzzaglia o mmescafrancesca e ’nfranzesaggine,
per dirla in gergo, che, sempre per dirla a modo nostro, il
Padreterno ne vuole il cuore.
Si dice che allora la fusione dei caratteri avvenisse manualmente,
attraverso arnesi rudimentali autofabbricati. Proprio come accade oggi
da noi per attuare soluzioni ottenibili, invece, con zuppe
sostanziose, alla milanese... Adesso capisco perché dicono che siamo
arretrati di cinque secoli. Il torchio da stampa, dopo aver spremuto
anni ed anni vino, indossava la marsina o il pastrano e si dava alle
lettere. Il famoso mezzo di stampa, a parte le freddure da
goliardo, ebbe lunga vita. Era costituito da una base molto pesante,
dal piano portaforme (dove veniva inserita la composizione, cioè i
caratteri allineati in righi uguali), e dalla grossa vite che veniva
manovrata da una leva, il cui movimento permetteva al piano di
pressione superiore di abbassarsi dolcemente, ma con tutto il suo
peso, sulla carta inumidita, poggiata sui caratteri preventivamente
inchiostrati, del piano inferiore. I rulli erano di cuoio.
Pare, pero, che in quel periodo le madri degli inventori prendessero
la pillola, o comunque adoperassero anticoncezionali molto efficaci,
dal momento che il travaglioso torchio, come direbbero i
siculi, fu impiegato per oltre trecento anni. I primi libri stampati,
com’è noto, vengono detti incunaboli (in culla). Il periodo degli
incunaboli va dall’inizio della scoperta della stampa fino alla meta
del diciottesimo secolo. Fu un periodo duro per l’affermazione della
stampa. Un giorno i tipografi scesero in piazza insieme ad una sorta
di rappresentanti di categoria, postulando che bisognava smetterla,
una buona volta, di ritenere il libro stampato una contraffazione.
Infatti, nei giorni seguenti, gli incisori di matrici (poiché la
petizione era stata respinta a suon di carciofi e cavolfiori, dai
monaci che minacciavano scomuniche in tono sussiegoso e perentorio)
non si risparmiavano nessuno sforzo non già allo scopo di creare
caratteri ripetitivamente uguali e perfetti, ma irregolari ed il più
possibile fedeli alla scrittura manuale. Ma guarda le fisime dei
conservatori! Solo molto tardi la stampa fu riconosciuta, non solo
come invenzione utile, ma come moderna forma d’arte. I caratteri,
cosi, presero il sopravvento sulla scrittura manuale. Un po’ come
fanno molte mogli dopo i primi anni di matrimonio.
All’origine i libri avevano un aspetto molto diverso da quello d’oggi.
La carta, ad esempio, spesso conservava il suo aspetto ondulato a
causa delle bagnature sulla parte posteriore, onde favorire il
contatto del foglio con i caratteri. Veniva lasciato molto margine
intorno allo scritto e soprattutto il libro se richiesto rilegato dal
cliente era consegnato intonso. Gli incunaboli non avevano le pagine
numerate, né rontespizio, né soscrizione o colophon, come
dicono all’estero. Si dice che la massima tiratura. non superasse le
duecento copie. (Come avranno fatto a contare - tutte le tirature di
allora?). Mah, questi storici e filologi, faranno come gli amanuensi,
di tanto in tanto qualcosa se la inventano, Ma andiamo avanti.
Verso la fine del 1500 si ebbe la prima fioritura della nuova
scoperta. Gli studiosi, fedelmente o meno, ci ricordano che agli
albori del 1600 si contavano in Italia ben 150 tipografie. (Oggi manca
poco che si contano nella mia piccola Torre del Greco). Ma, bando alle
ciance. La capitale del libro fu Napoli... Domando: fu Napoli? Pare
proprio di no, purtroppo.. (Fosse mai stata la capitale di qualcosa).
Fu la languida Venezia. Il maggiore prototipografo italiano fu ALDO
MANUZIO. Egli si può considerare il padre dell’editoria italiana. A
libro affermato i prototipografi avevano più fans degli autori
di libri. Manuzio produsse molti esti classici aumentando la tiratura
da duecento a mille copie. (Ci crediamo?). Con molta probabilità
nelle vene di quell’uomo dovera scorrere sangue milanese o
giapponese, perché aveva davvero il cosiddetto bernoccolo degli
affari. Avvalendosi della locuzione: Carmina non
dant panem,
la modificò n: Imprimer carmina dant panem, e non andava
errato. Fu lideatore, in nuce, tanto per stare in tema di latino, di
ciò che oggi chiamiamo le collane economiche. Ne produsse una
gran quantità (saggiamente non ci affermano quante) il cui basso
costo favoriva la diffusione. Si dice ancora che Aldo Manuzio avesse
una particolare sensibilità artistica, cosa raramente presente in chi
ha molto fiuto per il danaro. Penso di condensare gli scritti per
economizzare carta e inchiostro e per rendere i libri più maneggevoli
ma nello stesso tempo non trascurò di offrire una lettura gradevole,
per questo si fece disegnare da FRANCESCO GRIFFI il famoso corsivo
detto appunto delle edizioni aldine. Il corsivo, in
genere, viene detto anche italico dai fabbricanti
internazionali di macchine da scrivere con riferimento al carattere di
Griffi. L’arte della stampa si affermòmano mano non solo in Italia,
ma in tutto il mondo occidentale. Nel 1700 emigrò oltreoceano.
Nel Nuovo Mondo ne fu pioniere BENIAMINO FRANKLIN di Boston, che
fondò inoltre una cartiera, una grande biblioteca, e stampò la
Pennsylvania Gazetz, il primo giornale americano, e scusatelo se fu
poco. I plutocrati sono sempre esistiti, non mi spiego, però, come
mai, i Berlusconi e gli Agnelli non nascano mai a Napoli. Nello
stivale le tipografie si diffusero in modo sorprendente, non certo
nella misura in cui si sono diffuse in Campania ai giorni nostri. Ma
in entrambi i casi, oggi come allora, si verifica il fenomeno del
regresso qualitativo per motivi di concorrenza. Le arti grafiche
subirono, per una ragione o per l’altra, una sia pur leggera
flessione negativa e persero alla fine del 1700, un po’ del loro
prestigio relativo alla prima affermazione del secolo precedente.
Anche questo si dice, che a sollevare il tenore della tipografia
italiana dal 1700 in poi fu GIANBATTISTA BODONI, da cui il famoso
carattere Bodoni. Egli rappresentò un’altra pietra miliare nel
lento cammino della stampa italiana. Non solo valorizzò di nuovo la
nobile arte, ma la miglioro nell’estetica portandola a fastigi mai
raggiunti. Erano lontani, oramai, i tempi in cui i libri venivano
considerati delle imitazioni. Napoli, purtroppo, figura raramente
nella storia italiana della stampa, se non per un riflesso culturale.
Le notizie storiche sulla evoluzione della stampa napoletana sono
inserite in maniera frammentaria nelle pagine seguenti nel quadro
generale della cultura napoletana in relazione al- l’arte scrittoria
fino all’Illuminismo e via via lungo i secoli successivi di lenta
aderenza allo sviluppo dell’arte nera.
I CARATTERI DI PIOMBO E IL VECCHIO «PADRONE»
I tipografi non hanno mai brutti caratteri...
perché, come ho gia detto, tutti i caratteri usati in Occidente
discendono da un’unica nobile famiglia: 1’Antiqua. Il gotico,
figliuol prodigo, in declino sin dal 1500, è ritornato nelle
tipografie di tutto il mondo. Rivisitato e modernizzato fa, comunque,
la sua sporadica presenza in molti tipi di stampati. Il capostipite
dell’Antiqua, non dimentichiamolo, è
il carattere Romano. Il carattere
di piombo da stampa è costituito da un parallelepipedo poco più alto
di due centimetri. Il fusto di un carattere da libro, come quello che
avete sotto gli occhi, è poco più spesso di un fiammifero da cucina.
La lettera e incisa sull’estremità superiore in rilievo (a
rovescio). Sulla parte inferiore del fusto vi è un solco tacca, che
serve al senso tattile del compositore onde allineare i fusti nel
compositoio senza bisogno di guardare. Ho sentito doverosa questa
sommaria descrizione perché fra qualche anno si finirà solo col
descrivere la salma di questi famigerati, e diciamolo pure, valorosi
soldatini.
Chissà quale intruglio adoperò Gutenberg per realizzare i suoi
caratteri, credo pressappoco la lega odierna: piombo, antimonio e
stagno. Il piombo per la duttilità l’antimonio per la
resistenza, lo stagno come antiossidante, e talvolta un pizzico di
rame per rendere fluida la lega.
Fino a qualche decennio fa alcuni giornali venivano ancora composti
con i minuscoli caratteri mobili. Ricordo con nostalgia un
personaggio, in una parola, grottesco, della tipografia napoletana:
Don Pietro. Ma sì voglio immortalarlo: DON PIETRO riusciva a
comporre un rigo di libro in 15 secondi (in media 50 lettere) quasi 4
bastoncini al secondo e questo per la durata delle giornate lavorative
di una volta. In più componendo, si scioglieva in lazzi e scurrilità
facete. La palpebra dell’occhio destro si era perpetuamente
anchilosata nell’atto di chiudersi nelle ripetute attese delle
scoppole in testa, del padrone, che a quei tempi si concedeva
diverse angherie. Sappiamo bene come il mercimonio operaio riprese
nell’immediato secondo dopoguerra. Lavoro intenso e paghe da fame.
L’ultima volta che vidi Don Pietro fu quando mi fece visita nella
bottega di via Purgatorio nell’ottobre del 75. Era radioso. Aveva
riscattato la sua dignità di lavoratore sotto l’egida dei sindacati
e aveva finalmente maritato tutte e otto le figlie femmine. Si
rammaricava solo che a nessuna di esse era toccato in sorte un marito
tipografo. «Il vecchio padrone - mi disse quella volta - era
un vero tiranno». Pochi diritti erano tollerati. La rivoluzione
sociale del 1831 aveva perso, con le guerre, il suo mordente. Nessun
Marx poteva garantire la scodella di minestra per un nucleo di dieci
bocche. Né venivano riconosciuti i diritti conquistati a cavallo del
secolo da movimenti come quelli di Metello di Vasco
Pratolini. In ogni caso la parola d’ordine era: là sta ’a
porta!
Poi con l’ironia che contraddistingue ogni napoletano autentico Don
Pietro biascicò: «Ma oggi... povero padrone. Quello mio, attuale,
non fa altro che piangere miseria. Veste dimesso, lesina sugli
acquisti. E’ annichilato dai sindacati. E’ capace di ingerire il
danaro che incassa se lo sguardo bieco o sornione di un dipendente gli
piomba addosso. Povero padrone; la sua dichiarazione dei redditi e
sempre inferiore a quella del suo garzone. Davvero una vita da cane.
Immagina che, spesso, (sempre per evitare di vendere uno dei suoi
quaranta appartamenti di Napoli o qualche acro di terreno di Afragola)
chiede in prestito a noi dipendenti, ora i soldi per le sigarette, ora
la mancia per il cartaio... Il Natale scorso - concluse Don Pietro
- cadde in un tale stato di abbattimento che noi dipendenti pensammo
di risollevarlo regalandogli un panettone con la bottiglia e la
pazziella per la befana al suo unico figlio. Sai, lo facemmo
spontaneamente. Non siamo mica padroni, noi!».
A mezzo di quegli esili bastoncini di piombo la stampa, che per
trecento anni aveva essenzialmente asservito il libro, raggiungeva la
sua totale affermazione. Il libro, appunto, era ormai perfezionato
nella sua struttura fisica ed estetica. Era completo di frontespizio,
mai visto negli incunaboli, tanto meno nei codici amanuensi; affermato
pure il colophon o soscrizione: Finito di stampare coi tipi,
ecc. Anzi il frontespizio rappresentava proprio l’emblema dei
libri stampati rispetto ai codex. Le pagine ormai sempre numerate. Si
affermò la segnatura, una sorta di ciak cinematografico, che
aiuta ancora oggi
a riordinare progressivamente i quinterni in 32’, 16, 8’,
ecc. (Il numero indica quante volte il foglio da stampa è stato
suddiviso per ottenere la pagina). Frequentissimi i titoli dei
capitoli, i sottotitoli, gli occhielli, le epigrafi, le dediche, ecc.
Già era:in uso l’ex libris. Alla fine del 1700 il libro gia
aveva l’aspetto attuale.
BREVE PANORAMICA SULLA DIFFUSIONE DELLA STAMPA NEL 1500
La patria della stampa a caratteri mobili, per
antonomasia, è la Germania. Negli annali di storia della stampa,
insieme a Gutenberg, figurano sempre altri due nomi: JOHANNES FÜST e
PETER SHÖFFER. Füst era un avvocato di Magonza. che spesso dava
ossigeno all’orefice per finanziare l’azienda. E così,
ottocento fiorini oggi, ottocento domani, divenne socio dell’impresa
che produceva nientemeno che scritti artificiali. L’avvocato,
non.riscontrando subito i frutti dell’investimento, ben presto
incominciò a lagnare i diritti di creditore. (Dice un mio caro
torrese: Le società andrebbero compiute con membri di numero.
dispari, inferiori a tre…). E accade sempre che tra i due
litiganti un terzo goda. Ecco l’ultimo del trinomio: Schöffer, il
quale, adottando 1’infallibile arma degli affetti, si appropriò ben
presto di tutte le sostanze e le attrezzature impalmando la figlia di
Füst. Potenza della mentula! Dopo altre peripezie, non escluso
frequenti successi, Gutenberg capì
che non si può essere artisti e
plutocrati contemporaneamente, (oggi si direbbe: conflitto di
interessi N.d.r.) e poiché i suoi manager dimostravano più interesse
per il danaro che per la cultura, determinò che a.questo mondo non si
può servire appunto Dio e mammona. Si rese conto che non era
possibile ricavare 1’oro dal piombo in maniera nobile e lecita. Come
tutti gli uomini geniali ed estrosi che non si piegano ai compromessi
si affacciò alla vecchiaia sostenuto da una. pensione elargitagli da
un arcivescovo. Morì
il 3 febbraio 1468. Prima.che
facesse capolino il XVI.secolo la Germania.aveva centinaia. di
tipografie efficienti. Alcune città tipografe furono Magonza,
Bamberga, Augusta, Bruges, Strasburgo, Colonia, Norimberga,
Lubecca, ecc. Per dovere cronistorico citerò qualche nome di grandi
stampatori. A Strasburgo JOHAN MENTELIN, a Basilea BERTHOLD RUPPEL,
allievo di Gutenberg, ad Augusta GUTHER ZAINER, a Norimberga ANTON
KOBERGER, a Colonia ULRICH ZELL, a Lubecca STEFFEN ARNDES. Magonza,
naturalmente, fu la culla della stampa.
Alla morte del genero di Füst successe il figlio JOHAN SHOFFER,
appassionato di archeologia produsse molti libri del settore. In
Francia le città più sensibili all’arte nera furono Parigi
e Lione. Una importante tipografia fu impiantata in seno al grosso
centro intellettuale transalpino La Sorbona. La famosa Università si
avvalse di valenti tipografi tedeschi come PASQUIER BONHOMME.
L’Inghilterra fu iniziata all’arte della stampa da un bizzarro
signore di nome WILLIAM CAXTON, dopo escursioni culturali e viaggi in
Germania impiantò la sua tipografia nell’Abbazia di Westministery.
La Spagna ebbe in massima parte stampatori tedeschi immigrati, che
operarono a Valencia, Barcellona e Saragozza. Tipografi famosi JOHAN
von SALZBURG, PAUL HURUS, ecc. Un
aborigeno fu ARNAO GUILLEN DE BROCAR che operava in seno alla giovane
Università di Alcalà.
Dulcis in fundo 1’Italia conclude questa odiosa sfilza di nomi,
comunque molto, ma molto sommaria. Roma capitale della Chiesa, fucina
della produzione di codex da sempre, maggiore mercato librario del
mediterraneo con le migliaia e migliaia di codici scritti dai monaci
amanuensi, disponeva, sin dagli albori dell’invenzione della stampa,
il maggior numero di libri stampati, rispetto alle altre grandi città
europee. I migliori stampatori italiani furono, come ho già etto, i
veneziani, ma Roma ricorda due tipografi famosi: UDOVICO DEGLI ARRIGHI
e ANTONIO BLADO A Venezia, però, i primi stampatori furono tedeschi:
JOHANN e WENDELIN VON SPEYER.
Aldo Manuzio, più volte citato, fu il genio dell’editoria libraria
del 1500. Iniziato alla cultura dall’amico Pico della Mirandola, all’età
di 40 anni aprì a
Venezia la sua stamperia, la quale si mantenne onorevole per oltre un
secolo. Alla sua morte l’eredità passò prima al suocero Andrea
Orsolano, quindi a suo figlio Paolo, infine ad Aldo il giovane, figlio
di Manuzio. Gli eredi, però, uomini di cultura, ben lungi dall’idea
di imbrattarsi le mani, lasciarono la stamperia in mani disposte a
impeciarsi, ma inesperte. Così la tipografia chiuse nel 1590. Altri
editori veneziani furono FRANCESCO MARCOLINI e GIOVANNI GIOLITO DE
FERRARI.
L’uomo ragionevole si adatta
al mondo; l’irragionevole
insiste nel tentare di adattare il mondo a se.
Quindi, ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole .
«Uomo e superuomo» G. B. Shaw
CAP. III
VEICOLI
DI STAMPA PARALLELI AL PIOMBO E LE NUOVE SCOPERTE
La grande storia vera è quella
delle invenzioni.
Sono le invenzioni quelle che provocano la storia,
sul fondo dei dati statistici, biologici e geografici.
«Batons, chiffres et lettres» Raymand Queneau
I PRIMI «STAMPI» XILOGRAFIA, CALCOGRAFIA,
ACQUAFORTE
Uno dei più antichi sistemi di stampa del mondo è
quello cosiddetto xilografico. La matrice, come già ho
accennato, è costituita da una tavoletta di legno su cui viene inciso
a mano, col bulino, una immagine, delle lettere o altro. Si legge
sovente nelle storie della letteratura che tale antico sistema fu
inventato dai cinesi nel VII secolo. Le xilografie illustravano i
libri degli amanuensi e continuarono ad apparire nei libri stampati
fino alla meta del 1800, sino a quando, lo ripeto, fu scoperta la
fotomeccanica, altrimenti detta fabbricazione di cliché. Furono
realizzate xilografie a più colori sovrapposti, ed alcune eseguite
addirittura con tecniche chiaroscurali di eccezionale finezza da non
aver davvero nulla da invidiare alle moderne elaborazioni fototecniche;
quest’ultime forse più, come dire, ripetitivamente perfette, grazie
ai mezzi, ma senz’altro inferiori alle prime come valore artistico.
L’esigenza di moltiplicare le immagini fu pressante.
I caratteri di piombo non erano sufficienti ad estrinsecare alcuni
concetti che sono e saranno sempre di carattere visivo. Fu
sperimentata, ad esempio la calcografia, inventata nel 1450 da
TOMMASO FINIGUERRA, parallelamente ai caratteri di Gutenberg. La
tecnica consiste nell’incidere col bulino delle lastre di metallo,
ma in negativo, in maniera che, all’atto dell’impressione, l’inchiostro,
depositato nei solchi, aderisca alla carta con gradevoli
caratteristiche di morbidezza. Con buona pace di Gutenberg, questo
sistema di produrre uno stampo costituiva già allora il rudimento
della moderna stampa rotocalco che sostiene, oggi, forse il 30%
del mercato grafico generale. Tratterò ampiamente l’argomento più
avanti. Solo nella metà del secolo XVIII la calcografia si traduceva
in rotocalco, grazie ai componenti chimici fototecnici. Fu scoperto
che collodio e bicromato divenivano sensibili alla luce, così
sulle lastre di metallo veniva
spalmata una colla mista a bicromato di potassio. Sovrapponendo alla
lastra presensibilizzata una garza nera che fungeva da retino (ma in
questo caso produceva alveoli e non punti a rilievo) insieme alla
maschera costituente il disegno, la si esponeva al sole. Durante lo
sviluppo la colla si scioglieva nelle parti non colpite dalla
luce. Sulla lastra rimaneva la forma della figura copiata. Dopo la
morsura dell’acido, si otteneva una matrice composta da una miriade
di alveoli, al contrario del retino del cliché, costituito da
migliaia di puntini in rilievo. Quindi: impronta digitale come
cliché tipografico, sudore dai pori come rotocalcografia.
Furono dei pittori: DURER, tedesco e il nostro PARMIGIANINO a
sperimentare un’altra tecnica per riprodurre illustrazioni: 1’acquaforte.
Eravamo intorno al 1500. Gli artisti stendevano sulla lastra di
metallo una resina speciale e provvedevano a scalfire la vernice
indurita senza intaccare il metallo. A disegno ultimato si immergeva
la lastra nell’acquaforte (acido nitrico) perché corrodesse
le parti scoperte da vernice. Una volta ripulita la lastra da tutti i
residui si procedeva per la stampa. Le matrici calcografiche e quelle
ottenute con l’cquaforte non presentavano sostanziali differenze,
sebbene ottenute con tecniche diverse. Quando lacquafortista, però
incideva le lastre procedeva ad una vera e propria fase creativa.
Impiegava tutto lingegno e l’estro nel comporre il disegno
graffiando la vernice. E’ da notare, però, che a differenza delle
altre tecniche ortodosse, non vi era malta possibilità di correzioni
e modifiche.
IL PROTO NICOLA
Con 1’acquaforte, aguardiente, alcool o che dir
si voglia, voleva risolvere i suoi problemi Nicola, un anziano
tipografo napoletano che conobbi una ventina d’anni or sono all’ingresso
di uno stabilimento tipografico campano. Era quella che si suol dire:
una fredda mattinata di febbraio cinerea di bruma. S’intravedeva la
figura curva di Nicola che, malgrado il primo dilucolo, compiva il
gesto ripetitivo di portarsi la bottiglia alle labbra. Lo osservavo
incupito e sentivo le estemità inferiori gelare nella guazza, quando
il comando automatico provoco al cancello il suo rigoroso dirugginio.
Qualche minuto dopo Nicola mi esibiva le foto della consorte e dei tre
figliuoli in età scolare, che diceva di adorare. Aggiunse che quel
mattino aveva fatto storie con la moglie, forse per via del bere, ed
era angosciato perché i ragazzi avevano assistito all’alterco.
Quando il custode della fabbrica mi favori l’ingresso, Nicola si era
gia dileguato nella nebbia trascinando una gamba. L’uomo mi prese
sottobraccio e mi suggerì di non far caso a quello che diceva Nicola.
Mi assicurò che una volta era il proto dello stabilimento grafico. Il
custode si fece scivolare la mano manca sulla guancia canuta come per
celare il disagio. Subito ciancicò che era stato adibito alle
pulizie. Concluse che erano trascorsi dieci anni, ormai, da quel
maledetto giorno che lo volle alla guida della sua Fiat 128, peraltro
nuova fiammante, la prima ed ultima auto nuova della sua vita.
Quando la macchina andò a incastrarsi sotto la cabina di un autotreno
sulla tortuosa Napoli-Pompei, la moglie e i tre figli morirono
sul colpo. Nicola fu superstite per un vero miracolo. Miracolo? I
giudici lo condannarono a... vivere insieme all’acquaforte. Quando
nel ’70 tornai da Colonia, da emigrante, per mettere su la tanto
agognata bottega a Torre del Greco, mi recai da Nicola. Certo: lo
prendevo con me, giammai come spazzino, come proto. Bevevo con lui, se
necessario, a costo di rigirare a bettola la tipografia nascente. Non
sei solo Nicola, sei innocente. Sei in gamba, sai, ilmiglior proto di
Napoli. Siamo intorno a te Nicola, non ti vogliamo spazzino. Siamo i
napoletani di sempre, dimentichi il nostro cuore, la nostra
solidarietà? Lancia via la bottiglia, ti vogliamo bene.
Il custode, quando mi avvistòsul ciglio del viale, abbasso gli occhi.
Lungo la strada, nella mia sbandellata Fiat 600 arsa dal
solleone, mi si chiuse la gola. Mai gli occhi bassi di un uomo avevano
così bene
traslitterato lalfabeto. Immaginai inequivocabili le parole. Aggiunsi
nel mio pensiero: forse Nicola era gia morto da un pezzo.
LE NUOVE SCOPERTE
Sino alla fine del 1800 nulla di nuovo accadde per
emendare in modo sostanziale la stampa a caratteri mobili e le
tecniche grafiche parallele. L’arte tipografica, espletata
essenzialmente tramite la raccolta manuale dei bastoncini di piombo
dagli scomparti delle casse di legno, aveva permesso la diffusione
della cultura ancora soltanto tra le classi superiori, le uniche a
conoscere il latino e litaliano. Ad allargare lindirizzo della cultura
in Italia è tata non già solo la diffusione dell’istruzione
relativa alla legge Coppino ed altri provvedimenti, ma l’evoluzione
delle arti grafiche grazie, finalmente, alle nuove scoperte. Il
periodo che va dal 1800 in poi è ricco di innovazioni tecniche e non
solo per l’arte tipografica, d’altra parte.
L’arte nera, meccanizzata ed automatizzata, sfociava a mo’ di
estuario nella vastità del popolo in continua espansione, attraverso
la realizzazione di opere massicce relative al sapere ed all’informazione.
Nacque in quel periodo il giornale da rotativa. Furono realizzati i
primi lessici, le prime raccolte antologiche ed encidopediche, non
certo facilmente riproducibili, bisogna riconoscere, con l’al-
lineamento certosino dei rudimentali soldatini di piombo e con
la insufficiente produzione di carta fabbricata a mano. Ma solo agli
albori de1 XX secolo si è raggiunti 1’Everest della
diffusione della stampa come meccanizzazione dell’alfabeto, tanto
che la letteratura, di fronte ad un nuovo pubblico, ha modificato il
contenuto e trasformato o sovvertito l’orientamento. Arte letteraria
ed informazione sono penetrate in tutte le fasce sociali. Il
linguaggio aulico e ricercato ricco di virtuosismi strategici, frutto,
secondo me, di un allenamento assiduo ed estenuante, resta quello dei
filosofi, degli scrittori e dei poeti di puro stampo intellettuale
che, spesso, grazie a sperimentalismi e sovvertimenti garantiti dalla
fama del proprio nome, si guadagnano 1’attributo di capiscuola,
provocando così, una pluralità vastissima di correnti artistiche.
La diffusione della stampa ha creato un’altra esigenza, quella di
classificare un linguaggio fedele alla realtà sociale di massa per
consentire lo smaltimento della grossa produzione destinata proprio al
popolo, nel consumismo fino al collo. Mi riferisco alla letteratura
cosiddetta di terz’ordine, il fumettone, la novella da
settimanale femminile, insomma ciò che viene detta in gergo
zavorra letteraria, ma si tratta, appunto, di un prodotto di largo
consumo, che la massa mastica facilmente. Attenzione a non far
confusione con gli sperimentalismi moderni ricchi di voluti solecismi,
anacoluti, dialettalismi ecc. che, alla fine, sono entrati nel
vocabolario per il loro largo uso.
L’evoluzione della stampa, grazie alla notevole meccanizzazione del
XIX secolo, è intesa pure come rivoluzione culturale, per così
dire, demotica, al di là delle
grosse riforme cattedratiche di un De Sanctis, di un Croce, di un
Flora. La terza età delle arti grafiche ha visto la luce negli anni
80 con l’informatica. Lo stile letterario, col suo valore precipuo
di espressione univoca, inteso come tecnica artistica di estroversione
o trasfigurazione di pensiero e sentimenti viene compromesso e
svalutato non solo dai nuovi mezzi concorrenti come il cinema e
soprattutto la televisione, ma modificato in sé stesso, nelle
viscere, dai sistemi creativi moderni relativi ai calcolatori, che
escludono parzialmente non solo la priorità dell’opera umana, ma
propongono una concezione estetica e di contenuto prefabbricato o
aleatorio o addirittura schematizzato e ripetitivo. Tutto avviene in
seno al gioco arido e asettico dei calcolatori che la nostra
esterofilia fa chiamare computer. Diacronia, cronologia, posposizioni,
scelta lessicale, inventiva, creatività scaturiscono da un cervello
artificiale, specie nel campo giornalistico. Il computer stabilisce la
forma e l’ampiezza delle notizie in base a moduli predeterminati per
farla in barba ai costi.
LA MECCANIZZAZIONE
DELLA STAMPA
Ma come avvenne la meccanizzazione della stampa
gutenberghiana? FIRMIN
DIDOT (famoso tipografo che
determinò la metrica tipografica e finanzio la prima macchina
automatica per la carta di ROBERT) riprese gli esperimenti dello
scozzese WILLIAM GED di Edimburgo che ideò il sistema per realizzare
una copia della pagina di caratteri composti, onde poterla
riutilizzare a favore di eventuali ristampe in maniera da riadoperare
i caratteri per altri lavori. Il sistema consisteva nel formare una
impronta di gesso sulla superficie dei caratteri composti in pagina.
La matrice ottenuta, negativa, serviva per ricavarne la seconda,
positiva, dalle caratteristiche di stampabilità pressoché identiche
alla pagina composta di caratteri mobili. Il metodo, oggi in disuso
per la stampa, prende il nome esplicito di stereotipia. Da
questo sistema si ricavò quello, in largo uso nei decenni passati,
per la fabbricazione dei timbri, oggi compromesso dalla tecnica
fotopolimerica (vedi paragrafo specifico). Stereotipico era pure il
sistema usato in passato da tutte le officine dei quotidiani per
ottenere le matrici curve monoblocco delle rotative, ricavate dalla
pagina di piombo assemblata con cliché zincografici.
Finalmente il vecchio torchio di legno fu sostituito con torchi in
lega, capaci di stampare composizioni tipografiche più estese. Poi fu
la volta del famoso torchio meccanico, costruito da FEDERICO KOENING
e ANDREAS BAUER, progenitori dei costruttori di macchine
tipografiche. Il nuovo torchio col la battuta di stampa
automatica fu presto sostituito da una nuova macchina dove la stampa
non avveniva più tramite contatto piano, ma attraverso un cilindro su
cui aderiva il foglio per mezzo di pinze. Il cilindro, ruotando su se
stesso, vedeva scorrere sotto il suo punto di contatto le composizioni
di caratteri bloccate su di un carrello mobile che consentiva la
successiva stampa con un andirivieni.
Era nata la prima macchina tipografica, la quale, sebbene rudimentale,
aveva le caratteristiche essenziali e soprattutto il principio di
funzionamento identico a quello delle macchine tipografiche, via via
perfezionate ed ulteriormente accessoriate, che hanno dominato il
mercato fino al secondo dopoguerra. E ancora ruotano in migliaia di
tipografie artigiane, come quella negletta di Via Purgatorio.
Nel 1868 fu inventata la rotativa, costruita per il giornale
Times, la quale produceva già allora oltre diecimila giornali l’ora.
Una cifra, come si suol dire, da capogiro, se si considera che fino a
qualche decennio prima i torchi non consentivano tirature superiori a
mille copie giornaliere di una sola forma. L’alta velocità di
stampa fu possibile perché la rotativa, come tutte le macchine
moderne tipo offset e rotocalco a bobina, sfruttano il principio della
ruota, non sono ostacolate, cioè, dall’arresto, sia pur fulmineo, e
dell’andirivieni del carrello delle macchine tipografiche.
Determinante per le rotative fu 1’invenzione della stereotipia di
GED, poiché il principio fondamentale di queste macchine è proprio
la stampa cilindrica o semicilindrica, quindi la possibilità dell’immissione
della carta continua a bobine. Le macchine, una volta abbrivate, non
subiscono più nessuna fase di rallentamento.
Proprio come la corsa dell’uomo verso il danaro che qualcuno
definisce: lo sterco del diavolo.
LE LEGATURE ALDINE
Prima di concludere 1’argomento delle nuove
scoperte mi diverte farvi sapere che i libri copiati dagli amanuensi
venivano forniti al lettore quasi sempre a fogli sciolti, o uniti
insieme alla meglio. E non è solo un pretesto per chiacchierare
un po’ sullo sviluppo dell’editoria. Ciò accadeva perché 1’antica
arte della legatoria era scissa da quella della scrittura o della
stampa. L’acquirente del libro, se lo riteneva opportuno, lo faceva
legare secondo il suo gusto o la qualità desiderata. E’ proprio
vero che le mode ritornano. Dopo oltre cinque secoli di stampa e
interi millenni di scriptorum, le case editrici moderne
adottano lo stesso sistema con le numerosissime pubblicazioni a
dispense. Chissà se il mio amico Natale il legatore sa che 1’arte
della legatoria risale a Giulio Cesare. In passato la legatura di un
libro rappresentava, in molti casi, 1’esecuzione di una vera opera d’arte.
Solo nel XVI secolo Aldo Manuzio, primo genio editoriale italiano,
ideò le collane economiche fissate in copertine standard e denominate
le semplici legature aldine, di cui molti cultori del libro (o
forse bibliomani) disapprovavano. Questo dimostra che la fissazione
oggettuale non è un fenomeno moderno. Spesso l’aristocrazia
amava trasformare le proprie dimore in un tripudio di arazzi,
porcellane, legni intarsiati e favolose rilegature, specie all’epoca
barocca. A prescindere dall’eccezione di Manuzio solo nel 1930
nacque la legatura meccanica automatizzata che determinò, in un certo
senso il declino dell’arte della legatura classica. Molte officine
grafiche campane usufruiscono della legatoria annessa, sebbene nel
Napoletano si pubblichi poco. Per le piccole e medie tirature di noi
artigiani provvedono molte legatorie dislocate intorno a Spaccanapoli
e all’Università, diverse delle quali trasferitesi in aree
circummetropolitane più vaste, come, d’altra parte, molte
tipografie incrementate. Questi complessi, sia pur di numero esiguo,
napoletani o dei centri provinciali economicamente sviluppati e più
densi di popolazione, come la mia Torre del Greco, Portici, Torre
Annunziata, la stessa Salerno, ecc., preferiscono avere legatoria e
cartotecnica annesse, che provvedono all’allestimento e alla
manifattura di stampati relativi all’editoria e, in ispecial modo,
ai prodotti commerciali di largo consumo. Lo sviluppo editoriale dell’inizio
del secolo ha favorito le industrie grafiche, anche grazie all’evoluzione
del settore cartario, con l’uso della pasta di legno che ne aumentò
la disponibilità riducendone i costi, a discapito, chiaramente, della
qualità. ’O sparagno nun e mai guaragno, diciamo in gergo.
La produzione raggiunse, qualche decennio fa, livelli mai toccati.
Ancora oggi tutti gli stampati commerciali o editoriali non destinati
alla lunga conservazione vengono impressi sulla carta fabbricata con
pasta di legno. Negli anni ’50 rifiorirono molte case editrici in
tutta Europa per rimpiazzare le centinaia distrutte nel corso dell’ultimo
conflitto mondiale. L’editoria napoletana ha conservato solo la fama
di un tempo, quella relativa al primo giornale italiano con disegni
illustrati; L’Arlecchino, uscito nella metà del secolo
scorso, o al primo rotocalco d’Italia: Il Mattino Illustrato,
o al primo periodico a fumetti: Il Corriere dei Grandi.
LA CONTRAFFAZIONE
Vediamo ora come nacque il Copyright. Il problema che
assillava i primi produttori di libri fu il plagio, eventualmente
perpetrato più allo stampatore che all’autore. In Italia fu
naturalmente Venezia ad adottare dei provvedimenti a favore della
protezione degli stampatori contro edizioni contraffatte. Restava la
difficoltà di far rispettare queste legittime regole oltre frontiera.
L’importanza della stampa era ritenuta tale che lo stampatore aveva
priorità sull’autore, anche perché la paternità di opere
classiche era inconfutabile; inoltre gli intellettuali dell’epoca
capaci di scaturigini si contavano sulla punta delle dita, e nessuno
osava firmare 1’opera di un altro. Il Copyright Act inglese
del XVIII secolo pose in parte fine a certe illegalità.
Un’altra legge francese, sembra della fine di quel secolo,
proteggeva questa volta anche l’autore per appena due anni dopo la
sua morte. Avevano fatto lo sforzo. I tedeschi, ma qui cade
bene i teutonici, emanarono un’altra legge che li proteggeva
oltre trent’anni dalla loro dipartita. Ma ciò che pose fine
definitivamente allo sconcio del plagio fu, come molti sanno, la
Convenzione di Berna, che riconosceva il Principio
Internazionale dei Diritti d’Autore. E finalmente nel 1950, e
questa è storia contemporanea, 1’UNESCO promosse la Convenzione
Universale del Copyright, esclusi i paesi dell’Est.
Ed ora, ahi, ahi, ahi, mi tocca sfiorare una nota dolente. Le parole
contraffazione, quindi illegalità, truffa, plagio o che dir si
voglia, chiamano in ballo i napoletani.
Questo modo antico di sbarcare il lunario, oggi, bisogna riconoscere,
degenerato, ha origine lazzaronica, nato dall’esigenza di sfamarsi.
I lazzaroni, come è noto, erano una torma di emarginati senz’arte
ne parte, immigrati a Napoli da ogni dove. Dal Vicereame alla
Repubblica le cose per il popolo napoletano proletario non sono
cambiate, anzi, la televisione gli ricorda che se non spende, o va in
fuoriserie, o fa le vacanze e il fine settimana è un uomo da niente,
che non serve, oggetto di scherno da parte del condominio (o dell’agglomerato
di bassi fatiscenti) e ce ne sono ancora molti nel centro storico e in
tutta la provincia povera. La Campania progredita maschera bene questo
squallore. E’ essenzialmente da questi siti, in solco binario del
consumismo che si è rinnovata la piaga del disorientamento generale.
Oggi, più che mai, essere povero è una vergogna, una umiliazione, in
un mondo di ricchi. Una volta i poveri erano moltissimi, e la gente si
sentiva dignitosa nella miseria; si riteneva vicina a Dio.
Oggi sono molti gli agiati, proprio come a New York, e i poveri sono
solo emarginati, da ghetto. Anche se non giustifico niente e
nessuno posso assicurare che, a prescindere dalle estorsioni, dal
contrabbando, che si riallaccia ai traffici con gli angloamericani, o
la droga, piaga planetaria, in Campania, ai giorni nostri, la
contraffazione sfama migliaia e migliaia di persone, in più accelera
il successo di certi marchi con la maggiore diffusione. Non certo per
questo, però, va sostenuta o favorita. Da noi la contraffazione
interessa i discografici e i videografici o la moda, più che gli
editori.
SCARAFONE CONTRAFFATTORE PER AMORE
Incontrai Giorgio Scarafone all’ingresso degli scavi di
Ercolano, 1’estate scorsa. L’appellativo di scarafone si
giustifica dietro la sovrapproduzione melaninica della sua epidermide.
Egli, però, si difende dicendo che i1 suo colorito è consone alla
sua professione di tipografo, data la denominazione di arte nera
attribuita alla stampa. Giorgio mi narrò, quel giorno, che era
costretto, negli ultimi tempi, a lavorare, ironia della sorte, come un
negro, nella sua bottega artigiana, non certo per essere coerente con
i nostri tempi, cioè per avidità di danaro, ma perché,
diagnosticato da molti specialisti come affetto da sindrome da
ipersessualità cronica, riusciva ad ottenere adesione dalla consorte,
nei continui, postulati rapporti, solo nei casi di congruo incasso
quotidiano. «Quando le macchine stanno ferme, caro Mari, me la
vedo brutta. E dire che avevo trovato il sistema per fregarla, in
tutti i sensi... La sera portavo a casa due o tre assegni finti, sai
quelli che stampiamo a scopo pubblicitario. Dove mettevo due milioni,
dove cinque, per un mese intero, Marittiello mio, fu Sodoma e
Gomorra! Una bella mattina quella stroscia che fa? Porta gli
assegni in banca... Povero me! Mi costringerà a stampare i soldi
falsi, un giorno!».
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