SECONDA PARTE
Ogni progresso è basato sull’universale desiderio,
innato in ogni organismo, di vivere meglio di quanto
consentano le sue entrate.
«Taccuini» - Samuel Butler
CAP. IV
MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE
L’artista e l’ultimo a farsi illusioni della sua
influenza
sul destino degli uomini. L’arte non è una forza,
è soltanto una consolazione.
“L’artista e la società” - Thomas
Mann
LA CULTURA NAPOLETANA ALLE ORIGINI
Come ho accennato nel capitolo precedente Napoli
non ha una sua storia della stampa, tranne notizie frammentarie che si
possono attingere qua e là. Mentre, ad esempio, come abbiamo visto, la
stampa veneziana in un certo senso predominava sulla cultura, nel
Napoletano la stampa si asserviva alla cultura allo scopo di potersi
espandere. E poiché mi accingo a stendere vari flash di compulsazione
libresca relativa alla cultura napoletana, nella maggiore relazione
possibile all’arte amanuense e a quella gutenberghiana, dovrò partire
dalle origini. L’ossatura tecnica di questo capitolo è quella
strutturale delle officine, dal materiale tipografico alla
progettazione. Anche questo capitolo, pertanto, allo scopo di lenirne l’asetticità,
è farcito di dissertazioni di vario genere.
Vedremo cosa accade nell’intimità delle officine e proveremo, mi
auguro, lo stesso fascino che ci fa avvertire la storia antica, come, ad
esempio, quella inerente la cultura napoletana. Sebbene diversi
napoletani o meridionali in genere non abbiano poi quell’eccessivo
entusiasmo per le lettere, si dice che un primo ordinamento dottrinario
in Campania si ebbe col Sacrario della Sibilla Cumana in opera gia dal
VII secolo a. C. I cumani, dunque, diffusero l’alfabeto nel
Napoletano. Nessuno leggeva libri a Napoli, a parte i pochi iniziati, ma
la storia veniva tramandata verbalmente con i fattarielli di
sempre. Tanto più le leggende stavano sempre sulla bocca di tutti. Il
popolo conosceva il poetico mito delle sirene fatto vivere nel nostro
Golfo da Omero, sul quale, a furia di studiarci sopra non si sa più non
già se sia esistito egli, ma la stessa Grecia, o l’Italia dove
poggiamo i piedi. Questione omerica permettendo mi piace dire che 1’eroe
di Itaca approdò a Ischia e fece fuori le tre figlie del figlio di
Tetide in grado di imitare il canto melodioso della madre. Dice… ma
che c’entra questo con 1’arte scrittoria? La letteratura riguarda la
storia e 1’arte, la quale era in pieno fervore quando la città di
Neapolis nacque nel V secolo a. C. Pur essendo un piccolo centro
commerciale da fare invidia ai milanesi, la città non era insensibile
all’influsso artistico e culturale ellenico. Quello romano, invece, di
influsso, Napoli 1’ebbe, come molti sanno, con 1’opera letteraria di
Marco Tullio Cicerone, (e chi volete che non lo conosca), il quale si
fece costruire il Cumunan nella zona flegrea. Questa villa
fungeva anzitutto da centro culturale, a parte qualche bisboccia, ma una
di quelle eruzioni che hanno puntualmente sempre distrutto la mia Torre
del Greco (che il Vesuvio 1’ha come copricapo) rase al suolo la casa
del retore intorno al Lago d’Averno. Questo nel 1538. Dicono gli
storici che Cicerone abbia composto Academica e Repubblica,
in quella casa, ma vallo a controllare se ti riesce. No, perché col
senso campanilistico che ci ritroviamo, non è difficile che si possa,
in qualche occasione, affermare che Dante abbia scritto a Forcella La
Divina Commedia, ispirandosi, in quanto a Beatrice, con
Nanninella ’e Portacapuana, e l’Inferno con la Solfatara di
Pozzuoli.
Freddure a parte, sappiamo bene che la Napoli romana ebbe, tra l’altro,
la sua brava Scuola Filosofica ispirata, nientemeno, che a1 pensiero di
Epicuro. E chi conosce le teorie del filosofo scioglierà da solo
molti enigmi sulle abitudini caratteriali del popolo circumvesuviano.
Questo movimento culturale sembra sia stato capeggiato da Filodemo e
Sirone. (Scusate il tono anfibolo frequente. Purtroppo, da un po’ di
tempo dalle nostre parti si e diffusa in maniera endemica la sindrome
dello statt’accorto. Vale a dire non ti distrarre un attimo che
in qualche modo ti fregano, non importa cosa: il borsello, 1’accendino,
la camicia o le scarpe, 1’aria che respiri, il posto macchina, il
sonno, 1’affetto, 1’amore. Insomma si sono verificati casi in cui
hanno fregato la fregatura stessa, rimanendo fregati. Cosi si finisce
col dubitare pure, perché no, della storia
ufficiale!). Si dice che lo stesso Virgilio era discepolo di Sirone, che
nella Napoli romana testimonia il fiorire della cultura di quel tempo.
A tutti coloro che pensano che 1’abbia vutata a pazziella,
dirò che è vero, giuste le
raccomandazioni della premessa sulla piena libertà concessami.
Aggiungo, però, che spesso, in questi casi si scrive secondo vena e
ambiente di lavoro. Questo libro, a parte la modestia, è
desueto soprattutto da un punto di vista particolare. Credo sia
uno dei pochi, se non l’unico libro al mondo, pensato, compulsato,
coordinato e redatto direttamente sulla macchina compositrice linotipica,
che, a differenza di una linda macchina da scrivere od un elegante
computer, è la più asimmetrica, complessa, grossolana, sincronizzata,
dirugginosa e conseguentemente fascinosa opera di meccanica evoluta mai
costruita. Immaginate intorno a questo aggeggio da terzo girone
lessici, testi di storia, manuali del settore e soprattutto le notiziole
relative a scaturigini che insorgono spontanee lungo la giornata di
lavoro, appiccicate dappertutto con lo scotch. E le correzioni o qualche
ripensamento non gia fatti attraverso cancellature e aggiunte a penna,
ma tramite uno spostamento meccanico ripetitivo di matrici nel
compositoio. Quindi parole poggiate sui tomi, frasi intere, composte,
dimenticate accanto al telefono. Una sera ho scordato un rigo intero di
matrici nel WC. Decisi di sospendere il lavoro perché mancavano molte
matrici di bassa cassa (le minuscole più usate) poiché
la scorta di ogni lettera e di circa 20 pezzi. Insomma un lavoro
da montaggio in macchina, come dicono i cineamatori. E così, secondo 1’umore
della serata salta fuori la pagina.
Cicerone, Virgilio ed Orazio, scusate se è poco, costituiscono le
fondamenta di quella cultura. Ma la città «otiosa»
di Orazio rappresenta la prima frecciatina della storia sulla nota
caratteriale oziosa dei napoletani, estesa, poi ai vesuviani tutti. E
già, perché l’entroterra campano,
appenninicamente più elevato sul livello del mare, favorirebbe maggiore
vigore fisiologico in contrapposizione al secolare deperimento dovuto
alla bassa temperatura costiera. L’accezione peggiore dell’ozio e
senz’altro connessa ai fenomeni climatici. In tutti i paesi
ipertemperati, dove si supera la soglia del parametro sudorifero, si
riduce il vigore delle attività fisiche ed intellettuali, tranne la
scaltrezza e 1’intelligenza che nell’ozio meditativo si acutizzano.
E nemmeno mi accingo, qui, ad esporre la fantasiosa teoria psicologica
per cui la scaltrezza o l’aggressività caratteriale si
riallaccerebbero a quei meccanismi reattivo-difensivi atti ad
esorcizzare il timore salvifico post-mortale relativo all’inferno, che
l’ipertemperatura terrena ci ricorda a livello inconscio in
connessione a certe morali coercitive di stampo religioso. Fenomeno che
si intensifica sempre più nei paesi caldissimi (vedi la densità
confessionale degli orientali e quali reazioni aggressive scatena ancora
oggi).
Dopo il periodo greco-latino della cultura napoletana la stasi perdura
fino alla letteratura latina medioevale del VII secolo, con la
conseguente disoccupazione cronicizzata degli scribi del tempo. L’arte
applicata della tipografia partenopea ha sentito 1’influenza della
cultura greca delle origini per alcuni tratti caratteriali del tipografo
vecchia maniera che via via andranno delineandosi nel lavoro. Ma,
finalmente, diamo uno sguardo molto ravvicinato alla tipografia europea
dei cinque secoli nella specifica terminologia tecnica.
IL TIPOGRAFO VECCHIA MANIERA
I caratteri tipografici vanno in declino insieme al romanticismo.
Essi rimangono legati alla letteratura classica, quella dei salotti di
Mauriac, dei rimpianti di Proust, dei mesti turbamenti del melodramma e
via dicendo. La stampa litografica e la rotocalcografia avanzate vanno a
braccetto col Decadentismo, e, non a caso, col consumismo capitalistico,
nonché con lo sviluppo demografico. Da geometria meccanica
tridimensionale, la composizione tipografica si trasforma in struttura
bidimensionale tramite la concezione fototecnica. Valutiamo da vicino 1’obsoleto
materiale tipografico. E qui è necessario che adoperiate quel processo
mentale che trasforma i segni fonetici delle parole in immagini. Oramai
sappiamo a menadito, come e sfizioso dire, che tutti gli stili, finanche
il gotico, derivano dai caratteri latini. Oggi lo distinguiamo in
Romano antico, intermedio e moderno. I caratteri
calligrafici sono, come suggerisce il termine, molto fluidi. Quelli
fantasia sono elaborati e decorati, ma attingono sempre da stili
già definiti e classificati. Le matrici di bronzo o di nichel per
fabbricare i caratteri di piombo vengono prodotte col sistema della
fresa-pantografo, di gran lunga più massiccia e di altissima precisione
rispetto a quella utilizzata per incidere le targhe.
Agli albori dell’invenzione della stampa i caratteri mobili di piombo
venivano coniati attraverso rudimentali formette a fondere. Col tempo
questi sistemi andavano perfezionandosi. Solo alla metà del XIX secolo
lo scozzese DAVIDE BRUCE fabbricò a New York la prima fonditrice di
caratteri. Gutenberg adoperava delle casse per contenere i caratteri con
più di 200 scomparti poiché usava molti logotipi. Oggi le casse hanno
circa cento scomparti poiché i logotipi sono stati ridotti a una
diecina: fi-fl-ffi-ffl-qu-ae, ecc. In Europa sono in vigore due altezze
del fusto dei caratteri, 1’una altezza francese, 23.566 mm., la
più diffusa in Italia; 1’altra altezza italiana 24,809 mm. Da
notare 1’espressione in millesimi di millimetro. Ciò perché è
necessario che tutti i fusti di una composizione, compresi gli altri
elementi, come linee e cliché, abbiano rigorosamente la stessa altezza,
onde poter ottenere una stampa omogeneamente perfetta. Purtroppo, ben
presto, i residui d’inchiostro o 1’usura compromettono questa
rigidezza tipometrica. Problema che non sussiste con la stampa
planografica offset o rotocalco.
I fregi e i fuselli servono per decorare e guarnire uno stampato.
Indispensabili i filetti, il carattere linea, tanto per
intenderci, scuretti, chiari, punteggiati, ecc. I fili vengono
fabbricati in ottone allo scopo di prolungarne la durata, vista la loro
semplice struttura. La misura tipografica e suddivisa in punti,
come quella metrica lo è in millimetri. Il punto tipografico misura
esattamente 0,370 mm., praticamente lo spessore di un buon cartoncino.
Infatti quando in una tipografia vecchia maniera vi è penuria di
interlinee vengono usate le strisce di cartoncino. 12 punti formano la
riga tipografica, come 10 mm. formano il centimetro. Per ottenere un
centimetro occorrono oltre due righe tipografiche. Venti righe
equivalgono a circa 9 centimetri, e così via.
Il metro del tipografo, guarda caso, si chiama tipometro. Nelle
grosse e medie aziende da piombo, quasi scomparse o convertite o
parzialmente convertite all’offset, il tipografo che conosce a
perfezione tutto il materiale tipografico si chiama compositore. L’impressore
è il tipografo addetto alle macchine da stampa ed ha una conoscenza
sommaria del materiale da composizione. A Napoli ho contattato
impressori che hanno raggiunto il pensionamento senza aver composto mai
un rigo di caratteri. In alcune tipografie, per contro, vi sono
tipografi ambivalenti, i famosi Don Simone stampa e compone.
Nelle botteghe artigiane il tipografo è onnifacente e accentra su di se
tutte le fasi di lavoro.
Questi lavoratori, nei quali mi riconosco, sono satelliti dipendenti dal
complicato meccanismo mentale di eliocentrismo operativo. Le tipografie
artigiane dell’angolo, non convertite o parzialmente convertite all’offset,
sono armate di materiale tipografico fino ai denti grazie al massiccio
mercato dell’usato. La marginatura, com’è facile intuire, è
costituita da lingotti e barrettine più bassi dei caratteri e di tutti
gli elementi stampanti che da essa affiorano. La marginatura, di piombo,
duralluminio, bachelite, ecc, è insomma tutto ciò che si contrappone
al visibile stampato. Tutto va sempre disposto nella geometria del
rettangolo. Nel contesto del telaio, che serra le composizioni, i conti
tipometrici devono tornare, come avviene in banca per il danaro. Un solo
errore di calcolo compromette la tenuta del mosaico; la mobilità di un
elemento provoca disagi allo stampatore. Più elementi mobili provocano
inconvenienti più seri.
Il punto tipografico viene anche detto corpo quando si riferisce
ai caratteri tipografici. Infatti si va dal corpo 6 al corpo 72. Dopo
questa misura i caratteri vengono fabbricati in legno, di minor peso e
di conseguente maneggevolezza, sono misurati in righe: da 8 a 100 righe,
e oltre. La diffusione della stampa offset ha consentito anche al
tipografo più sprovveduto di acquistare sul mercato dell’usato la
diabolica Linotype, di cui tratterò ampiamente più avanti. La
composizione manuale e, quindi, limitata ai caratteri da titolo e da
avviso cittadino. Buona parte della terminologia tipografica è rimasta
invariata anche dopo la diffusione quasi totale della stampa
planografica: offset, rotocalco, eccc.
Ne ho raccolti caratteri dalle casse, da giovinetto.
Un modo di iniziarsi alla cultura non già col libro ma dentro il
libro. Amici soldatini dei bei tempi andati, della Tipografia Turris
di Torre del Greco, di quella Editoriale presso la
stazione Termini a Roma o quella annessa al Ministero della Marina sul
Tevere, o della Genovese, al Pallonetto S. Chiara a Napoli, ed
infine della mia bottega-bazar di Via Purgatorio a Torre del Greco.
L’aneddotica, tramandata verbalmente, relativa al comportamentale
degli artigiani tipografi campani e vastissima, fantasiosa e grottesca.
L’epilogo delle liti comporta, talvolta, lo impiastricciarsi a vicenda
il viso con 1’inchiostro. Le delazioni vengono punite col caffè
corretto al… petrolio. Altri aspetti rasentano il maniacale. Un
anziano tipografo divideva la somma delle prestazioni per il numero di
copie da stampare onde provare 1’ebbrezza dell’accumulo centesimato.
Un altro tipografo dovette cambiare lavoro perché le macchine in
movimento gli davano pulsioni erotiche.
Ah, tipografo napoletano che dici errore: fesseria!
I CARATTERI DI PIOMBO FUSO
STAMPANO L’ULTIMO CUORE DI NAPOLI
Ho già specificato come la stampa tabellare fu uno dei primi
tentativi dell’uomo di produrre in maniera ripetitiva 1’espressione
figurativa. Non fu mai possibile, prima dell’acquaforte e della
calcografia, però, riprodurre in serie, in maniera fedele, la pittura
propriamente detta con le numerose sfumature e mezzi toni. Il mio popolo
ha sempre amato 1’iconografia, forse perché suggestionato da quella
religiosa; a cospetto dei vecchi codici si incantava sulle miniature e
sulle vecchie stampe xilografiche e le commentava in pubblico. Nasceva
il cantastorie che dal meridione d’Italia si espandeva sino al Nuovo
Mondo. A prescindere dalla cultura napoletana connessa alla stampa su
cui ci soffermeremo via via nel lavoro, il popolo partenopeo, sin dalle
letterature romanze, non ha mai avuto molta dimestichezza con 1’alfabeto.
Apprendeva la storia e 1’arte attraverso il teatrino dei pupi, fino
alle rappresentazioni popolari della Commedia dell’Arte e il
melodramma. Il popolo vesuviano era in cuor suo poeta ed artista e non
ha mai attinto direttamente dai canoni della letteratura classica, in
primo luogo perché l’analfabetismo, è inutile reiterarlo, nel
meridione era quasi totale, in secondo luogo perché il benedetto clima
non induce a concentrarsi sulle sudate carte, per dirla col
pallido Giacomo che, nel suo soggiorno a Torre del Greco, preferiva l’ombra
alla verzura.
Il popolo napoletano, più d’ogni altro in Italia, specie in passato
è quello che più ha marinato la scuola, forse per l’atavica
influenza epicurea delle origini. Proprio i compaesani hanno
fatto orecchi da mercante alla estetica crociana. Dalla Serao fino al De
Crescenzo attuale la forma non avrà mai priorità sul contenuto. Vedi
la canzone napoletana condannata per retorica. Il potere gerarchico dell’espressione
letteraria si trincera dietro i virtuosismi dei capiscuola o si arrende,
tutt’al più, agli sperimentatori avanguardisti, i quali, se hanno
fama possono permettersi anche ciò che, fatto da un povero cristo,
sarebbe quanto meno oggetto di dileggio. Senza generalizzare,
naturalmente, e con tutto il rispetto per i milioni di grandi autori
della letteratura. Dice bene il proverbio: Fatti buon nome e piscia a
letto, diranno che hai sudato? L’espressione adottrinaria sincera,
ma colorita, semplicistica, ma palpitante, è, secondo la letteratura
bene, solo zavorra di scrittore da dopolavoro rionale.
Come esistono le classi gerarchiche inferiori così si classifica una
letteratura non già minore, ma da scandalo. Ma il mio popolo non si
lascia condizionare dall’intellighentzia, con buona pace di Croce e De
Sanctis, e continua con i premi letterari aziendali o ad alimentare un
mercato discografico dove il testo e la musica attingono da moduli
frusti e rancidi, ma immortali per chi, per una ragione o per l’altra,
non diventa dottrinario e la cui sfera sensitiva risente solo i canoni
impartiti dall’educazione domestica o quella della strada che, in
alcuni casi, e l’anticamera della casa, fucina, talvolta, di candidati
all’eslege. Sta ’ncopp’ ’a ’nu mala strada, oppure:
E’ omm’ ’e miez’ ’a via. Queste espressioni suggeriscono
come, i lazzaroni del Viceregno, spinti dal disagio e dal bisogno in un’esistenza
esente da dimora fissa, ripiegassero con espedienti delittuosi come
reazione all’emarginazione.
Il malavitoso delle origini, in pratica, era un uomo vessato dai soprusi
ed veniva iniziato alla dissidenza sin dalla fase orale. Non era
completamente fuori dall’etica o dalla cultura, ma emendava la morale
e la legge a modo suo. Ogni azione umana delittuosa è ingiustificabile
ed aberrante, individuale o corporativa che sia, ma ogni dissidente
tende sempre a sopraffare la sopraffazione, finendo col prevaricare egli
stesso. (Leggi La fattoria degli animali di Orwel). Legge e
fuorilegge sono un dualismo come il bene e il male, l’amore e l’odio,
contrapposti e irriducibili che fanno perno sullo stesso meccanismo di
azioni reattivo-difensive dell’uomo.
La Napoli della vecchia letteratura oleografica, ad esempio, si lasciò
non poco influenzate dai canoni comportamentali della vecchia camorra
perché riconosceva in essa le suggestioni dei moduli delle antiche
letterature romanze. I personaggi malavitosi del secolo scorso erano
carichi di ardente umanità. L’onore, la giustizia, la morte onorata,
erano il retaggio storico di Orlando, Rinaldo, Ruggiero, Astolfo e via
dicendo. Non a caso gli scugnizzi che assistevano all’opera dei pupi,
che esaltavano le gesta di tali eroi, venivano chiamati palatini
e molti dei quali seguivano le fila dell’Onorata Società. I vecchi
canoni d’onore della malavita attingono anche da quelli
politico-religiosi del Medioevo, come avveniva nelle guerre sante. Nelle
guerre fredde, invece, del XX secolo non vi è posto per i guappi
generosi, ne per i Fra Diavolo o i ladri gentiluomini. Non sono
degenerate le corporazioni, ma l’uomo, sempre psicologicamente più
isolato nella folla, l’uomo che soggiace impotente sotto la
coercizione di allettanti, ma nocivi modelli sociali, illuso da ideali
effimeri, là dove l’allucinazione chimerica epidemica si estende in
maniera capillare in tutte le fasce sociali.
Gli estremismi, le rivoluzioni, l’illegalità sono fenomeni di sempre,
rappresentano alcune delle facce poliedriche della cultura millenaria,
con 1’epicentro sul dualismo bene-male, altrimenti detto Dio-demonio.
Una società in cui vengono compromessi i sostegni psichici
fondamentali, ai fini dell’insoluto esistenziale, diventa una società
più inferma, terrorizzata in cantina, dall’ossessione
culturale dell’irreversibile destino di finibilità della vita umana.
Aggredire e prevaricare nell’illusione di potenza fittizia, scaricando
sui deboli e gli oppressi la dannazione del proprio destino di mortali.
La minaccia atomica esclude, inoltre, il palliativo della continuità
ereditaria con eventuali intercessioni salvifiche. La finibilità
individuale o collettiva senza sorta di palingenesi, la massima
espressione della pochezza e dell’impotenza dell’animale uomo. I
caratteri di piombo fuso stampano l’ultimo cuore di Napoli, la
capitale di una razza che, per ultima ha resistito alla faccia
negativa del progresso. Ho usato l’aggettivo negativa, e non
esiziale, per evitare di trasformare questo libro nell’Apocalisse
biblica, dato il ricorrente tema della morte. Ma cosa volete, 1’ho
chiarito nella prefazione che la parte letteraria del lavoro veniva
stesa sotto un’ottica psicosociale. Ebbene due sono i temi centrali
della psiche: la morte ed il sesso. Del thanatos avrete gia piene
le... tasche; riguardo il sesso, potrete attingerlo nei brevi aneddoti
sul comportamentale napoletano passim nel testo presente.
LA LINOTYPE
Gutenberg inventò, o diffuse, i caratteri mobili, Mergenthaler, nel
secolo scorso, perfezionò l’invenzione completando il prototipo della
Linotype (linea di tipi). Entrambi si avvalsero di sperimentazioni
del passato. Sono poche le tipografie artigiane vecchio stampo
(è proprio il caso di dire) che non adoperano questa macchina
straordinaria, che rimane nella storia come uno dei maggiori prodigi
della meccanica. Dopo diversi tentativi di alcuni inventori, falliti
spesso per motivi finanziari, OTTMAR MERGENTHALER nato nel 1854, tedesco
anch’egli, avvalendosi di esperimenti dei suoi predecessori, nel 1886
portava a termine la Linotype. Non mi approfondirò nei particolari
costruttivi in maniera analitica. L’intricata successione dei
movimenti e la complessità dei sincronismi farebbero apparire
inesplicabile la descrizione più minuziosa, togliendo merito alla
potenza dell’alfabeto. Traccerò a grosse linee solo una sintesi del
suo funzionamento, così come si svolge in questo momento sotto le mie
mani.
Tutte le complesse e susseguenti fasi di ogni ciclo sono comandate da un
unico gruppo di eccentrici, fissati su di un solo asse rotante. Il magazzino
contenente le matrici è disposto in posizione obliqua nella parte
superiore della macchina. Esso contiene all’interno solitamente
novanta canali, in ciascuno dei quali slittano in caduta una ventina di
matrici per ogni lettera alfabetica, più la punteggiatura e le
maiuscole. I segni speciali vengono inseriti a mano nel compositoio
della macchina.
La tastiera alfanumerica (minuscole e maiuscole separate) aziona delle
barre verticali che, durante lo sfioramento dei tasti, spingono dei
dispositivi di sganciamento disposti nella parte inferiore del
magazzino. Ciascun tasto sgancia la matrice voluta che va ad allinearsi
in un compositoio mobile, il quale, a rigo ultimato, va a posizionarsi
innanzi alla forma a fondere, dietro la quale un pistone affonda nel
crogiolo di piombo fuso perché si formi rapidamente la barretta gia
solida e improntata lungo la linea di matrici del compositoio mobile.
Indi questi si posiziona innanzi ad un braccio meccanico che preleva le
matrici per riscomporle automaticamente nel magazzino. Il rapporto di
tempo tra un rigo composto a mano ed uno linotipico è almeno di 1 a 6,
senza contare il tempo risparmiato per la scomposizione, e soprattutto l’assenza
di usura dei caratteri, poiché, a stampa ultimata, i righi vengono
rifusi per formare nuove linee di scritto. (queste tecniche sono oggi
(albori del 3° millennio) obsolete e praticate solo per lavorazioni
speciali o in aree geografiche retrograde. N.d.r.).
MASTRO LUIGI FICASECCA
Dovremo, tra poco, trattare la progettazione tipografica che nelle
botteghe avviene raramente sulla carta, proprio come ha sempre operato
Luigi Ficasecca, un anziano tipografo del capoluogo campano. Lavora
ancora e da solo, malgrado le 80 primavere, perché, come me, dice di
avere il piombo nel sangue, non, pero, nel senso del saturnismo. A dire
che nel dopoguerra aveva un organico di cinque camici neri, sei tute blu
e due grembiuli bianchi, quest’ultimi, tiene a sottolineare, coprenti
molta opulenza. «Ma cosa vuoi, caro Luigino, figlio mio, ca figlio
mi puoi essere, anzi nipote, se non pronipote, cosa vuoi, una vertenza
sindacale oggi, una domani e sono finito in mutande».
Il boom economico incominciava a dissolversi negli anni 60-70, ma le
botteghe sorgevano ad ogni angolo. Le amministrazioni imbandivano spesso
gare fittizie. In poche parole transitava un periodo di crisi ancora
oggi per nulla risolto. Spesso rivedo Luigi Ficasecca nel suo
monolocale, angusto, fuligginoso, unto dappertutto. Stanco, emaciato,
curvo sotto quell’aria affettatamente esuberante di sedicente
direttore tecnico. A lutamme, rispondeva al mio fugace saluto
formulato sull’uscio della sua bottega, con l’aria derisoria e
beffarda quanto puerile che assumono i candidi quando vogliono apparire
sarcastici, allo scopo di saziare gli occhi del mondo, l’opinione
altrui. ’A munnezza, contrabbattevo io ricusando il doppio
senso di a lutamme, che non sta per salutamme con aferesi
della s, ma come a lutamme: il letame. Altre volte
adoperava come intercalare in risposta ad un cenno di stupore: E tu
che te credive ca ch’era?, dove gli ultimi lemmi non stanno per
cos’era, ma cachera, ora più esplicito; e via dicendo.
L’ultima volta che mi recai a Napoli per rifornimenti presso il Corpo
di Napoli, dove si concentrano diversi fornitori per arti grafiche,
decisi di fare una scappata pure da Luigi Ficasecca, magari
sfrocoliandolo sul non aver mai capito un fico dell’arte
nera. Era raggiante nel suo tugurio. Mi disse che aveva ripreso 1’hobby
di essiccare i fichi al sole per le ciociole di Natale. Facevo
finta di non accorgermi che aveva, almeno apparentemente, assunto un
apprendista. Alla fine sbotto: «Ma ’o vide ’o guaglione, o no?».
Aveva gli occhi lucidi. Sembrava un regnante detronizzato e diseredato
che, sul lastrico, dopo mesi di stenti, ripiegava con uno scranno in
luogo del trono. Al mio sorriso solidale non trattenne le lacrime. Le
pressioni nostalgiche premevano troppo dal basso. Ed io gli volevo bene,
amavo la scimmia umana, mio simile, che impazza da adolescente con l’ardore,
l’impetuosità, l’azione. Poi sorge, gode, folleggia la giovinezza,
indi lotta e difende la sua posizione, poi cade, poi annaspa,
difficilmente si risolleva definitivamente, anche perché incombe la
drammatica fase senile. Luigi Ficasecca si terse col fazzoletto quel
viso villo e grinzoso e riprese a parlare del più e del meno.
Discutemmo sul lavoro clientelare, la crisi economica, le pressioni
fiscali. Dopo che avemmo centellinato una bibita il ragazzo sbircio l’orologio
da polso e senza fiatare raccolse una banconota dalle mani del vecchio
ed in piena mattinata guadagno 1’uscio. Mi baleno l’ipotesi di una
settimana supercorta, ma 1’uomo dissipo subito le mie
congetture.
«Caro Mari, tu sei giovane, certe cose le puoi e non le puoi capire.
Ciccillo non lavora qui... Insomma... lavora e non lavora... Oggi l’apprendista
prende la paga di un operaio, tanto vale metto a lavorare mio genero che
si puzza dalla santa fame. Il ragazzo... sì
Ciccillo, viene qui tre o quattro volte la settimana, giusto un’oretta.
A me la nostalgia mi uccide, figlio mio: rimpiango i miei bei tempi,
malgrado le due guerre e gli anni ruggenti... Ero un piccolo signore, mi
mangerei le mani a morsi. Mannaggia a Garibaldi e gli americani,
mannaggia! ...Ciccillo sta qui giusto il tempo per potergli fare una
cazziata, che so: una tirata d’orecchi, qualche volta pure un calcio
nel sedere, senza cattiveria, però, in buona fede. Alla fine prende
diecimila lire e se ne và. Così restiamo
soddisfatti tutti e due».
Quando, divertito, gli dissi che aveva escogitato un ottimo sistema,
rispose che era sorto un altro problema: «La mattina, fuori la
bottega, faccio folla folla di scugnizzi. E chi mi chiede tremila lire
per uno schiaffo, chi quattromila lire per una carocchia. Uno
ieri mattina mi ha chiesto centomila lire per una mazziata
generale, dicette: vi concedo pure la lavarella di sangue. Io, prima che
mi arrestano per sadicità prendo la mazza
di scopa e li caccio, così abbuscano lo
stesso, ma senza una lira».
LA PROGETTAZIONE
Vi sono tipografie artigiane che non adottano nessun
metodo di progettazione. Pure nel caso di stampati più complessi l’ideazione
e la scelta realizzativa avviene mentalmente, per così
dire, affacciati sul piombo. Molti miei colleghi torresi e
campani ideano tutto di getto, sfruttando l’immediatezza della
creazione. Il buon risultato del lavoro è anche dovuto alle numerose
esperienze precedenti. Io stesso adotto questa procedura nella mia
bottega di Via Purgatorio, indipendentemente dalla tecnica o veicolo di
stampa adoperati. Tutti i calcoli sono empirici ed immediati, sebbene si
tratti molto spesso di stampati di piccola entità, non per questo,
però, di poca importanza o di basso prestigio. La progettazione
tipografica eseguita in uffici appositi riguarda le grosse aziende
partenopee, che oggi stampano prevalentemente in offset ed utilizzano la
fotocomposizione computerizzata e lo scanner elettronico per la
riproduzione di immagini onde poter realizzare, in tempi relativamente
brevi, le matrici da stampa. In questa prima fase di lavoro tutto viene
ideato, progettato ed eseguito in camice bianco, come in ospedale. I
camici scuri relativi all’arte nera sono sempre più rari a
vedersi.
Nelle medie tipografie campane la progettazione avviene nello stesso
ambiente di lavoro attraverso calcoli e schizzi eseguiti poco prima di
intraprendere il lavoro di composizione. Il proto, generalmente il
tipografo più anziano, conosce a perfezione tutto il materiale
tipografico esistente in officina. Egli è il coordinatore di tutto il
lavoro. I nostri tipografi compositori sono dotati di uno spiccato senso
pratico e, da buoni campani, di una fertile fantasia, pur se questa
categoria è in estinzione. Da questo estro creativo nascono i prodigi
del collage meccanico tipografico. I compositori campani per
secoli hanno saputo assemblare, con gusto ed eleganza, i pezzi
prefabbricati di cui disponevano, che in un certo senso somigliano al
contenuto di un lessico. Le parole, similmente all’attrezzatura
tipografica, solo se combinate con sentimento, talento, virtuosismo, e
perché no, con una punta di artificiosità, danno sorprendenti
risultati.
Oggi le macchine hanno priorità sull’individuo e lo spersonalizzano,
e credo di non esagerare, finoall’annichilimento. Estinti, ormai, i
tempi in cui si aspirava ad imparare l’arte per metterla da parte.
Oggi un operatore è un numero, facilmente
sostituibile, un pezzo di ricambio qualsiasi, da utilizzare finche è
efficiente, e da buttar via non appena consumato. E il logorio avviene
precocemente, oggi, perché l’uomo è svigorito dalle macchine.
Passati i tempi in cui, adolescente, sgambettavo magro e spaurito,
restio agli studi regolari, nella stamperia di Don Ettore, una delle
prime tipografie di Torre del Greco. Sin dal primo impatto col materiale
tipografico, nelle cupe e fuligginose tipografie del secondo dopoguerra,
appresi che la conoscenza dei caratteri e la padronanza d’uso
determina la loro giusta collocazione. Questa maestria e alla base di
tutte le composizioni tipografiche, anche nella versione fototecnica
offset. L’operatore grafico della terra vesuviana, sovente, senza
alcuna cognizione teorica o dottrinale è maestro a orecchio. Ha
sempre plasmato e modellato le sue composizioni tipografiche con
sorprendente senso pratico, forse ignorando che l’arte tipografica si
riallaccia, nel tempo, alle influenze dell’arte pittorica e dell’architettura.
Da tempo, ormai, sono state introdotte nelle sia pur sparute scuole
grafiche le moderne tecnologie relative alla stampa offset, trascurando
i sistemi tradizionali. I nuovi orientamenti sono incentrati sulla
fototecnica grafica, sul disegno, sulla composizione elettronica e,
conseguentemente, sulla ripresa fotografica e montaggio. Beninteso, non
è necessario essere pittori o disegnatori di professione per diventare
valenti tipografi, sia con i vecchi che con i nuovi sistemi. E’
importante, però, che si abbia gusto artistico, senso delle
proporzioni, sensibilità armonica, predisposizione, in una parola, l’euritmia.
Si deve almeno saper distinguere un buon disegno da uno scarabocchio o
un ammirabile dipinto da una crosta. Ci sono dei bravi disegnatori, ad
esempio, che sono dei tipografi mediocri, se viceversa, è meno grave.
Lo stampato tipografico allo stato di abbozzo, va interpretato come un
canovaccio da palcoscenico. Impostato con gusto e sobrietà, quindi
caricato e modellato con la personale forza espressiva attraverso il
gioco degli elementi, sia nel caso di caratteri mobili, filetti e
cliché, che in quello dell’assemblaggio fototecnico.
LE ARTI APPLICATE (LINFA DELLA VECCHIA NAPOLI)
Gli italiani del nord, date le loro caratteristiche somatiche, si
avvicinano ai gruppi etnici europei; i meridionali, chiaramente, ai
gruppi razziali del sud, vale a dire quelli del Continente africano. A
prescindere dal fattore etnico vi è un’altra sorta di contagio da
tener conto, ed è quello dell’assuefarsi ai tratti caratteriali dei
popoli viciniori, al di là delle influenze di natura politica. Gli
italiani del nord hanno molto appreso dall’Europa confinante,
debarbarizzata e civilissima, nazionalsocialismo a parte, sebbene la
civiltà, per dirla col padre della psicoanalisi, ha nevrotizzato il
vecchio mondo. A parte la questione meridionale risolta solo nel
senso che il benessere del sud è dovuto al potere eliocentrico del
nord, con quali modelli viciniori, dopo l’Unità d’Italia, hanno
avuto il modo di identificarsi i meridionali moderni? La nostra
evoluzione rimane sempre in uno status quo da cenerentoli, stagna sempre
in una dipendenza vassallica?
Devo spezzare una lancia a favore del nord Italia, perché si sta
verificando la tendenza alla perequazione, nel bene e nel male. Nel sud
non si può parlare più di aree molto depresse, come all’inizio del
secolo; mentre nel nord non si può riscontrare una buona qualità della
vita, almeno a livello psicologico. L’economia del sud si solleva,
sebbene manipolata dai cisalpini e dalle multinazionali che puntano
soprattutto sulle masse più sprovvedute, maggiormente disponibili alla
grancassa propagandistica perché più inclini agli entusiasmi delle
appariscenze. Noi meridionali siamo degli ottimi consumatori, ma che
cosa produciamo se le nostre risorse, agricoltura ed artigianato, vanno
alla malora? Il sud, in pratica, beneficiando in parte dello sviluppo
nazionale, non si realizza nelle sue risorse naturali (vedi pure il
turismo in parte compromesso) ma si settentrionalizza come una colonia
del nord. Gli africani e gli arabi non possono che offrirci
sentimentalismi accesi e ardori religiosi come modello sociale, di cui
abbiamo avuto piene le tasche per millenni, ma che ci aiutavano a lenire
l’angoscia esistenziale, non di meno la realizzazione individuale nel
lavoro a misura d’uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie
ed aleatorie, il famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di
un domani migliore.
Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale. Le
speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono smorzate
sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli, vanno
lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene neppure
accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente dopo la
loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi. Si
estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali,
cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un’area geografica. Le
evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai
settori giusti. Le botteguccie dell’angolo, neglette e tapine, che in
passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare,
dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là
dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, degenerante e abominevole
in una società moderna. Con la tradizione artigiana in crisi, in
passato così connessa e amalgamata nel
costume del popolo partenopeo, insieme all’acutizzarsi della crisi
esistenziale individuale dell’uomo, si dissolvono tutte quelle forme
comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in una frase,
quelle di un popolo d’amore, per dirla con Luciano De Crescenzo.
Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa
adulto, perde l’immaturità e la salutare incoscienza del passato che
lo faceva guappo d’onore o santo. Si avvicina alla teoria dello
struzzo, assume sembianze megametropolitane, si allontana dall’idea di
Dio dentro l’uomo, della sua enorme potenzialità d’amore. Non
disdegna i tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta
nella storia, resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l’angoscia
del suo nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali
effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il
bisogno né di comandare, né di obbedire. Dimentica di lasciare in pace
se stesso, che è l’unica maniera per lasciare in pace gli altri.
Oblia il sesso come puro atto d’amore, pur se lo ripete dieci, cento,
mille volte, nella sua foga passionale di meridionale virile. Egli
inizia a mitizzare i plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro
incomincia a nutrire qualche sospetto sulla propria atavica virilità,
dietro il cogitare freddo dei dottrinarismi divulgati.
Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e
decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Citta-regno che
muoiono nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel
sincretismo di povertà e gioia di vivere. L’adolescenza, nella terra
vesuviana d’oggi, prostrata anch’essa sotto gli ideali effimeri
dello sport mitizzato e della musica importata, certa di genere
paranoicale, quale coerente colonna sonora delle nevrosi, è trasformata
nei romantici congeniali turbamenti post-puberali, dietro una precoce
problematica esistenziale.
Dov’è finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del
Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile
dalla letteratura d’arte e d’informazione post-bellica? E prima di
proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo alle smorfie rinitiche
di qualche progressista. Qui non se ne fa una questione di componenti
nostalgiche esasperate o di pessimismo progressista a copertura di
carenze psichiche personali. Mettere sul tappeto i malesseri di un’epoca
vuol dire tentare di rimuoverli. Se avessero ascoltato Leopardi nel
secolo scorso, invece di rivalutare la sua filosofia solo oggi, forse
molti mali si sarebbero prevenuti. La vita è bella in se stessa, ma la
teoria dello struzzo guasta questa realtà. Già la cultura ci ha
insegnato: dipartire per morire, amplesso per coito, così
non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la morte e il sesso e
li sentiremo sempre misteriosi. Viviamo in una società senza dubbio
più comoda, rispetto al passato, meno cruenta e, tirando le somme,
politicamente tollerabile in confronto alle angherie politiche della
storia, ma la nevrosi di massa planetaria odierna, dovuta a svariati
fattori di evoluzione o involuzione, va risolta né con le
rivoluzioni né con la violenza, ma con la riflessione. Perché non ci
troviamo, come al solito, di fronte ad una crisi politica quanto a
cospetto dell’esasperarsi dell’antico insoluto esistenziale dell’uomo,
sostenuto in passato da molti sostegni psichici a misura di razionalità
umana. Spero tuttavia, malgrado l’apparente caotica babele dei giorni
nostri, che molte persone si sentano fuori da questa orbita, e che
sappiano indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco plausibile. In
aggiunta dirò, a qualche barbassoro-culturalista, che ho superato la
fase relativa a1 famoso aneddoto freudiano: “Quanta fatica
letteraria fa costui per coprire i problemi personali”.
Dove sono le strade palcoscenico, l’umorismo delle logorroiche
meliche voci popolari? Ben venga la retorica oleografica, rivogliamo i
tepidi soli, gli eterni tepori di primavera. Rivogliamo gli usci con
le fornaci fumanti al posto dei cancelli automatici con videocitofono;
le capere in luogo dei giornali di pettegolezzo; le tinozze o le
braci con le rigogliose spighe bionde al posto dei pub con gli amburger
e i crauti. Agogniamo la sinuosità delle forme del più salubre eterno
femminino e non le mascoline silohuette delle manequin. Ben ritornino le
camicette di seta sui seni floridi. Vadano a farsi benedire gli stilisti
miliardari moderni con le loro felpe sintetiche firmate, le borse
policrome ad armacollo ed i pantaloni casual unisex variopinti e
guallarosi. Forse, però, i progressisti l’avranno vinta. La mia
cittadina alle falde del Vesuvio, amena e ridente, come leggo da secoli
sui libri di storia locale, non ridarà mai più alle fanciulle quelle
labbra carnose sulla bocca larga e voluttuosa senza il belletto, il
roseo naturale alle guance prive di fard, lo splendore ai denti d’avorio
tersi con bicarbonato, gli occhi luminosi privi di mascara. Alcuni
dedali sono stati risanati nella mia Torre del Greco. Falansteri
di cemento armato fagocitarono le romantiche magioni-giardino delle
costruzioni spagnole.
Mai più vedrò fanciulle alle finestre dagli infissi detti pezzi d’opera,
da lavare e lucidare nelle prossimità pasquali. Occhi dolcissimi e
sereni, mimetizzati tra vasetti di garofani e rose, le nostre rose, i
garofani di Torre del Greco, rossi come il fuoco del Vesuvio. Immagini a
mezza strada tra il mistico mariano e la passionalità shakesperiana. La
mente richiamava epos trovadorici e cavallereschi che accendevano il
meridionale ardore. Ahimé! Il Decadentismo si faceva avanti, la
letteratura moderna analitica ed introspettiva aveva a mano a mano i
consensi popolari ed interessava pure gli editori campani. La retorica
alla gogna. Pure i giovani dei dedali erano suggestionati dai dialoghi
interiori di Joyce e di Svevo o dallo sconvolgente pensiero di Nietzsche.
Ancora Fromm e Jung e tutti i neofreudiani. Il giovane meridionale si
accorge di aver addentato la mela. Determina che l’attrazione intensa
per la fanciulla del cuore è solo una condizione mentale, un’elaborazione
culturale dell’idea dell’amore. E sospetta, con amarezza, che quella
folle passione che intende placare, non è, in fondo, amore per lei, ma
per se stesso, attraverso lo specchio di lei.
La vecchia Napoli dei guantai, dei ciabattini, dei dolcieri, degli
ambulanti, dei tipografi del piombo fuso tramonta inesorabilmente.
Facciamo una capatina in queste botteghe, finche saremo in tempo.
IL LAVORO DELLE BOTTEGHE
Eccoci di fronte all’arte applicata propriamente detta. Da sempre
i movimenti artistici relativi alla pittura, architettura e via dicendo,
vanno a braccetto con la tipografia, o viceversa. Ciascun lavoro
tipografico, per certi versi, non e meno di un messaggio d’arte, cioè
1’elaborazione e la realizzazione grafica di un’idea del bello.
Nella progettazione con materiale tipografico, ad esempio, i caratteri
parlano. Il disegno di uno stile: Bodoni, Romano, Gotico, Garamond,
ecc. non è solo il risultato fortunato di una elaborazione più o
meno artistica dell’alfabeto. La forza delle aste o la leggerezza dei
tratti, gli svolazzi, la grazia dei contorni e la vivacità dei toni
suggeriscono l’uso appropriato, quindi connaturale dei caratteri
scelti. L’esecuzione del lavoro nelle botteghe artigiane avviene
spesso in maniera frammentaria a causa della scarsità degli addetti
alle svariate mansioni.
Forse il mio caso è emblematico. Spesso la mia giornata, come la via
che mi ospita, e un purgatorio. La bottega angusta, come tutte le
altre della terra vesuviana. La strada sempre a portata di mano. Le
nonnine del gerontocomio adiacente richiedono la scrittura manuale di
missive da destinare ai figli lontani, facoltosi, ma ingrati. Il
falegname od il macellaio di fronte che domandano ora un cacciavite,
più tardi un autoadesivo onde mimetizzare l’ammaccatura alla Vespa.
Punto lo sguardo su di un avventore e dò un’occhiata di sbieco all’apprendista
che mi domanda delucidazioni sul tono di un colore. Intanto l’orecchio
è teso al trillo del telefono. Una mano è gia allungata sulla tastiera
della Linotype per comporre un rigo di correzione. La consorte Rosaria
mi chiede spiccioli per il resto. Ma ci sono i cinquanta avvisi di lutto
da tirare. Un salto da una macchina all’altra con gli stinchi
indolenziti per le contusioni contro le cassette di piombo o le pedane
impilate. Quindi un calcolo tipometrico in piedi. Un occhio sul taccuino
e l’altro che osserva la qualità di stampa all’uscita della
platina. La bocca da un lato sorseggia un caffè corretto ai moscerini,
dall’altro aspira un’ampia boccata di fumo per sedare lo stress. Per
fortuna non è sempre così.
Nelle ore di minore traffico si provvede all’assemblaggio delle
composizioni. Questa operazione richiede rilassamento e concentrazione.
La disposizione delle righe deve essere tale da garantire una buona
leggibilità. La lunghezza di uno scritto, ad esempio, deve essere
proporzionale alla grandezza e allo spessore dei caratteri. L’interlinea
tra un rigo e l’altro deve seguire una regola ottica suggerita dal
gusto e dal senso delle proporzioni. Il lavoro del tipografo
compositore, per certi versi, è più difficile di quello del grafico
montatore offset, perché il tipografo da piombo deve operare
attraverso una tecnica decisamente decorativa e ornamentale, coi
relativi limiti creativi, poiché utilizza esclusivamente materiale
prefabbricato, le cui disposizioni vanno eseguite sempre in parallelo o
comunque con angolazioni a 90 gradi. Difficilmente può disporre
elementi in posizione obliqua o circolare a meno che non ricorra ai
cliché. Il tipografo da piombo, rispetto al grafico fototecnico, gioca
molto sul gusto e sull’equilibrio delle proporzioni. Esso è
un collagista meccanico che assembla dei magistrali mosaici, pur
non disponendo di totale liberta creativa, se non, appunto, nei limiti
del materiale prefabbricato, che esclude la geometria delle curve. Il
tipografo da piombo, tra qualche anno, sarà solo un ricordo.
Sin dalla scoperta dei caratteri mobili il tipografo ha sempre coniugato
le lettere con le immagini; pensate i napoletani, con la loro
predisposizione all’iconografia. Solo la televisione ha offuscato l’endemico
culto del fumetto dei ragazzi campani. Sebbene si possa pensare il
contrario, le lettere predominano sull’immagine a causa del loro netto
contrasto. Equilibrare le masse e le forme in qualsiasi fatto grafico è
una delle regole fondamentali del tipografo. Quasi tutti gli addetti ai
lavori delle tipografie campane sanno che le lettere e le immagini vanno
disposte ed alternate con un ritmo proporzionale, suggerito dal senso
critico interpretativo personale e avvalendosi di esperienze precedenti
personali o di terzi. La spaziatura deve essere armoniosa, coadiuvata da
una sicura scelta dei bianchi. Si dice che la bravura di un autista si
misuri dal freno, ebbene io aggiungo che la maestria di un tipografo si
misura dai bianchi. Tutte queste regole conducono all’euritmia,
la preventiva disposizione armonica, cioè, di tutte le parti che
determinano la gradevolezza visiva di uno stampato.
Non sempre, però, l’assemblaggio della materia grafica deve seguire
le stesse regole. Vi sono dei casi in cui si presentano degli stampati
destinati ad utilizzatori particolari che dietro peculiari motivi, lo
osservano sotto un’ottica diversa da quella convenzionale. La mia
piccola bottega artigiana, ad esempio, realizza ogni tipo di piccolo
lavoro, dalla carta da visita alla partecipazione di nozze, dal
volantino all’avviso murale cittadino, (utilizzando sia caratteri di
piombo che lastre offset di piccolo formato), stampati, cioè, di uso
domestico o relativi alla piccola grafica pubblicitaria di livello
locale. Uno stampato destinato all’osservazione popolare dovrà
contenere delle caratteristiche grafiche di assimilazione diverse da un
catalogo, ad esempio, che interessa dei conoscitori d’arte. Un
volantino dovrà essere coerente al genere di prodotto pubblicizzato e
fedele ai fattori ambientali dei suoi utilizzatori. I cittadini campani,
ad esempio, sono ligi alle tradizioni figurative, alle ampollosità
geometriche: non possiamo sottoporre loro un volantino con ampie aree di
bianco e una grafica avanguardistica, questo comporterebbe diffidenza
non già nei riguardi del tipografo, ma dell’intestatario. In altre
parole il tipografo deve in alcuni casi ridurre la propria cultura
grafica ed abbassarla ad un rango creativo inferiore; talvolta dovrà
modificare le proprie capacità, dirottandole verso 1’indirizzo verso
cui è destinato lo stampato.
L’avviso murale cittadino, diffusissimo nella terra vesuviana,
impropriamente detto manifesto, forse per estensione, sarà
concepito e interpretato in modo diverso da una carta da lettera, non
solo perché il primo viene osservato a distanza rispetto al secondo, ma
poiché sono due stampati destinati ad osservatori diversi. Il
tipografo, specie quello artigiano, addetto alla progettazione, deve
essere anche, non dico psicologo, ma almeno intuitivo e perspicace. Egli
deve spaziare la fantasia e combinare nella maniera migliore le
soluzioni teoriche con quelle pratiche della vita quotidiana. Oggi però
il tipografo della bottega, in barba agli operatori offset, può
valorizzare il vecchio sistema tradizionale con l’ausilio della
sostanza fotopolimerica, la quale, almeno per la fase creativa, elimina
i limiti imposti dal materiale tipografico a caldo. I fotopolimeri
consentono di ottenere i vantaggi fototecnici dell’offset pur
stampando in macchina tipografica, e sostituiscono degnamente il
complesso sistema zincografico eseguito da specialisti scissi dalle
tipografie. Mai nessun tipografo si è cimentato nella fabbricazione di
clichè zincografici proprio a causa della
complessità di esecuzione, specie per quanto riguarda la fase di
acidazione. I fotopolimeri oggi si sviluppano in acqua di rubinetto, ma
hanno un costo di gran lunga superiore a quello delle lastre offset.
Bisogna riconoscere che la fototecnica consente di evolversi e spaziare
la fantasia creativa. I metodi di elaborazione fotografica favoriscono
soluzioni altrimenti irrealizzabili. L’ingrandimento o la riduzione di
una scritta, la sua inversione in negativo, l’illimitato uso di
elementi geometrici curvi sono indispensabili nella grafica corrotta da
ogni tipo di innovazione. L’illustrazione negli stampati è una
trovata antichissima, ma oggi viene concepita non solo come elemento
complementare più o meno essenziale nel contesto grafico, ma come
necessario impasto del nuovo linguaggio grafico a cui l’osservatore
moderno si è avvezzato. L’alfabeto da solo, o interrotto da qualche
figura si rivela graficamente insufficiente. La forza di attrazione
delle cromotipie, le immagini fuse col testo o il testo fuso con le
immagini, insomma il connubio alfabeto-figura costituisce forme
espressive ricche di ricercatezza a vantaggio della gradevolezza visiva
cosi diffusa dalla fotografia propriamente detta, dal cinema e dalla
televisione, specie se l’assemblaggio è concepito con un ritmo sobrio
ed equilibrato da facilitare al massimo la lettura e l’osservazione.
LA CULTURA NAPOLETANA NEL MEDIOEVO AMANUENSE
Prima di concludere il capitolo sulla vecchia tipografia diamo un’altra
occhiata alla cultura napoletana relativa all’arte scrittoria. Dalla
Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i Padri
della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da
spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana.
Gli amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino,
copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda
che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio,
trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco
e latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura
agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei
testi pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci
assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo
scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.
I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche, figuriamoci dodici
secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la lettura, un fastidio
epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare. Nella totale ignoranza
del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci rappresentavano gli
unici sostenitori della cultura della Napoli Vescovile. La lettura è
come il vino, va dosata, ma molti napoletani del popolo preferiscono
esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a leggere nel libro della
vita. Infatti, come dice il proverbio, molti sono quelli che
insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere. I lavori
moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga parte su
quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è
improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto
quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria
manuale”. Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico,
creativo, storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi
rappresenta, però, l’embrione delle successive scaturigini culturali
medioevali. Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo
Diacono, il longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al
750. Egli fu il fautore della poesia epigrafica dell’Italia
meridionale.
Vi furono in Campania molti sostenitori di questo genere letterario,
ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò, però, chi
formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come il
Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la
sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano
vederci per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro
bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro,
sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però,
non perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.
Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere, undici secoli dopo,
dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli: Attenzione, città
di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al malocchio, da un
po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.
A prescindere dal fenomeno fastidiosissimo della generalizzazione, è
strano che il mio popolo sia visto sempre sotto due aspetti contrapposti
e irriducibili: estrema bontà o notevole aggressività,
spesso con irrazionale compiacimento. Da Malaparte in poi questa moda si
è infervorita, giornalismo, televisione e cinematografo hanno sempre
insistito su questo dualismo. Non esiste un popolo di individui
bianco-neri. La bontà e la cattiveria spesso sono delle condizioni
mentali aleatorie, latenti in ogni individuo. La malvagità consueta è
presente nella minoranza, che, purtroppo, talvolta, per motivi epocali,
acquista sonorità proprio perché ha carattere incidentale, quindi
desueto. Il popolo napoletano è una razza di Esposito, nel senso
politico. Dominato dieci, cento volte nella storia, non appartiene ad un
ceppo genealogico monogamico, politicamente parlando. Il suo retaggio
storico è la precarietà. Quando si affacciano nuovi mali comuni di
stampo socialpolitico dice tra se: ecco, ci risiamo, come si chiamano
questa volta, austriaci, borboni, multinazionali, associazioni a
delinquere? Pazienza, troviamo il modo adeguato per convivere! Chi sono
stati i genitori sociali, i fratelli storici con cui questa razza si
doveva identificare? Chi ha seguito le fasi evolutive psicologiche di
questo popolo?
Il popolo napoletano viene da radici storiche di oppressione e di tanto
in tanto, ancora oggi fa qualche masaniellata. Forse è giusta la
retorica, caro Croce buonanima, quando recita con Charles Peguy: Ogni
padre sul quale il figlio alza la mano è un padre colpevole. Colpevole
di aver fatto un figlio che alza la mano su di lui. Lungi da me ogni
intenzione scolastica o messianica, la giustizia, la felicità sono
utopie come i messianismi politici e religiosi. L’uomo ha ricevuto la
sua diabolica condanna da Dio: la ragione; e la ragione è tollerabile
solo nell’ignoranza e nella contraddizione. Tutti coloro che si
elevano sopra questo stadio sono degli illusi, perché credono di
esorcizzare l’impotenza circa il loro insoluto esistenziale con teorie
che sono ben lungi dal risolvere il mistero della vita e della morte.
Proprio per non cadere nel messianico non dirò di sospettare che la
nostra pace e la nostra serenità potrebbero cominciare appena dopo la
pace e la serenità dell’ultimo degli uomini, perché mai si fa il
punto sul senso di colpa collettivo inconscio delle società agiate,
rispetto al terzo mondo.
Vi fu un altro Diacono, questa volta Giovanni, storico cristiano, che
lavorò su diversi codici. Un terzo Diacono, detto il napoletano, compì
un’altrettanta notevole opera filologica e traduttiva. Dal IX
al X secolo la cultura napoletana era ancora prevalentemente religiosa.
In questo periodo sorsero a Napoli molti monasteri benedettini, quindi
altri scriptorum. L’hora et labora, per i monaci,
consisteva essenzialmente nel copiare migliaia di codici destinati ad
arricchire sempre più le biblioteche ecclesiastiche. Non c’era
monastero, a Napoli, che non avesse la sua magnifica biblioteca, ricca
di pergamene e codici miniati. Solo nel periodo normanno la cultura
napoletana prese una svolta, anche perché la letteratura primitiva
venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che allora avranno
avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale, basata sulla
dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di letteratura.
Già si parlava di medicina e teologia. Nacque la Scuola
Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della ricerca
scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere planetario,
nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi studiosi,
esercitavano la professione di medico.
A pensarci bene questo interesse dei campani per la medicina è un
retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia dei miei
torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università
di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si
traducevano in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII
secolo, assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales,
testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia,
si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca
napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa
importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene - dice
una delle ricette del Regimen Sanitatis - fuggi dalle cure intense e
continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i
napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione
intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi
di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non
trattenere né orina né scorregge. Così vivrai
felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini
caratteriali del mio popolo.
COMPOSIZIONE TIPOGRAFICA IN PRATICA
Dalla biblioteca ritorniamo in tipografia col dubbio
se sia la parte letteraria ad alleggerire la noia di quella tecnica o
viceversa. Anche qui è questione di forma mentis. Dalle regole per una
vita salutare passiamo a quelle di una buona stampa. Un rigo di scritto
non dovrebbe essere inferiore a 12 righe tipografiche (poco meno di 6
centimetri di larghezza) e non superiore a 30 righe (testo di libro).
Io, in questo momento lavoro con la giustezza 27 righe. (La misura si
riferisce all’edizione cartacea del 1998. N.d.r.) Un rigo superiore a
30 righe causerebbe difficoltà a ricercare il rigo successivo, dato che
la nostra lettura non è bustrofedica. Le interlinee tra i righi di
scritto sono necessarie per allungare il testo e per migliorarne la
leggibilità. Le linee linotipiche, generalmente formanti carattere di
testo, mai superiori al corpo 14, ad eccezione di modifiche speciali, e
le righe composte con i caratteri mobili, pur se accostate, senza
interlinee, consentono la leggibilità perché è calcolata una minima
spalla, sopra e sotto il carattere in maniera da evitare l’accostamento
delle lettere.
Le composizioni possono essere: lupidarie, (spazi irregolari ai
due lati); a bandiera (spazi irregolari solo sul lato destro);
a blocco (testo allineato a destra e sinistra, come questo che
leggete). Tale composizione non consentirebbe più di tre divisioni di
parola consecutive; inoltre, l’ultimo rigo di ogni capoverso non
dovrebbe essere inferiore ad un terzo della giustezza del blocco. Ho
usato il condizionale per le due ultime regole perché io stesso non le
ho rispettate in questo testo poiché le ritengo un momentino (come
dicono alcuni) pedanti. E’ curioso notare che, in origine, tutti i
lavori tipografici che non fossero relativi alla produzione libraria
venissero chiamati lavori accidentali. Il XX secolo ha ribaltato
la questione. Il campionario dei caratteri è uno strumento essenziale
per una composizione equilibrata e gradevole.
Lo sviluppo del testo di un manoscritto o dattiloscritto si calcola
contando un rigo dell’originale ed un rigo del carattere prescelto,
quindi si procederà alle due somme e si confronteranno, potendo
determinare, così, lo spazio che occuperà il libro stampato. Calcolo
inutile per il libro che state leggendo, (Ci si riferisce all’edizione
cartacea del 1998. N.d.r.) perché sono partito con un canovaccio di
cinquanta dattiloscritti e ne saranno venuti fuori, affacciato alla
Linotype, oltre trecento, data la posizione desueta di scrittore che
assume un tipografo. Nei casi di composizione ortodossa, dove l’originale
è completo e limato, la sproporzione del conteggio tipografico
effettuato si modifica attraverso la scelta di caratteri più piccoli o
più grandi, oppure più condensati o più larghi, in caso contrario si
è costretti a diminuire od aumentare il numero di pagine. Nel caso di
testi brevi, oltre ad una maggiore interlineatura, si provvederà ad
aumentare lo spessore della carta per dare al tomo maggiore consistenza.
Nei giornali, una volta, in caso di eccesso avvenivano dei tagli anche
tipograficamente arbitrari, nel testo, o, viceversa, nei casi di
difetto, si provvedeva con una maggiore interlineatura o con l’aggiunta
di inserti. Con la fototecnica offset questi problemi non sussistono,
perché il computer provvede a modificare il testo in lungo ed in largo
a seconda delle esigenze di spazio. In un attimo un carattere minuto
diventa espanso, un testo intero tondo diventa corsivo o neretto, e
così via. Cose da far rivoltare Gutenberg nella tomba!
Le correzioni delle bozze di stampa si eseguono, com’è noto,
attraverso dei segni convenzionali, mai standardizzati. Un segno viene
posto sulla parola da correggere ed uno identico sui margini laterali
del testo, accanto al secondo segno viene scritta la lettera da
sostituire o la parola da aggiungere o da fare in corsivo o in neretto,
mediante tre tipi di sottolineatura: tratteggiata, normale e doppia.
Molti segni convenzionali per le correzioni variano non solo da paese a
paese, ma da regione a regione, ed in certi luoghi, da città a città.
I campionari di caratteri tipografici sono più limitati rispetto a
quelli da computer, dove l’unica limitazione può essere lo spazio
sull’hard o il rallentamento del sistema in caso di moltissimi
caratteri istallati.
Negli ultimi tempi le fonderie di caratteri in Europa si contano sulla
punta delle dita. Nell’Europa, ormai unita, le famiglie di caratteri
più diffuse non hanno un nome internazionale standard, malgrado l’importanza
originaria. Ciò che in Italia viene legittimamente chiamato Bodoni,
in Inghilterra viene detto Moderno, in Germania Jungere
Antiqua, in Francia Didot. Così in Italia diciamo Bastone
in Germania Grottesk, in Francia Antique, in Inghilterra
Sans Serif.
Anche i tipografi tradizionali ancora pochissimi non convertiti all’offset
usano spesso i caratteri da computer data la vastità di scelta,
trasformandoli in cliché per la stampa tipografica o adoperand gli
ouptput laser o duplicatori oramai perfezionati. Oggi gli stili
derivanti dalle famiglie principali sono pressoché infiniti, come
illimitate sono le elaborazioni fototecniche di essi. E’ sempre un
riflesso dell’arte moderna: pittura, architettura, scultura,
letteratura. L’avanguardismo ermetico impera; la chiarezza, il
figurato non solleticano più nessuno. Così gli artisti, i politici e,
perché no, i grafici, si danno da fare. L’uomo trova dei sistemi
convenzionali per esprimersi e comunicare, subito dopo li complica per
sconfiggere la noia del consueto. Diceva bene Rene Char: Diffida dell’uomo
e della sua mania di fare nodi. I caratteri tipografici hanno pure
capacità espressiva sulle parole. Ciò in relazione ai titoli ed agli
slogans. Ad esempio non si userà mai un carattere d’asta debole e
sottile per scrivere acciaio, come si eviterà una scrittura
larga e robusta in un titolo come: Fragilità. In pratica i
caratteri, in sede espressiva, si riallacciano sempre alla loro
primogenitura di ideogrammi.
Gli uomini prima sentono il necessario, di poi
badano all’utile, appresso avvertiscono
il comodo, più innanzi si dilettano del piacere,
quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano
in istrapazzar le sostanze.
«La scienza nuova» - Gianbattista Vico
CAP. V
GLI STAMPATI TIPOGRAFICI
L’arma più potente dell’ignoranza:
la diffusione di materiale stampato.
«Guerra e Pace» - Tolstoj
I LAVORI COMMERCIALI DEL POPOLO VESUVIANO
Le botteghe artigiane della mia Torre del Greco e di tutta la
cintura vesuviana e, beninteso, quelle della capitale del sud,
soddisfano in pieno quasi tutte le esigenze relative agli stampati
popolari e d’uso domestico, detti così per distinguerli da quelli di
uso amministrativo, editoriale, ecc. I lavori commerciali, ad uso
privato vanno dalla carta da visita all’avviso murale (e non
manifesto), perché l’avviso, più o meno graficamente povero, rende
pubblica una notizia commerciale, sportiva, culturale; mentre il
manifesto, come elaborato tipografico, esprime un’idea ugualmente
culturale, commerciale, artistica, ecc. Il manifesto è sempre concepito
sotto un profilo grafico originale, partorito, comunque, da una
personalità artistica, per questo si verifica di tanto in tanto qualche
aborto. (Ce ne approfondiremo più avanti nel capitolo specifico).
Alcuni artigiani, tuttavia, spinti dalla odierna bramosia di lucro,
compiono ogni sforzo per incentivare la produzione a discapito della
qualità. In questi casi si seguono schemi fissi di progettazione nell’assenza
quasi totale di inventiva e creatività, rientrando, cosi, nella
dimensione degli imbrattacarte.
Non tutti i tipografi artigiani, quindi, danno un’impronta personale
al proprio lavoro. Ciò è da attribuire pure ad una domanda scadente
che non riconosce un adeguato compenso al lavoro creativo, il quale
richiede più tempo e maggiore impegno. Ma diamo un’occhiata a questi
lavori cosiddetti commerciali, che devono risultare graditi non
solo al cliente, ma soprattutto al pubblico a cui sono destinati. Il
biglietto da visita, ad esempio, e il piccolo grande stampato,
piccolo nella dimensione, grande per l’importante funzione a cui e
destinato. Il biglietto reclamistico può essere nella grafica
più funzionale poiché avrà carattere prettamente commerciale. Ma
tutti i biglietti di presentazione devono essere coerenti con l’attività
o la professione dei loro intestatari perché ne riflettono la
personalità. Il tipografo deve impostarlo su misura come il sarto fa
con l’abito.
La carta da lettera, alias foglio intestato, deve essere
progettata in modo tale da lasciar trasparire, nell’insieme degli
elementi grafici, l’attività esercitata dal suo intestatario, ancor
prima di leggerne il contenuto. Essa deve ispirare fiducia senza lasciar
trapelare nessuna incertezza grafica. Non bisogna mai eccedere con le
estensioni cromatiche e la scelta dei toni dei colori deve essere
sottoposta ad una attenta analisi. In caso di più colori l’accostamento
deve scivolare sul netto contrasto per raggiungere soluzioni di
gradevolezza cromatica. Le buste vanno stampate con la medesima
impronta del foglio, ma leggermente ridotta. I formati regolamentari
riguardo il bustometro sono 11 x 15 e 11 x 23 circa.
La fattura commerciale dev’essere, nella parte superiore,
pressoché identica alla carta da lettera. Come è ben noto, il
prospetto sotto l’intestazione conterrà le fincature dove verranno
allineati i prodotti coi relativi costi, imposte, ecc. Le fatture
moderne prendono forme sempre più desuete, sia per l’adattamento al
calcolatore, che per le sempre più complesse normative fiscali. L’invito
è lo stampato classico per eccellenza che, per estensione, comprende la
gamma di partecipazioni di nozze, nascita e Comunione. Pure questi
stampati risentono le nuove correnti artistiche e letterarie e mutano
nella forma e nel contenuto rispetto ad un sia pur passato prossimo.
Oggi i testi degli inviti vengono compilati in maniera telegrafica, si
assoggettano spesso a forme bizzarre di contenuto in barba alla
seriosità di una volta. I caratteri e la disposizione si riallacciano
ai moduli architettonici d’avanguardia. E’ finito il tempo del pluralis
maiestatis e del carattere stile inglese con le sue aste
delicatissime, nella spinta dell’ornato. E’ tramontata la maniera
della Signoria Vostra e della affettazione delle forme di
cortesia e di galateo, che già da decenni sapevano di bacucco in
parrucca incipriata. I messaggi forbiti e ricercati fanno posto ai testi
concisi nel contenuto e sintetizzati nella forma. Negli inviti relativi
ai party o bisboccie del sabato sera, numerosissime a Torre del Greco,
non mancano le toccatine ironiche ed ilari fino al doppio senso di
significato erotico, perché, cosa ci fate, da noi se non c’è di
mezzo il sesso non si ride.
E qualche vesuviano autentico dirà: ’0 villoco, mo piglia ’a
rrenzecata. Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per fare
baldoria, compresi gli scioperi. Favoloso l’aneddoto dello sciopero al
Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto borghese
si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti verbalmente e
tramite scritte il diritto al lavoro: «Ho un lavoro per te». «Di
che si tratta?». «Bisogna lavorare di vanga e di piccone». «Ma come,
con migliaia e migliaia di persone proprio da me siete venuto a
cadere?».
I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e
nemmeno l’austerità, sa di dominazione. I napoletani, da secoli,
hanno messo in pratica una citazione di Marc’Aurelio: “Nulla
accade all’uomo che la natura non l’abbia fatto capace di sopportare”.
Ebbene, nessun popolo al mondo, in passato, è stato capace, come il
nostro, di sopportare tanto spadroneggiare. Il popolo festaiolo di ieri
si difendeva trincerandosi dietro l’ottimismo che dice: o mangi
questa minestra..., o sotto l’egida della Divina Provvidenza. La
frequenza, però, dei mutamenti gestionali di potere alimentavano la
speranza di un definitivo riscatto. E’ chiaro che oggi, economicamente
e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel ventre della vacca,
alienazione generale a parte. E sebbene i problemi dell’uomo moderno
siano più di natura psicoesistenziale che politica, è sempre
attraverso la politica che la massa pensa di uscirne.
Oggi la stasi politica internazionale stagnata dal deterrente atomico e
la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali politico-religiosi,
hanno incrinato l’atavica risorsa del popolo partenopeo di scivolare
filosoficamente su tutti i problemi politico-sociali. La linfa vitale
delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o dalla Mamma
Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una cosa
sola non fagocitano più l’angoscia. L’equilibrio psichico secolare
si incrina. Il fine settimana importato dall’estero, i party a base di
alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del
tempo libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente
panacea rispetto le evasioni di una volta, come le passeggiate salutari,
le lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di
rado da un omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove
venivano favoriti gli ingenui contatti sentimentali, i quali
costituivano il preludio delle unioni monogamiche vecchia maniera, l’epilogo
della maggiore commedia umana, la famiglia intesa, questa, come
struttura formativa risalente alle più antiche culture. E’
insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni che
sono nate con l’uomo, mai compromesse nei millenni.
La diffusione della stampa, come il resto dei mass-media, è colpevole
della generale confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne
relative al progresso materiale repentino e all’evoluzione delle
scienze positive, per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato,
hanno disfatto gli appigli ideologici, unico medicamento dell’universale,
antichissimo interrogativo esistenziale dell’uomo. Gli inviti e le
partecipazioni, per fortuna, sono ancora numerosi nella terra vesuviana,
dove, tra l’altro, le metastasi dell’incancrenimento edonistico di
carattere commerciale sono ancora per il momento contenute, tranne che
nei centri con alto reddito. Da noi ancora non è diffusa in toto
l’ipocrisia tipica di quel compromesso notarile a cui
assomiglia l’unione monogamica moderna che coglie in pieno l’assunto
di tutte le regole negative delle famiglie destinate a disgregarsi sul
nascere. Molte unioni legali sono basate su una convivenza di comodo di
carattere egoistico o su effimere basi terapeutiche atte solo a
compensare squilibri personali, quindi destinate al fallimento. Ogni
individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima analisi,
sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già meno di
quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e disadattamenti
nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di nascere. Mi salva
dal sentore messianico il sospetto autobiografico di queste note, ma è
ora di tagliare corto con la digressione, introducendo argomenti di
natura diversa relativi agli stampati popolari, che sono così vicini
alla sfera emotiva dell’uomo.
Le partecipazioni di nozze, nascita, Prima Comunione, ecc. vengono
generalmente prodotte da ditte specializzate che servono tutto il
territorio nazionale. Da questa gamma vastissima il tipografo, in
collaborazione col cliente, decide per la scelta e si assume il compito
di completare i prestampati con le notizie fornite dall’avventore.
Questo lavoro, apparentemente semplice, richiede una buona competenza e
molto gusto, perché una cattiva associazione di elementi grafici nel
pre e post-stampato causerebbe distonia e sgradevolezza. L’avviso
murale urbano, il più grosso stampato delle tipografie artigiane, viene
realizzato in macchina pianocilindrica di vecchia fattura, vale a dire
con assenza di automatismi, dato le basse tirature, e con i tradizionali
caratteri mobili di piombo e di legno, oggi in estinzione. Anche l’avviso
cittadino nella tiratura di 50-100 copie viene realizzato in offset.
Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di
decesso. Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegniamo, chissà
ancora per quanto, la massima di Mark Twain: Il dolore può bastare a
se stessi, ma per vivere a fondo una gioia bisogna dividerla con gli
altri. La solidarietà contro gli oppressori ci insegnava a fare
tutto insieme. Uno stampato, l’avviso di lutto, non molto frequente
nella mia bottega di Via Purgatorio a causa dell’emotività della mia
consorte Rosaria, la quale, puntualmente, si scioglie, all’atto della
commissione, in elegiaci convenevoli con il richiedente.
In più, alla consegna, si abbandona in lamentose querimonie con tale
partecipazione che alla fine insorge l’inadempienza remunerativa sulla
ipotetica base della carità cristiana.
GLI STAMPATI «DELLA STRADA»
Nella vasta gamma di lavori commerciali vi è quell’insieme di
stampati che rappresentano una sorta di messaggio popolare relativo a
gare sportive, manifestazioni folkloristiche, promozioni commerciali, e
via discorrendo. Dall’avviso murale alla locandina, dal volantino alla
cartolina pubblicitaria. Di questi stampati si fa largo uso nel
circondario vesuviano, nella metropoli e nei centri più densi di
popolazione. Questi siti palpitano di iniziative culturali di livello
popolare. La produzione è favorita pure dal clima e dalla maggiore
tolleranza sull’imbrattamento urbanistico. E’ probabile che la
natura di questi stampati abbia avuto origine proprio sotto il Vesuvio,
dove le tradizionali feste popolari hanno radici addirittura pagane. L’ambiente
colorito e climaticamente confortevole della strada contribuisce al
perpetuarsi di questi esternamenti dionisiaci, dove si vedono planare
sulle teste aligeri messaggi, là dove, quando sono di carattere
religioso, sembrano provenire, dedaleggiando, dai meandri del cosmo,
proprio dall’aldilà. Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule
e cioncate pure sui cigli delle strade; di abbuffate di taralli con
sugna e pepe, di frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o
arachidi tostate (’o spassatiempo); di torrone d’Ospedaletto e di
castagne di Montevergine. E così vola tutto dall’alto, intorno al
Vesuvio, oltre alla cenere vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti
la gloria dei Santi, oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti
domestici dietro il «vigore» della pigrizia.
La carta stampata, anche minuta, rappresenta la modesta alternativa alla
logorrea dei campani. Il cosiddetto non sputare mai è per noi,
ricambio d’ossigeno. Se vuoi uccidere un napoletano condannalo al
mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non respirerà più neppure
col naso. La parola stampata, invece, un po’ esotica ed aulica,
associata all’atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l’enorme
quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le
consultazioni elettorali. V’è una sorta di meccanismo inconscio, nel
mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un
bozzetto eccellente di un lavoro tipografico rispetto ad un equivalente
pessimo lavoro già stampato perde di credibilità, da noi. I cartai
fornitori per arti grafiche sovente portano i ceri a S. Gennaro nella
speranza che il governo vada in crisi. Ogni referendum è un terno secco
per loro. L’Immacolata Concezione e la compatrona di Torre del Greco;
la festa ne è caratterizzata dall’accensione di numerosi falò alla
vigilia. Nel dopoguerra migliaia di volantini e manifesti elettorali
sostituivano il faticoso insufflaggio tramite gli scarseggianti pruni e
sterpi. Le vecchie impalcature del boom edilizio degli anni 60
lanciavano le fiamme sino in Paradiso a ringraziamento dei vani
ricevuti. Tre elementi infiammano, invece, le mie reminiscenze puerili:
lo sfarfallio dei fac-simile elettorali sotto il sole mai avaro; il
veleggiare del bucato sciorinato sulle corde di canapa tra balcone e
balcone e l’effluvio di naftalina esalante dalle balle di indumenti
donati dai liberatori o dalla Croce Rossa lungo la salita
del Mercato di Shangai di Ercolano.
GLI STAMPATI MODERNI
Un settore delle arti grafiche che si è molto sviluppato in seguito
alle riforme fiscali degli ultimi tempi è quello concernente la
produzione di stampati tipografici come bolle d’accompagnamento
(sembrano dame di compagnia), (oggi 2002 soppresse da tempo. N.d.r.),
schede fiscali, ricevute fiscali, e così via.
Documenti che tutti conosciamo bene, ma che, talvolta, fingiamo di
ignorare. Negli ultimi tempi ha invaso il mercato cartario (grazie a
questi lavori che prevedono quasi sempre l’autocopiatura), la carta
chimica. Essa viene trattata in cartiera: sulla superficie vengono
fissate delle microscopiche vesciche di particelle chimiche, le quali,
sotto la pressione delle biro, si rompono lungo il solco della
scrittura, trasferendo il segno sulle copie sottostanti. L’uso della
tradizionale carta carbone subisce un lento declino, come pure la
carbonatura tipografica, antiestetica e insudiciante. Da ragazzo, sia a
Torre che a Napoli o a Roma, durante le prove d’arte, ho dovuto sempre
eseguire la composizione di uno stampato meccanizzato. Un termine
avaro per raggruppare quella serie di stampati che vanno realizzati
attraverso una disposizione rigorosa delle misure relative alle distanze
degli elementi grafici costituiti da caselle, linee, fincature, ecc.
Questi modelli tipografici venivano introdotti in macchine compilatrici
con tabulazione ed interlineature prestabilite, le prime
apparecchiature, cioè, connesse alla contabilità meccanizzata. Ma,
ahimè, le botteghe artigiane hanno visto scemare gradualmente questo
tipo di lavoro, per altro ben pagato, poiché l’avvento dei
calcolatori ha trasformato questi stampati in moduli continui onde
evitare arresti alla stampante. Le macchine per la stampa di moduli
continui vanno al di là delle possibilità economiche ed impiantistiche
delle tipografie artigiane. Così l’industria assorbe buona parte del
lavoro destinato agli artigiani. Le piccole macchine per moduli
continui, o gli adattamenti alle macchine tipografiche, non sono
concorrenziali come costo di esercizio. Un altro colpo mortale vibrato
al piombo tipografico, perché le matrici di questi stampati vengono
fotocomposte per l’offset ortodossa o quella a secco (fotopolimeri).
LE PUBBLICAZIONI ARTIGIANALI
Diverse tipografie artigiane producono piccole
riviste periodiche, giornali locali in formato ridotto, depliants
illustrati, e via dicendo. Molti di questi lavori vengono realizzati col
sistema classico di progettazione perché sono ancora composti col
materiale tipografico: piombo e cliché. Oggi 2002 non più. N.d.r.).
Tali pubblicazioni, pur se stampate in offset, una volta prevedevano la
composizione col piombo linotipico e l’impaginazione avveniva col
montaggio di bozze di stampa su patinata da fotografare o direttamente
su veline per evitare la ripresa fotografica.
Sono poche le tipografie artigiane che utilizzano la fotocomposizione,
costosa e complessa. Negli ultimi tempi è apparso sul mercato delle
arti grafiche un modesto sistema di composizione elettronica detta
editoria d’ufficio. Non emette pellicole da esporre ma copie a
stampa laser da riprendere in camera oscura. In ogni caso la definizione
è medio-bassa, ancora lontana dalla finezza dei caratteri da stampa.
Fino a 1200 punti a pollice per questi piccoli apparati, 2500 e oltre
per le fotocomposizioni professionali.
La composizione di un libro è semplice quando si tratta di testo
corrente, come questo che avete sotto gli occhi. Le cose si complicano
quando si ha a che fare con pubblicazioni ricche di titoli di vario
stile, tabelle, diagrammi, chiose, illustrazioni, ecc. Anche la semplice
impaginazione di libri con testo corrente, però, deve seguire delle
regole ben precise. La fine di una pagina non dovrebbe avere una parola
divisa, non deve terminare con asterischi o fuselli, si dovrebbero
sfruttare le possibilità delle varietà di tono dei caratteri,
possibilmente senza variarne lo stile ed utilizzare il corsivo ed il
maiuscoletto per le differenziazioni. (Anche qui, dove uso il
condizionale, ritengo le regole eccessive e come noterete in questo
testo alcune sono state trasgredite). Riferimento al testo cartaceo del
1998. N.d.r.). Le note vanno disposte a piede di pagina o a fine
capitolo e di corpo inferiore a quello del testo.
Le caratteristiche principali di un libro sarebbero, in ordine
progressivo: l’occhiello, che ripete il titolo dell’opera; il
frontespizio, che ripete le notizie di copertina; il
retrofrontespizio, che rivela la proprietà letteraria; ancora il
Copyright e, in qualche caso, la firma autografa dell’autore; 1’introduzione
e finalmente il testo, diviso in capitoli, questi sezionati in paragrafi
con titoli e sottotitoli, fino agli indici, il colophon o
soscrizione: finito di stampare, ecc., dulcis in fundo, 1’errata
corrige. Perché Gutenberg, insieme alla stampa, inventò l’errore
di stampa, poiché non s’era mai sentito prima l’errore di
scriptorum. In uno dei suoi primi libri l’orefice di Magonza
scrisse spalmorum invece di psalmorum, nel famoso «Psalmorum
Codex» del 1457. I caratteri mobili, essendo tali vengono
inavvertitamente spostati. Hai voglia di leggere la bozza, dieci, cento
volte, nulla da fare. Un editore diceva: La composizione di un libro
senza nessun errore equivale ad un’opera d’arte.
Oggi l’errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso
zeppi di errori, ma, data la società consumistica, chi volete che
esibisca un documento di prodotto guasto al posto del certificato di
garanzia?. Il sottoscritto, ad esempio, non utilizzerà l’errata
corrige, altrimenti dovrebbe stampare un secondo libro a mo’ di
note esplicative, tanti sono, probabilmente, i refusi, per non dire
le... antipedanterie... A Napoli vi sono diverse tipografie editoriali,
senza dubbio di numero parecchio inferiore a quelle del nord
industriale. I complessi tipografici meridionali producono diversi
libri, specie i testi scolastici. Alcune minuscole tipografie artigiane,
pure, talvolta, si cimentano in questa operazione. E’ il caso mio, ad
esempio. Molti di noi sprovveduti, però, ci avventuriamo, magari senza
conoscere a fondo certe regole fondamentali per la realizzazione di un
libro. (Ma guarda che si deve fare per essere solidale!). Ma andiamo
avanti. In questi casi interviene l’autore che monta le bozze
realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida al tipografo
impacciato. Accade, però, che l’autore spesso non riesce ad
ottemperare appieno questo compito per la scarsità di conoscenza di
certe regole grafiche fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una
pubblicazione alla maniera di Don Antonio.
UN TIPOGRAFO DI CAMPAGNA
Don Antonio è un tipografo di provincia che un giorno mi
interpellò onde essere illuminato proprio sulla realizzazione di un
volumetto religioso. Mi assicurò che il prete era pipì e un po’
fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura. In più quando
si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le più variegate
scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale,
giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi
consentiti dal Signore. «Una volta, caro Marittiello, (da noi si
vezzeggiano pure i cognomi), solo per scrivere culo, invece di
culto, me ne disse tante che mi fece venire la diarreta. E’
vero che in Chiesa ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo
capo, urlava: devi fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattr’ore
di terremoto con te all’epicentro; tu non morirai nel letto tuo,
disgraziato, ciuccio matricolato; figlio di una meretrice (forse
credeva che la buonanima di mia madre vendeva le merende), insomma mi
fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi
chiarì subito che il suo era un paesello d’amatori d’uccelli. Gli
feci intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel
libro. Ad un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l’uscita in
aperta campagna. «Quando esco dall’Alfa Sud - mi disse - il
tempo che mi rimane lo passo un po’ a stampare, un po’ a zappare.
Guarda che bella campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il
fabbisogno personale... e di quello dei clienti».
Lo fissai senza intendere. Mi scosse la falda della giacca con
cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di rassegnazione nella voce
“Quando sbaglio qualche lavoro - abbassò gli occhi, poi li puntò
in alto, in un posto indefinito - e questo capita spesso, tu sei un
caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui’. - Poi ribadì in
tono perentorio, ma ironico - diciamo pure che non ne azzecco una,
va! I fogli vengono troppo scagnati, o troppo ’nguacchiati...
Il mio forte sono gli errori di grammatica. - Sorrise - Mi
volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie’...
Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con
un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so,
due mazzi di ravanelli... Vedessi dopo il lavoro com’è buono!».
Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa
aveva offerto al prete quella volta. «Offerto? Quello se non lo
fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva nutrirsi
molto, perché le arrabbiature gli portavano l’insonnia e lo facevano
dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la spesa per
tre mesi... Vedi una «t» che mi costò... Ma che vuoi, caro
Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in
paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi
chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima alimentare
tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare l’arte da
Ciccio ’o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le scarpe e
quelli dispari faceva i manifesti di morto, e diceva sempre Madonna mia
non li fare morire i giorni pari. Quello si che era un maestro. Aveva
fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere neanche un
anno».
Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre
del Greco, ma sulla strada del ritorno m’imbattei in una bicocca
diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi
dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del
pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a
mano a mano che m’avvicinavo, più articolati e distinti. Ora
ascoltavo una singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco
spirituale ed il vocalìo ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti
del concerto emettevano poi vagiti d’infante. Decisi di non
approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante, mi scontrai con
lo sguardo enigmatico d’un bimbo paffuto, ma sudicio. Gli chiesi
perché quei volatili emettessero quegli strani suoni. «Il nonno
- disse con un sorriso d’ebete il fanciullo - acceca gli occhi di
tutti con uno spillo, così cantano
meglio».
Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto
libro. A seguito di un’altra visita, infruttuosa, seppi che era andato
a vivere a Modena con una figlia che, purtroppo, era divenuta vedova,
come lui. Probabilmente Don Antonio stampò il libro, ma dovette
emigrare per evitare il linciaggio.
A prescindere da questi casi limite, un libro viene realizzato con buona
competenza in molte tipografie artigiane partenopee vecchia maniera ed
in quelle più evolute tecnicamente, convertite alla stampa offset. Le
pagine di un libro, una volta composte, vengono disposte sul piano della
macchina tipografica tradizionale o sulla lastra offset in maniera tale
che una volta stampato ed effettuate le pieghe del foglio, le pagine
seguiranno l’ordine progressivo.
I GIORNALI ARTIGIANALI LOCALI
In passato la stampa per antonomasia era il giornale.
Il popolo oggi identifica il lavoro tipografico maggiormente con i
numerosi, fiammanti rotocalchi, oltre che con i quotidiani. I primi
giornali venivano realizzati nelle botteghe artigiane dell’epoca.
Durante l’ultimo conflitto mondiale, in assenza dell’energia
elettrica, alcune testate si asservivano al procedimento tipografico
artigianale per alcune edizioni ridotte, oltre ad utilizzare rotative e
pianocilindriche come eccellenti ricoveri a difesa dei soffitti che
crollavano. Dopo la composizione manuale di questi quartini di
notizie urgenti, la stampa avveniva nelle pianocilindriche azionate
manualmente con una leva applicata al volano. Ma oggi, com’è noto, l’avvento
della radioteleiconografia in genere, ha ridotto l’informazione
attraverso la carta stampata. Molti editori hanno dovuto ripiegare con l’etere.
I giornaletti di provincia, quelli scolastici o di associazioni
parrocchiali sono sempre meno reperibili in giro. Il fascino della carta
stampata viene offuscato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, che,
comunque, sono meno concreti della stampa. Col giornale od il
libro, ad esempio, si può attingere quando si vuole senza il timore che
le lettere o le immagini si dissolvano dalla carta, sebbene la
videoregistrazione domestico abbia in larga parte sovvertito questo
concetto; ma è difficile, ad esempio, portare in treno o sulla spiaggia
il videotape ed il televisore. La diffusione del computer portatile
risolve, invece, questo problema.
La tipografia artigiana riesce a produrre un giornale, ma nei limiti
quantitativi, naturalmente, con un minimo di attrezzatura
indispensabile, in vasta disponibilità, oggi, sul mercato dell’usato.
Due o tremila copie di un giornale di medio formato (50 x 70 cm.)
possono essere prodotte da una comune tipografia in possesso della
oramai economicissima Linotype, nel giro di 3-5 giorni. Vi sono
tipografie artigiane in Campania che non stampano per nulla lavori di
testo. Esse realizzano solo modellame e bigliettame per cui adoperano
poco o niente la Linotype, ma uno straccio di computer ce l’hanno
tutti per realizzare piccole matrici offset o cliché fotopolimerici.
Nei casi sporadici le piccole tipografie si rivolgevano alle
linotypie, ormai tutte convertite alla fotocomposizione.
La stampa attraverso piccole macchine offset è diffusa pure nelle
tipografie dell’angolo. Sono diverse le tipografie della terra
vesuviana che stampano solo giornali locali e pubblicazioni di bassa
tiratura, sebbene attratte dalla domanda del settore pubblicitario
commerciale. Nelle tipografie editoriali, grandi o piccole, sino a
qualche decennio fa si avvertiva maggiormente il fascino della stampa
gutenberghiana. In quel chilometro quadrato intorno al Corpo di
Napoli si addensano gli emblemi della cultura napoletana relativa
alla stampa. L’Università, Via Benedetto Croce e Port’Alba con le
numerose librerie, la Posta Centrale con la famosa emeroteca e la
caterva di tipografie artigiane, alcune delle quali ancora tradizionali,
talune antichissime.
LE MATTIZIE DI BOTTEGA
Concluderò questo capitolo con delle facezie. Il rapporto di gomito
nelle botteghe artigiane e più costante e comunicativo di quello
domestico, tranne nei casi di incomunicabilità, che sfociano, il più
delle volte, in un mutismo squallido e deprimente, non da napoletani, in
ultima analisi. Le goliardie liceali napoletane degli anni ’60
sono sconosciute alle mie gaie signorinelle: Francesca e Virna, le prime
due cambiali, infinitamente “care”, d’una…
quaterna che la vita mi ha dato. Se tutte le cambiali fossero così...
mi indebiterei fino al collo!
Quelle locuzioni argute ed ilari degli adolescenti post-bellici si
diffondevano in ogni ambiente, dalla scuola alla strada, ai sodalizi,
alle botteghe. I miei ex apprendisti, durante le visite odierne, mi
rammentano queste gioiose mattizie adatte per farla in barba alla
monotonia d’una lunga giornata di lavoro. Ammesso e non concesso
che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti?
Oppure le caricate traduzioni letterarie di nutriti
epiteti in vernacolo, le quali suonano: Vai ad operare in ciò che
sta sotto il naso di colui che un giorno ti si spense, comunemente
conosciuta come: Va’ fa’ mmocca a chi t’ è mmuorto. O,
ancora: All’alma di colui che a te percosse i funerei rintocchi dei
sacri bronzi, che sta per: All’anema ’e chi te sona ’a
campana a mmuorto. Inoltre: Adesso piroetto sulle tue guance una
discreta dose di enzimi orali, cioè: Mo te sputo ’nfaccia.
E via dicendo...
Le contumelie moderate si limitano a 1’Eva t’amo tanto, che
faceva inviperire le ragazze d’allora. Ché, dire, oggi, al coetaneo
sessantottino: Levate ’a mutanda, equivale al dammi un bacio
d’una volta. Noi anta ci scandalizziamo anche perché ignoriamo
che i giovani si sforzano a naturalizzare il linguaggio sessuale
(il che non è turpiloquio) allo scopo di esorcizzare l’ipocrisia
bigotta del passato. E, fateci caso, alla fine si finisce ancora col
parlare di morte e di sesso, quando c’è di mezzo la vita. Molte di
queste trovate attingono, però, da una tale letteratura popolare
teatrale pre-alfabetismo, come la maggioranza dei proverbi e delle
locuzioni popolari partenopee. Le diffusero personaggi come Pulcinella o
Felice Sciosciammocca, i cui autori attingevano a loro volta dal popolo.
Quando nella bottega annuncio qualche pubblicazioncella, la prima cosa
che mi chiede la gente è: Ma fa ridere?. Il bello è che essa
ride pure quando ho creduto di scrivere cose serie. Non sarà per
partito preso? Forse anche a Napoli, oggi, si insinua quel proverbio che
recita: Quante volte le bocche ridono ed i cuori non ne sanno nulla.
Abbiamo finito col dottrinalizzare pure le risate? Abbiamo fatto del
proverbiale buon umore napoletano un’altra elaborazione culturale.
Se così fosse, poveri noi!
On Luì - dicono sovente gli ex apprendisti quando s’affacciano
all’uscio della mia bottega - All’alma di colui che a te
percosse... Ed io mi commuovo per stupidaggini del genere, perché
tali non sono. Esse sostituiscono i contatti umani d’un tempo, il
senso dell’amicizia, sempre più compromessi, per questo tronco la
frase dicendo: Curre, cammina, va a fa’ ’o duvere tuoie. Ed
egli docile come un cucciolo riconoscente si avvicina soddisfatto alla
“napoletana”.
Io noto la prima stempiatura, gli incipienti segni della sua dissolta
giovinezza. Penso a quando, paternamente, lo dileggiavo dicendo mesci
il caffè, ed egli puerile ed ignaro lo zuccherava. Ah,
scarzappulillo, non più imberbe, col tuo pomo d’Adamo che va su e
giù, con qualche dente in meno e la consorte incinta ogni nove mesi
perché non si decide a fare il maschio. Ricordo quando dicevi al
cliente moroso che cincischiava nelle tasche inventando mille scuse:
Ma dicite ca nun tenita a «zuppa». Rieccovi a fare ’o
duvere vuoste, come un tempo, con la napoletana, dove il
caffè scende. Ridico mesci, e voi, meno candidi, lo
versate, dietro un adulto sorriso sornione.
E’ accaduto, l’ultima volta, appena un mese or sono. Un ex
scarzuppulillo centellinò con me quel nettare dell’amicizia e si
dileguò per l’ingresso borbottando di avere una fretta del diavolo.
Un attimo dopo ricomparve: «On Luì - sbotto - me scurdavo
’na cosa importante». Pausa. «Dai, parla», ruppi. E lui
«Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo,
tu che faresti?». Fu molto più d’un abbraccio. Grazie, ragazzi,
grazie perché mi fate, talvolta, riassaporare la giovinezza. Ciao
Sergitiello Tramontana, Micheluccio Sorrentino, Enzuccio Santagata,
Albertino Ascione, Sergitiello Paduano Giruzzo Accardo, Totore Vitiello
e, l’ultima leva, Fabiuccio Viscovo. Grazie per aver tollerato i miei
sbalzi d’umore dovuti alle vostre inottemperanze, per aver saputo
sorridere a qualche mia verbale escandescenza: ’Ata fa’ ’e
mmane comm’ e piede!
Quel che il tempo ci apporterà sicuramente
è una perdita; un guadagno o un compenso sono
quasi sempre concepibili, non mai certi.
«Appunti per una definizione della cultura» - T. S. Eliot
CAP. VI
AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI
E’ il lavoratore
solitario a fare il primo passo
in un dato campo. I particolari possono essere
messi a punto da un’equipe, ma l’idea prima
è dovuta all’intraprendenza, al pensiero,
all’intuizione dell’individuo.
“Discorso 1951” Sir. Alexander Fleming
GIOVANNI PAPERINO, TIPOGRAFO SVENTURATO
Per introdurre l’argomento concernente la meccanizzazione delle
immagini desidero sintetizzare in poche righe la storia lirica e
fantasiosa di Giovanni Paperino. Molti buoni tipografi artigiani della
mia terra vesuviana amano talmente il proprio lavoro da farne una
ragione di vita. E’ il caso di Giovanni Paperino, tipografo artigiano
provetto, coscienzioso, esemplare, onesto fino allo scrupolo, per
questo, da piccolo, in collegio, passava il suo tempo a curarsi
ecchimosi, contusioni, ed ematomi vari. Ma reprimeva ripetitivamente le
sue idee anticonformiste bruciando molte energie. Allo scopo di non
confermare gli epiteti o le ingiurie di asociale e disadattato Giovanni
stipulò il contratto monogamico. Veniva spesso nella mia bottega di
Torre del Greco per commissionare timbri di seconda mano. Giovanni
Paperino, sosteneva, tra l’altro, che i nuovi problemi esistenziali
dei circumvesuviani facevano perno sulla sperequazione dell’economia.
E’ un dramma, affermava, vivere nello stesso condominio con una
differenza di introiti da uno a dieci. Il danaro, persino a Napoli, è
divenuto l’unico parametro che determina il valore di un individuo, e
via discorrendo. Paperino era tipografo da sempre, Aveva dato i
fondelli, come lamentava lui, prima ai gestori del corso di formazione
professionale, in collegio, poi ai padroni degli anni cinquanta.
Finalmente aprì bottega ad est del Vesuvio, senza il beneficio di
rivendicazioni sindacali, ma attraverso il centesimare dei suoi
risparmi. Ma da quel momento, da paria mediocre del mondo del lavoro
divenne un potenziale buon partito per l’occhio particolare di certe
donne, non molte per fortuna, che ancora oggi ricercano l’affermazione
accovacciandosi sotto l’egida di un marito portapane. Avvenne uno dei
tanti matrimoni terapeutici dove l’illusione dell’idillio durò
giusto i nove mesi della gravidanza. Giovanni Paperino, dietro un
eccessiva possessività materna, da parte della consorte, si vide
escluso dalla sfera affettiva dei congiunti, in più sentiva opprimente
l’ingerenza della suocera.
Non si rendeva conto di alimentare da se queste manovre inferme della
consorte perché non imponeva i suoi diritti e doveri rispettivamente di
marito e di padre. Finì che, per sentirsi
accettato, si immerse nel lavoro, come si suol dire, fino al collo. La
donna, vittima del modello sociale capitalistico si crogiolava sui sensi
di colpa di Giovanni e, attraverso finissimi ed eleganti ricatti morali,
lo spingeva a sudare, come si suol dire anche questa volta, le sette
camicie. (Perdonatemi le puntualizzazioni stilistiche, ma sento sempre
la presenza della buonanima di Croce che mi fissa dal famedio). Giovanni
Paperino, come tutti gli adulti bambini era, tutto sommato, un candido
ossessionato. Il conflitto si consolidò quando, preso dal bisogno della
fuga, dovette lottare intensamente contro la rinuncia affettiva dei suoi
figliuoli. Una coppietta di pargoletti tenerissimi, si confidava, due
batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, sebbene,
secondo la moglie, lui avesse contribuito al loro concepimento solo
attraverso un meschino, scellerato semino.
La fetta di potere ottenuta dalla moglie di Paperino era insufficiente
secondo il parametro vigente, a stento riusciva a snobbare i condomini.
Sebbene fosse detentore di una posizione economica superiore alla media
nazionale, l’uomo si sentiva meschino, inottemperante, un poveraccio
da questua. Schiacciato dalle pressioni domestiche il tapino decise di
recarsi a visitare la famosa rassegna grafica del capoluogo lombardo
onde acquistare macchine rapidografiche, turbografiche e, come si suol
dire (per la terza volta), chi più ne ha più ne metta.
Il poveretto, stressato, esaurito, avvertì un malessere nell’aereo,
ma invece di prendere la direzione della toilette aprì per errore un
portello dell’abitacolo pressurizzato e precipitò. Non ebbe paura
perché non dirupava, ma veleggiava, ora cabrava, ora picchiava, su,
giù, a destra e a manca. Per la prima volta nella sua vita provò l’ebbrezza
della libertà. Ad occhi aperti agitava le braccia come un volatile. Il
suo cuore era inerte, non discerneva più la gioia e il dolore, il riso
e il pianto. Una dimensione senza principio ne fine. Poi il vento lo
spinse sempre più oltre, raggiunse la velocità della luce e confermò
la teoria di Einstein, il tempo si arrestò quando sentì il suolo
dolcemente sotto la regione plantare. Dischiuse le palpebre e non gliene
importò un frego di essersi trovato in un retorico immenso prato,
illuminato da un rancido tepido sole onde poter mirare, stagliato
sull’orizzonte infuocato, la diafana creatura dei suoi sogni, la sua
compagna ideale. Giovanni era precipitato in un altro mondo alternativo;
in questo singolare paradiso sentì scrollarsi
di dosso la vecchiezza di millenni di cultura inferma che gli aveva
iniettato sotto l’epidermide la paura di vivere e di morire. Quel
mondo gli rammentava il candore dell’infanzia, la fiducia e la
sicurezza disgregata dal presente. Scoprì l’epilogo della teoria
spazio-tempo, non già l’eternità, ma la vita a ritroso. A mano a
mano che gli anni andavano, Paperino e la sua meravigliosa compagna
ideale ringiovanivano sempre più fino a divenire due pargoletti
paffuti, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro
celeste, per poi addormentarsi dolcemente in una culla di giunco,
irradiati dai loro candidi sorrisi, nella consapevolezza soave di un
posto assicurato nel, (cosiddetto per la quarta volta), retorico limbo.
IL CLICHE’ DI ZINCO
Il sogno, invece, dei tipografi artigiani comuni, è
stato sempre quello di poter realizzare cliché nella stessa bottega. Le
complesse fasi del procedimento zincografico hanno sempre scoraggiato
anche i tipografi più intraprendenti. Gli zincografi, agli occhi dei
tipografi del piombo fuso, sono sempre apparsi come una sorta di
alchimisti privilegiati che indettavano maestrie tecnicistiche e che,
comunque, esercitavano un certo ascendente sui loro asserviti. Ma la
chimica industriale ha fatto giustizia, ha messo a punto i composti
fotopolimerici, i quali consentono di ottenere cliché in casa
attraverso un procedimento (come cadono bene le locuzioni): all’acqua
e sapone e all’acqua di rose. Infatti, dopo la semplice
fase di esposizione, lo sviluppo avviene in acqua di rubinetto.
Bisogna ricordare che, per quanto la stampa offset abbia soppiantato
quella a caratteri mobili vi sono delle lavorazioni che restano
tipografiche e, allo stato, non si possono sostituire: stampa in oro
tramite foil, stampa di supporti cartacei preconfezionati, rilievografia
classica e chimica, ecc.
Vediamo, per il momento, come viene fabbricato un cliché di zinco al
tratto. Devo subito puntualizzare che il procedimento fotografico per
ottenere la matrice di qualsivoglia veicolo di stampa e sempre lo
stesso. E’ necessaria, in tutti i casi, una maschera che consente alla
luce attinica di agire o meno. Questa matrice della matrice, per così
dire, è essenzialmente costituita da una pellicola o un montaggio di
pellicole fotografiche. Per ottenere un semplice cliché di zinco,
dobbiamo sfruttare la contrapposizione della pellicola ortocromatica ad
alto contrasto: nero totale o bianco assoluto. Immaginiamo di voler
convertire in cliché anastatico un disegno o una pagina di scritto.
Fotograferemo l’originale con un apparecchio specifico capace di
incamerare negativi di grosso formato o più semplicemente
scannerizziamo la pagina fino ad ottenere con il procedimento
disponibile: laser, fotounità, ecc. una pellicola negativa che
risulterà, come è noto, nera la dove le zone dell’originale sono
bianche, e trasparente dove sull’originale risulta nero.
Lo zincografo avrà preventivamente preparato la lastra di zinco con una
speciale vernice fotosensibile, spalmata in centrifuga onde ottenere uno
strato omogeneo. Fatta essiccare, la lastra viene sottoposta alla
pellicola a perfetto contatto in appositi bromografi sotto vuoto.
La luce attinica agirà solo attraverso le zone trasparenti, nel nostro
caso i segni delle lettere e il disegno. La vernice fotosensibile
indurirà solo nei punti colpiti dalla luce. Le zone neutre rimarranno
solubili allo sviluppo che lascerà, in quei posti, ricomparire il
metallo. E fin qui nulla di complicato, a parte la centrifugazione del
bicromato sensibile sullo zinco. La difficoltà si presenta quando si
immerge la lastra in acido nitrico che corroderà lo zinco solo nei
punti esenti di vernice. La laboriosa incisione è sotto costante
controllo dell’operatore che eviterà innanzitutto attacchi impropri
dell’acido al fianco dei rilievi delle lettere in formazione. Quando 1’incisione
chimica avrà raggiunto la profondità desiderata il cliché è bello e
pronto per la stampa. Esso avrà l’aspetto del bassorilievo di un
comune timbro, laddove gli elementi grafici sono disposti a rovescio e
in rilievo e le parti bianche (sulla carta) sottoposte. Il procedimento
fotopolimerico è pressoché identico con la differenza che non esiste
acidazione, lo “scavo” del bassorilievo avviene spazzolando con
acqua di rubinetto tiepida. Ciò consente a chiunque di fabbricare
cliché di “plastica”.
IL RETINO
Fin qui abbiamo appreso che i segni in superficie del
cliché raccolgono il colore dai rulli inchiostratori delle macchine
tipografiche per trasferirlo sulla carta, similmente alla funzione del
rilievo dei caratteri mobili. Le zone più basse che costituiscono la
base dei rilievi di stampa non sfiorano i rulli e risultano bianche
sulla carta. Ma come si ottengono le tonalità di grigio in una foto
stampata? Se proviamo a tracciare su d’un comune foglio bianco tanti
puntini precisi ed equidistanti tra loro noteremo che alla distanza di
qualche metro essi scompariranno dal nostro controllo visivo ed
apparirà una zona di una distinta tonalità di grigio. Più piccoli e
distanti saranno i puntini, minore sarà l’intensità del grigio. Per
ottenere un grigio piuttosto scuro dobbiamo tracciare dei punti più
nutriti e più accostati. I punti addossati o fusi formano il nero. Se
queste tracce vengono articolate in relazione a delle figure otterremo
una rudimentale immagine tipografica da giornale.
Il clichè riproducente una fotografia ha lo stesso principio del nostro
puerile esperimento, è composto da parti microscopiche totalmente nere
o bianche, quindi alte e basse. Il segreto sta nella caratteristica
microbica dei mirmifici puntini, che non vengono percepiti ad occhio
nudo come tali, ma quali zone grigie più o meno scure che vanno appunto
dal bianco al nero. Un cliché di una foto, detto a mezzatinta,
presenta, nella sua struttura, una miriade di punti di microbica
dimensione a diversa distanza da loro: piccolissimi e distanti nelle
zone chiare; più sostenuti e ravvicinati in quelle medie; quasi uniti
nelle parti scure, nelle zone nere sono fusi assieme e si va nel
fondino tipografico. Quindi l’omogeneità dell’inchiostro
distribuito dai rulli viene rotta dalle differenti zone di presa dei
puntini.
A scomporre l’immagine in punti, in sede fotomeccanica, è il
retino, costituito da un supporto dello spessore vario, a seconda se
si tratta di retino a distanza o a contatto. Il retino a contatto, molto
diffuso e pratico, è spesso quanto una pellicola e altrettanto
flessibile, nella cui base semitrasparente appaiono fittissime serie di
linee orizzontali e verticali, l’incrocio delle quali forma i punti
che allo stato di retino sono tutti uguali. Essi si assottigliano per
riflessione ottica della luce in fase di ripresa lungo le parti chiare
dell’immagine; al contrario nelle parti scure si ingrossano perché la
luce riflessa è minore. Il retino viene anteposto, a stretto contatto
(sottovuoto), alla pellicola vergine in fase di ripresa o nei passaggi
da negativo in positivo e viceversa. I retini vanno da un minimo di 25
linee a cm. quando il cliché è destinato ad una carta ruvida come
quella dei giornali; 40 linee per carte collate e lisciate, fino ad 80
linee ed oltre per le carte patinate. L’offset consente un maggior
numero di linee del retino, perché il sistema trasferisce solo un
sottile velo di inchiostro ed evita l’impasto dei punti. Il retino 25
linee dei giornali è visibile ad occhio nudo come la luna ed il sole.
Per osservare bene una retinatura oltre le 60 linee è necessaria una
buona lente d’ingrandimento. Oggi la selezione dei colori è
totalmente computerizzata e la possibilità di errori è minima.
I TIPOGRAFI DIPENDENTI NEL NAPOLETANO
La stampa di foto a colori (policromia) come avviene?
«Attraverso quattro immagini retinate sovrapposte» rispose
Giorgio ad un mio cliente. Io non ho mai conosciuto un artista più
sincero, autentico, folle, di Giorgio, né in tutta Torre del Greco, col
suo Istituto d’Arte, né ad Ercolano, né a Napoli, né in tutta la
Campania. Giorgio era una tavolozza personificata. Erano i tempi
in cui il Ministero della Pubblica Istruzione ebbe delle crisi di
coscienza ed istituì numerosi corsi serali
di recupero per anziani e giovani volenterosi. Era già caduto l’Impero
Padrone, almeno nel linguaggio; il sessantotto a una spanna. Noi giovani
campani avevamo in comune il problema dell’occupazione. Nasceva il
posto clientelare e quello da comperare. Anelavamo la “sistemazione”
per assicurarci la nostra fetta di dignità, per uscire dall’emarginazione
e dalla miseria. Provenivamo da una Napoli prostrata nei disagi e nell’inedia.
Malaparte ci ricorda la drammaticità di quegli anni, forse eccedendo
nella trasfigurazione artistica con fioriti, declamatori ed ampollosi
virtuosismi di stile. Tutti i popoli nell’annichilimento prolungato
diventano servili e confusi. Nella disperazione non esistono popoli
migliori o peggiori, ma solo folla di individui che, obnubilati, lottano
per la sopravvivenza. Qualsiasi altro popolo al posto di quello
napoletano, non avrebbe fatto cose migliori. E’ facile giudicare
con la pancia piena, come diciamo noi. Con buona pace di Curzio, che
amo e ammiro come scrittore e come persona, “La Pelle”
sarebbe stata stilata dietro un’altra ottica se, invece di trovarsi,
egli, nella condizione di consumare bisbocce con gli anglo-americani, il
destino l’avesse voluto gomito a gomito coi diseredati, a dormire nei
loro tuguri, a soffrire la propria fame e per quella dei figli, che egli
non aveva e non solo a osservarli di passaggio, con l’occhio distorto
e assetato del cronista.
Ecco perché un posto, nel dopoguerra, rappresentava la mèta per
i giovani di allora, a cui le madri ancora rammendavano i calzini o
facevano risuolar le scarpe. Allora, oggi si dovrebbe rifiutare il
benessere, ammesso che sia veramente tale? No, si dovrebbe apprezzare la
parte buona di esso, ma non si può quando, sotto la molla consumistica,
esso alimenta un crescendo di se e rende i consumatori dipendenti di
dosi crescenti all’infinito. Mai come oggi cade bene la locuzione:
stavamo meglio quando stavamo peggio, e non credo che sia solo un
qualunquistico luogo comune. La vita dei campani era senza dubbio più
serena nel secolo scorso, sia pure nelle ristrettezze e nel servilismo,
perché si apprezzava e si utilizzava bene quel poco che si otteneva.
Chi poco tiene caro tiene, si dice a Napoli. Questa condizione
mentale è totalmente sconosciuta alla generazione attuale.
La stampa tipografica ebbe il suo fulgore ai tempi della Serao. La
moglie di Scarfoglio fu la prima a scuotere il dirigismo politico e
difendeva tutte le categorie disagiate dei lavoratori, non di meno i
tipografi: «Napoli - diceva - è il paese dove meno costa l’opera
tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un
terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a
Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in
questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono
certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare
neppure tre numeri...». Ciò accadeva nel 1906. Dopo due grandi
guerre la situazione era immutata, se non peggiorata. Ricordo con
amarezza le angherie umilianti che i tipografi, capi di famiglia,
dovevano subire a salvaguardia del posto di lavoro.
Oggi, grazie a Dio, tutti i tipografi dipendenti hanno riscattato
diritti e dignità, sebbene, in diversi casi la pizza degli abusi si sia
rivoltata. Questo dimostra che non esistono categorie o classi buone o
cattive, ma che la benignità e la malvagità sono delle condizioni
mentali presenti in ogni uomo, e che insorgono secondo la posizione che
si detiene, in base a quale lato si tiene il coltello. L’homo
homini lupus di Plauto, quindi di Hobbes, è l’estremizzazione di
una cruda realtà, anche se oggi alla luce della psicanalisi si tende,
se non a giustificare, a capire i meccanismi di difesa-aggressione dell’uomo.
Perdonatemi il tono messianico, il dare sempre l’impressione di
correre sul filo della bravura e della filantropia, ma devo riportare un
proverbio della raccolta di Annarosa Selene: Ci vuole un coraggio da
leone per astenersi dal fare violenza ai deboli.
GIORGIO, AVANGUARDISTA AUTENTICO
Quando ripenso a Giorgio, vero maestro del colore,
esperto di grafica artistica da riproduzione, mi prende il magone.
Rimembro i tempi andati del dopoguerra, quando noi ragazzi campani
venivamo coinvolti nei mestieri improvvisati dei grandi. Una volta
tentai di fare il madonnaro: fu un disastro, la pittura non faceva al
caso mio. Infatti non ho mai capito la pittura di Giorgio. Amavo il suo
entusiasmo, il suo credere ciecamente alla propria opera. Diceva che
nelle sue super-avanguardistiche tele vi era concentrata tutta la
travagliata storia di Napoli, un popolo clown. Ricordo Giorgio nella sua
grossa mole fisica, quando fece saltare la serratura della porta d’ingresso
di Via Purgatorio con una spallata. Si difese subito dicendo che la
nostra è un’epoca disonesta, perché fanno le porte di ricotta...
«Desidero cento visita - aggiunse. - Lui’, me li devi
consegnare… ieri».
Giorgio mi osservava, con la testa altrove, mentre infilavo nel
gruppo di rulli della pianocilindrica dei fogli di prova stampati più
volte allo scopo di sottrarre inchiostro eccessivo. Mi fece notare che
quelle scartine avevano fatto tutte le guerre. Infatti erano
fogli di avviamento, passati per la macchina più volte in un arco di
tempo lungo. Dove compariva una scritta, dove un fondino carminio, più
in là un tono di colore indefinito, e tanti altri elementi frammentari
e alla rinfusa. Un risultato che a volerlo realizzare non bastava
Picasso; una di queste scartine di cartoncino rigido non si arrotolò,
riuscì spontanea dalla macinazione
e veleggiò intrepida per adagiarsi docile ai piedi di Giorgio. L’uomo
dilatò le pupille e tentava di dischiudere le labbra nello sforzo vano
di profferir parola. Era in completa afasia, tanto che io sospettavo i
sintomi incipienti del grande male. Raccolse la scartina con la
cautela di un artificiere, la poggiò lentamente sul banco, indi mi si
avvicinò e mi estorse dalla guancia l’adesione ad un bacio vigoroso,
per fortuna brevissimo. Lacrimava di cuore, poi si dimenava nel corpo,
batteva i piedi sul pavimento, indi faceva le fusa e sorrideva ebete.
Prima che incominciasse a rotolarsi per terra capii che provava una
gioia autentica, puerile. Tra riso e pianto, tremante, in pieno orgasmo
fece il gesto di rilasciarmi un assegno, poi, per mia sfortuna, si.
rimise il carnet in tasca dicendo che una tale opera non aveva prezzo,
il cui compenso non rientrava nelle sue possibilità. (Il suo conto
corrente era sempre in rosso...).
Quella scartina, per me, onestamente,
insignificante, fu la vita per Giorgio. Quando gli dissi, più dietro lo
spavento che dietro la generosità, che poteva tenerla, ricominciò con
quei, devo confessarlo, disgustosi baci a labbra piene. Fosse stato un
russo o un mafioso, povero me! Quella scartina fu l’emblema del suo
genere artistico, che, nemmeno nei momenti di pathos di più alta
ispirazione, di maggiore follia creativa aveva saputo realizzare. Prese
a sbaciucchiare la macchina tipografica, la fece lustra, (anche se un
tantino maleodorante), come il gatto fa col proprio corpo.
Malgrado le apparenze paranoicali, Giorgio era tanto buono, non solo,
pure culturalmente preparato, e di una intelligenza singolare. Si dirà:
non vuol dire, ma e mille volte preferibile un folle buono che un
equilibrato malvagio. Giorgio era quello che si suol dire un vero amico.
Egli sfatava l’assioma di Pierre Reverdy: L’amicizia è una
complicità e, quando cessa, l’amicizia svanisce.
Giorgio fu amico sino alla fine. Nel letto di morte cincischiava all’altezza
dei precordi nel tentativo vano di raccogliere un portafoglio che non
aveva mai contenuto più di tre o quattro banconote, voleva ripagarmi
quella gioia che, senza alcuna fatica, involontariamente gli avevo dato
cinque anni prima in quella negletta fucina di maestosi esempi di vita
che e la mia bottega di via Purgatorio. Pensai, in lagrime, quanto basta
poco per rendere felice un uomo rimasto lontano dall’affettata, adulta
sedicenza, un uomo che aveva provato l’ebbrezza di sentirsi grande in
una dimensione bambina. Una parte del mio smisurato amore per le arti
grafiche è dovuta a lui.
LA STAMPA DI FOTO A COLORI
L’argomento relativo alla stampa a colori è così
vasto e complesso che costerà fatica sintetizzarlo in poche parole. L’immagine
a colori viene scomposta otticamente nelle sue tre tinte fondamentali
per venire ricomposta in sede di stampa con i tre cliché retinati da
sovrapporre. Gli inchiostri fondamentali sono il giallo, il magenta e il
turchese, i quali, fusi insieme, grazie alla percentuale differenza dei
puntini durante la sovrapposizione, ricompongono tutti i colori dell’immagine
originale, persino il nero, ricavato con la somma dei tre colori
fondamentali. Quando il nero ottenuto dalla tricromia non è sufficiente
si provvede a creare il quarto cliché del nero, ottenuto con 1’uso di
tutti e tre i filtri di selezione. Per ottenere il cliché che sarà
stampato col colore magenta si userà il filtro verde; per
il cliché del giallo si adopererà il filtro viola; per
quello del turchese il filtro arancio.
Per meglio comprendere il principio del filtro basta tracciare su di un
cartoncino bianco due zone colorate: l’una nera, l’altra rossa, Se
si osserva il cartoncino al buio sotto la fioca luce di una lampadina
rossa del tipo per camera oscura, sarà visibile solo la zona nera
disegnata. La lampadina rossa ha rappresentato il filtro che ha
sottratto il colore come per incanto. L’occhio vigile dell’apparecchio
fotografico si comporta allo stesso modo. Tutti i cliché tipografici di
zinco dello spessore medio di 2 mm. vengono montati con doppio adesivo
su blocchi sistematici di duralluminio della stessa altezza del
materiale tipografico (cliché compreso), in sostituzione delle vecchie
basi di legno, mai rettificate. Oramai non si realizzano più
quadricromie con i cliché zincografici, ma il procedimento della
selezione dei colori è lo stesso non solo per la stampa offset, ma per
qualsiasi veicolo di stampa antico o moderno. Le lastre litografiche,
intanto, hanno bisogno, per essere esposte, di un positivo anziché un
negativo.
LA MODA OFFSET
Con i clichè di zinco l’argomento
della stampa a caratteri mobili è, per il momento, concluso. Tutti gli
altri sistemi di stampa prescindono da quella rilievografica
ideata da Gutenberg. La stampa offset, detta planografica
(elementi stampanti e bianchi sullo stesso piano) è basata sul
principio di repulsione tra l’acqua corrente e gli inchiostri grassi
tipografici. La lastra offset, in ogni fase di stampa viene inumidita da
un velo d’acqua dai rulli bagnanti, e immediatamente dopo unta da
quelli inchiostranti. Le zone della lastra che dovranno risultare
bianche sulla carta, predisposte al principio di repulsione dei grassi,
rifiuteranno l’inchiostro, se umide; le zone costituenti il disegno e
le scritte, malgrado l’umidificazione vengono perfettamente
inchiostrate, sempre che l’umido non sia eccessivo. Viceversa, una
eccessiva inchiostrazione imbratterà, se pure irregolarmente, le zone
di bianco. Realizzare una lastra o matrice offset è più semplice di
quello che si pensa. Il montaggio positivo: supporto trasparente con
zone stampabili nere, viene posto a perfetto contatto con la lastra
pre-sensibilizzata per la fase di esposizione a luce attinica. Le lastre
offset sono positive per un processo di inversione del materiale
fotosensibile, onde agevolare il montaggio che in positivo è più
facile. La fase successiva all’esposizione è molto semplice perché
non è previsto nessun processo di acidazione come per i cliché di
zinco.
Le matrici offset vengono sviluppate attraverso lo strofinio piuttosto
vigoroso di un tampone manuale con alimentazione progressiva di un solo
bagno. Immediatamente dopo le lastre, se non vengono subito adoperate
per la stampa, vengono protette dall’ossidazione tramite un velo di
gomma applicato con un tampone imbevuto, La gomma, essiccata, viene
asportata con acqua solo quando la macchina offset è pronta per l’abbrivaggio.
Mentre la realizzazione di un clichè di zinco costituisce solo una
delle numerose fasi di preparazione dell’assemblaggio in piombo, la
lastra offset rappresenta la matrice grafica completa, il supporto,
cioè, come unico elemento matrice di tutto un preventivo lavoro
fototecnico realizzato sui tecnigrafi, con la fotocomposizione, nella
camera oscura, sui banchi luminosi di montaggio o addirittura totalmente
impaginato a video.
Il materiale del grafico offset e costituito essenzialmente da immagini
nere su supporti trasparenti. I neri sostituiscono i caratteri
tipografici e i cliché di zinco; le trasparenze: la marginatura. Il
lavoro di montaggio sugli astralon e idealmente simile a quello della
composizione tipografica. Tipografia come mosaico, offset
come collage. Il montaggio classico relativo alla realizzazione
della lastra offset avviene posizionando l’astralon a contatto su di
un foglio millimetrato trasparente che favorisce il calcolo delle
distanze, gli allineamenti, ecc. Il sistema offset incomincia a
rientrare nell’ordine di idee anche delle botteghe tipografiche dell’angolo
che provvedono all’acquisto di una piccola macchina. Sono comunque
sprovviste della fotocomposizione, ancora di costo elevato, fino a
qualche anno fa si realizzavano le lastre fotografando le bozze
tipografiche. Negli ultimi tempi si è diffusa una configurazione
computeristica modesta, a basso costo, denominata Editoria d’ufficio
che è antata via via sempre più perfezionandosi e arricchendosi.
Il sistemia non equivale, pero, alla fotocomposizione, soprattutto a
causa della bassa definizione (massimo 1200 punti a pollice col sistema
laser), ma idonea per tutti i lavori di piccola entità senza grosse
pretese qualitative.
A contribuire allo sviluppo dell’offset sono le evoluzioni tecniche.
Le moderne macchine elettroniche dette a scansione, per esempio,
hanno completamente automatizzato la selezione dei colori. I vecchi
cromisti sono scomparsi insieme alla loro partecipazione emotiva a quel
complesso lavoro. Forse le selezioni di colori saranno meno
personalizzate con i prodigisell’informatica, ma non si può dire che
siano scadenti o imperfette. Le macchine consentono maggiori controlli,
correzioni preventive sulle maschere, su cui è possibile agire con ogni
sorta di elaborazione. Il montaggio degli elementi selezionati viene
fatto su di un’unica traccia detta viola, costituita da un
supporto fotosensibile su cui viene impressionata la struttura generale
del montaggio. Il colore viola, come falsariga dell’immagine da
sovrapporre, è neutro per la luce attinica. La viola è
indispensabile per garantire la perfezione micrometrica dei retinati
selezionati da sovrapporre l’uno sull’altro, incerta ed imprecisa se
eseguita montaggio su montaggio.
CENNI SUL ROTOCALCO
Noi meridionali spesso accusiamo qualunquisticamente sempre la
dirigenza politica. I settentrionali, dal canto loro, attribuiscono le
cause del lento sviluppo del sud all’inerzia del popolo stesso dovuto
a fattori storici, ambientali, climatici, ecc. E quando si ricorda che i
nostri emigrati a Milano o in Europa sono quelli che producono di più
viene risposto che essi vengono fuori dal guscio, cambiano clima e
mentalità e dimenticano storia, costumi e abitudini, ma soprattutto,
vengono condizionati dall’ambiente produttivo, umano e meccanico sopra
la molla dell’emulazione. Comunque vadano le cose la realtà è
inequivocabile, nel settentrione d’Italia vi sono diecine e diecine di
officine grafiche di grossa entità, molte delle quali adottano il
sistema rotocalco. Nel sud questi impianti si contano sul naso. E
pensare che il primo rotocalco illustrato fu napoletano.
Il rotocalco, come ho gia detto in precedenza, deriva dall’antica calcografia.
Abbiamo pure visto che il sistema offset prevede matrici di stampa
caratterizzate da elementi stampanti e bianchi disposti sullo stesso
piano e che vengono differenziati dal principio di repulsione acqua e
inchiostri grassi. Inoltre sappiamo bene che il sistema tipografico,
esente da tali processi chimici, sfrutta l’antichissimo principio dell’incisione
xilografica, rilievi: stampa, incavi: bianco. Le matrici
rotocalcografiche, invece, curve perché montate
o costituite da cilindri di rame, sfruttano il principio della vecchia
incisione calcografica. (Rilievi: bianchi, incavi: stampa).
La preparazione di matrici rotocalco prevede sempre il solito
montaggio fototecnico. L’incisione del cilindro avviene tramite
acidazione come per i cliché di zinco. Dopo che è stato trattato con
uno strato di gelatina fotosensibile, all’atto dello sviluppo
rivelerà spessori diversi in relazione ai vari toni dell’immagine.
Là dove la gelatina è meno spessa (zone scure) l’acido scaverà in
maggiore profondità; dove è più spessa (zone chiare) l’acido avrà
meno tempo di morsura per cui gli alveoli saranno meno incavati. La
diversa profondità degli incavi determinerà i toni dell’immagine in
tutta la gamma dei chiaroscuri. Tutto il cilindro è comunque alveolato
in maniera uniforme poiché non è lo spessore degli alveoli che
accumulano più o meno inchiostro, ma la loro profondità. Più profondi
sono gli alveoli di un tratto, maggiore inchiostro assorbirà la carta.
Gli alveoli poco profondi trasferiranno poco inchiostro e daranno zone
grigie. L’assenza di alveoli darà il bianco.
Il cilindro rotocalcografico viene “innaffiato” con lo spruzzo di
inchiostro liquido, alimentato da una pompa. Il colore, ad essiccazione
rapidissima, inonda gli alveoli, mentre una racla deterge subito gli
eccessi. Sulla carta viene trasferito solo il contenuto delle incisioni.
Per ovviare alla durezza della stampa rotocalco, rispetto alla
morbidezza delle immagini consentita dagli altri sistemi, si usa
retinare tutto il cilindro rotocalcografico, anche nelle zone totalmente
nere costituite da titoli e testo. Le immagini si ammorbidiscono, ma i
caratteri piccoli perdono di nitidezza. Se osserverete i caratteri di
testo su di una qualsiasi rivista rotocalco, noterete tanti mezzi
puntini specie intorno alle lettere piccole. Con una lente d’ingrandimento
distinguerete la retinatura. L’alveolatura, chiaramente, è
invisibile. Devo aggiungere che negli ultimi tempi si è tentato con
successo di variare i punti del retino relativo alle tonalità,
ciò solo nei toni più chiari della scala dei grigi, esattamente fino
al 50%. Oltre questa intensità di chiaroscuro agisce solo la
profondità degli alveoli. La stampa rotocalco è il veicolo che
maggiormente gonfia le edicole. Quando si parla della stampa relativa
alle edicole le lettere dell’alfabeto, messe l’una dietro l’altra,
formano distanze che bisognerebbe misurarle in anni luce. Per fortuna il
linguaggio dei rotocalchi non viene dottrinalizzato ma è conforme ad
uno strumento convenzionale di realtà esteriore. Forse il linguaggio
più giusto, perché assimilato da tutti. Ma dice Humboldt: Il
linguaggio ha origine ogni qual volta si parla. Le centinaia di
riviste illustrate che settimanalmente affollano le edicole adoperano la
lingua d’uso corrente per motivi commerciali, rasentando appena quella
letteraria, espressiva, tecnica, aulica o settoriale delle librerie. Il
successo di queste pubblicazioni è dovuto alla stessa edicola, sempre a
portata di… piedi, il principale veicolo di distribuzione di
letteratura di massa facile e popolare.
LA CULTURA NAPOLETANA MEDIOEVALE ALL’APICE DEI
CODEX
E QUALCHE DIVAGAZIONE
E’ arrivato il momento di trattare la stampa serigrafica.
Intanto faremo un’altra sosta nel passato napoletano con la macchina
del tempo della nostra fantasia. Ritorniamo al medioevo nel periodo di
maggiore produzione dei codex. Il primo utilizzo della stampa
serigrafica, però, risale a tempi molto remoti, poi l’impiego si
dileguò nel tempo perché inadeguato agli interessi prevalentemente
culturali dei due millenni. Il consumismo del XX secolo l’ ha
riportata alla luce. La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che
ritornano e riflussi. Nel medioevo la serigrafia non è mai stata
applicata. Le esigenze di decorazione si limitavano a supporti come
carta, pergamena e affini stampabili con la xilografia e la calcografia.
I testi scritti venivano prodotti dalle officine scrittorie, che a
Napoli furono sempre numerose, grazie ai monaci. La stampa serigrafica
ha poco da spartire con la cultura, in passato come oggi, ad eccezione
dell’arte pittorica, estesa alla grafica in serie, poiché la
pubblicità a cui essa è asservita, vanta oggi, bisogna riconoscerlo,
delle inconfutabili forme d’arte. Il medioevo napoletano ricorda una
tappa importante per la cultura, la fondazione dell’Università di
Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero il Normanno a volerla si sono da
tempo dissipati dietro studi e ritrattazioni. Tutti sono concordi che il
fondatore di questa fucina di geni della cultura partenopea fu Federico
II di Hohenstaufen, meglio noto come Federico II di Svevia. Si dice
fosse un uomo colto, chissà con quale parametro, però, lo si
giudicasse; voglio sperare non quello della casata, poiché è trito il
concetto che nobili non sono i ricchi, ma quelli che fanno nobili
cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla influenza della Scuola
Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche Federico operava, fu al
centro della cultura italiana dell’epoca.
L’Università (è palese a tutte le matricole che si accalcano nell’austero
edificio ad angolo tra Via Mezzocannone e il Rettifilo) sorse nel 1224,
indi furono istituiti gli studi maggiori: filosofia e teologia, tanto
per variare. Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il quale, accomunato
a tutti i frati dei famosi ordini Domenicano e Francescano, diffuse la
cultura in tutto il regno. Sorrido al ricordo delle imprecazioni degli
studenti che mi supplicano, nella bottega di Via Purgatorio, di
allestire la loro tesi in un paio d’ore, ciancicando ilari ingiurie
all’indirizzo dei baroni bianchi.
Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da
presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di
baronato doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona
pace di S. Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un
intellettuale geniale e di un religioso fervido e sincero. In più i
frati, in quel periodo, dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le
cattedre, poiché tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si
presumeva, ovviamente, patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in
ultima analisi, la lotta tra Impero e Papato non ostacolò di molto la
diffusione della cultura di priorità teosofica dei cattedratici santi e
dei copisti monaci. Anche Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans.
Non come S. Tommaso, naturalmente, che divenne domenicano proprio a
Napoli. Quando l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora
non già stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla
preghiera. Infatti, a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio
universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice:
bisogna nascere, Ercole o santo!
Cultura e movimento letterario ben vennero anche da parte dei Frati
Minori, gli umili francescani, che sostennero quella cultura
teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della
religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica.
Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento
mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la
poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera
il Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.
Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno
per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta
il paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di
frequente si abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime
pulsioni dietro il paravento descrittivo degli angelici tratti somatici
femminili. D’altra parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo
argomenti validi, e quali più de: la donna e l’inferno, cosi connessi
alla luce della psicoanalisi?. Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a
fare il letterato, doveva attendere l’era gutenberghiana. La figlia
Beatrice non sarebbe finita in convento perché priva di dote. Dante è
l’emblema del: Carmina non dant panem. Un esempio per il
sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla penna alla
legatoria, restano nella dimensione degli artisti della domenica o degli
scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del dono con la
dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è nemmeno
velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare, diffondere
quello che sa e quello che penza.
Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza di scomunica del
Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del Clero dotto, sino a
lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di colpa, comunque, non
risparmiano nessuno. Federico II sentiva di tiranneggiare i napoletani,
che si ridussero a poche migliaia, spostandosi in provincia. Forse
proprio per questo fondo 1’Università a Napoli, (oltre che per la sua
passione per lo studio) e qui si devono fare le dovute riserve. Fu per
riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo scarso apprezzamento di
certe iniziative, comunque di stampo aristocratico, con cui i napoletani
medioevali avevano poca dimestichezza, il popolo non si vedeva ripagato
con tale ripiego, a giudicare dai sostanziali e più emergenti privilegi
di cui veniva privato; in secondo luogo la moltitudine non sapeva
neppure apprezzare l’importanza dello «Studio Generale», destinato a
primeggiare sulle altre Università del territorio peninsulare.
A giudicare dallo stato di degrado urbano e socioculturale della cintura
vesuviana, sembra che l’evoluzione etico-culturale e civica non sia
mai avvenuta e che il livello di questi valori sia stagnato nella misura
in cui era verso la fine del primo millenarismo della storia. Non v’è
più possibilità di smottamento e di sensibilizzazione. C’è, oltre
la buona volontà di alcuni, un muro di gomma. Pubblicai, 1’anno
passato un libro fotografico di Torre del Greco antica con relativa
nutrita introduzione, allo scopo di rispolverare il meglio di un passato
appena prossimo. A parte 1’interesse legato alla componente nostalgica
non ho avuti altri riscontri. Nemo propheta in patria? O v’è
il sospetto del secondo scopo su iniziative che non beneficiano di
contributi comunali? Questo è un altro aspetto caratteriale drammatico
che si è insinuato nel mio popolo, che in fondo amo insieme alle pietre
della città, la certezza del secondo scopo, irreversibilmente.
Nella mia bottega di Via Purgatorio guai a consigliare un tipo di carta:
è perché lo si ha in eccedenza; un tipo di carattere: è perché non
se ne ha abbastanza. Tutte le buone opere, secondo la gente d’oggi,
dovrebbero avere un fine recondito legato al lucro. Ma se il danaro, in
fondo, non è che un mezzo per ottenere rispetto, stima, ammirazione,
perché non potrebbe essere l’opera buona lo strumento diretto per
ottenere ciò, senza mezzi venali?
Ciò accade quando il capitalismo impera col suo Vangelo: il consumismo,
le sue chiese: le multinazionali e il grande esercito di operatori
pastorali: gli agenti di commercio, tutti avvinghiati alla massa
abbindolata dei consumatori, mai sazia, perché non si accorge di
comprare solo illusioni. Ciò accade, purtroppo, quando le arti grafiche
sono per il settanta per cento asservite alle spietate leggi di mercato;
quando le democrazie si crogiolano nella demagogia e numerose
incrinature di corruzione guastano come la malerba tutta la fioritura
etico culturale positiva di un’era. L’arte della stampa per
insufflare nel popolo pure buoni propositi non c’era alla fine del
primo millenarismo della storia che, grazie a Dio, non vide la fine del
mondo (e chi sa se la vede il secondo, lasciando guadagnare la palma ai
Testimoni di Geova anziché all’evangelista biblico). (Oggi 2002, non
l’ha vista. N.d.r.).
C’è crisi di contenuto. Le ciarle messianiche ed idealistiche
potevano convincere allora, nella mia Torre del Greco e nella Campania
tutta, sebbene si registrasse il novanta per cento di analfabetismo. La
cultura era esclusivo patrimonio dei pochi iniziati, per lo più
appartenenti alla casta clericale o a quella della gerarchia regnante.
Nessun figlio ’e Peppe ’o fravecatore de La Torre de lu
Grieco, o di Giuvanne ’o pisciavinnolo, di S. Lucia sognava
una cattedra, non solo, ma di fare il bidello negli «Studi Generali»
alias Università, tanto meno di avere la potenzialità di uscire dall’epidemico
analfabetismo medioevale. Disordine e degrado erano di casa intorno al
Vesuvio anche allora, ma a causa dei frequenti mutamenti politici dovuti
alle dominazioni. Precarietà, inclinazione alla dissidenza e all’eslege
che lasceranno l’impronta caratteriale fino al popolo vesuviano d’oggi,
sempre disposto agli adattamenti ed ai ripieghi sregolati, alla
tolleranza del malcostume urbano e dirigenziale, dietro rassegnate
reazioni di malcontento, come si fa contro l’ineluttabilità del
destino. Forse e un’ altra delle equilibrate forme di scaltrezza di
fronte ad una realtà difficilmente mutabile, allora perché consci di
disporre della fatua difesa dell’ignoranza, oggi ben consapevoli dell’irreversibile
stasi politica dei paesi allineati, dovuta al deterrente atomico. E’
forse una filosofia ancestrale che aiuta a sopravvivere e ad evitare
ulteriori annichilimenti come quello relativo all’ultima guerra
mondiale.
Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti
meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica,
grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano
interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un
motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la
diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione
della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione.
Certo era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia
siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la
quale pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna
sacra nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino,
a cui ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la
benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il
possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità
monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.
Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di
molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella
Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e
via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del
business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi vesuviani, sin d’allora,
anche per un’atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo
appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione
deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel
nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la passionalità
distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna, nel
napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo
da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane);
oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale;
possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di
madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli
di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche
contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione
è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è
intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della
donna, che prevale sugli altri ruoli.
Gli scriptorum e le tipografie hanno in fondo diffuso queste
concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico
relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma,
amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare
prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado
gli sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla
stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro,
come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro
il mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come
nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle
culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là
che si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il
globo terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie
culturali durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi
altrettanto lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni,
ma sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c
credenze millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso,
tutto lo sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione
della stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta
indubbio, allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della
diffusione di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio,
via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello
planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale
orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che
allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini
litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di
risate.
LA SERIGRAFIA
Il sistema serigrafico si rivolge esclusivamente alla grafica
commerciale e in modo speciale al settore pubblicitario, a prescindere
dalla serigrafia artistica. Le matrici serigrafiche in origine erano
costruite con seta (da qui seri-grafia). Poi furono utilizzati i
tessuti di taffettà sino alle moderne fibre sintetiche, più resistenti
ed economiche. Oggi si usa principalmente nylon, poliestere e
tessuto metallico (acciaio inossidabile). Il nylon è quello
adoperato nella maggior parte dei casi. La matrice serigrafica ha l’aspetto
di una tela prima di essere montata in cornice. La seta viene
fissata al telaietto di legno con punti metallici o colla speciale
resistente ai solventi. Pochi operatori realizzano un telaio serigrafico
col metodo cosiddetto indiretto, idoneo per lavori retinati o di
alta definizione. Conosco il metodo dietro esperienza libresca. Il
sistema indiretto utilizza anche film fotosensibili che, una volta
trattati, vengono fissati sulla seta. Il metodo diretto, diffuso
è semplicissimo, è quello che viene praticato persino nelle scuole o
nelle abitazioni di artisti. La prima fase di preparazione delle matrici
è quella fototecnica, come per tutti gli altri veicoli di stampa. Il
montaggio e 1’assemblaggio è pressoché uguale a quello per
realizzare cliché tipografici, lastre offset, ecc.
Il tessuto di questi quadri da stampa può essere a maglia stretta o
larga allo scopo di consentire più o meno uso d’inchiostro sui
supporti da decorare. I serigrafi sono una minoranza rispetto ai
tipografi, non per questo, però, vi è scarsa possibilità di
apprendistato, anche perché le attrezzature si limitano a pochi
elementi facilmente collocabili in qualsiasi ambiente. Napoli, tanto per
variare, è in critica posizione geografica circa i produttori ed i
distributori di materiale serigrafico, per cui è difficile attingere
informazioni sulle continue evoluzioni chimiche e tecniche di questa
branca della tecnologia poligrafica. Intorno al Vesuvio i fornitori si
contano sulle dita di una sola mano e si limitano alla competenza del
servizio commerciale. Le aziende serigrafiche campane fanno capo
direttamente ai produttori del nord, che nella maggior parte dei casi
sono dei confezionatori perché importano dall’estero le materie prime
e le norme d’uso.
Ora vediamo, a pochi centimetri dal naso, come avviene il fenomeno
serigrafico. Sul telaio viene spalmato uno strato di gelatina a base di
alcool polivinilico, con l’aggiunta, al momento, di una piccola
percentuale di bicromato di ammonio, onde renderla fotosensibile. Il
telaio viene fatto essiccare a luce attenuata in appositi armadi. (Io ho
sempre usato con successo un paio di stufette ventilate). La gelatina è
al massimo della sensibilità quando è completamente asciutta. Una
sensibilità relativa per la luce normale, ma alta per la luce
ultravioletta. Ciò allo scopo di consentire maggiore liberta di
manipolazioni in ambienti normalmente illuminati. Le pellicole
(positive) o il montaggio di esse, vengono poste a contatto con il
tessuto serigrafico occluso dalla gelatina sensibilizzata ben asciugata,
quindi si procede all’insolazione, non per la strada, naturalmente, ma
in appositi torchi a pressione meccanica con luce della medesima
frequenza di quella solare. Ad esposizione conclusa il telaio viene
sviluppato con getto a doccia d’acqua corrente, preferibilmente
tiepida. E’ accaduto che la luce ha indurito la gelatina in quelle
zone trasparenti della pellicola fotografica, mentre le zone nere, in
pratica lo scritto o i disegni, non essendo state colpite dalla luce,
perché mascherate, si sono sciolte sotto la doccia. Solo in queste zone
1’inchiostro avrà la possibilità di essere erogato attraverso la
pressione di uno spremitore o racla, che farà l’andirivieni copia
dietro copia, all’interno del telaio.
Nel caso di più colori bisogna preparare tanti telai per quanti sono i
colori da sovrapporre, come tutti i sistemi di stampa. La realizzazione
di un’immagine a colori retinata è complessa e difficoltosa con il
sistema serigrafico, in primo luogo perché i punti del retino si
confondono con le maglie del tessuto, che in questo caso sarà
abbastanza largo e di metallo onde evitare problemi di registro; in
secondo luogo gli inchiostri serigrafici hanno come prerogativa l’intensità
e la coprenza, per cui i colori fondamentali non si fondono bene per
ottenere i toni intermedi.
TOTONNO PEZZE ’NCULO E VICIENZO PIERE PE’ TTERRA
L’arte serigrafica si è dequalificata sul nascere,
a Napoli; il motivo lo troverete da soli nella storiella che segue. Un
minimo impianto serigrafico si limita, si può dire, al solo materiale
di consumo: telaio e inchiostro. Molti circumvesuviani hanno annoverato
questo mestiere tra le migliaia improvvisati da secoli. Questo
contribuisce al degrado (noi diciamo lo sputtanamento) di certo lavoro
specialistico, perché le ditte regolari, soggette ad oneri vari, si
vedono anch’esse costrette a mirare alla quantità, a discapito del
pregio qualitativo.
Ed eccoci arrivati a Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere
pe’ tterra. Tutti sanno che i soprannomi riflettono la
personalità, il mestiere, la condizione di un individuo, quindi potete
già farvi un’idea della morale della favola. I due tipografi in
questione erano ubicati sulla stessa strada 1’uno di fronte all’altro.
La spietata lotta commerciale durava da ben cinque lustri. Non si
contavano le aggressioni fisiche, le rappresaglie, i boicottaggi. Sulle
due fazioni nacque un vero mercato nero, giochi d’azzardo, ecc. Si
scommetteva su chi rompeva prima la testa all’altro, sul numero dei
clienti che entravano in ciascuna bottega nell’arco della giornata e
via discorrendo. Scrivani e assistiti lavoravano a tutto spiano, tra
cabala e smorfia. Insomma nacque un’attività economica che
arrotondava i magri stipendi del vicinato. Intanto, i due, durante le
tregue lavoravano come turchi, poiché a mano a mano che i costi si
riducevano, la clientela diveniva sempre più nutrita. Quando le
prestazioni raggiunsero il costo zero Totonne pezze ’nculo e
Vicienzo piere pe’ tterra dilapidarono tutte le loro risorse e
mandarono le fami- glie sul lastrico. Quella strada morì nel senso
commerciale. I “bancarellari” tentarono nuovi siti. Gli
scommettitori ripiegarono con il toto nero. In tutto il quartiere
aleggiava un’aria di detrimento.
I due ambulavano nel quartiere, boccheggianti per l’inedia, dimessi e
malnutriti, il viso grinzoso ed emaciato. Un giorno si incontrarono. Non
si azzuffarono, non avevano altra forza che quella della disperazione.
Non si sa bene se si abbracciarono nel tentativo di non buscarle, come
fanno i pugili, o se si caddero addosso per il deperimento. Fatto
sta che decisero all’unisono di fare appello al buon cuore dei
passanti. Col viso smunto, non rasato, rattoppati e semiscalzi,
puntualmente, ogni mattina occupavano le postazioni dei sagrati di due
chiese, guarda caso, prospicienti l’una all’altra. Trascorsero
alcuni mesi e, se pur non navigavano nell’oro, li si vedeva più
nutriti, rasati, con banchetto con urna per ricevere l’obolo senza la
mano tesa, il telone controvento, la ceneriera, il mazzo di carte, il
minibar nel banchetto, ed i ringraziamenti formulati in locuzioni
rivolte ai defunti, stampati in cartoncino formato visita per le 500
lire, in pergamena per le 1000, in papiro originale dell’antica Cina, made
in Forcella, per le 10.000. Ma un giorno 1’uno notava maggiore
affluenza sull’altro sagrato e decise di scemare le tariffe.
Dichiarare la guerra ad una grande potenza era meno grave. Aggressioni.
Parolacce. Boicottaggi. Teste rotte. E ancora: bancarelle. Assistiti.
Scommesse. Insomma un altro quartiere di Napoli si risollevò dalla
secolare indigenza. Totonne pezze’ncule e Vicienzo piere pe’
tterra questa volta finirono in mutande, alla lettera. Distrutti
dalla fame, annichilati nel disonore perirono e furono inumati, destino
infame, l’uno dirimpetto all’altro in un povero viale del
camposanto, a pochi passi da un cenotafio e un famedio. Ma accadde...
(Intelligenti pauca).
LA FLESSOGRAFIA
I clichè per la stampa flessografica vengono
ottenuti tramite la copiatura meccanica di una normale
composizione tipografica. La stampa flessografica è idonea per alcuni
lavori di cartotecnica; per decorare la carta da imballo, per fabbricare
timbri, ecc., lavori, comunque, per cui non si richiede una eccezionale
qualità di stampa. Il procedimento per 1’esecuzione di una gomma
flessografica è, appunto, pressoché simile a quello per la
fabbricazione dei comuni timbri di gomma. La composizione tipografica di
piombo viene fatta imprimere a caldo in un cartone speciale detto
flan o flano. Si tratta di un composto relativo alla chimica organica,
che ha sostituito il gesso o il piombo dolce di una volta. La
composizione viene introdotta in una pressa che dispone di due piani di
pressione riscaldati a 120-140 gradi. I caratteri poggiano sul piano
inferiore, naturalmente. Sulla composizione viene adagiato il flano dal
lato trattato per lo scopo, quindi si procede lentamente al pompaggio,
nel caso di pressa idraulica, affinché i due piani si accostino e i
materiali subiscano il solo contatto. Il flano, ammorbidito dal calore
(120-140°), penetra lentamente sul rilievo dei caratteri conservando 1’impronta
una volta raffreddato. Estratta la composizione si provvede ad
introdurre il sandwich composto dal flano (negativo) e la gomma che dopo
la penetrazione a caldo sarà positiva. Abbiamo ottenuto un cliché di
gomma flessibile da applicare con doppio adesivo ai cilindri delle
macchine flessografiche.
LE STEREOTIPIE
Attraverso un analogo sistema, già accennato in precedenza, ma più
complesso e laborioso, si realizzavano le stereotipie dei quotidiani,
procedimento scomparso. Le stereotipie per le rotative di giornale
conservano la caratteristica del rilievo tipografico. Ciascuna
composizione linotypica e a caratteri mobili: testo, titoli,
pubblicità, cliché, ecc., insomma la pagina di giornale, viene
introdotta in una pressa simile a quella descritta poc’anzi. Sulla
pagina composta viene adagiato il flano fabbricato con sostanze chimiche
diverse poiché esso, dopo la formazione dell’impronta, deve rimanere
flessibile per assumere la forma semicilindrica delle matrici da
rotativa. Il flano viene pressato lentamente sulla composizione perché,
con l’ausilio del calore, avvenga la formazione completa dell’impronta
incisa in tutti i suoi particolari, compresi i microscopici puntini
delle immagini retinate. Il flano speciale viene inserito in una
fonditrice semicilindrica essendo, ormai, una matrice negativa di
fusione. Il piombo viene fatto erogare nella forma a fondere curva,
quindi solidifica a contatto del flano raccogliendone 1’impronta
positiva. Le stereotipie di piombo vengono fresate e pulite nelle
parti eccedenti perché possano essere montate perfettamente sui
cilindri della rotativa. I numerosi giornali che hanno raccolto le nuove
tecnologie dette a freddo, per distinguerle da quelle a caldo
(piombo fuso), utilizzano lastre offset per rotative predisposte a
questo sistema. Il sistema rotocalco, invece si adatta a tutti i
periodici illustrati ebdomadari.
PAOLO FRINGUELLI, GIORNALISTA SUI GENERIS
Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo foglietto
quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro comunale o
poeta della domenica. Egli è uno strano filosofo che tira
quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio. Il
contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non si
parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di Paolo
Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro occhiali
enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano o
ideal-politico-cristiano, come meglio viene, che postula la
giustizia sociale attraverso le sole pacifiche (? ) armi: carta, penna e
calamaio. Questa particolare forma di giustizia, però, pretende un
riscatto dei brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il
negativo storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori
materiali universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad
esempio, i ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali,
tutto sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole
diverse, un classismo alla rovescia. Creare un’ inversione di
interessi, un modello sociale di valori pratici più vicino alla massa.
Egli è convinto che ciò sia possibile poiché la massa è più
numerosa, e, da che mondo e mondo, la maggioranza vince.
Si dirà, ad esempio, alla vista di una bella ragazza: Pussa via,
bella e oca che non sei altro, che hai la marmellata al posto del
cervello? Oppure: Disgraziatò di un possidente, non ti
aovicinare, sa’, con la peste bubbonica della ricchezza, con la tua
solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati
la tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà all’inferno
te per primo, e via ciarlando.
Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica
sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la
diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei
vaneggiamenti filosofici, dall’illusione degli ideali politici,
eccetera, eccetera. «La cultura è 1’informazione, caro il mio
tipografo conformista - mi disse - fraternizza il figlio del
ricco con quello del povero ed entrambi vanno nei fondelli ai
genitori».
Paolo Fringuelli si desta puntualmente alle quattro del mattino,
ciclostila in fretta tutto ciò che rimugina durante la notte. Alle
dieci in punto esce la sua edizione quotidiana che distribuisce a mano
personalmente, ogni giorno in un paesello della provincia. A Napoli non
sarebbe mai più andato perché un paio di volte… «Mi indofarono
di mazzate, chilli chiaveche! Fai bene, va’!». Gli risposi
che il prezzo che pagano i profeti è caro. Ci sedemmo su di una
panchina nella Villa Comunale di Torre del Greco, e gli chiesi perché
ce l’avesse in particolar modo con i fondelli dei suoi nemici. Ed egli
per tutta risposta mi accusò di essere certamente un tipografo venduto
al sistema, una pedina della società capitalistica.
Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo,
era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma
qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed
utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire
la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene a
tutti, prima o poi, con la mia passionale tendenza all’analisi, ma
compromessa, spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si
può. Dopo me stesso, vedo tutti come bambini cresciuti; in questo modo
si riesce ad intenerirsi a cospetto dei malvagi, dei pazzi, dei maniaci
pure cruenti. Veder le loro carcasse d’adulti, non richieste, come
scafandri sui loro corpi minuscoli, con quei ditini mirmicolanti; quasi
sempre bimbi vessati, soffocati dalle angherie forse inconsapevoli dei
genitori e degli educatori. Poveri assassini, poveri maniaci, poveri
malvagi, (si fa per dire) quanto male hanno ricevuto le loro testoline
in formazione, quanta indifferenza ed incuria, per essere condannati a
divenir tali, a vegetare nella loro irreversibile maledizione. Forse noi
sani che giustamente li condanniamo dovremmo espiare la nostra piccola
parte di colpa, non altro la diffusissima politica dello struzzo,
proprio quella che da noi talvolta fa pensare: Ad un palmo del mio
sedere faccia chi vuole!
Ma noi genitori, meno degli educatori, non siamo psicologi, e
soprattutto molti di noi siamo degli incoscienti bambini cresciuti,
quindi agiamo in buona fede pur quando commettiamo errori gravissimi.
Per fortuna i casi gravi sono ancora contenuti, pure nella mia terra. La
maggioranza, male che vada, pecca solo di connivenza, forse allo scopo
di non peggiorare situazioni scabrose. E vabbuono, nun fa niente;
chiurimme n’uocchio; E’ cos’ ’e niente; Scurdammece ’o
ppassato. Questa è la filosofia del popolo vesuviano buono,
pacifico, ma lontano dal concetto di codardia, una maggioranza di popolo
inquieta, che anela il convivere sereno e civile, ma che si disorienta
sempre più. Il negativo nella nostra terra è rappresentato da una
minoranza più esigua di quello che si pensa, ma lo sanno pure i neonati
cosa provoca una pera marcia in un paniere di pere buone. Dissi a Paolo
Fringuelli: «Non ricordo chi ha detto: l’illusione di ogni
ideologo è quella di lusingarsi di cambiare il mondo, ma esso è fatto
non gia di deliri mistici di tante idee separate, ma di tanti istinti
separati, i quali, quando fraternizzano, finiscono sempre, in un modo o
nell’altro, col farsi male a vicenda».
|