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                                                              SECONDA PARTE
 

Ogni progresso è basato sull’universale desiderio,
innato in ogni organismo, di vivere meglio di quanto
consentano le sue entrate.

«Taccuini» - Samuel Butler

CAP. IV

MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE

L’artista e l’ultimo a farsi illusioni della sua influenza
sul destino degli uomini. L’arte non è una forza,
è soltanto una consolazione.

“L’artista e la società” - Thomas Mann

LA CULTURA NAPOLETANA ALLE ORIGINI

Come ho accennato nel capitolo precedente Napoli non ha una sua storia della stampa, tranne notizie frammentarie che si possono attingere qua e là. Mentre, ad esempio, come abbiamo visto, la stampa veneziana in un certo senso predominava sulla cultura, nel Napoletano la stampa si asserviva alla cultura allo scopo di potersi espandere. E poiché mi accingo a stendere vari flash di compulsazione libresca relativa alla cultura napoletana, nella maggiore relazione possibile all’arte amanuense e a quella gutenberghiana, dovrò partire dalle origini. L’ossatura tecnica di questo capitolo è quella strutturale delle officine, dal materiale tipografico alla progettazione. Anche questo capitolo, pertanto, allo scopo di lenirne l’asetticità, è farcito di dissertazioni di vario genere.
Vedremo cosa accade nell’intimità delle officine e proveremo, mi auguro, lo stesso fascino che ci fa avvertire la storia antica, come, ad esempio, quella inerente la cultura napoletana. Sebbene diversi napoletani o meridionali in genere non abbiano poi quell’eccessivo entusiasmo per le lettere, si dice che un primo ordinamento dottrinario in Campania si ebbe col Sacrario della Sibilla Cumana in opera gia dal VII secolo a. C. I cumani, dunque, diffusero l’alfabeto nel Napoletano. Nessuno leggeva libri a Napoli, a parte i pochi iniziati, ma la storia veniva tramandata verbalmente con i fattarielli di sempre. Tanto più le leggende stavano sempre sulla bocca di tutti. Il popolo conosceva il poetico mito delle sirene fatto vivere nel nostro Golfo da Omero, sul quale, a furia di studiarci sopra non si sa più non già se sia esistito egli, ma la stessa Grecia, o l’Italia dove poggiamo i piedi. Questione omerica permettendo mi piace dire che 1’eroe di Itaca approdò a Ischia e fece fuori le tre figlie del figlio di Tetide in grado di imitare il canto melodioso della madre. Dice… ma che c’entra questo con 1’arte scrittoria? La letteratura riguarda la storia e 1’arte, la quale era in pieno fervore quando la città di Neapolis nacque nel V secolo a. C. Pur essendo un piccolo centro commerciale da fare invidia ai milanesi, la città non era insensibile all’influsso artistico e culturale ellenico. Quello romano, invece, di influsso, Napoli 1’ebbe, come molti sanno, con 1’opera letteraria di Marco Tullio Cicerone, (e chi volete che non lo conosca), il quale si fece costruire il Cumunan nella zona flegrea. Questa villa fungeva anzitutto da centro culturale, a parte qualche bisboccia, ma una di quelle eruzioni che hanno puntualmente sempre distrutto la mia Torre del Greco (che il Vesuvio 1’ha come copricapo) rase al suolo la casa del retore intorno al Lago d’Averno. Questo nel 1538. Dicono gli storici che Cicerone abbia composto Academica e Repubblica, in quella casa, ma vallo a controllare se ti riesce. No, perché col senso campanilistico che ci ritroviamo, non è difficile che si possa, in qualche occasione, affermare che Dante abbia scritto a Forcella La Divina Commedia, ispirandosi, in quanto a Beatrice, con Nanninella ’e Portacapuana, e l’Inferno con la Solfatara di Pozzuoli.
Freddure a parte, sappiamo bene che la Napoli romana ebbe, tra l’altro, la sua brava Scuola Filosofica ispirata, nientemeno, che a1 pensiero di Epicuro. E chi conosce le teorie del filosofo scioglierà da solo molti enigmi sulle abitudini caratteriali del popolo circumvesuviano. Questo movimento culturale sembra sia stato capeggiato da Filodemo e Sirone. (Scusate il tono anfibolo frequente. Purtroppo, da un po’ di tempo dalle nostre parti si e diffusa in maniera endemica la sindrome dello statt’accorto. Vale a dire non ti distrarre un attimo che in qualche modo ti fregano, non importa cosa: il borsello, 1’accendino, la camicia o le scarpe, 1’aria che respiri, il posto macchina, il sonno, 1’affetto, 1’amore. Insomma si sono verificati casi in cui hanno fregato la fregatura stessa, rimanendo fregati. Cosi si finisce col dubitare pure, perché no, della storia ufficiale!). Si dice che lo stesso Virgilio era discepolo di Sirone, che nella Napoli romana testimonia il fiorire della cultura di quel tempo.
A tutti coloro che pensano che 1’abbia vutata a pazziella, dirò che è vero, giuste le raccomandazioni della premessa sulla piena libertà concessami. Aggiungo, però, che spesso, in questi casi si scrive secondo vena e ambiente di lavoro. Questo libro, a parte la modestia, è desueto soprattutto da un punto di vista particolare. Credo sia uno dei pochi, se non l’unico libro al mondo, pensato, compulsato, coordinato e redatto direttamente sulla macchina compositrice linotipica, che, a differenza di una linda macchina da scrivere od un elegante computer, è la più asimmetrica, complessa, grossolana, sincronizzata, dirugginosa e conseguentemente fascinosa opera di meccanica evoluta mai costruita. Immaginate intorno a questo aggeggio da terzo girone lessici, testi di storia, manuali del settore e soprattutto le notiziole relative a scaturigini che insorgono spontanee lungo la giornata di lavoro, appiccicate dappertutto con lo scotch. E le correzioni o qualche ripensamento non gia fatti attraverso cancellature e aggiunte a penna, ma tramite uno spostamento meccanico ripetitivo di matrici nel compositoio. Quindi parole poggiate sui tomi, frasi intere, composte, dimenticate accanto al telefono. Una sera ho scordato un rigo intero di matrici nel WC. Decisi di sospendere il lavoro perché mancavano molte matrici di bassa cassa (le minuscole più usate) poiché la scorta di ogni lettera e di circa 20 pezzi. Insomma un lavoro da montaggio in macchina, come dicono i cineamatori. E così, secondo 1’umore della serata salta fuori la pagina.
Cicerone, Virgilio ed Orazio, scusate se è poco, costituiscono le fondamenta di quella cultura. Ma la città «otiosa» di Orazio rappresenta la prima frecciatina della storia sulla nota caratteriale oziosa dei napoletani, estesa, poi ai vesuviani tutti. E già, perché l’entroterra campano, appenninicamente più elevato sul livello del mare, favorirebbe maggiore vigore fisiologico in contrapposizione al secolare deperimento dovuto alla bassa temperatura costiera. L’accezione peggiore dell’ozio e senz’altro connessa ai fenomeni climatici. In tutti i paesi ipertemperati, dove si supera la soglia del parametro sudorifero, si riduce il vigore delle attività fisiche ed intellettuali, tranne la scaltrezza e 1’intelligenza che nell’ozio meditativo si acutizzano.
E nemmeno mi accingo, qui, ad esporre la fantasiosa teoria psicologica per cui la scaltrezza o l’aggressività caratteriale si riallaccerebbero a quei meccanismi reattivo-difensivi atti ad esorcizzare il timore salvifico post-mortale relativo all’inferno, che l’ipertemperatura terrena ci ricorda a livello inconscio in connessione a certe morali coercitive di stampo religioso. Fenomeno che si intensifica sempre più nei paesi caldissimi (vedi la densità confessionale degli orientali e quali reazioni aggressive scatena ancora oggi).
Dopo il periodo greco-latino della cultura napoletana la stasi perdura fino alla letteratura latina medioevale del VII secolo, con la conseguente disoccupazione cronicizzata degli scribi del tempo. L’arte applicata della tipografia partenopea ha sentito 1’influenza della cultura greca delle origini per alcuni tratti caratteriali del tipografo vecchia maniera che via via andranno delineandosi nel lavoro. Ma, finalmente, diamo uno sguardo molto ravvicinato alla tipografia europea dei cinque secoli nella specifica terminologia tecnica.

IL TIPOGRAFO VECCHIA MANIERA

I caratteri tipografici vanno in declino insieme al romanticismo. Essi rimangono legati alla letteratura classica, quella dei salotti di Mauriac, dei rimpianti di Proust, dei mesti turbamenti del melodramma e via dicendo. La stampa litografica e la rotocalcografia avanzate vanno a braccetto col Decadentismo, e, non a caso, col consumismo capitalistico, nonché con lo sviluppo demografico. Da geometria meccanica tridimensionale, la composizione tipografica si trasforma in struttura bidimensionale tramite la concezione fototecnica. Valutiamo da vicino 1’obsoleto materiale tipografico. E qui è necessario che adoperiate quel processo mentale che trasforma i segni fonetici delle parole in immagini. Oramai sappiamo a menadito, come e sfizioso dire, che tutti gli stili, finanche il gotico, derivano dai caratteri latini. Oggi lo distinguiamo in Romano antico, intermedio e moderno. I caratteri calligrafici sono, come suggerisce il termine, molto fluidi. Quelli fantasia sono elaborati e decorati, ma attingono sempre da stili già definiti e classificati. Le matrici di bronzo o di nichel per fabbricare i caratteri di piombo vengono prodotte col sistema della fresa-pantografo, di gran lunga più massiccia e di altissima precisione rispetto a quella utilizzata per incidere le targhe.
Agli albori dell’invenzione della stampa i caratteri mobili di piombo venivano coniati attraverso rudimentali formette a fondere. Col tempo questi sistemi andavano perfezionandosi. Solo alla metà del XIX secolo lo scozzese DAVIDE BRUCE fabbricò a New York la prima fonditrice di caratteri. Gutenberg adoperava delle casse per contenere i caratteri con più di 200 scomparti poiché usava molti logotipi. Oggi le casse hanno circa cento scomparti poiché i logotipi sono stati ridotti a una diecina: fi-fl-ffi-ffl-qu-ae, ecc. In Europa sono in vigore due altezze del fusto dei caratteri, 1’una altezza francese, 23.566 mm., la più diffusa in Italia; 1’altra altezza italiana 24,809 mm. Da notare 1’espressione in millesimi di millimetro. Ciò perché è necessario che tutti i fusti di una composizione, compresi gli altri elementi, come linee e cliché, abbiano rigorosamente la stessa altezza, onde poter ottenere una stampa omogeneamente perfetta. Purtroppo, ben presto, i residui d’inchiostro o 1’usura compromettono questa rigidezza tipometrica. Problema che non sussiste con la stampa planografica offset o rotocalco.
I fregi e i fuselli servono per decorare e guarnire uno stampato. Indispensabili i filetti, il carattere linea, tanto per intenderci, scuretti, chiari, punteggiati, ecc. I fili vengono fabbricati in ottone allo scopo di prolungarne la durata, vista la loro semplice struttura. La misura tipografica e suddivisa in punti, come quella metrica lo è in millimetri. Il punto tipografico misura esattamente 0,370 mm., praticamente lo spessore di un buon cartoncino. Infatti quando in una tipografia vecchia maniera vi è penuria di interlinee vengono usate le strisce di cartoncino. 12 punti formano la riga tipografica, come 10 mm. formano il centimetro. Per ottenere un centimetro occorrono oltre due righe tipografiche. Venti righe equivalgono a circa 9 centimetri, e così via.
Il metro del tipografo, guarda caso, si chiama tipometro. Nelle grosse e medie aziende da piombo, quasi scomparse o convertite o parzialmente convertite all’offset, il tipografo che conosce a perfezione tutto il materiale tipografico si chiama compositore. L’impressore è il tipografo addetto alle macchine da stampa ed ha una conoscenza sommaria del materiale da composizione. A Napoli ho contattato impressori che hanno raggiunto il pensionamento senza aver composto mai un rigo di caratteri. In alcune tipografie, per contro, vi sono tipografi ambivalenti, i famosi Don Simone stampa e compone. Nelle botteghe artigiane il tipografo è onnifacente e accentra su di se tutte le fasi di lavoro.
Questi lavoratori, nei quali mi riconosco, sono satelliti dipendenti dal complicato meccanismo mentale di eliocentrismo operativo. Le tipografie artigiane dell’angolo, non convertite o parzialmente convertite all’offset, sono armate di materiale tipografico fino ai denti grazie al massiccio mercato dell’usato. La marginatura, com’è facile intuire, è costituita da lingotti e barrettine più bassi dei caratteri e di tutti gli elementi stampanti che da essa affiorano. La marginatura, di piombo, duralluminio, bachelite, ecc, è insomma tutto ciò che si contrappone al visibile stampato. Tutto va sempre disposto nella geometria del rettangolo. Nel contesto del telaio, che serra le composizioni, i conti tipometrici devono tornare, come avviene in banca per il danaro. Un solo errore di calcolo compromette la tenuta del mosaico; la mobilità di un elemento provoca disagi allo stampatore. Più elementi mobili provocano inconvenienti più seri.
Il punto tipografico viene anche detto corpo quando si riferisce ai caratteri tipografici. Infatti si va dal corpo 6 al corpo 72. Dopo questa misura i caratteri vengono fabbricati in legno, di minor peso e di conseguente maneggevolezza, sono misurati in righe: da 8 a 100 righe, e oltre. La diffusione della stampa offset ha consentito anche al tipografo più sprovveduto di acquistare sul mercato dell’usato la diabolica Linotype, di cui tratterò ampiamente più avanti. La composizione manuale e, quindi, limitata ai caratteri da titolo e da avviso cittadino. Buona parte della terminologia tipografica è rimasta invariata anche dopo la diffusione quasi totale della stampa planografica: offset, rotocalco, eccc.

Ne ho raccolti caratteri dalle casse, da giovinetto. Un modo di iniziarsi alla cultura non già col libro ma dentro il libro. Amici soldatini dei bei tempi andati, della Tipografia Turris di Torre del Greco, di quella Editoriale presso la stazione Termini a Roma o quella annessa al Ministero della Marina sul Tevere, o della Genovese, al Pallonetto S. Chiara a Napoli, ed infine della mia bottega-bazar di Via Purgatorio a Torre del Greco.
L’aneddotica, tramandata verbalmente, relativa al comportamentale degli artigiani tipografi campani e vastissima, fantasiosa e grottesca. L’epilogo delle liti comporta, talvolta, lo impiastricciarsi a vicenda il viso con 1’inchiostro. Le delazioni vengono punite col caffè corretto al… petrolio. Altri aspetti rasentano il maniacale. Un anziano tipografo divideva la somma delle prestazioni per il numero di copie da stampare onde provare 1’ebbrezza dell’accumulo centesimato. Un altro tipografo dovette cambiare lavoro perché le macchine in movimento gli davano pulsioni erotiche.
Ah, tipografo napoletano che dici errore: fesseria!

I CARATTERI DI PIOMBO FUSO
STAMPANO L’ULTIMO CUORE DI NAPOLI

Ho già specificato come la stampa tabellare fu uno dei primi tentativi dell’uomo di produrre in maniera ripetitiva 1’espressione figurativa. Non fu mai possibile, prima dell’acquaforte e della calcografia, però, riprodurre in serie, in maniera fedele, la pittura propriamente detta con le numerose sfumature e mezzi toni. Il mio popolo ha sempre amato 1’iconografia, forse perché suggestionato da quella religiosa; a cospetto dei vecchi codici si incantava sulle miniature e sulle vecchie stampe xilografiche e le commentava in pubblico. Nasceva il cantastorie che dal meridione d’Italia si espandeva sino al Nuovo Mondo. A prescindere dalla cultura napoletana connessa alla stampa su cui ci soffermeremo via via nel lavoro, il popolo partenopeo, sin dalle letterature romanze, non ha mai avuto molta dimestichezza con 1’alfabeto. Apprendeva la storia e 1’arte attraverso il teatrino dei pupi, fino alle rappresentazioni popolari della Commedia dell’Arte e il melodramma. Il popolo vesuviano era in cuor suo poeta ed artista e non ha mai attinto direttamente dai canoni della letteratura classica, in primo luogo perché l’analfabetismo, è inutile reiterarlo, nel meridione era quasi totale, in secondo luogo perché il benedetto clima non induce a concentrarsi sulle sudate carte, per dirla col pallido Giacomo che, nel suo soggiorno a Torre del Greco, preferiva l’ombra alla verzura.
Il popolo napoletano, più d’ogni altro in Italia, specie in passato è quello che più ha marinato la scuola, forse per l’atavica influenza epicurea delle origini. Proprio i compaesani hanno fatto orecchi da mercante alla estetica crociana. Dalla Serao fino al De Crescenzo attuale la forma non avrà mai priorità sul contenuto. Vedi la canzone napoletana condannata per retorica. Il potere gerarchico dell’espressione letteraria si trincera dietro i virtuosismi dei capiscuola o si arrende, tutt’al più, agli sperimentatori avanguardisti, i quali, se hanno fama possono permettersi anche ciò che, fatto da un povero cristo, sarebbe quanto meno oggetto di dileggio. Senza generalizzare, naturalmente, e con tutto il rispetto per i milioni di grandi autori della letteratura. Dice bene il proverbio: Fatti buon nome e piscia a letto, diranno che hai sudato? L’espressione adottrinaria sincera, ma colorita, semplicistica, ma palpitante, è, secondo la letteratura bene, solo zavorra di scrittore da dopolavoro rionale.
Come esistono le classi gerarchiche inferiori così si classifica una letteratura non già minore, ma da scandalo. Ma il mio popolo non si lascia condizionare dall’intellighentzia, con buona pace di Croce e De Sanctis, e continua con i premi letterari aziendali o ad alimentare un mercato discografico dove il testo e la musica attingono da moduli frusti e rancidi, ma immortali per chi, per una ragione o per l’altra, non diventa dottrinario e la cui sfera sensitiva risente solo i canoni impartiti dall’educazione domestica o quella della strada che, in alcuni casi, e l’anticamera della casa, fucina, talvolta, di candidati all’eslege. Sta ’ncopp’ ’a ’nu mala strada, oppure: E’ omm’ ’e miez’ ’a via. Queste espressioni suggeriscono come, i lazzaroni del Viceregno, spinti dal disagio e dal bisogno in un’esistenza esente da dimora fissa, ripiegassero con espedienti delittuosi come reazione all’emarginazione.
Il malavitoso delle origini, in pratica, era un uomo vessato dai soprusi ed veniva iniziato alla dissidenza sin dalla fase orale. Non era completamente fuori dall’etica o dalla cultura, ma emendava la morale e la legge a modo suo. Ogni azione umana delittuosa è ingiustificabile ed aberrante, individuale o corporativa che sia, ma ogni dissidente tende sempre a sopraffare la sopraffazione, finendo col prevaricare egli stesso. (Leggi La fattoria degli animali di Orwel). Legge e fuorilegge sono un dualismo come il bene e il male, l’amore e l’odio, contrapposti e irriducibili che fanno perno sullo stesso meccanismo di azioni reattivo-difensive dell’uomo.
La Napoli della vecchia letteratura oleografica, ad esempio, si lasciò non poco influenzate dai canoni comportamentali della vecchia camorra perché riconosceva in essa le suggestioni dei moduli delle antiche letterature romanze. I personaggi malavitosi del secolo scorso erano carichi di ardente umanità. L’onore, la giustizia, la morte onorata, erano il retaggio storico di Orlando, Rinaldo, Ruggiero, Astolfo e via dicendo. Non a caso gli scugnizzi che assistevano all’opera dei pupi, che esaltavano le gesta di tali eroi, venivano chiamati palatini e molti dei quali seguivano le fila dell’Onorata Società. I vecchi canoni d’onore della malavita attingono anche da quelli politico-religiosi del Medioevo, come avveniva nelle guerre sante. Nelle guerre fredde, invece, del XX secolo non vi è posto per i guappi generosi, ne per i Fra Diavolo o i ladri gentiluomini. Non sono degenerate le corporazioni, ma l’uomo, sempre psicologicamente più isolato nella folla, l’uomo che soggiace impotente sotto la coercizione di allettanti, ma nocivi modelli sociali, illuso da ideali effimeri, là dove l’allucinazione chimerica epidemica si estende in maniera capillare in tutte le fasce sociali.
Gli estremismi, le rivoluzioni, l’illegalità sono fenomeni di sempre, rappresentano alcune delle facce poliedriche della cultura millenaria, con 1’epicentro sul dualismo bene-male, altrimenti detto Dio-demonio. Una società in cui vengono compromessi i sostegni psichici fondamentali, ai fini dell’insoluto esistenziale, diventa una società più inferma, terrorizzata in cantina, dall’ossessione culturale dell’irreversibile destino di finibilità della vita umana. Aggredire e prevaricare nell’illusione di potenza fittizia, scaricando sui deboli e gli oppressi la dannazione del proprio destino di mortali.
La minaccia atomica esclude, inoltre, il palliativo della continuità ereditaria con eventuali intercessioni salvifiche. La finibilità individuale o collettiva senza sorta di palingenesi, la massima espressione della pochezza e dell’impotenza dell’animale uomo. I caratteri di piombo fuso stampano l’ultimo cuore di Napoli, la capitale di una razza che, per ultima ha resistito alla faccia negativa del progresso. Ho usato l’aggettivo negativa, e non esiziale, per evitare di trasformare questo libro nell’Apocalisse biblica, dato il ricorrente tema della morte. Ma cosa volete, 1’ho chiarito nella prefazione che la parte letteraria del lavoro veniva stesa sotto un’ottica psicosociale. Ebbene due sono i temi centrali della psiche: la morte ed il sesso. Del thanatos avrete gia piene le... tasche; riguardo il sesso, potrete attingerlo nei brevi aneddoti sul comportamentale napoletano passim nel testo presente.

LA LINOTYPE

Gutenberg inventò, o diffuse, i caratteri mobili, Mergenthaler, nel secolo scorso, perfezionò l’invenzione completando il prototipo della Linotype (linea di tipi). Entrambi si avvalsero di sperimentazioni del passato. Sono poche le tipografie artigiane vecchio stampo (è proprio il caso di dire) che non adoperano questa macchina straordinaria, che rimane nella storia come uno dei maggiori prodigi della meccanica. Dopo diversi tentativi di alcuni inventori, falliti spesso per motivi finanziari, OTTMAR MERGENTHALER nato nel 1854, tedesco anch’egli, avvalendosi di esperimenti dei suoi predecessori, nel 1886 portava a termine la Linotype. Non mi approfondirò nei particolari costruttivi in maniera analitica. L’intricata successione dei movimenti e la complessità dei sincronismi farebbero apparire inesplicabile la descrizione più minuziosa, togliendo merito alla potenza dell’alfabeto. Traccerò a grosse linee solo una sintesi del suo funzionamento, così come si svolge in questo momento sotto le mie mani.
Tutte le complesse e susseguenti fasi di ogni ciclo sono comandate da un unico gruppo di eccentrici, fissati su di un solo asse rotante. Il magazzino contenente le matrici è disposto in posizione obliqua nella parte superiore della macchina. Esso contiene all’interno solitamente novanta canali, in ciascuno dei quali slittano in caduta una ventina di matrici per ogni lettera alfabetica, più la punteggiatura e le maiuscole. I segni speciali vengono inseriti a mano nel compositoio della macchina.
La tastiera alfanumerica (minuscole e maiuscole separate) aziona delle barre verticali che, durante lo sfioramento dei tasti, spingono dei dispositivi di sganciamento disposti nella parte inferiore del magazzino. Ciascun tasto sgancia la matrice voluta che va ad allinearsi in un compositoio mobile, il quale, a rigo ultimato, va a posizionarsi innanzi alla forma a fondere, dietro la quale un pistone affonda nel crogiolo di piombo fuso perché si formi rapidamente la barretta gia solida e improntata lungo la linea di matrici del compositoio mobile. Indi questi si posiziona innanzi ad un braccio meccanico che preleva le matrici per riscomporle automaticamente nel magazzino. Il rapporto di tempo tra un rigo composto a mano ed uno linotipico è almeno di 1 a 6, senza contare il tempo risparmiato per la scomposizione, e soprattutto l’assenza di usura dei caratteri, poiché, a stampa ultimata, i righi vengono rifusi per formare nuove linee di scritto. (queste tecniche sono oggi (albori del 3° millennio) obsolete e praticate solo per lavorazioni speciali o in aree geografiche retrograde. N.d.r.).

MASTRO LUIGI FICASECCA

Dovremo, tra poco, trattare la progettazione tipografica che nelle botteghe avviene raramente sulla carta, proprio come ha sempre operato Luigi Ficasecca, un anziano tipografo del capoluogo campano. Lavora ancora e da solo, malgrado le 80 primavere, perché, come me, dice di avere il piombo nel sangue, non, pero, nel senso del saturnismo. A dire che nel dopoguerra aveva un organico di cinque camici neri, sei tute blu e due grembiuli bianchi, quest’ultimi, tiene a sottolineare, coprenti molta opulenza. «Ma cosa vuoi, caro Luigino, figlio mio, ca figlio mi puoi essere, anzi nipote, se non pronipote, cosa vuoi, una vertenza sindacale oggi, una domani e sono finito in mutande».
Il boom economico incominciava a dissolversi negli anni 60-70, ma le botteghe sorgevano ad ogni angolo. Le amministrazioni imbandivano spesso gare fittizie. In poche parole transitava un periodo di crisi ancora oggi per nulla risolto. Spesso rivedo Luigi Ficasecca nel suo monolocale, angusto, fuligginoso, unto dappertutto. Stanco, emaciato, curvo sotto quell’aria affettatamente esuberante di sedicente direttore tecnico. A lutamme, rispondeva al mio fugace saluto formulato sull’uscio della sua bottega, con l’aria derisoria e beffarda quanto puerile che assumono i candidi quando vogliono apparire sarcastici, allo scopo di saziare gli occhi del mondo, l’opinione altrui. ’A munnezza, contrabbattevo io ricusando il doppio senso di a lutamme, che non sta per salutamme con aferesi della s, ma come a lutamme: il letame. Altre volte adoperava come intercalare in risposta ad un cenno di stupore: E tu che te credive ca ch’era?, dove gli ultimi lemmi non stanno per cos’era, ma cachera, ora più esplicito; e via dicendo.
L’ultima volta che mi recai a Napoli per rifornimenti presso il Corpo di Napoli, dove si concentrano diversi fornitori per arti grafiche, decisi di fare una scappata pure da Luigi Ficasecca, magari sfrocoliandolo sul non aver mai capito un fico dell’arte nera. Era raggiante nel suo tugurio. Mi disse che aveva ripreso 1’hobby di essiccare i fichi al sole per le ciociole di Natale. Facevo finta di non accorgermi che aveva, almeno apparentemente, assunto un apprendista. Alla fine sbotto: «Ma ’o vide ’o guaglione, o no?». Aveva gli occhi lucidi. Sembrava un regnante detronizzato e diseredato che, sul lastrico, dopo mesi di stenti, ripiegava con uno scranno in luogo del trono. Al mio sorriso solidale non trattenne le lacrime. Le pressioni nostalgiche premevano troppo dal basso. Ed io gli volevo bene, amavo la scimmia umana, mio simile, che impazza da adolescente con l’ardore, l’impetuosità, l’azione. Poi sorge, gode, folleggia la giovinezza, indi lotta e difende la sua posizione, poi cade, poi annaspa, difficilmente si risolleva definitivamente, anche perché incombe la drammatica fase senile. Luigi Ficasecca si terse col fazzoletto quel viso villo e grinzoso e riprese a parlare del più e del meno. Discutemmo sul lavoro clientelare, la crisi economica, le pressioni fiscali. Dopo che avemmo centellinato una bibita il ragazzo sbircio l’orologio da polso e senza fiatare raccolse una banconota dalle mani del vecchio ed in piena mattinata guadagno 1’uscio. Mi baleno l’ipotesi di una settimana supercorta, ma 1’uomo dissipo subito le mie congetture.
«Caro Mari, tu sei giovane, certe cose le puoi e non le puoi capire. Ciccillo non lavora qui... Insomma... lavora e non lavora... Oggi l’apprendista prende la paga di un operaio, tanto vale metto a lavorare mio genero che si puzza dalla santa fame. Il ragazzo... sì Ciccillo, viene qui tre o quattro volte la settimana, giusto un’oretta. A me la nostalgia mi uccide, figlio mio: rimpiango i miei bei tempi, malgrado le due guerre e gli anni ruggenti... Ero un piccolo signore, mi mangerei le mani a morsi. Mannaggia a Garibaldi e gli americani, mannaggia! ...Ciccillo sta qui giusto il tempo per potergli fare una cazziata, che so: una tirata d’orecchi, qualche volta pure un calcio nel sedere, senza cattiveria, però, in buona fede. Alla fine prende diecimila lire e se ne và. Così restiamo soddisfatti tutti e due».
Quando, divertito, gli dissi che aveva escogitato un ottimo sistema, rispose che era sorto un altro problema: «La mattina, fuori la bottega, faccio folla folla di scugnizzi. E chi mi chiede tremila lire per uno schiaffo, chi quattromila lire per una carocchia. Uno ieri mattina mi ha chiesto centomila lire per una mazziata generale, dicette: vi concedo pure la lavarella di sangue. Io, prima che mi arrestano per sadicità prendo la mazza di scopa e li caccio, così abbuscano lo stesso, ma senza una lira».

LA PROGETTAZIONE

Vi sono tipografie artigiane che non adottano nessun metodo di progettazione. Pure nel caso di stampati più complessi l’ideazione e la scelta realizzativa avviene mentalmente, per così dire, affacciati sul piombo. Molti miei colleghi torresi e campani ideano tutto di getto, sfruttando l’immediatezza della creazione. Il buon risultato del lavoro è anche dovuto alle numerose esperienze precedenti. Io stesso adotto questa procedura nella mia bottega di Via Purgatorio, indipendentemente dalla tecnica o veicolo di stampa adoperati. Tutti i calcoli sono empirici ed immediati, sebbene si tratti molto spesso di stampati di piccola entità, non per questo, però, di poca importanza o di basso prestigio. La progettazione tipografica eseguita in uffici appositi riguarda le grosse aziende partenopee, che oggi stampano prevalentemente in offset ed utilizzano la fotocomposizione computerizzata e lo scanner elettronico per la riproduzione di immagini onde poter realizzare, in tempi relativamente brevi, le matrici da stampa. In questa prima fase di lavoro tutto viene ideato, progettato ed eseguito in camice bianco, come in ospedale. I camici scuri relativi all’arte nera sono sempre più rari a vedersi.
Nelle medie tipografie campane la progettazione avviene nello stesso ambiente di lavoro attraverso calcoli e schizzi eseguiti poco prima di intraprendere il lavoro di composizione. Il proto, generalmente il tipografo più anziano, conosce a perfezione tutto il materiale tipografico esistente in officina. Egli è il coordinatore di tutto il lavoro. I nostri tipografi compositori sono dotati di uno spiccato senso pratico e, da buoni campani, di una fertile fantasia, pur se questa categoria è in estinzione. Da questo estro creativo nascono i prodigi del collage meccanico tipografico. I compositori campani per secoli hanno saputo assemblare, con gusto ed eleganza, i pezzi prefabbricati di cui disponevano, che in un certo senso somigliano al contenuto di un lessico. Le parole, similmente all’attrezzatura tipografica, solo se combinate con sentimento, talento, virtuosismo, e perché no, con una punta di artificiosità, danno sorprendenti risultati.
Oggi le macchine hanno priorità sull’individuo e lo spersonalizzano, e credo di non esagerare, finoall’annichilimento. Estinti, ormai, i tempi in cui si aspirava ad imparare l’arte per metterla da parte. Oggi un operatore è un numero, facilmente sostituibile, un pezzo di ricambio qualsiasi, da utilizzare finche è efficiente, e da buttar via non appena consumato. E il logorio avviene precocemente, oggi, perché l’uomo è svigorito dalle macchine.
Passati i tempi in cui, adolescente, sgambettavo magro e spaurito, restio agli studi regolari, nella stamperia di Don Ettore, una delle prime tipografie di Torre del Greco. Sin dal primo impatto col materiale tipografico, nelle cupe e fuligginose tipografie del secondo dopoguerra, appresi che la conoscenza dei caratteri e la padronanza d’uso determina la loro giusta collocazione. Questa maestria e alla base di tutte le composizioni tipografiche, anche nella versione fototecnica offset. L’operatore grafico della terra vesuviana, sovente, senza alcuna cognizione teorica o dottrinale è maestro a orecchio. Ha sempre plasmato e modellato le sue composizioni tipografiche con sorprendente senso pratico, forse ignorando che l’arte tipografica si riallaccia, nel tempo, alle influenze dell’arte pittorica e dell’architettura.
Da tempo, ormai, sono state introdotte nelle sia pur sparute scuole grafiche le moderne tecnologie relative alla stampa offset, trascurando i sistemi tradizionali. I nuovi orientamenti sono incentrati sulla fototecnica grafica, sul disegno, sulla composizione elettronica e, conseguentemente, sulla ripresa fotografica e montaggio. Beninteso, non è necessario essere pittori o disegnatori di professione per diventare valenti tipografi, sia con i vecchi che con i nuovi sistemi. E’ importante, però, che si abbia gusto artistico, senso delle proporzioni, sensibilità armonica, predisposizione, in una parola, l’euritmia. Si deve almeno saper distinguere un buon disegno da uno scarabocchio o un ammirabile dipinto da una crosta. Ci sono dei bravi disegnatori, ad esempio, che sono dei tipografi mediocri, se viceversa, è meno grave. Lo stampato tipografico allo stato di abbozzo, va interpretato come un canovaccio da palcoscenico. Impostato con gusto e sobrietà, quindi caricato e modellato con la personale forza espressiva attraverso il gioco degli elementi, sia nel caso di caratteri mobili, filetti e cliché, che in quello dell’assemblaggio fototecnico.

LE ARTI APPLICATE (LINFA DELLA VECCHIA NAPOLI)

Gli italiani del nord, date le loro caratteristiche somatiche, si avvicinano ai gruppi etnici europei; i meridionali, chiaramente, ai gruppi razziali del sud, vale a dire quelli del Continente africano. A prescindere dal fattore etnico vi è un’altra sorta di contagio da tener conto, ed è quello dell’assuefarsi ai tratti caratteriali dei popoli viciniori, al di là delle influenze di natura politica. Gli italiani del nord hanno molto appreso dall’Europa confinante, debarbarizzata e civilissima, nazionalsocialismo a parte, sebbene la civiltà, per dirla col padre della psicoanalisi, ha nevrotizzato il vecchio mondo. A parte la questione meridionale risolta solo nel senso che il benessere del sud è dovuto al potere eliocentrico del nord, con quali modelli viciniori, dopo l’Unità d’Italia, hanno avuto il modo di identificarsi i meridionali moderni? La nostra evoluzione rimane sempre in uno status quo da cenerentoli, stagna sempre in una dipendenza vassallica?
Devo spezzare una lancia a favore del nord Italia, perché si sta verificando la tendenza alla perequazione, nel bene e nel male. Nel sud non si può parlare più di aree molto depresse, come all’inizio del secolo; mentre nel nord non si può riscontrare una buona qualità della vita, almeno a livello psicologico. L’economia del sud si solleva, sebbene manipolata dai cisalpini e dalle multinazionali che puntano soprattutto sulle masse più sprovvedute, maggiormente disponibili alla grancassa propagandistica perché più inclini agli entusiasmi delle appariscenze. Noi meridionali siamo degli ottimi consumatori, ma che cosa produciamo se le nostre risorse, agricoltura ed artigianato, vanno alla malora? Il sud, in pratica, beneficiando in parte dello sviluppo nazionale, non si realizza nelle sue risorse naturali (vedi pure il turismo in parte compromesso) ma si settentrionalizza come una colonia del nord. Gli africani e gli arabi non possono che offrirci sentimentalismi accesi e ardori religiosi come modello sociale, di cui abbiamo avuto piene le tasche per millenni, ma che ci aiutavano a lenire l’angoscia esistenziale, non di meno la realizzazione individuale nel lavoro a misura d’uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie ed aleatorie, il famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di un domani migliore.
Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale. Le speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono smorzate sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli, vanno lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene neppure accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente dopo la loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi. Si estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali, cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un’area geografica. Le evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai settori giusti. Le botteguccie dell’angolo, neglette e tapine, che in passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare, dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, degenerante e abominevole in una società moderna. Con la tradizione artigiana in crisi, in passato così connessa e amalgamata nel costume del popolo partenopeo, insieme all’acutizzarsi della crisi esistenziale individuale dell’uomo, si dissolvono tutte quelle forme comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in una frase, quelle di un popolo d’amore, per dirla con Luciano De Crescenzo. Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa adulto, perde l’immaturità e la salutare incoscienza del passato che lo faceva guappo d’onore o santo. Si avvicina alla teoria dello struzzo, assume sembianze megametropolitane, si allontana dall’idea di Dio dentro l’uomo, della sua enorme potenzialità d’amore. Non disdegna i tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta nella storia, resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l’angoscia del suo nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il bisogno né di comandare, né di obbedire. Dimentica di lasciare in pace se stesso, che è l’unica maniera per lasciare in pace gli altri. Oblia il sesso come puro atto d’amore, pur se lo ripete dieci, cento, mille volte, nella sua foga passionale di meridionale virile. Egli inizia a mitizzare i plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro incomincia a nutrire qualche sospetto sulla propria atavica virilità, dietro il cogitare freddo dei dottrinarismi divulgati.
Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Citta-regno che muoiono nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel sincretismo di povertà e gioia di vivere. L’adolescenza, nella terra vesuviana d’oggi, prostrata anch’essa sotto gli ideali effimeri dello sport mitizzato e della musica importata, certa di genere paranoicale, quale coerente colonna sonora delle nevrosi, è trasformata nei romantici congeniali turbamenti post-puberali, dietro una precoce problematica esistenziale.
Dov’è finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile dalla letteratura d’arte e d’informazione post-bellica? E prima di proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo alle smorfie rinitiche di qualche progressista. Qui non se ne fa una questione di componenti nostalgiche esasperate o di pessimismo progressista a copertura di carenze psichiche personali. Mettere sul tappeto i malesseri di un’epoca vuol dire tentare di rimuoverli. Se avessero ascoltato Leopardi nel secolo scorso, invece di rivalutare la sua filosofia solo oggi, forse molti mali si sarebbero prevenuti. La vita è bella in se stessa, ma la teoria dello struzzo guasta questa realtà. Già la cultura ci ha insegnato: dipartire per morire, amplesso per coito, così non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la morte e il sesso e li sentiremo sempre misteriosi. Viviamo in una società senza dubbio più comoda, rispetto al passato, meno cruenta e, tirando le somme, politicamente tollerabile in confronto alle angherie politiche della storia, ma la nevrosi di massa planetaria odierna, dovuta a svariati fattori di evoluzione o involuzione, va risolta né con le rivoluzioni né con la violenza, ma con la riflessione. Perché non ci troviamo, come al solito, di fronte ad una crisi politica quanto a cospetto dell’esasperarsi dell’antico insoluto esistenziale dell’uomo, sostenuto in passato da molti sostegni psichici a misura di razionalità umana. Spero tuttavia, malgrado l’apparente caotica babele dei giorni nostri, che molte persone si sentano fuori da questa orbita, e che sappiano indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco plausibile. In aggiunta dirò, a qualche barbassoro-culturalista, che ho superato la fase relativa a1 famoso aneddoto freudiano: “Quanta fatica letteraria fa costui per coprire i problemi personali”.
Dove sono le strade palcoscenico, l’umorismo delle logorroiche meliche voci popolari? Ben venga la retorica oleografica, rivogliamo i tepidi soli, gli eterni tepori di primavera. Rivogliamo gli usci con le fornaci fumanti al posto dei cancelli automatici con videocitofono; le capere in luogo dei giornali di pettegolezzo; le tinozze o le braci con le rigogliose spighe bionde al posto dei pub con gli amburger e i crauti. Agogniamo la sinuosità delle forme del più salubre eterno femminino e non le mascoline silohuette delle manequin. Ben ritornino le camicette di seta sui seni floridi. Vadano a farsi benedire gli stilisti miliardari moderni con le loro felpe sintetiche firmate, le borse policrome ad armacollo ed i pantaloni casual unisex variopinti e guallarosi. Forse, però, i progressisti l’avranno vinta. La mia cittadina alle falde del Vesuvio, amena e ridente, come leggo da secoli sui libri di storia locale, non ridarà mai più alle fanciulle quelle labbra carnose sulla bocca larga e voluttuosa senza il belletto, il roseo naturale alle guance prive di fard, lo splendore ai denti d’avorio tersi con bicarbonato, gli occhi luminosi privi di mascara. Alcuni dedali sono stati risanati nella mia Torre del Greco. Falansteri di cemento armato fagocitarono le romantiche magioni-giardino delle costruzioni spagnole.
Mai più vedrò fanciulle alle finestre dagli infissi detti pezzi d’opera, da lavare e lucidare nelle prossimità pasquali. Occhi dolcissimi e sereni, mimetizzati tra vasetti di garofani e rose, le nostre rose, i garofani di Torre del Greco, rossi come il fuoco del Vesuvio. Immagini a mezza strada tra il mistico mariano e la passionalità shakesperiana. La mente richiamava epos trovadorici e cavallereschi che accendevano il meridionale ardore. Ahimé! Il Decadentismo si faceva avanti, la letteratura moderna analitica ed introspettiva aveva a mano a mano i consensi popolari ed interessava pure gli editori campani. La retorica alla gogna. Pure i giovani dei dedali erano suggestionati dai dialoghi interiori di Joyce e di Svevo o dallo sconvolgente pensiero di Nietzsche. Ancora Fromm e Jung e tutti i neofreudiani. Il giovane meridionale si accorge di aver addentato la mela. Determina che l’attrazione intensa per la fanciulla del cuore è solo una condizione mentale, un’elaborazione culturale dell’idea dell’amore. E sospetta, con amarezza, che quella folle passione che intende placare, non è, in fondo, amore per lei, ma per se stesso, attraverso lo specchio di lei.
La vecchia Napoli dei guantai, dei ciabattini, dei dolcieri, degli ambulanti, dei tipografi del piombo fuso tramonta inesorabilmente. Facciamo una capatina in queste botteghe, finche saremo in tempo.

IL LAVORO DELLE BOTTEGHE

Eccoci di fronte all’arte applicata propriamente detta. Da sempre i movimenti artistici relativi alla pittura, architettura e via dicendo, vanno a braccetto con la tipografia, o viceversa. Ciascun lavoro tipografico, per certi versi, non e meno di un messaggio d’arte, cioè 1’elaborazione e la realizzazione grafica di un’idea del bello. Nella progettazione con materiale tipografico, ad esempio, i caratteri parlano. Il disegno di uno stile: Bodoni, Romano, Gotico, Garamond, ecc. non è solo il risultato fortunato di una elaborazione più o meno artistica dell’alfabeto. La forza delle aste o la leggerezza dei tratti, gli svolazzi, la grazia dei contorni e la vivacità dei toni suggeriscono l’uso appropriato, quindi connaturale dei caratteri scelti. L’esecuzione del lavoro nelle botteghe artigiane avviene spesso in maniera frammentaria a causa della scarsità degli addetti alle svariate mansioni.
Forse il mio caso è emblematico. Spesso la mia giornata, come la via che mi ospita, e un purgatorio. La bottega angusta, come tutte le altre della terra vesuviana. La strada sempre a portata di mano. Le nonnine del gerontocomio adiacente richiedono la scrittura manuale di missive da destinare ai figli lontani, facoltosi, ma ingrati. Il falegname od il macellaio di fronte che domandano ora un cacciavite, più tardi un autoadesivo onde mimetizzare l’ammaccatura alla Vespa. Punto lo sguardo su di un avventore e dò un’occhiata di sbieco all’apprendista che mi domanda delucidazioni sul tono di un colore. Intanto l’orecchio è teso al trillo del telefono. Una mano è gia allungata sulla tastiera della Linotype per comporre un rigo di correzione. La consorte Rosaria mi chiede spiccioli per il resto. Ma ci sono i cinquanta avvisi di lutto da tirare. Un salto da una macchina all’altra con gli stinchi indolenziti per le contusioni contro le cassette di piombo o le pedane impilate. Quindi un calcolo tipometrico in piedi. Un occhio sul taccuino e l’altro che osserva la qualità di stampa all’uscita della platina. La bocca da un lato sorseggia un caffè corretto ai moscerini, dall’altro aspira un’ampia boccata di fumo per sedare lo stress. Per fortuna non è sempre così.
Nelle ore di minore traffico si provvede all’assemblaggio delle composizioni. Questa operazione richiede rilassamento e concentrazione. La disposizione delle righe deve essere tale da garantire una buona leggibilità. La lunghezza di uno scritto, ad esempio, deve essere proporzionale alla grandezza e allo spessore dei caratteri. L’interlinea tra un rigo e l’altro deve seguire una regola ottica suggerita dal gusto e dal senso delle proporzioni. Il lavoro del tipografo compositore, per certi versi, è più difficile di quello del grafico montatore offset, perché il tipografo da piombo deve operare attraverso una tecnica decisamente decorativa e ornamentale, coi relativi limiti creativi, poiché utilizza esclusivamente materiale prefabbricato, le cui disposizioni vanno eseguite sempre in parallelo o comunque con angolazioni a 90 gradi. Difficilmente può disporre elementi in posizione obliqua o circolare a meno che non ricorra ai cliché. Il tipografo da piombo, rispetto al grafico fototecnico, gioca molto sul gusto e sull’equilibrio delle proporzioni. Esso è un collagista meccanico che assembla dei magistrali mosaici, pur non disponendo di totale liberta creativa, se non, appunto, nei limiti del materiale prefabbricato, che esclude la geometria delle curve. Il tipografo da piombo, tra qualche anno, sarà solo un ricordo.
Sin dalla scoperta dei caratteri mobili il tipografo ha sempre coniugato le lettere con le immagini; pensate i napoletani, con la loro predisposizione all’iconografia. Solo la televisione ha offuscato l’endemico culto del fumetto dei ragazzi campani. Sebbene si possa pensare il contrario, le lettere predominano sull’immagine a causa del loro netto contrasto. Equilibrare le masse e le forme in qualsiasi fatto grafico è una delle regole fondamentali del tipografo. Quasi tutti gli addetti ai lavori delle tipografie campane sanno che le lettere e le immagini vanno disposte ed alternate con un ritmo proporzionale, suggerito dal senso critico interpretativo personale e avvalendosi di esperienze precedenti personali o di terzi. La spaziatura deve essere armoniosa, coadiuvata da una sicura scelta dei bianchi. Si dice che la bravura di un autista si misuri dal freno, ebbene io aggiungo che la maestria di un tipografo si misura dai bianchi. Tutte queste regole conducono all’euritmia, la preventiva disposizione armonica, cioè, di tutte le parti che determinano la gradevolezza visiva di uno stampato.
Non sempre, però, l’assemblaggio della materia grafica deve seguire le stesse regole. Vi sono dei casi in cui si presentano degli stampati destinati ad utilizzatori particolari che dietro peculiari motivi, lo osservano sotto un’ottica diversa da quella convenzionale. La mia piccola bottega artigiana, ad esempio, realizza ogni tipo di piccolo lavoro, dalla carta da visita alla partecipazione di nozze, dal volantino all’avviso murale cittadino, (utilizzando sia caratteri di piombo che lastre offset di piccolo formato), stampati, cioè, di uso domestico o relativi alla piccola grafica pubblicitaria di livello locale. Uno stampato destinato all’osservazione popolare dovrà contenere delle caratteristiche grafiche di assimilazione diverse da un catalogo, ad esempio, che interessa dei conoscitori d’arte. Un volantino dovrà essere coerente al genere di prodotto pubblicizzato e fedele ai fattori ambientali dei suoi utilizzatori. I cittadini campani, ad esempio, sono ligi alle tradizioni figurative, alle ampollosità geometriche: non possiamo sottoporre loro un volantino con ampie aree di bianco e una grafica avanguardistica, questo comporterebbe diffidenza non già nei riguardi del tipografo, ma dell’intestatario. In altre parole il tipografo deve in alcuni casi ridurre la propria cultura grafica ed abbassarla ad un rango creativo inferiore; talvolta dovrà modificare le proprie capacità, dirottandole verso 1’indirizzo verso cui è destinato lo stampato.
L’avviso murale cittadino, diffusissimo nella terra vesuviana, impropriamente detto manifesto, forse per estensione, sarà concepito e interpretato in modo diverso da una carta da lettera, non solo perché il primo viene osservato a distanza rispetto al secondo, ma poiché sono due stampati destinati ad osservatori diversi. Il tipografo, specie quello artigiano, addetto alla progettazione, deve essere anche, non dico psicologo, ma almeno intuitivo e perspicace. Egli deve spaziare la fantasia e combinare nella maniera migliore le soluzioni teoriche con quelle pratiche della vita quotidiana. Oggi però il tipografo della bottega, in barba agli operatori offset, può valorizzare il vecchio sistema tradizionale con l’ausilio della sostanza fotopolimerica, la quale, almeno per la fase creativa, elimina i limiti imposti dal materiale tipografico a caldo. I fotopolimeri consentono di ottenere i vantaggi fototecnici dell’offset pur stampando in macchina tipografica, e sostituiscono degnamente il complesso sistema zincografico eseguito da specialisti scissi dalle tipografie. Mai nessun tipografo si è cimentato nella fabbricazione di clichè zincografici proprio a causa della complessità di esecuzione, specie per quanto riguarda la fase di acidazione. I fotopolimeri oggi si sviluppano in acqua di rubinetto, ma hanno un costo di gran lunga superiore a quello delle lastre offset.
Bisogna riconoscere che la fototecnica consente di evolversi e spaziare la fantasia creativa. I metodi di elaborazione fotografica favoriscono soluzioni altrimenti irrealizzabili. L’ingrandimento o la riduzione di una scritta, la sua inversione in negativo, l’illimitato uso di elementi geometrici curvi sono indispensabili nella grafica corrotta da ogni tipo di innovazione. L’illustrazione negli stampati è una trovata antichissima, ma oggi viene concepita non solo come elemento complementare più o meno essenziale nel contesto grafico, ma come necessario impasto del nuovo linguaggio grafico a cui l’osservatore moderno si è avvezzato. L’alfabeto da solo, o interrotto da qualche figura si rivela graficamente insufficiente. La forza di attrazione delle cromotipie, le immagini fuse col testo o il testo fuso con le immagini, insomma il connubio alfabeto-figura costituisce forme espressive ricche di ricercatezza a vantaggio della gradevolezza visiva cosi diffusa dalla fotografia propriamente detta, dal cinema e dalla televisione, specie se l’assemblaggio è concepito con un ritmo sobrio ed equilibrato da facilitare al massimo la lettura e l’osservazione.

LA CULTURA NAPOLETANA NEL MEDIOEVO AMANUENSE

Prima di concludere il capitolo sulla vecchia tipografia diamo un’altra occhiata alla cultura napoletana relativa all’arte scrittoria. Dalla Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i Padri della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana. Gli amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino, copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio, trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco e latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei testi pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.
I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche, figuriamoci dodici secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la lettura, un fastidio epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare. Nella totale ignoranza del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci rappresentavano gli unici sostenitori della cultura della Napoli Vescovile. La lettura è come il vino, va dosata, ma molti napoletani del popolo preferiscono esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a leggere nel libro della vita. Infatti, come dice il proverbio, molti sono quelli che insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere. I lavori moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga parte su quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria manuale”. Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico, creativo, storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi rappresenta, però, l’embrione delle successive scaturigini culturali medioevali. Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo Diacono, il longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al 750. Egli fu il fautore della poesia epigrafica dell’Italia meridionale.
Vi furono in Campania molti sostenitori di questo genere letterario, ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò, però, chi formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come il Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano vederci per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro, sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però, non perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.
Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere, undici secoli dopo, dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli: Attenzione, città di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al malocchio, da un po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.
A prescindere dal fenomeno fastidiosissimo della generalizzazione, è strano che il mio popolo sia visto sempre sotto due aspetti contrapposti e irriducibili: estrema bontà o notevole aggressività, spesso con irrazionale compiacimento. Da Malaparte in poi questa moda si è infervorita, giornalismo, televisione e cinematografo hanno sempre insistito su questo dualismo. Non esiste un popolo di individui bianco-neri. La bontà e la cattiveria spesso sono delle condizioni mentali aleatorie, latenti in ogni individuo. La malvagità consueta è presente nella minoranza, che, purtroppo, talvolta, per motivi epocali, acquista sonorità proprio perché ha carattere incidentale, quindi desueto. Il popolo napoletano è una razza di Esposito, nel senso politico. Dominato dieci, cento volte nella storia, non appartiene ad un ceppo genealogico monogamico, politicamente parlando. Il suo retaggio storico è la precarietà. Quando si affacciano nuovi mali comuni di stampo socialpolitico dice tra se: ecco, ci risiamo, come si chiamano questa volta, austriaci, borboni, multinazionali, associazioni a delinquere? Pazienza, troviamo il modo adeguato per convivere! Chi sono stati i genitori sociali, i fratelli storici con cui questa razza si doveva identificare? Chi ha seguito le fasi evolutive psicologiche di questo popolo?
Il popolo napoletano viene da radici storiche di oppressione e di tanto in tanto, ancora oggi fa qualche masaniellata. Forse è giusta la retorica, caro Croce buonanima, quando recita con Charles Peguy: Ogni padre sul quale il figlio alza la mano è un padre colpevole. Colpevole di aver fatto un figlio che alza la mano su di lui. Lungi da me ogni intenzione scolastica o messianica, la giustizia, la felicità sono utopie come i messianismi politici e religiosi. L’uomo ha ricevuto la sua diabolica condanna da Dio: la ragione; e la ragione è tollerabile solo nell’ignoranza e nella contraddizione. Tutti coloro che si elevano sopra questo stadio sono degli illusi, perché credono di esorcizzare l’impotenza circa il loro insoluto esistenziale con teorie che sono ben lungi dal risolvere il mistero della vita e della morte. Proprio per non cadere nel messianico non dirò di sospettare che la nostra pace e la nostra serenità potrebbero cominciare appena dopo la pace e la serenità dell’ultimo degli uomini, perché mai si fa il punto sul senso di colpa collettivo inconscio delle società agiate, rispetto al terzo mondo.
Vi fu un altro Diacono, questa volta Giovanni, storico cristiano, che lavorò su diversi codici. Un terzo Diacono, detto il napoletano, compì un’altrettanta notevole opera filologica e traduttiva. Dal IX al X secolo la cultura napoletana era ancora prevalentemente religiosa. In questo periodo sorsero a Napoli molti monasteri benedettini, quindi altri scriptorum. L’hora et labora, per i monaci, consisteva essenzialmente nel copiare migliaia di codici destinati ad arricchire sempre più le biblioteche ecclesiastiche. Non c’era monastero, a Napoli, che non avesse la sua magnifica biblioteca, ricca di pergamene e codici miniati. Solo nel periodo normanno la cultura napoletana prese una svolta, anche perché la letteratura primitiva venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che allora avranno avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale, basata sulla dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di letteratura. Già si parlava di medicina e teologia. Nacque la Scuola Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della ricerca scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere planetario, nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi studiosi, esercitavano la professione di medico.
A pensarci bene questo interesse dei campani per la medicina è un retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia dei miei torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si traducevano in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII secolo, assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales, testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia, si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene - dice una delle ricette del Regimen Sanitatis - fuggi dalle cure intense e continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non trattenere né orina né scorregge. Così vivrai felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini caratteriali del mio popolo.

COMPOSIZIONE TIPOGRAFICA IN PRATICA

Dalla biblioteca ritorniamo in tipografia col dubbio se sia la parte letteraria ad alleggerire la noia di quella tecnica o viceversa. Anche qui è questione di forma mentis. Dalle regole per una vita salutare passiamo a quelle di una buona stampa. Un rigo di scritto non dovrebbe essere inferiore a 12 righe tipografiche (poco meno di 6 centimetri di larghezza) e non superiore a 30 righe (testo di libro). Io, in questo momento lavoro con la giustezza 27 righe. (La misura si riferisce all’edizione cartacea del 1998. N.d.r.) Un rigo superiore a 30 righe causerebbe difficoltà a ricercare il rigo successivo, dato che la nostra lettura non è bustrofedica. Le interlinee tra i righi di scritto sono necessarie per allungare il testo e per migliorarne la leggibilità. Le linee linotipiche, generalmente formanti carattere di testo, mai superiori al corpo 14, ad eccezione di modifiche speciali, e le righe composte con i caratteri mobili, pur se accostate, senza interlinee, consentono la leggibilità perché è calcolata una minima spalla, sopra e sotto il carattere in maniera da evitare l’accostamento delle lettere.
Le composizioni possono essere: lupidarie, (spazi irregolari ai due lati); a bandiera (spazi irregolari solo sul lato destro); a blocco (testo allineato a destra e sinistra, come questo che leggete). Tale composizione non consentirebbe più di tre divisioni di parola consecutive; inoltre, l’ultimo rigo di ogni capoverso non dovrebbe essere inferiore ad un terzo della giustezza del blocco. Ho usato il condizionale per le due ultime regole perché io stesso non le ho rispettate in questo testo poiché le ritengo un momentino (come dicono alcuni) pedanti. E’ curioso notare che, in origine, tutti i lavori tipografici che non fossero relativi alla produzione libraria venissero chiamati lavori accidentali. Il XX secolo ha ribaltato la questione. Il campionario dei caratteri è uno strumento essenziale per una composizione equilibrata e gradevole.
Lo sviluppo del testo di un manoscritto o dattiloscritto si calcola contando un rigo dell’originale ed un rigo del carattere prescelto, quindi si procederà alle due somme e si confronteranno, potendo determinare, così, lo spazio che occuperà il libro stampato. Calcolo inutile per il libro che state leggendo, (Ci si riferisce all’edizione cartacea del 1998. N.d.r.) perché sono partito con un canovaccio di cinquanta dattiloscritti e ne saranno venuti fuori, affacciato alla Linotype, oltre trecento, data la posizione desueta di scrittore che assume un tipografo. Nei casi di composizione ortodossa, dove l’originale è completo e limato, la sproporzione del conteggio tipografico effettuato si modifica attraverso la scelta di caratteri più piccoli o più grandi, oppure più condensati o più larghi, in caso contrario si è costretti a diminuire od aumentare il numero di pagine. Nel caso di testi brevi, oltre ad una maggiore interlineatura, si provvederà ad aumentare lo spessore della carta per dare al tomo maggiore consistenza. Nei giornali, una volta, in caso di eccesso avvenivano dei tagli anche tipograficamente arbitrari, nel testo, o, viceversa, nei casi di difetto, si provvedeva con una maggiore interlineatura o con l’aggiunta di inserti. Con la fototecnica offset questi problemi non sussistono, perché il computer provvede a modificare il testo in lungo ed in largo a seconda delle esigenze di spazio. In un attimo un carattere minuto diventa espanso, un testo intero tondo diventa corsivo o neretto, e così via. Cose da far rivoltare Gutenberg nella tomba!
Le correzioni delle bozze di stampa si eseguono, com’è noto, attraverso dei segni convenzionali, mai standardizzati. Un segno viene posto sulla parola da correggere ed uno identico sui margini laterali del testo, accanto al secondo segno viene scritta la lettera da sostituire o la parola da aggiungere o da fare in corsivo o in neretto, mediante tre tipi di sottolineatura: tratteggiata, normale e doppia. Molti segni convenzionali per le correzioni variano non solo da paese a paese, ma da regione a regione, ed in certi luoghi, da città a città. I campionari di caratteri tipografici sono più limitati rispetto a quelli da computer, dove l’unica limitazione può essere lo spazio sull’hard o il rallentamento del sistema in caso di moltissimi caratteri istallati.
Negli ultimi tempi le fonderie di caratteri in Europa si contano sulla punta delle dita. Nell’Europa, ormai unita, le famiglie di caratteri più diffuse non hanno un nome internazionale standard, malgrado l’importanza originaria. Ciò che in Italia viene legittimamente chiamato Bodoni, in Inghilterra viene detto Moderno, in Germania Jungere Antiqua, in Francia Didot. Così in Italia diciamo Bastone in Germania Grottesk, in Francia Antique, in Inghilterra Sans Serif.
Anche i tipografi tradizionali ancora pochissimi non convertiti all’offset usano spesso i caratteri da computer data la vastità di scelta, trasformandoli in cliché per la stampa tipografica o adoperand gli ouptput laser o duplicatori oramai perfezionati. Oggi gli stili derivanti dalle famiglie principali sono pressoché infiniti, come illimitate sono le elaborazioni fototecniche di essi. E’ sempre un riflesso dell’arte moderna: pittura, architettura, scultura, letteratura. L’avanguardismo ermetico impera; la chiarezza, il figurato non solleticano più nessuno. Così gli artisti, i politici e, perché no, i grafici, si danno da fare. L’uomo trova dei sistemi convenzionali per esprimersi e comunicare, subito dopo li complica per sconfiggere la noia del consueto. Diceva bene Rene Char: Diffida dell’uomo e della sua mania di fare nodi. I caratteri tipografici hanno pure capacità espressiva sulle parole. Ciò in relazione ai titoli ed agli slogans. Ad esempio non si userà mai un carattere d’asta debole e sottile per scrivere acciaio, come si eviterà una scrittura larga e robusta in un titolo come: Fragilità. In pratica i caratteri, in sede espressiva, si riallacciano sempre alla loro primogenitura di ideogrammi.

 

Gli uomini prima sentono il necessario, di poi
badano all’utile, appresso avvertiscono
il comodo, più innanzi si dilettano del piacere,
quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano
in istrapazzar le sostanze.

«La scienza nuova» - Gianbattista Vico

CAP. V

GLI STAMPATI TIPOGRAFICI

L’arma più potente dell’ignoranza:
la diffusione di materiale stampato
.
«Guerra e Pace» - Tolstoj

I LAVORI COMMERCIALI DEL POPOLO VESUVIANO

Le botteghe artigiane della mia Torre del Greco e di tutta la cintura vesuviana e, beninteso, quelle della capitale del sud, soddisfano in pieno quasi tutte le esigenze relative agli stampati popolari e d’uso domestico, detti così per distinguerli da quelli di uso amministrativo, editoriale, ecc. I lavori commerciali, ad uso privato vanno dalla carta da visita all’avviso murale (e non manifesto), perché l’avviso, più o meno graficamente povero, rende pubblica una notizia commerciale, sportiva, culturale; mentre il manifesto, come elaborato tipografico, esprime un’idea ugualmente culturale, commerciale, artistica, ecc. Il manifesto è sempre concepito sotto un profilo grafico originale, partorito, comunque, da una personalità artistica, per questo si verifica di tanto in tanto qualche aborto. (Ce ne approfondiremo più avanti nel capitolo specifico). Alcuni artigiani, tuttavia, spinti dalla odierna bramosia di lucro, compiono ogni sforzo per incentivare la produzione a discapito della qualità. In questi casi si seguono schemi fissi di progettazione nell’assenza quasi totale di inventiva e creatività, rientrando, cosi, nella dimensione degli imbrattacarte.
Non tutti i tipografi artigiani, quindi, danno un’impronta personale al proprio lavoro. Ciò è da attribuire pure ad una domanda scadente che non riconosce un adeguato compenso al lavoro creativo, il quale richiede più tempo e maggiore impegno. Ma diamo un’occhiata a questi lavori cosiddetti commerciali, che devono risultare graditi non solo al cliente, ma soprattutto al pubblico a cui sono destinati. Il biglietto da visita, ad esempio, e il piccolo grande stampato, piccolo nella dimensione, grande per l’importante funzione a cui e destinato. Il biglietto reclamistico può essere nella grafica più funzionale poiché avrà carattere prettamente commerciale. Ma tutti i biglietti di presentazione devono essere coerenti con l’attività o la professione dei loro intestatari perché ne riflettono la personalità. Il tipografo deve impostarlo su misura come il sarto fa con l’abito.
La carta da lettera, alias foglio intestato, deve essere progettata in modo tale da lasciar trasparire, nell’insieme degli elementi grafici, l’attività esercitata dal suo intestatario, ancor prima di leggerne il contenuto. Essa deve ispirare fiducia senza lasciar trapelare nessuna incertezza grafica. Non bisogna mai eccedere con le estensioni cromatiche e la scelta dei toni dei colori deve essere sottoposta ad una attenta analisi. In caso di più colori l’accostamento deve scivolare sul netto contrasto per raggiungere soluzioni di gradevolezza cromatica. Le buste vanno stampate con la medesima impronta del foglio, ma leggermente ridotta. I formati regolamentari riguardo il bustometro sono 11 x 15 e 11 x 23 circa.
La fattura commerciale dev’essere, nella parte superiore, pressoché identica alla carta da lettera. Come è ben noto, il prospetto sotto l’intestazione conterrà le fincature dove verranno allineati i prodotti coi relativi costi, imposte, ecc. Le fatture moderne prendono forme sempre più desuete, sia per l’adattamento al calcolatore, che per le sempre più complesse normative fiscali. L’invito è lo stampato classico per eccellenza che, per estensione, comprende la gamma di partecipazioni di nozze, nascita e Comunione. Pure questi stampati risentono le nuove correnti artistiche e letterarie e mutano nella forma e nel contenuto rispetto ad un sia pur passato prossimo. Oggi i testi degli inviti vengono compilati in maniera telegrafica, si assoggettano spesso a forme bizzarre di contenuto in barba alla seriosità di una volta. I caratteri e la disposizione si riallacciano ai moduli architettonici d’avanguardia. E’ finito il tempo del pluralis maiestatis e del carattere stile inglese con le sue aste delicatissime, nella spinta dell’ornato. E’ tramontata la maniera della Signoria Vostra e della affettazione delle forme di cortesia e di galateo, che già da decenni sapevano di bacucco in parrucca incipriata. I messaggi forbiti e ricercati fanno posto ai testi concisi nel contenuto e sintetizzati nella forma. Negli inviti relativi ai party o bisboccie del sabato sera, numerosissime a Torre del Greco, non mancano le toccatine ironiche ed ilari fino al doppio senso di significato erotico, perché, cosa ci fate, da noi se non c’è di mezzo il sesso non si ride.
E qualche vesuviano autentico dirà: ’0 villoco, mo piglia ’a rrenzecata. Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per fare baldoria, compresi gli scioperi. Favoloso l’aneddoto dello sciopero al Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto borghese si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti verbalmente e tramite scritte il diritto al lavoro: «Ho un lavoro per te». «Di che si tratta?». «Bisogna lavorare di vanga e di piccone». «Ma come, con migliaia e migliaia di persone proprio da me siete venuto a cadere?».
I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e nemmeno l’austerità, sa di dominazione. I napoletani, da secoli, hanno messo in pratica una citazione di Marc’Aurelio: “Nulla accade all’uomo che la natura non l’abbia fatto capace di sopportare”. Ebbene, nessun popolo al mondo, in passato, è stato capace, come il nostro, di sopportare tanto spadroneggiare. Il popolo festaiolo di ieri si difendeva trincerandosi dietro l’ottimismo che dice: o mangi questa minestra..., o sotto l’egida della Divina Provvidenza. La frequenza, però, dei mutamenti gestionali di potere alimentavano la speranza di un definitivo riscatto. E’ chiaro che oggi, economicamente e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel ventre della vacca, alienazione generale a parte. E sebbene i problemi dell’uomo moderno siano più di natura psicoesistenziale che politica, è sempre attraverso la politica che la massa pensa di uscirne.
Oggi la stasi politica internazionale stagnata dal deterrente atomico e la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali politico-religiosi, hanno incrinato l’atavica risorsa del popolo partenopeo di scivolare filosoficamente su tutti i problemi politico-sociali. La linfa vitale delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o dalla Mamma Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una cosa sola non fagocitano più l’angoscia. L’equilibrio psichico secolare si incrina. Il fine settimana importato dall’estero, i party a base di alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del tempo libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente panacea rispetto le evasioni di una volta, come le passeggiate salutari, le lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di rado da un omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove venivano favoriti gli ingenui contatti sentimentali, i quali costituivano il preludio delle unioni monogamiche vecchia maniera, l’epilogo della maggiore commedia umana, la famiglia intesa, questa, come struttura formativa risalente alle più antiche culture. E’ insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni che sono nate con l’uomo, mai compromesse nei millenni.
La diffusione della stampa, come il resto dei mass-media, è colpevole della generale confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne relative al progresso materiale repentino e all’evoluzione delle scienze positive, per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato, hanno disfatto gli appigli ideologici, unico medicamento dell’universale, antichissimo interrogativo esistenziale dell’uomo. Gli inviti e le partecipazioni, per fortuna, sono ancora numerosi nella terra vesuviana, dove, tra l’altro, le metastasi dell’incancrenimento edonistico di carattere commerciale sono ancora per il momento contenute, tranne che nei centri con alto reddito. Da noi ancora non è diffusa in toto l’ipocrisia tipica di quel compromesso notarile a cui assomiglia l’unione monogamica moderna che coglie in pieno l’assunto di tutte le regole negative delle famiglie destinate a disgregarsi sul nascere. Molte unioni legali sono basate su una convivenza di comodo di carattere egoistico o su effimere basi terapeutiche atte solo a compensare squilibri personali, quindi destinate al fallimento. Ogni individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima analisi, sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già meno di quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e disadattamenti nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di nascere. Mi salva dal sentore messianico il sospetto autobiografico di queste note, ma è ora di tagliare corto con la digressione, introducendo argomenti di natura diversa relativi agli stampati popolari, che sono così vicini alla sfera emotiva dell’uomo.
Le partecipazioni di nozze, nascita, Prima Comunione, ecc. vengono generalmente prodotte da ditte specializzate che servono tutto il territorio nazionale. Da questa gamma vastissima il tipografo, in collaborazione col cliente, decide per la scelta e si assume il compito di completare i prestampati con le notizie fornite dall’avventore. Questo lavoro, apparentemente semplice, richiede una buona competenza e molto gusto, perché una cattiva associazione di elementi grafici nel pre e post-stampato causerebbe distonia e sgradevolezza. L’avviso murale urbano, il più grosso stampato delle tipografie artigiane, viene realizzato in macchina pianocilindrica di vecchia fattura, vale a dire con assenza di automatismi, dato le basse tirature, e con i tradizionali caratteri mobili di piombo e di legno, oggi in estinzione. Anche l’avviso cittadino nella tiratura di 50-100 copie viene realizzato in offset.
Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di decesso. Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegniamo, chissà ancora per quanto, la massima di Mark Twain: Il dolore può bastare a se stessi, ma per vivere a fondo una gioia bisogna dividerla con gli altri. La solidarietà contro gli oppressori ci insegnava a fare tutto insieme. Uno stampato, l’avviso di lutto, non molto frequente nella mia bottega di Via Purgatorio a causa dell’emotività della mia consorte Rosaria, la quale, puntualmente, si scioglie, all’atto della commissione, in elegiaci convenevoli con il richiedente.
In più, alla consegna, si abbandona in lamentose querimonie con tale partecipazione che alla fine insorge l’inadempienza remunerativa sulla ipotetica base della carità cristiana.

GLI STAMPATI «DELLA STRADA»

Nella vasta gamma di lavori commerciali vi è quell’insieme di stampati che rappresentano una sorta di messaggio popolare relativo a gare sportive, manifestazioni folkloristiche, promozioni commerciali, e via discorrendo. Dall’avviso murale alla locandina, dal volantino alla cartolina pubblicitaria. Di questi stampati si fa largo uso nel circondario vesuviano, nella metropoli e nei centri più densi di popolazione. Questi siti palpitano di iniziative culturali di livello popolare. La produzione è favorita pure dal clima e dalla maggiore tolleranza sull’imbrattamento urbanistico. E’ probabile che la natura di questi stampati abbia avuto origine proprio sotto il Vesuvio, dove le tradizionali feste popolari hanno radici addirittura pagane. L’ambiente colorito e climaticamente confortevole della strada contribuisce al perpetuarsi di questi esternamenti dionisiaci, dove si vedono planare sulle teste aligeri messaggi, là dove, quando sono di carattere religioso, sembrano provenire, dedaleggiando, dai meandri del cosmo, proprio dall’aldilà. Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule e cioncate pure sui cigli delle strade; di abbuffate di taralli con sugna e pepe, di frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o arachidi tostate (’o spassatiempo); di torrone d’Ospedaletto e di castagne di Montevergine. E così vola tutto dall’alto, intorno al Vesuvio, oltre alla cenere vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti la gloria dei Santi, oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti domestici dietro il «vigore» della pigrizia.
La carta stampata, anche minuta, rappresenta la modesta alternativa alla logorrea dei campani. Il cosiddetto non sputare mai è per noi, ricambio d’ossigeno. Se vuoi uccidere un napoletano condannalo al mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non respirerà più neppure col naso. La parola stampata, invece, un po’ esotica ed aulica, associata all’atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l’enorme quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le consultazioni elettorali. V’è una sorta di meccanismo inconscio, nel mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un bozzetto eccellente di un lavoro tipografico rispetto ad un equivalente pessimo lavoro già stampato perde di credibilità, da noi. I cartai fornitori per arti grafiche sovente portano i ceri a S. Gennaro nella speranza che il governo vada in crisi. Ogni referendum è un terno secco per loro. L’Immacolata Concezione e la compatrona di Torre del Greco; la festa ne è caratterizzata dall’accensione di numerosi falò alla vigilia. Nel dopoguerra migliaia di volantini e manifesti elettorali sostituivano il faticoso insufflaggio tramite gli scarseggianti pruni e sterpi. Le vecchie impalcature del boom edilizio degli anni 60 lanciavano le fiamme sino in Paradiso a ringraziamento dei vani ricevuti. Tre elementi infiammano, invece, le mie reminiscenze puerili: lo sfarfallio dei fac-simile elettorali sotto il sole mai avaro; il veleggiare del bucato sciorinato sulle corde di canapa tra balcone e balcone e l’effluvio di naftalina esalante dalle balle di indumenti donati dai liberatori o dalla Croce Rossa lungo la salita del Mercato di Shangai di Ercolano.

GLI STAMPATI MODERNI

Un settore delle arti grafiche che si è molto sviluppato in seguito alle riforme fiscali degli ultimi tempi è quello concernente la produzione di stampati tipografici come bolle d’accompagnamento (sembrano dame di compagnia), (oggi 2002 soppresse da tempo. N.d.r.), schede fiscali, ricevute fiscali, e così via. Documenti che tutti conosciamo bene, ma che, talvolta, fingiamo di ignorare. Negli ultimi tempi ha invaso il mercato cartario (grazie a questi lavori che prevedono quasi sempre l’autocopiatura), la carta chimica. Essa viene trattata in cartiera: sulla superficie vengono fissate delle microscopiche vesciche di particelle chimiche, le quali, sotto la pressione delle biro, si rompono lungo il solco della scrittura, trasferendo il segno sulle copie sottostanti. L’uso della tradizionale carta carbone subisce un lento declino, come pure la carbonatura tipografica, antiestetica e insudiciante. Da ragazzo, sia a Torre che a Napoli o a Roma, durante le prove d’arte, ho dovuto sempre eseguire la composizione di uno stampato meccanizzato. Un termine avaro per raggruppare quella serie di stampati che vanno realizzati attraverso una disposizione rigorosa delle misure relative alle distanze degli elementi grafici costituiti da caselle, linee, fincature, ecc. Questi modelli tipografici venivano introdotti in macchine compilatrici con tabulazione ed interlineature prestabilite, le prime apparecchiature, cioè, connesse alla contabilità meccanizzata. Ma, ahimè, le botteghe artigiane hanno visto scemare gradualmente questo tipo di lavoro, per altro ben pagato, poiché l’avvento dei calcolatori ha trasformato questi stampati in moduli continui onde evitare arresti alla stampante. Le macchine per la stampa di moduli continui vanno al di là delle possibilità economiche ed impiantistiche delle tipografie artigiane. Così l’industria assorbe buona parte del lavoro destinato agli artigiani. Le piccole macchine per moduli continui, o gli adattamenti alle macchine tipografiche, non sono concorrenziali come costo di esercizio. Un altro colpo mortale vibrato al piombo tipografico, perché le matrici di questi stampati vengono fotocomposte per l’offset ortodossa o quella a secco (fotopolimeri).

LE PUBBLICAZIONI ARTIGIANALI

Diverse tipografie artigiane producono piccole riviste periodiche, giornali locali in formato ridotto, depliants illustrati, e via dicendo. Molti di questi lavori vengono realizzati col sistema classico di progettazione perché sono ancora composti col materiale tipografico: piombo e cliché. Oggi 2002 non più. N.d.r.). Tali pubblicazioni, pur se stampate in offset, una volta prevedevano la composizione col piombo linotipico e l’impaginazione avveniva col montaggio di bozze di stampa su patinata da fotografare o direttamente su veline per evitare la ripresa fotografica.
Sono poche le tipografie artigiane che utilizzano la fotocomposizione, costosa e complessa. Negli ultimi tempi è apparso sul mercato delle arti grafiche un modesto sistema di composizione elettronica detta editoria d’ufficio. Non emette pellicole da esporre ma copie a stampa laser da riprendere in camera oscura. In ogni caso la definizione è medio-bassa, ancora lontana dalla finezza dei caratteri da stampa. Fino a 1200 punti a pollice per questi piccoli apparati, 2500 e oltre per le fotocomposizioni professionali.
La composizione di un libro è semplice quando si tratta di testo corrente, come questo che avete sotto gli occhi. Le cose si complicano quando si ha a che fare con pubblicazioni ricche di titoli di vario stile, tabelle, diagrammi, chiose, illustrazioni, ecc. Anche la semplice impaginazione di libri con testo corrente, però, deve seguire delle regole ben precise. La fine di una pagina non dovrebbe avere una parola divisa, non deve terminare con asterischi o fuselli, si dovrebbero sfruttare le possibilità delle varietà di tono dei caratteri, possibilmente senza variarne lo stile ed utilizzare il corsivo ed il maiuscoletto per le differenziazioni. (Anche qui, dove uso il condizionale, ritengo le regole eccessive e come noterete in questo testo alcune sono state trasgredite). Riferimento al testo cartaceo del 1998. N.d.r.). Le note vanno disposte a piede di pagina o a fine capitolo e di corpo inferiore a quello del testo.
Le caratteristiche principali di un libro sarebbero, in ordine progressivo: l’occhiello, che ripete il titolo dell’opera; il frontespizio, che ripete le notizie di copertina; il retrofrontespizio, che rivela la proprietà letteraria; ancora il Copyright e, in qualche caso, la firma autografa dell’autore; 1’introduzione e finalmente il testo, diviso in capitoli, questi sezionati in paragrafi con titoli e sottotitoli, fino agli indici, il colophon o soscrizione: finito di stampare, ecc., dulcis in fundo, 1’errata corrige. Perché Gutenberg, insieme alla stampa, inventò l’errore di stampa, poiché non s’era mai sentito prima l’errore di scriptorum. In uno dei suoi primi libri l’orefice di Magonza scrisse spalmorum invece di psalmorum, nel famoso «Psalmorum Codex» del 1457. I caratteri mobili, essendo tali vengono inavvertitamente spostati. Hai voglia di leggere la bozza, dieci, cento volte, nulla da fare. Un editore diceva: La composizione di un libro senza nessun errore equivale ad un’opera d’arte.
Oggi l’errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso zeppi di errori, ma, data la società consumistica, chi volete che esibisca un documento di prodotto guasto al posto del certificato di garanzia?. Il sottoscritto, ad esempio, non utilizzerà l’errata corrige, altrimenti dovrebbe stampare un secondo libro a mo’ di note esplicative, tanti sono, probabilmente, i refusi, per non dire le... antipedanterie... A Napoli vi sono diverse tipografie editoriali, senza dubbio di numero parecchio inferiore a quelle del nord industriale. I complessi tipografici meridionali producono diversi libri, specie i testi scolastici. Alcune minuscole tipografie artigiane, pure, talvolta, si cimentano in questa operazione. E’ il caso mio, ad esempio. Molti di noi sprovveduti, però, ci avventuriamo, magari senza conoscere a fondo certe regole fondamentali per la realizzazione di un libro. (Ma guarda che si deve fare per essere solidale!). Ma andiamo avanti. In questi casi interviene l’autore che monta le bozze realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida al tipografo impacciato. Accade, però, che l’autore spesso non riesce ad ottemperare appieno questo compito per la scarsità di conoscenza di certe regole grafiche fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una pubblicazione alla maniera di Don Antonio.

UN TIPOGRAFO DI CAMPAGNA

Don Antonio è un tipografo di provincia che un giorno mi interpellò onde essere illuminato proprio sulla realizzazione di un volumetto religioso. Mi assicurò che il prete era pipì e un po’ fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura. In più quando si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le più variegate scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale, giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi consentiti dal Signore. «Una volta, caro Marittiello, (da noi si vezzeggiano pure i cognomi), solo per scrivere culo, invece di culto, me ne disse tante che mi fece venire la diarreta. E’ vero che in Chiesa ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo capo, urlava: devi fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattr’ore di terremoto con te all’epicentro; tu non morirai nel letto tuo, disgraziato, ciuccio matricolato; figlio di una meretrice (forse credeva che la buonanima di mia madre vendeva le merende), insomma mi fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi chiarì subito che il suo era un paesello d’amatori d’uccelli. Gli feci intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel libro. Ad un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l’uscita in aperta campagna. «Quando esco dall’Alfa Sud - mi disse - il tempo che mi rimane lo passo un po’ a stampare, un po’ a zappare. Guarda che bella campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il fabbisogno personale... e di quello dei clienti».
Lo fissai senza intendere. Mi scosse la falda della giacca con cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di rassegnazione nella voce “Quando sbaglio qualche lavoro - abbassò gli occhi, poi li puntò in alto, in un posto indefinito - e questo capita spesso, tu sei un caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui’. - Poi ribadì in tono perentorio, ma ironico - diciamo pure che non ne azzecco una, va! I fogli vengono troppo scagnati, o troppo ’nguacchiati... Il mio forte sono gli errori di grammatica. - Sorrise - Mi volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie’... Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so, due mazzi di ravanelli... Vedessi dopo il lavoro com’è buono!».
Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa aveva offerto al prete quella volta. «Offerto? Quello se non lo fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva nutrirsi molto, perché le arrabbiature gli portavano l’insonnia e lo facevano dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la spesa per tre mesi... Vedi una «t» che mi costò... Ma che vuoi, caro Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima alimentare tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare l’arte da Ciccio ’o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le scarpe e quelli dispari faceva i manifesti di morto, e diceva sempre Madonna mia non li fare morire i giorni pari. Quello si che era un maestro. Aveva fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere neanche un anno».
Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre del Greco, ma sulla strada del ritorno m’imbattei in una bicocca diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a mano a mano che m’avvicinavo, più articolati e distinti. Ora ascoltavo una singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco spirituale ed il vocalìo ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti del concerto emettevano poi vagiti d’infante. Decisi di non approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante, mi scontrai con lo sguardo enigmatico d’un bimbo paffuto, ma sudicio. Gli chiesi perché quei volatili emettessero quegli strani suoni. «Il nonno - disse con un sorriso d’ebete il fanciullo - acceca gli occhi di tutti con uno spillo, così cantano meglio».
Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto libro. A seguito di un’altra visita, infruttuosa, seppi che era andato a vivere a Modena con una figlia che, purtroppo, era divenuta vedova, come lui. Probabilmente Don Antonio stampò il libro, ma dovette emigrare per evitare il linciaggio.
A prescindere da questi casi limite, un libro viene realizzato con buona competenza in molte tipografie artigiane partenopee vecchia maniera ed in quelle più evolute tecnicamente, convertite alla stampa offset. Le pagine di un libro, una volta composte, vengono disposte sul piano della macchina tipografica tradizionale o sulla lastra offset in maniera tale che una volta stampato ed effettuate le pieghe del foglio, le pagine seguiranno l’ordine progressivo.

I GIORNALI ARTIGIANALI LOCALI

In passato la stampa per antonomasia era il giornale. Il popolo oggi identifica il lavoro tipografico maggiormente con i numerosi, fiammanti rotocalchi, oltre che con i quotidiani. I primi giornali venivano realizzati nelle botteghe artigiane dell’epoca. Durante l’ultimo conflitto mondiale, in assenza dell’energia elettrica, alcune testate si asservivano al procedimento tipografico artigianale per alcune edizioni ridotte, oltre ad utilizzare rotative e pianocilindriche come eccellenti ricoveri a difesa dei soffitti che crollavano. Dopo la composizione manuale di questi quartini di notizie urgenti, la stampa avveniva nelle pianocilindriche azionate manualmente con una leva applicata al volano. Ma oggi, com’è noto, l’avvento della radioteleiconografia in genere, ha ridotto l’informazione attraverso la carta stampata. Molti editori hanno dovuto ripiegare con l’etere. I giornaletti di provincia, quelli scolastici o di associazioni parrocchiali sono sempre meno reperibili in giro. Il fascino della carta stampata viene offuscato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, che, comunque, sono meno concreti della stampa. Col giornale od il libro, ad esempio, si può attingere quando si vuole senza il timore che le lettere o le immagini si dissolvano dalla carta, sebbene la videoregistrazione domestico abbia in larga parte sovvertito questo concetto; ma è difficile, ad esempio, portare in treno o sulla spiaggia il videotape ed il televisore. La diffusione del computer portatile risolve, invece, questo problema.
La tipografia artigiana riesce a produrre un giornale, ma nei limiti quantitativi, naturalmente, con un minimo di attrezzatura indispensabile, in vasta disponibilità, oggi, sul mercato dell’usato. Due o tremila copie di un giornale di medio formato (50 x 70 cm.) possono essere prodotte da una comune tipografia in possesso della oramai economicissima Linotype, nel giro di 3-5 giorni. Vi sono tipografie artigiane in Campania che non stampano per nulla lavori di testo. Esse realizzano solo modellame e bigliettame per cui adoperano poco o niente la Linotype, ma uno straccio di computer ce l’hanno tutti per realizzare piccole matrici offset o cliché fotopolimerici. Nei casi sporadici le piccole tipografie si rivolgevano alle linotypie, ormai tutte convertite alla fotocomposizione.
La stampa attraverso piccole macchine offset è diffusa pure nelle tipografie dell’angolo. Sono diverse le tipografie della terra vesuviana che stampano solo giornali locali e pubblicazioni di bassa tiratura, sebbene attratte dalla domanda del settore pubblicitario commerciale. Nelle tipografie editoriali, grandi o piccole, sino a qualche decennio fa si avvertiva maggiormente il fascino della stampa gutenberghiana. In quel chilometro quadrato intorno al Corpo di Napoli si addensano gli emblemi della cultura napoletana relativa alla stampa. L’Università, Via Benedetto Croce e Port’Alba con le numerose librerie, la Posta Centrale con la famosa emeroteca e la caterva di tipografie artigiane, alcune delle quali ancora tradizionali, talune antichissime.

LE MATTIZIE DI BOTTEGA

Concluderò questo capitolo con delle facezie. Il rapporto di gomito nelle botteghe artigiane e più costante e comunicativo di quello domestico, tranne nei casi di incomunicabilità, che sfociano, il più delle volte, in un mutismo squallido e deprimente, non da napoletani, in ultima analisi. Le goliardie liceali napoletane degli anni ’60 sono sconosciute alle mie gaie signorinelle: Francesca e Virna, le prime due cambiali, infinitamente “care”, d’una… quaterna che la vita mi ha dato. Se tutte le cambiali fossero così... mi indebiterei fino al collo!
Quelle locuzioni argute ed ilari degli adolescenti post-bellici si diffondevano in ogni ambiente, dalla scuola alla strada, ai sodalizi, alle botteghe. I miei ex apprendisti, durante le visite odierne, mi rammentano queste gioiose mattizie adatte per farla in barba alla monotonia d’una lunga giornata di lavoro. Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti? Oppure le caricate traduzioni letterarie di nutriti epiteti in vernacolo, le quali suonano: Vai ad operare in ciò che sta sotto il naso di colui che un giorno ti si spense, comunemente conosciuta come: Va’ fa’ mmocca a chi t’ è mmuorto. O, ancora: All’alma di colui che a te percosse i funerei rintocchi dei sacri bronzi, che sta per: All’anema ’e chi te sona ’a campana a mmuorto. Inoltre: Adesso piroetto sulle tue guance una discreta dose di enzimi orali, cioè: Mo te sputo ’nfaccia. E via dicendo...
Le contumelie moderate si limitano a 1’Eva t’amo tanto, che faceva inviperire le ragazze d’allora. Ché, dire, oggi, al coetaneo sessantottino: Levate ’a mutanda, equivale al dammi un bacio d’una volta. Noi anta ci scandalizziamo anche perché ignoriamo che i giovani si sforzano a naturalizzare il linguaggio sessuale (il che non è turpiloquio) allo scopo di esorcizzare l’ipocrisia bigotta del passato. E, fateci caso, alla fine si finisce ancora col parlare di morte e di sesso, quando c’è di mezzo la vita. Molte di queste trovate attingono, però, da una tale letteratura popolare teatrale pre-alfabetismo, come la maggioranza dei proverbi e delle locuzioni popolari partenopee. Le diffusero personaggi come Pulcinella o Felice Sciosciammocca, i cui autori attingevano a loro volta dal popolo. Quando nella bottega annuncio qualche pubblicazioncella, la prima cosa che mi chiede la gente è: Ma fa ridere?. Il bello è che essa ride pure quando ho creduto di scrivere cose serie. Non sarà per partito preso? Forse anche a Napoli, oggi, si insinua quel proverbio che recita: Quante volte le bocche ridono ed i cuori non ne sanno nulla. Abbiamo finito col dottrinalizzare pure le risate? Abbiamo fatto del proverbiale buon umore napoletano un’altra elaborazione culturale. Se così fosse, poveri noi!
On Luì
- dicono sovente gli ex apprendisti quando s’affacciano all’uscio della mia bottega - All’alma di colui che a te percosse... Ed io mi commuovo per stupidaggini del genere, perché tali non sono. Esse sostituiscono i contatti umani d’un tempo, il senso dell’amicizia, sempre più compromessi, per questo tronco la frase dicendo: Curre, cammina, va a fa’ ’o duvere tuoie. Ed egli docile come un cucciolo riconoscente si avvicina soddisfatto alla “napoletana”.
Io noto la prima stempiatura, gli incipienti segni della sua dissolta giovinezza. Penso a quando, paternamente, lo dileggiavo dicendo mesci il caffè, ed egli puerile ed ignaro lo zuccherava. Ah, scarzappulillo, non più imberbe, col tuo pomo d’Adamo che va su e giù, con qualche dente in meno e la consorte incinta ogni nove mesi perché non si decide a fare il maschio. Ricordo quando dicevi al cliente moroso che cincischiava nelle tasche inventando mille scuse: Ma dicite ca nun tenita a «zuppa». Rieccovi a fare ’o duvere vuoste, come un tempo, con la napoletana, dove il caffè scende. Ridico mesci, e voi, meno candidi, lo versate, dietro un adulto sorriso sornione.
E’ accaduto, l’ultima volta, appena un mese or sono. Un ex scarzuppulillo centellinò con me quel nettare dell’amicizia e si dileguò per l’ingresso borbottando di avere una fretta del diavolo. Un attimo dopo ricomparve: «On Luì - sbotto - me scurdavo ’na cosa importante». Pausa. «Dai, parla», ruppi. E lui «Ammesso e non concesso che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti?». Fu molto più d’un abbraccio. Grazie, ragazzi, grazie perché mi fate, talvolta, riassaporare la giovinezza. Ciao Sergitiello Tramontana, Micheluccio Sorrentino, Enzuccio Santagata, Albertino Ascione, Sergitiello Paduano Giruzzo Accardo, Totore Vitiello e, l’ultima leva, Fabiuccio Viscovo. Grazie per aver tollerato i miei sbalzi d’umore dovuti alle vostre inottemperanze, per aver saputo sorridere a qualche mia verbale escandescenza: ’Ata fa’ ’e mmane comm’ e piede!

Quel che il tempo ci apporterà sicuramente
è una perdita; un guadagno o un compenso sono
quasi sempre concepibili, non mai certi.

«Appunti per una definizione della cultura» - T. S. Eliot

CAP. VI

AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI

E’ il lavoratore solitario a fare il primo passo
in un dato campo. I particolari possono essere
messi a punto da un’equipe, ma l’idea prima
è dovuta all’intraprendenza, al pensiero,
all’intuizione dell’individuo.

“Discorso 1951” Sir. Alexander Fleming

GIOVANNI PAPERINO, TIPOGRAFO SVENTURATO

Per introdurre l’argomento concernente la meccanizzazione delle immagini desidero sintetizzare in poche righe la storia lirica e fantasiosa di Giovanni Paperino. Molti buoni tipografi artigiani della mia terra vesuviana amano talmente il proprio lavoro da farne una ragione di vita. E’ il caso di Giovanni Paperino, tipografo artigiano provetto, coscienzioso, esemplare, onesto fino allo scrupolo, per questo, da piccolo, in collegio, passava il suo tempo a curarsi ecchimosi, contusioni, ed ematomi vari. Ma reprimeva ripetitivamente le sue idee anticonformiste bruciando molte energie. Allo scopo di non confermare gli epiteti o le ingiurie di asociale e disadattato Giovanni stipulò il contratto monogamico. Veniva spesso nella mia bottega di Torre del Greco per commissionare timbri di seconda mano. Giovanni Paperino, sosteneva, tra l’altro, che i nuovi problemi esistenziali dei circumvesuviani facevano perno sulla sperequazione dell’economia. E’ un dramma, affermava, vivere nello stesso condominio con una differenza di introiti da uno a dieci. Il danaro, persino a Napoli, è divenuto l’unico parametro che determina il valore di un individuo, e via discorrendo. Paperino era tipografo da sempre, Aveva dato i fondelli, come lamentava lui, prima ai gestori del corso di formazione professionale, in collegio, poi ai padroni degli anni cinquanta. Finalmente aprì bottega ad est del Vesuvio, senza il beneficio di rivendicazioni sindacali, ma attraverso il centesimare dei suoi risparmi. Ma da quel momento, da paria mediocre del mondo del lavoro divenne un potenziale buon partito per l’occhio particolare di certe donne, non molte per fortuna, che ancora oggi ricercano l’affermazione accovacciandosi sotto l’egida di un marito portapane. Avvenne uno dei tanti matrimoni terapeutici dove l’illusione dell’idillio durò giusto i nove mesi della gravidanza. Giovanni Paperino, dietro un eccessiva possessività materna, da parte della consorte, si vide escluso dalla sfera affettiva dei congiunti, in più sentiva opprimente l’ingerenza della suocera.
Non si rendeva conto di alimentare da se queste manovre inferme della consorte perché non imponeva i suoi diritti e doveri rispettivamente di marito e di padre. Finì che, per sentirsi accettato, si immerse nel lavoro, come si suol dire, fino al collo. La donna, vittima del modello sociale capitalistico si crogiolava sui sensi di colpa di Giovanni e, attraverso finissimi ed eleganti ricatti morali, lo spingeva a sudare, come si suol dire anche questa volta, le sette camicie. (Perdonatemi le puntualizzazioni stilistiche, ma sento sempre la presenza della buonanima di Croce che mi fissa dal famedio). Giovanni Paperino, come tutti gli adulti bambini era, tutto sommato, un candido ossessionato. Il conflitto si consolidò quando, preso dal bisogno della fuga, dovette lottare intensamente contro la rinuncia affettiva dei suoi figliuoli. Una coppietta di pargoletti tenerissimi, si confidava, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, sebbene, secondo la moglie, lui avesse contribuito al loro concepimento solo attraverso un meschino, scellerato semino.
La fetta di potere ottenuta dalla moglie di Paperino era insufficiente secondo il parametro vigente, a stento riusciva a snobbare i condomini. Sebbene fosse detentore di una posizione economica superiore alla media nazionale, l’uomo si sentiva meschino, inottemperante, un poveraccio da questua. Schiacciato dalle pressioni domestiche il tapino decise di recarsi a visitare la famosa rassegna grafica del capoluogo lombardo onde acquistare macchine rapidografiche, turbografiche e, come si suol dire (per la terza volta), chi più ne ha più ne metta.
Il poveretto, stressato, esaurito, avvertì un malessere nell’aereo, ma invece di prendere la direzione della toilette aprì per errore un portello dell’abitacolo pressurizzato e precipitò. Non ebbe paura perché non dirupava, ma veleggiava, ora cabrava, ora picchiava, su, giù, a destra e a manca. Per la prima volta nella sua vita provò l’ebbrezza della libertà. Ad occhi aperti agitava le braccia come un volatile. Il suo cuore era inerte, non discerneva più la gioia e il dolore, il riso e il pianto. Una dimensione senza principio ne fine. Poi il vento lo spinse sempre più oltre, raggiunse la velocità della luce e confermò la teoria di Einstein, il tempo si arrestò quando sentì il suolo dolcemente sotto la regione plantare. Dischiuse le palpebre e non gliene importò un frego di essersi trovato in un retorico immenso prato, illuminato da un rancido tepido sole onde poter mirare, stagliato sull’orizzonte infuocato, la diafana creatura dei suoi sogni, la sua compagna ideale. Giovanni era precipitato in un altro mondo alternativo; in questo singolare paradiso sentì scrollarsi di dosso la vecchiezza di millenni di cultura inferma che gli aveva iniettato sotto l’epidermide la paura di vivere e di morire. Quel mondo gli rammentava il candore dell’infanzia, la fiducia e la sicurezza disgregata dal presente. Scoprì l’epilogo della teoria spazio-tempo, non già l’eternità, ma la vita a ritroso. A mano a mano che gli anni andavano, Paperino e la sua meravigliosa compagna ideale ringiovanivano sempre più fino a divenire due pargoletti paffuti, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, per poi addormentarsi dolcemente in una culla di giunco, irradiati dai loro candidi sorrisi, nella consapevolezza soave di un posto assicurato nel, (cosiddetto per la quarta volta), retorico limbo.

IL CLICHE’ DI ZINCO

Il sogno, invece, dei tipografi artigiani comuni, è stato sempre quello di poter realizzare cliché nella stessa bottega. Le complesse fasi del procedimento zincografico hanno sempre scoraggiato anche i tipografi più intraprendenti. Gli zincografi, agli occhi dei tipografi del piombo fuso, sono sempre apparsi come una sorta di alchimisti privilegiati che indettavano maestrie tecnicistiche e che, comunque, esercitavano un certo ascendente sui loro asserviti. Ma la chimica industriale ha fatto giustizia, ha messo a punto i composti fotopolimerici, i quali consentono di ottenere cliché in casa attraverso un procedimento (come cadono bene le locuzioni): all’acqua e sapone e all’acqua di rose. Infatti, dopo la semplice fase di esposizione, lo sviluppo avviene in acqua di rubinetto.
Bisogna ricordare che, per quanto la stampa offset abbia soppiantato quella a caratteri mobili vi sono delle lavorazioni che restano tipografiche e, allo stato, non si possono sostituire: stampa in oro tramite foil, stampa di supporti cartacei preconfezionati, rilievografia classica e chimica, ecc.
Vediamo, per il momento, come viene fabbricato un cliché di zinco al tratto. Devo subito puntualizzare che il procedimento fotografico per ottenere la matrice di qualsivoglia veicolo di stampa e sempre lo stesso. E’ necessaria, in tutti i casi, una maschera che consente alla luce attinica di agire o meno. Questa matrice della matrice, per così dire, è essenzialmente costituita da una pellicola o un montaggio di pellicole fotografiche. Per ottenere un semplice cliché di zinco, dobbiamo sfruttare la contrapposizione della pellicola ortocromatica ad alto contrasto: nero totale o bianco assoluto. Immaginiamo di voler convertire in cliché anastatico un disegno o una pagina di scritto. Fotograferemo l’originale con un apparecchio specifico capace di incamerare negativi di grosso formato o più semplicemente scannerizziamo la pagina fino ad ottenere con il procedimento disponibile: laser, fotounità, ecc. una pellicola negativa che risulterà, come è noto, nera la dove le zone dell’originale sono bianche, e trasparente dove sull’originale risulta nero.
Lo zincografo avrà preventivamente preparato la lastra di zinco con una speciale vernice fotosensibile, spalmata in centrifuga onde ottenere uno strato omogeneo. Fatta essiccare, la lastra viene sottoposta alla pellicola a perfetto contatto in appositi bromografi sotto vuoto. La luce attinica agirà solo attraverso le zone trasparenti, nel nostro caso i segni delle lettere e il disegno. La vernice fotosensibile indurirà solo nei punti colpiti dalla luce. Le zone neutre rimarranno solubili allo sviluppo che lascerà, in quei posti, ricomparire il metallo. E fin qui nulla di complicato, a parte la centrifugazione del bicromato sensibile sullo zinco. La difficoltà si presenta quando si immerge la lastra in acido nitrico che corroderà lo zinco solo nei punti esenti di vernice. La laboriosa incisione è sotto costante controllo dell’operatore che eviterà innanzitutto attacchi impropri dell’acido al fianco dei rilievi delle lettere in formazione. Quando 1’incisione chimica avrà raggiunto la profondità desiderata il cliché è bello e pronto per la stampa. Esso avrà l’aspetto del bassorilievo di un comune timbro, laddove gli elementi grafici sono disposti a rovescio e in rilievo e le parti bianche (sulla carta) sottoposte. Il procedimento fotopolimerico è pressoché identico con la differenza che non esiste acidazione, lo “scavo” del bassorilievo avviene spazzolando con acqua di rubinetto tiepida. Ciò consente a chiunque di fabbricare cliché di “plastica”.

IL RETINO

Fin qui abbiamo appreso che i segni in superficie del cliché raccolgono il colore dai rulli inchiostratori delle macchine tipografiche per trasferirlo sulla carta, similmente alla funzione del rilievo dei caratteri mobili. Le zone più basse che costituiscono la base dei rilievi di stampa non sfiorano i rulli e risultano bianche sulla carta. Ma come si ottengono le tonalità di grigio in una foto stampata? Se proviamo a tracciare su d’un comune foglio bianco tanti puntini precisi ed equidistanti tra loro noteremo che alla distanza di qualche metro essi scompariranno dal nostro controllo visivo ed apparirà una zona di una distinta tonalità di grigio. Più piccoli e distanti saranno i puntini, minore sarà l’intensità del grigio. Per ottenere un grigio piuttosto scuro dobbiamo tracciare dei punti più nutriti e più accostati. I punti addossati o fusi formano il nero. Se queste tracce vengono articolate in relazione a delle figure otterremo una rudimentale immagine tipografica da giornale.
Il clichè riproducente una fotografia ha lo stesso principio del nostro puerile esperimento, è composto da parti microscopiche totalmente nere o bianche, quindi alte e basse. Il segreto sta nella caratteristica microbica dei mirmifici puntini, che non vengono percepiti ad occhio nudo come tali, ma quali zone grigie più o meno scure che vanno appunto dal bianco al nero. Un cliché di una foto, detto a mezzatinta, presenta, nella sua struttura, una miriade di punti di microbica dimensione a diversa distanza da loro: piccolissimi e distanti nelle zone chiare; più sostenuti e ravvicinati in quelle medie; quasi uniti nelle parti scure, nelle zone nere sono fusi assieme e si va nel fondino tipografico. Quindi l’omogeneità dell’inchiostro distribuito dai rulli viene rotta dalle differenti zone di presa dei puntini.
A scomporre l’immagine in punti, in sede fotomeccanica, è il retino, costituito da un supporto dello spessore vario, a seconda se si tratta di retino a distanza o a contatto. Il retino a contatto, molto diffuso e pratico, è spesso quanto una pellicola e altrettanto flessibile, nella cui base semitrasparente appaiono fittissime serie di linee orizzontali e verticali, l’incrocio delle quali forma i punti che allo stato di retino sono tutti uguali. Essi si assottigliano per riflessione ottica della luce in fase di ripresa lungo le parti chiare dell’immagine; al contrario nelle parti scure si ingrossano perché la luce riflessa è minore. Il retino viene anteposto, a stretto contatto (sottovuoto), alla pellicola vergine in fase di ripresa o nei passaggi da negativo in positivo e viceversa. I retini vanno da un minimo di 25 linee a cm. quando il cliché è destinato ad una carta ruvida come quella dei giornali; 40 linee per carte collate e lisciate, fino ad 80 linee ed oltre per le carte patinate. L’offset consente un maggior numero di linee del retino, perché il sistema trasferisce solo un sottile velo di inchiostro ed evita l’impasto dei punti. Il retino 25 linee dei giornali è visibile ad occhio nudo come la luna ed il sole. Per osservare bene una retinatura oltre le 60 linee è necessaria una buona lente d’ingrandimento. Oggi la selezione dei colori è totalmente computerizzata e la possibilità di errori è minima.

I TIPOGRAFI DIPENDENTI NEL NAPOLETANO

La stampa di foto a colori (policromia) come avviene? «Attraverso quattro immagini retinate sovrapposte» rispose Giorgio ad un mio cliente. Io non ho mai conosciuto un artista più sincero, autentico, folle, di Giorgio, né in tutta Torre del Greco, col suo Istituto d’Arte, né ad Ercolano, né a Napoli, né in tutta la Campania. Giorgio era una tavolozza personificata. Erano i tempi in cui il Ministero della Pubblica Istruzione ebbe delle crisi di coscienza ed istituì numerosi corsi serali di recupero per anziani e giovani volenterosi. Era già caduto l’Impero Padrone, almeno nel linguaggio; il sessantotto a una spanna. Noi giovani campani avevamo in comune il problema dell’occupazione. Nasceva il posto clientelare e quello da comperare. Anelavamo la “sistemazione” per assicurarci la nostra fetta di dignità, per uscire dall’emarginazione e dalla miseria. Provenivamo da una Napoli prostrata nei disagi e nell’inedia. Malaparte ci ricorda la drammaticità di quegli anni, forse eccedendo nella trasfigurazione artistica con fioriti, declamatori ed ampollosi virtuosismi di stile. Tutti i popoli nell’annichilimento prolungato diventano servili e confusi. Nella disperazione non esistono popoli migliori o peggiori, ma solo folla di individui che, obnubilati, lottano per la sopravvivenza. Qualsiasi altro popolo al posto di quello napoletano, non avrebbe fatto cose migliori. E’ facile giudicare con la pancia piena, come diciamo noi. Con buona pace di Curzio, che amo e ammiro come scrittore e come persona, “La Pelle” sarebbe stata stilata dietro un’altra ottica se, invece di trovarsi, egli, nella condizione di consumare bisbocce con gli anglo-americani, il destino l’avesse voluto gomito a gomito coi diseredati, a dormire nei loro tuguri, a soffrire la propria fame e per quella dei figli, che egli non aveva e non solo a osservarli di passaggio, con l’occhio distorto e assetato del cronista.
Ecco perché un posto, nel dopoguerra, rappresentava la mèta per i giovani di allora, a cui le madri ancora rammendavano i calzini o facevano risuolar le scarpe. Allora, oggi si dovrebbe rifiutare il benessere, ammesso che sia veramente tale? No, si dovrebbe apprezzare la parte buona di esso, ma non si può quando, sotto la molla consumistica, esso alimenta un crescendo di se e rende i consumatori dipendenti di dosi crescenti all’infinito. Mai come oggi cade bene la locuzione: stavamo meglio quando stavamo peggio, e non credo che sia solo un qualunquistico luogo comune. La vita dei campani era senza dubbio più serena nel secolo scorso, sia pure nelle ristrettezze e nel servilismo, perché si apprezzava e si utilizzava bene quel poco che si otteneva. Chi poco tiene caro tiene, si dice a Napoli. Questa condizione mentale è totalmente sconosciuta alla generazione attuale.
La stampa tipografica ebbe il suo fulgore ai tempi della Serao. La moglie di Scarfoglio fu la prima a scuotere il dirigismo politico e difendeva tutte le categorie disagiate dei lavoratori, non di meno i tipografi: «Napoli - diceva - è il paese dove meno costa l’opera tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri...». Ciò accadeva nel 1906. Dopo due grandi guerre la situazione era immutata, se non peggiorata. Ricordo con amarezza le angherie umilianti che i tipografi, capi di famiglia, dovevano subire a salvaguardia del posto di lavoro.
Oggi, grazie a Dio, tutti i tipografi dipendenti hanno riscattato diritti e dignità, sebbene, in diversi casi la pizza degli abusi si sia rivoltata. Questo dimostra che non esistono categorie o classi buone o cattive, ma che la benignità e la malvagità sono delle condizioni mentali presenti in ogni uomo, e che insorgono secondo la posizione che si detiene, in base a quale lato si tiene il coltello. L’homo homini lupus di Plauto, quindi di Hobbes, è l’estremizzazione di una cruda realtà, anche se oggi alla luce della psicanalisi si tende, se non a giustificare, a capire i meccanismi di difesa-aggressione dell’uomo. Perdonatemi il tono messianico, il dare sempre l’impressione di correre sul filo della bravura e della filantropia, ma devo riportare un proverbio della raccolta di Annarosa Selene: Ci vuole un coraggio da leone per astenersi dal fare violenza ai deboli.

GIORGIO, AVANGUARDISTA AUTENTICO

Quando ripenso a Giorgio, vero maestro del colore, esperto di grafica artistica da riproduzione, mi prende il magone. Rimembro i tempi andati del dopoguerra, quando noi ragazzi campani venivamo coinvolti nei mestieri improvvisati dei grandi. Una volta tentai di fare il madonnaro: fu un disastro, la pittura non faceva al caso mio. Infatti non ho mai capito la pittura di Giorgio. Amavo il suo entusiasmo, il suo credere ciecamente alla propria opera. Diceva che nelle sue super-avanguardistiche tele vi era concentrata tutta la travagliata storia di Napoli, un popolo clown. Ricordo Giorgio nella sua grossa mole fisica, quando fece saltare la serratura della porta d’ingresso di Via Purgatorio con una spallata. Si difese subito dicendo che la nostra è un’epoca disonesta, perché fanno le porte di ricotta... «Desidero cento visita - aggiunse. - Lui’, me li devi consegnare… ieri».
Giorgio mi osservava, con la testa altrove, mentre infilavo nel gruppo di rulli della pianocilindrica dei fogli di prova stampati più volte allo scopo di sottrarre inchiostro eccessivo. Mi fece notare che quelle scartine avevano fatto tutte le guerre. Infatti erano fogli di avviamento, passati per la macchina più volte in un arco di tempo lungo. Dove compariva una scritta, dove un fondino carminio, più in là un tono di colore indefinito, e tanti altri elementi frammentari e alla rinfusa. Un risultato che a volerlo realizzare non bastava Picasso; una di queste scartine di cartoncino rigido non si arrotolò, riuscì spontanea dalla macinazione e veleggiò intrepida per adagiarsi docile ai piedi di Giorgio. L’uomo dilatò le pupille e tentava di dischiudere le labbra nello sforzo vano di profferir parola. Era in completa afasia, tanto che io sospettavo i sintomi incipienti del grande male. Raccolse la scartina con la cautela di un artificiere, la poggiò lentamente sul banco, indi mi si avvicinò e mi estorse dalla guancia l’adesione ad un bacio vigoroso, per fortuna brevissimo. Lacrimava di cuore, poi si dimenava nel corpo, batteva i piedi sul pavimento, indi faceva le fusa e sorrideva ebete.
Prima che incominciasse a rotolarsi per terra capii che provava una gioia autentica, puerile. Tra riso e pianto, tremante, in pieno orgasmo fece il gesto di rilasciarmi un assegno, poi, per mia sfortuna, si. rimise il carnet in tasca dicendo che una tale opera non aveva prezzo, il cui compenso non rientrava nelle sue possibilità. (Il suo conto corrente era sempre in rosso...).
Quella scartina, per me, onestamente, insignificante, fu la vita per Giorgio. Quando gli dissi, più dietro lo spavento che dietro la generosità, che poteva tenerla, ricominciò con quei, devo confessarlo, disgustosi baci a labbra piene. Fosse stato un russo o un mafioso, povero me! Quella scartina fu l’emblema del suo genere artistico, che, nemmeno nei momenti di pathos di più alta ispirazione, di maggiore follia creativa aveva saputo realizzare. Prese a sbaciucchiare la macchina tipografica, la fece lustra, (anche se un tantino maleodorante), come il gatto fa col proprio corpo.
Malgrado le apparenze paranoicali, Giorgio era tanto buono, non solo, pure culturalmente preparato, e di una intelligenza singolare. Si dirà: non vuol dire, ma e mille volte preferibile un folle buono che un equilibrato malvagio. Giorgio era quello che si suol dire un vero amico. Egli sfatava l’assioma di Pierre Reverdy: L’amicizia è una complicità e, quando cessa, l’amicizia svanisce.
Giorgio fu amico sino alla fine. Nel letto di morte cincischiava all’altezza dei precordi nel tentativo vano di raccogliere un portafoglio che non aveva mai contenuto più di tre o quattro banconote, voleva ripagarmi quella gioia che, senza alcuna fatica, involontariamente gli avevo dato cinque anni prima in quella negletta fucina di maestosi esempi di vita che e la mia bottega di via Purgatorio. Pensai, in lagrime, quanto basta poco per rendere felice un uomo rimasto lontano dall’affettata, adulta sedicenza, un uomo che aveva provato l’ebbrezza di sentirsi grande in una dimensione bambina. Una parte del mio smisurato amore per le arti grafiche è dovuta a lui.

LA STAMPA DI FOTO A COLORI

L’argomento relativo alla stampa a colori è così vasto e complesso che costerà fatica sintetizzarlo in poche parole. L’immagine a colori viene scomposta otticamente nelle sue tre tinte fondamentali per venire ricomposta in sede di stampa con i tre cliché retinati da sovrapporre. Gli inchiostri fondamentali sono il giallo, il magenta e il turchese, i quali, fusi insieme, grazie alla percentuale differenza dei puntini durante la sovrapposizione, ricompongono tutti i colori dell’immagine originale, persino il nero, ricavato con la somma dei tre colori fondamentali. Quando il nero ottenuto dalla tricromia non è sufficiente si provvede a creare il quarto cliché del nero, ottenuto con 1’uso di tutti e tre i filtri di selezione. Per ottenere il cliché che sarà stampato col colore magenta si userà il filtro verde; per il cliché del giallo si adopererà il filtro viola; per quello del turchese il filtro arancio.
Per meglio comprendere il principio del filtro basta tracciare su di un cartoncino bianco due zone colorate: l’una nera, l’altra rossa, Se si osserva il cartoncino al buio sotto la fioca luce di una lampadina rossa del tipo per camera oscura, sarà visibile solo la zona nera disegnata. La lampadina rossa ha rappresentato il filtro che ha sottratto il colore come per incanto. L’occhio vigile dell’apparecchio fotografico si comporta allo stesso modo. Tutti i cliché tipografici di zinco dello spessore medio di 2 mm. vengono montati con doppio adesivo su blocchi sistematici di duralluminio della stessa altezza del materiale tipografico (cliché compreso), in sostituzione delle vecchie basi di legno, mai rettificate. Oramai non si realizzano più quadricromie con i cliché zincografici, ma il procedimento della selezione dei colori è lo stesso non solo per la stampa offset, ma per qualsiasi veicolo di stampa antico o moderno. Le lastre litografiche, intanto, hanno bisogno, per essere esposte, di un positivo anziché un negativo.

LA MODA OFFSET

Con i clichè di zinco l’argomento della stampa a caratteri mobili è, per il momento, concluso. Tutti gli altri sistemi di stampa prescindono da quella rilievografica ideata da Gutenberg. La stampa offset, detta planografica (elementi stampanti e bianchi sullo stesso piano) è basata sul principio di repulsione tra l’acqua corrente e gli inchiostri grassi tipografici. La lastra offset, in ogni fase di stampa viene inumidita da un velo d’acqua dai rulli bagnanti, e immediatamente dopo unta da quelli inchiostranti. Le zone della lastra che dovranno risultare bianche sulla carta, predisposte al principio di repulsione dei grassi, rifiuteranno l’inchiostro, se umide; le zone costituenti il disegno e le scritte, malgrado l’umidificazione vengono perfettamente inchiostrate, sempre che l’umido non sia eccessivo. Viceversa, una eccessiva inchiostrazione imbratterà, se pure irregolarmente, le zone di bianco. Realizzare una lastra o matrice offset è più semplice di quello che si pensa. Il montaggio positivo: supporto trasparente con zone stampabili nere, viene posto a perfetto contatto con la lastra pre-sensibilizzata per la fase di esposizione a luce attinica. Le lastre offset sono positive per un processo di inversione del materiale fotosensibile, onde agevolare il montaggio che in positivo è più facile. La fase successiva all’esposizione è molto semplice perché non è previsto nessun processo di acidazione come per i cliché di zinco.
Le matrici offset vengono sviluppate attraverso lo strofinio piuttosto vigoroso di un tampone manuale con alimentazione progressiva di un solo bagno. Immediatamente dopo le lastre, se non vengono subito adoperate per la stampa, vengono protette dall’ossidazione tramite un velo di gomma applicato con un tampone imbevuto, La gomma, essiccata, viene asportata con acqua solo quando la macchina offset è pronta per l’abbrivaggio. Mentre la realizzazione di un clichè di zinco costituisce solo una delle numerose fasi di preparazione dell’assemblaggio in piombo, la lastra offset rappresenta la matrice grafica completa, il supporto, cioè, come unico elemento matrice di tutto un preventivo lavoro fototecnico realizzato sui tecnigrafi, con la fotocomposizione, nella camera oscura, sui banchi luminosi di montaggio o addirittura totalmente impaginato a video.
Il materiale del grafico offset e costituito essenzialmente da immagini nere su supporti trasparenti. I neri sostituiscono i caratteri tipografici e i cliché di zinco; le trasparenze: la marginatura. Il lavoro di montaggio sugli astralon e idealmente simile a quello della composizione tipografica. Tipografia come mosaico, offset come collage. Il montaggio classico relativo alla realizzazione della lastra offset avviene posizionando l’astralon a contatto su di un foglio millimetrato trasparente che favorisce il calcolo delle distanze, gli allineamenti, ecc. Il sistema offset incomincia a rientrare nell’ordine di idee anche delle botteghe tipografiche dell’angolo che provvedono all’acquisto di una piccola macchina. Sono comunque sprovviste della fotocomposizione, ancora di costo elevato, fino a qualche anno fa si realizzavano le lastre fotografando le bozze tipografiche. Negli ultimi tempi si è diffusa una configurazione computeristica modesta, a basso costo, denominata Editoria d’ufficio che è antata via via sempre più perfezionandosi e arricchendosi. Il sistemia non equivale, pero, alla fotocomposizione, soprattutto a causa della bassa definizione (massimo 1200 punti a pollice col sistema laser), ma idonea per tutti i lavori di piccola entità senza grosse pretese qualitative.
A contribuire allo sviluppo dell’offset sono le evoluzioni tecniche. Le moderne macchine elettroniche dette a scansione, per esempio, hanno completamente automatizzato la selezione dei colori. I vecchi cromisti sono scomparsi insieme alla loro partecipazione emotiva a quel complesso lavoro. Forse le selezioni di colori saranno meno personalizzate con i prodigisell’informatica, ma non si può dire che siano scadenti o imperfette. Le macchine consentono maggiori controlli, correzioni preventive sulle maschere, su cui è possibile agire con ogni sorta di elaborazione. Il montaggio degli elementi selezionati viene fatto su di un’unica traccia detta viola, costituita da un supporto fotosensibile su cui viene impressionata la struttura generale del montaggio. Il colore viola, come falsariga dell’immagine da sovrapporre, è neutro per la luce attinica. La viola è indispensabile per garantire la perfezione micrometrica dei retinati selezionati da sovrapporre l’uno sull’altro, incerta ed imprecisa se eseguita montaggio su montaggio.

CENNI SUL ROTOCALCO

Noi meridionali spesso accusiamo qualunquisticamente sempre la dirigenza politica. I settentrionali, dal canto loro, attribuiscono le cause del lento sviluppo del sud all’inerzia del popolo stesso dovuto a fattori storici, ambientali, climatici, ecc. E quando si ricorda che i nostri emigrati a Milano o in Europa sono quelli che producono di più viene risposto che essi vengono fuori dal guscio, cambiano clima e mentalità e dimenticano storia, costumi e abitudini, ma soprattutto, vengono condizionati dall’ambiente produttivo, umano e meccanico sopra la molla dell’emulazione. Comunque vadano le cose la realtà è inequivocabile, nel settentrione d’Italia vi sono diecine e diecine di officine grafiche di grossa entità, molte delle quali adottano il sistema rotocalco. Nel sud questi impianti si contano sul naso. E pensare che il primo rotocalco illustrato fu napoletano.
Il rotocalco, come ho gia detto in precedenza, deriva dall’antica calcografia. Abbiamo pure visto che il sistema offset prevede matrici di stampa caratterizzate da elementi stampanti e bianchi disposti sullo stesso piano e che vengono differenziati dal principio di repulsione acqua e inchiostri grassi. Inoltre sappiamo bene che il sistema tipografico, esente da tali processi chimici, sfrutta l’antichissimo principio dell’incisione xilografica, rilievi: stampa, incavi: bianco. Le matrici rotocalcografiche, invece, curve perché montate o costituite da cilindri di rame, sfruttano il principio della vecchia incisione calcografica. (Rilievi: bianchi, incavi: stampa).
La preparazione di matrici rotocalco prevede sempre il solito montaggio fototecnico. L’incisione del cilindro avviene tramite acidazione come per i cliché di zinco. Dopo che è stato trattato con uno strato di gelatina fotosensibile, all’atto dello sviluppo rivelerà spessori diversi in relazione ai vari toni dell’immagine. Là dove la gelatina è meno spessa (zone scure) l’acido scaverà in maggiore profondità; dove è più spessa (zone chiare) l’acido avrà meno tempo di morsura per cui gli alveoli saranno meno incavati. La diversa profondità degli incavi determinerà i toni dell’immagine in tutta la gamma dei chiaroscuri. Tutto il cilindro è comunque alveolato in maniera uniforme poiché non è lo spessore degli alveoli che accumulano più o meno inchiostro, ma la loro profondità. Più profondi sono gli alveoli di un tratto, maggiore inchiostro assorbirà la carta. Gli alveoli poco profondi trasferiranno poco inchiostro e daranno zone grigie. L’assenza di alveoli darà il bianco.
Il cilindro rotocalcografico viene “innaffiato” con lo spruzzo di inchiostro liquido, alimentato da una pompa. Il colore, ad essiccazione rapidissima, inonda gli alveoli, mentre una racla deterge subito gli eccessi. Sulla carta viene trasferito solo il contenuto delle incisioni. Per ovviare alla durezza della stampa rotocalco, rispetto alla morbidezza delle immagini consentita dagli altri sistemi, si usa retinare tutto il cilindro rotocalcografico, anche nelle zone totalmente nere costituite da titoli e testo. Le immagini si ammorbidiscono, ma i caratteri piccoli perdono di nitidezza. Se osserverete i caratteri di testo su di una qualsiasi rivista rotocalco, noterete tanti mezzi puntini specie intorno alle lettere piccole. Con una lente d’ingrandimento distinguerete la retinatura. L’alveolatura, chiaramente, è invisibile. Devo aggiungere che negli ultimi tempi si è tentato con successo di variare i punti del retino relativo alle tonalità, ciò solo nei toni più chiari della scala dei grigi, esattamente fino al 50%. Oltre questa intensità di chiaroscuro agisce solo la profondità degli alveoli. La stampa rotocalco è il veicolo che maggiormente gonfia le edicole. Quando si parla della stampa relativa alle edicole le lettere dell’alfabeto, messe l’una dietro l’altra, formano distanze che bisognerebbe misurarle in anni luce. Per fortuna il linguaggio dei rotocalchi non viene dottrinalizzato ma è conforme ad uno strumento convenzionale di realtà esteriore. Forse il linguaggio più giusto, perché assimilato da tutti. Ma dice Humboldt: Il linguaggio ha origine ogni qual volta si parla. Le centinaia di riviste illustrate che settimanalmente affollano le edicole adoperano la lingua d’uso corrente per motivi commerciali, rasentando appena quella letteraria, espressiva, tecnica, aulica o settoriale delle librerie. Il successo di queste pubblicazioni è dovuto alla stessa edicola, sempre a portata di… piedi, il principale veicolo di distribuzione di letteratura di massa facile e popolare.

LA CULTURA NAPOLETANA MEDIOEVALE ALL’APICE DEI CODEX
E QUALCHE DIVAGAZIONE

E’ arrivato il momento di trattare la stampa serigrafica. Intanto faremo un’altra sosta nel passato napoletano con la macchina del tempo della nostra fantasia. Ritorniamo al medioevo nel periodo di maggiore produzione dei codex. Il primo utilizzo della stampa serigrafica, però, risale a tempi molto remoti, poi l’impiego si dileguò nel tempo perché inadeguato agli interessi prevalentemente culturali dei due millenni. Il consumismo del XX secolo l’ ha riportata alla luce. La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che ritornano e riflussi. Nel medioevo la serigrafia non è mai stata applicata. Le esigenze di decorazione si limitavano a supporti come carta, pergamena e affini stampabili con la xilografia e la calcografia. I testi scritti venivano prodotti dalle officine scrittorie, che a Napoli furono sempre numerose, grazie ai monaci. La stampa serigrafica ha poco da spartire con la cultura, in passato come oggi, ad eccezione dell’arte pittorica, estesa alla grafica in serie, poiché la pubblicità a cui essa è asservita, vanta oggi, bisogna riconoscerlo, delle inconfutabili forme d’arte. Il medioevo napoletano ricorda una tappa importante per la cultura, la fondazione dell’Università di Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero il Normanno a volerla si sono da tempo dissipati dietro studi e ritrattazioni. Tutti sono concordi che il fondatore di questa fucina di geni della cultura partenopea fu Federico II di Hohenstaufen, meglio noto come Federico II di Svevia. Si dice fosse un uomo colto, chissà con quale parametro, però, lo si giudicasse; voglio sperare non quello della casata, poiché è trito il concetto che nobili non sono i ricchi, ma quelli che fanno nobili cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla influenza della Scuola Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche Federico operava, fu al centro della cultura italiana dell’epoca.
L’Università (è palese a tutte le matricole che si accalcano nell’austero edificio ad angolo tra Via Mezzocannone e il Rettifilo) sorse nel 1224, indi furono istituiti gli studi maggiori: filosofia e teologia, tanto per variare. Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il quale, accomunato a tutti i frati dei famosi ordini Domenicano e Francescano, diffuse la cultura in tutto il regno. Sorrido al ricordo delle imprecazioni degli studenti che mi supplicano, nella bottega di Via Purgatorio, di allestire la loro tesi in un paio d’ore, ciancicando ilari ingiurie all’indirizzo dei baroni bianchi.
Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di baronato doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona pace di S. Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un intellettuale geniale e di un religioso fervido e sincero. In più i frati, in quel periodo, dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le cattedre, poiché tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si presumeva, ovviamente, patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in ultima analisi, la lotta tra Impero e Papato non ostacolò di molto la diffusione della cultura di priorità teosofica dei cattedratici santi e dei copisti monaci. Anche Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans. Non come S. Tommaso, naturalmente, che divenne domenicano proprio a Napoli. Quando l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora non già stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla preghiera. Infatti, a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice: bisogna nascere, Ercole o santo!
Cultura e movimento letterario ben vennero anche da parte dei Frati Minori, gli umili francescani, che sostennero quella cultura teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica. Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera il Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.
Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta il paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di frequente si abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime pulsioni dietro il paravento descrittivo degli angelici tratti somatici femminili. D’altra parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo argomenti validi, e quali più de: la donna e l’inferno, cosi connessi alla luce della psicoanalisi?. Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a fare il letterato, doveva attendere l’era gutenberghiana. La figlia Beatrice non sarebbe finita in convento perché priva di dote. Dante è l’emblema del: Carmina non dant panem. Un esempio per il sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla penna alla legatoria, restano nella dimensione degli artisti della domenica o degli scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del dono con la dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è nemmeno velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare, diffondere quello che sa e quello che penza.
Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza di scomunica del Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del Clero dotto, sino a lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di colpa, comunque, non risparmiano nessuno. Federico II sentiva di tiranneggiare i napoletani, che si ridussero a poche migliaia, spostandosi in provincia. Forse proprio per questo fondo 1’Università a Napoli, (oltre che per la sua passione per lo studio) e qui si devono fare le dovute riserve. Fu per riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo scarso apprezzamento di certe iniziative, comunque di stampo aristocratico, con cui i napoletani medioevali avevano poca dimestichezza, il popolo non si vedeva ripagato con tale ripiego, a giudicare dai sostanziali e più emergenti privilegi di cui veniva privato; in secondo luogo la moltitudine non sapeva neppure apprezzare l’importanza dello «Studio Generale», destinato a primeggiare sulle altre Università del territorio peninsulare.
A giudicare dallo stato di degrado urbano e socioculturale della cintura vesuviana, sembra che l’evoluzione etico-culturale e civica non sia mai avvenuta e che il livello di questi valori sia stagnato nella misura in cui era verso la fine del primo millenarismo della storia. Non v’è più possibilità di smottamento e di sensibilizzazione. C’è, oltre la buona volontà di alcuni, un muro di gomma. Pubblicai, 1’anno passato un libro fotografico di Torre del Greco antica con relativa nutrita introduzione, allo scopo di rispolverare il meglio di un passato appena prossimo. A parte 1’interesse legato alla componente nostalgica non ho avuti altri riscontri. Nemo propheta in patria? O v’è il sospetto del secondo scopo su iniziative che non beneficiano di contributi comunali? Questo è un altro aspetto caratteriale drammatico che si è insinuato nel mio popolo, che in fondo amo insieme alle pietre della città, la certezza del secondo scopo, irreversibilmente.
Nella mia bottega di Via Purgatorio guai a consigliare un tipo di carta: è perché lo si ha in eccedenza; un tipo di carattere: è perché non se ne ha abbastanza. Tutte le buone opere, secondo la gente d’oggi, dovrebbero avere un fine recondito legato al lucro. Ma se il danaro, in fondo, non è che un mezzo per ottenere rispetto, stima, ammirazione, perché non potrebbe essere l’opera buona lo strumento diretto per ottenere ciò, senza mezzi venali?
Ciò accade quando il capitalismo impera col suo Vangelo: il consumismo, le sue chiese: le multinazionali e il grande esercito di operatori pastorali: gli agenti di commercio, tutti avvinghiati alla massa abbindolata dei consumatori, mai sazia, perché non si accorge di comprare solo illusioni. Ciò accade, purtroppo, quando le arti grafiche sono per il settanta per cento asservite alle spietate leggi di mercato; quando le democrazie si crogiolano nella demagogia e numerose incrinature di corruzione guastano come la malerba tutta la fioritura etico culturale positiva di un’era. L’arte della stampa per insufflare nel popolo pure buoni propositi non c’era alla fine del primo millenarismo della storia che, grazie a Dio, non vide la fine del mondo (e chi sa se la vede il secondo, lasciando guadagnare la palma ai Testimoni di Geova anziché all’evangelista biblico). (Oggi 2002, non l’ha vista. N.d.r.).
C’è crisi di contenuto. Le ciarle messianiche ed idealistiche potevano convincere allora, nella mia Torre del Greco e nella Campania tutta, sebbene si registrasse il novanta per cento di analfabetismo. La cultura era esclusivo patrimonio dei pochi iniziati, per lo più appartenenti alla casta clericale o a quella della gerarchia regnante. Nessun figlio ’e Peppe ’o fravecatore de La Torre de lu Grieco, o di Giuvanne ’o pisciavinnolo, di S. Lucia sognava una cattedra, non solo, ma di fare il bidello negli «Studi Generali» alias Università, tanto meno di avere la potenzialità di uscire dall’epidemico analfabetismo medioevale. Disordine e degrado erano di casa intorno al Vesuvio anche allora, ma a causa dei frequenti mutamenti politici dovuti alle dominazioni. Precarietà, inclinazione alla dissidenza e all’eslege che lasceranno l’impronta caratteriale fino al popolo vesuviano d’oggi, sempre disposto agli adattamenti ed ai ripieghi sregolati, alla tolleranza del malcostume urbano e dirigenziale, dietro rassegnate reazioni di malcontento, come si fa contro l’ineluttabilità del destino. Forse e un’ altra delle equilibrate forme di scaltrezza di fronte ad una realtà difficilmente mutabile, allora perché consci di disporre della fatua difesa dell’ignoranza, oggi ben consapevoli dell’irreversibile stasi politica dei paesi allineati, dovuta al deterrente atomico. E’ forse una filosofia ancestrale che aiuta a sopravvivere e ad evitare ulteriori annichilimenti come quello relativo all’ultima guerra mondiale.
Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica, grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione. Certo era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la quale pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna sacra nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino, a cui ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.
Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi vesuviani, sin d’allora, anche per un’atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la passionalità distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna, nel napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane); oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale; possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della donna, che prevale sugli altri ruoli.
Gli scriptorum e le tipografie hanno in fondo diffuso queste concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma, amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado gli sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro, come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro il mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là che si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il globo terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie culturali durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi altrettanto lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni, ma sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c credenze millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso, tutto lo sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione della stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta indubbio, allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della diffusione di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio, via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di risate.

LA SERIGRAFIA

Il sistema serigrafico si rivolge esclusivamente alla grafica commerciale e in modo speciale al settore pubblicitario, a prescindere dalla serigrafia artistica. Le matrici serigrafiche in origine erano costruite con seta (da qui seri-grafia). Poi furono utilizzati i tessuti di taffettà sino alle moderne fibre sintetiche, più resistenti ed economiche. Oggi si usa principalmente nylon, poliestere e tessuto metallico (acciaio inossidabile). Il nylon è quello adoperato nella maggior parte dei casi. La matrice serigrafica ha l’aspetto di una tela prima di essere montata in cornice. La seta viene fissata al telaietto di legno con punti metallici o colla speciale resistente ai solventi. Pochi operatori realizzano un telaio serigrafico col metodo cosiddetto indiretto, idoneo per lavori retinati o di alta definizione. Conosco il metodo dietro esperienza libresca. Il sistema indiretto utilizza anche film fotosensibili che, una volta trattati, vengono fissati sulla seta. Il metodo diretto, diffuso è semplicissimo, è quello che viene praticato persino nelle scuole o nelle abitazioni di artisti. La prima fase di preparazione delle matrici è quella fototecnica, come per tutti gli altri veicoli di stampa. Il montaggio e 1’assemblaggio è pressoché uguale a quello per realizzare cliché tipografici, lastre offset, ecc.
Il tessuto di questi quadri da stampa può essere a maglia stretta o larga allo scopo di consentire più o meno uso d’inchiostro sui supporti da decorare. I serigrafi sono una minoranza rispetto ai tipografi, non per questo, però, vi è scarsa possibilità di apprendistato, anche perché le attrezzature si limitano a pochi elementi facilmente collocabili in qualsiasi ambiente. Napoli, tanto per variare, è in critica posizione geografica circa i produttori ed i distributori di materiale serigrafico, per cui è difficile attingere informazioni sulle continue evoluzioni chimiche e tecniche di questa branca della tecnologia poligrafica. Intorno al Vesuvio i fornitori si contano sulle dita di una sola mano e si limitano alla competenza del servizio commerciale. Le aziende serigrafiche campane fanno capo direttamente ai produttori del nord, che nella maggior parte dei casi sono dei confezionatori perché importano dall’estero le materie prime e le norme d’uso.
Ora vediamo, a pochi centimetri dal naso, come avviene il fenomeno serigrafico. Sul telaio viene spalmato uno strato di gelatina a base di alcool polivinilico, con l’aggiunta, al momento, di una piccola percentuale di bicromato di ammonio, onde renderla fotosensibile. Il telaio viene fatto essiccare a luce attenuata in appositi armadi. (Io ho sempre usato con successo un paio di stufette ventilate). La gelatina è al massimo della sensibilità quando è completamente asciutta. Una sensibilità relativa per la luce normale, ma alta per la luce ultravioletta. Ciò allo scopo di consentire maggiore liberta di manipolazioni in ambienti normalmente illuminati. Le pellicole (positive) o il montaggio di esse, vengono poste a contatto con il tessuto serigrafico occluso dalla gelatina sensibilizzata ben asciugata, quindi si procede all’insolazione, non per la strada, naturalmente, ma in appositi torchi a pressione meccanica con luce della medesima frequenza di quella solare. Ad esposizione conclusa il telaio viene sviluppato con getto a doccia d’acqua corrente, preferibilmente tiepida. E’ accaduto che la luce ha indurito la gelatina in quelle zone trasparenti della pellicola fotografica, mentre le zone nere, in pratica lo scritto o i disegni, non essendo state colpite dalla luce, perché mascherate, si sono sciolte sotto la doccia. Solo in queste zone 1’inchiostro avrà la possibilità di essere erogato attraverso la pressione di uno spremitore o racla, che farà l’andirivieni copia dietro copia, all’interno del telaio.
Nel caso di più colori bisogna preparare tanti telai per quanti sono i colori da sovrapporre, come tutti i sistemi di stampa. La realizzazione di un’immagine a colori retinata è complessa e difficoltosa con il sistema serigrafico, in primo luogo perché i punti del retino si confondono con le maglie del tessuto, che in questo caso sarà abbastanza largo e di metallo onde evitare problemi di registro; in secondo luogo gli inchiostri serigrafici hanno come prerogativa l’intensità e la coprenza, per cui i colori fondamentali non si fondono bene per ottenere i toni intermedi.

TOTONNO PEZZE ’NCULO E VICIENZO PIERE PE’ TTERRA

L’arte serigrafica si è dequalificata sul nascere, a Napoli; il motivo lo troverete da soli nella storiella che segue. Un minimo impianto serigrafico si limita, si può dire, al solo materiale di consumo: telaio e inchiostro. Molti circumvesuviani hanno annoverato questo mestiere tra le migliaia improvvisati da secoli. Questo contribuisce al degrado (noi diciamo lo sputtanamento) di certo lavoro specialistico, perché le ditte regolari, soggette ad oneri vari, si vedono anch’esse costrette a mirare alla quantità, a discapito del pregio qualitativo.
Ed eccoci arrivati a Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra. Tutti sanno che i soprannomi riflettono la personalità, il mestiere, la condizione di un individuo, quindi potete già farvi un’idea della morale della favola. I due tipografi in questione erano ubicati sulla stessa strada 1’uno di fronte all’altro. La spietata lotta commerciale durava da ben cinque lustri. Non si contavano le aggressioni fisiche, le rappresaglie, i boicottaggi. Sulle due fazioni nacque un vero mercato nero, giochi d’azzardo, ecc. Si scommetteva su chi rompeva prima la testa all’altro, sul numero dei clienti che entravano in ciascuna bottega nell’arco della giornata e via discorrendo. Scrivani e assistiti lavoravano a tutto spiano, tra cabala e smorfia. Insomma nacque un’attività economica che arrotondava i magri stipendi del vicinato. Intanto, i due, durante le tregue lavoravano come turchi, poiché a mano a mano che i costi si riducevano, la clientela diveniva sempre più nutrita. Quando le prestazioni raggiunsero il costo zero Totonne pezze ’nculo e Vicienzo piere pe’ tterra dilapidarono tutte le loro risorse e mandarono le fami- glie sul lastrico. Quella strada morì nel senso commerciale. I “bancarellari” tentarono nuovi siti. Gli scommettitori ripiegarono con il toto nero. In tutto il quartiere aleggiava un’aria di detrimento.
I due ambulavano nel quartiere, boccheggianti per l’inedia, dimessi e malnutriti, il viso grinzoso ed emaciato. Un giorno si incontrarono. Non si azzuffarono, non avevano altra forza che quella della disperazione. Non si sa bene se si abbracciarono nel tentativo di non buscarle, come fanno i pugili, o se si caddero addosso per il deperimento. Fatto sta che decisero all’unisono di fare appello al buon cuore dei passanti. Col viso smunto, non rasato, rattoppati e semiscalzi, puntualmente, ogni mattina occupavano le postazioni dei sagrati di due chiese, guarda caso, prospicienti l’una all’altra. Trascorsero alcuni mesi e, se pur non navigavano nell’oro, li si vedeva più nutriti, rasati, con banchetto con urna per ricevere l’obolo senza la mano tesa, il telone controvento, la ceneriera, il mazzo di carte, il minibar nel banchetto, ed i ringraziamenti formulati in locuzioni rivolte ai defunti, stampati in cartoncino formato visita per le 500 lire, in pergamena per le 1000, in papiro originale dell’antica Cina, made in Forcella, per le 10.000. Ma un giorno 1’uno notava maggiore affluenza sull’altro sagrato e decise di scemare le tariffe. Dichiarare la guerra ad una grande potenza era meno grave. Aggressioni. Parolacce. Boicottaggi. Teste rotte. E ancora: bancarelle. Assistiti. Scommesse. Insomma un altro quartiere di Napoli si risollevò dalla secolare indigenza. Totonne pezze’ncule e Vicienzo piere pe’ tterra questa volta finirono in mutande, alla lettera. Distrutti dalla fame, annichilati nel disonore perirono e furono inumati, destino infame, l’uno dirimpetto all’altro in un povero viale del camposanto, a pochi passi da un cenotafio e un famedio. Ma accadde... (Intelligenti pauca).

LA FLESSOGRAFIA

I clichè per la stampa flessografica vengono ottenuti tramite la copiatura meccanica di una normale composizione tipografica. La stampa flessografica è idonea per alcuni lavori di cartotecnica; per decorare la carta da imballo, per fabbricare timbri, ecc., lavori, comunque, per cui non si richiede una eccezionale qualità di stampa. Il procedimento per 1’esecuzione di una gomma flessografica è, appunto, pressoché simile a quello per la fabbricazione dei comuni timbri di gomma. La composizione tipografica di piombo viene fatta imprimere a caldo in un cartone speciale detto flan o flano. Si tratta di un composto relativo alla chimica organica, che ha sostituito il gesso o il piombo dolce di una volta. La composizione viene introdotta in una pressa che dispone di due piani di pressione riscaldati a 120-140 gradi. I caratteri poggiano sul piano inferiore, naturalmente. Sulla composizione viene adagiato il flano dal lato trattato per lo scopo, quindi si procede lentamente al pompaggio, nel caso di pressa idraulica, affinché i due piani si accostino e i materiali subiscano il solo contatto. Il flano, ammorbidito dal calore (120-140°), penetra lentamente sul rilievo dei caratteri conservando 1’impronta una volta raffreddato. Estratta la composizione si provvede ad introdurre il sandwich composto dal flano (negativo) e la gomma che dopo la penetrazione a caldo sarà positiva. Abbiamo ottenuto un cliché di gomma flessibile da applicare con doppio adesivo ai cilindri delle macchine flessografiche.

LE STEREOTIPIE

Attraverso un analogo sistema, già accennato in precedenza, ma più complesso e laborioso, si realizzavano le stereotipie dei quotidiani, procedimento scomparso. Le stereotipie per le rotative di giornale conservano la caratteristica del rilievo tipografico. Ciascuna composizione linotypica e a caratteri mobili: testo, titoli, pubblicità, cliché, ecc., insomma la pagina di giornale, viene introdotta in una pressa simile a quella descritta poc’anzi. Sulla pagina composta viene adagiato il flano fabbricato con sostanze chimiche diverse poiché esso, dopo la formazione dell’impronta, deve rimanere flessibile per assumere la forma semicilindrica delle matrici da rotativa. Il flano viene pressato lentamente sulla composizione perché, con l’ausilio del calore, avvenga la formazione completa dell’impronta incisa in tutti i suoi particolari, compresi i microscopici puntini delle immagini retinate. Il flano speciale viene inserito in una fonditrice semicilindrica essendo, ormai, una matrice negativa di fusione. Il piombo viene fatto erogare nella forma a fondere curva, quindi solidifica a contatto del flano raccogliendone 1’impronta positiva. Le stereotipie di piombo vengono fresate e pulite nelle parti eccedenti perché possano essere montate perfettamente sui cilindri della rotativa. I numerosi giornali che hanno raccolto le nuove tecnologie dette a freddo, per distinguerle da quelle a caldo (piombo fuso), utilizzano lastre offset per rotative predisposte a questo sistema. Il sistema rotocalco, invece si adatta a tutti i periodici illustrati ebdomadari.

PAOLO FRINGUELLI, GIORNALISTA SUI GENERIS

Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo foglietto quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro comunale o poeta della domenica. Egli è uno strano filosofo che tira quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio. Il contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non si parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di Paolo Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro occhiali enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano o ideal-politico-cristiano, come meglio viene, che postula la giustizia sociale attraverso le sole pacifiche (? ) armi: carta, penna e calamaio. Questa particolare forma di giustizia, però, pretende un riscatto dei brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il negativo storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori materiali universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad esempio, i ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali, tutto sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole diverse, un classismo alla rovescia. Creare un’ inversione di interessi, un modello sociale di valori pratici più vicino alla massa. Egli è convinto che ciò sia possibile poiché la massa è più numerosa, e, da che mondo e mondo, la maggioranza vince.
Si dirà, ad esempio, alla vista di una bella ragazza: Pussa via, bella e oca che non sei altro, che hai la marmellata al posto del cervello? Oppure: Disgraziatò di un possidente, non ti aovicinare, sa’, con la peste bubbonica della ricchezza, con la tua solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati la tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà all’inferno te per primo, e via ciarlando.
Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei vaneggiamenti filosofici, dall’illusione degli ideali politici, eccetera, eccetera. «La cultura è 1’informazione, caro il mio tipografo conformista - mi disse - fraternizza il figlio del ricco con quello del povero ed entrambi vanno nei fondelli ai genitori».
Paolo Fringuelli si desta puntualmente alle quattro del mattino, ciclostila in fretta tutto ciò che rimugina durante la notte. Alle dieci in punto esce la sua edizione quotidiana che distribuisce a mano personalmente, ogni giorno in un paesello della provincia. A Napoli non sarebbe mai più andato perché un paio di volte… «Mi indofarono di mazzate, chilli chiaveche! Fai bene, va’!». Gli risposi che il prezzo che pagano i profeti è caro. Ci sedemmo su di una panchina nella Villa Comunale di Torre del Greco, e gli chiesi perché ce l’avesse in particolar modo con i fondelli dei suoi nemici. Ed egli per tutta risposta mi accusò di essere certamente un tipografo venduto al sistema, una pedina della società capitalistica.
Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo, era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene a tutti, prima o poi, con la mia passionale tendenza all’analisi, ma compromessa, spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si può. Dopo me stesso, vedo tutti come bambini cresciuti; in questo modo si riesce ad intenerirsi a cospetto dei malvagi, dei pazzi, dei maniaci pure cruenti. Veder le loro carcasse d’adulti, non richieste, come scafandri sui loro corpi minuscoli, con quei ditini mirmicolanti; quasi sempre bimbi vessati, soffocati dalle angherie forse inconsapevoli dei genitori e degli educatori. Poveri assassini, poveri maniaci, poveri malvagi, (si fa per dire) quanto male hanno ricevuto le loro testoline in formazione, quanta indifferenza ed incuria, per essere condannati a divenir tali, a vegetare nella loro irreversibile maledizione. Forse noi sani che giustamente li condanniamo dovremmo espiare la nostra piccola parte di colpa, non altro la diffusissima politica dello struzzo, proprio quella che da noi talvolta fa pensare: Ad un palmo del mio sedere faccia chi vuole!
Ma noi genitori, meno degli educatori, non siamo psicologi, e soprattutto molti di noi siamo degli incoscienti bambini cresciuti, quindi agiamo in buona fede pur quando commettiamo errori gravissimi. Per fortuna i casi gravi sono ancora contenuti, pure nella mia terra. La maggioranza, male che vada, pecca solo di connivenza, forse allo scopo di non peggiorare situazioni scabrose. E vabbuono, nun fa niente; chiurimme n’uocchio; E’ cos’ ’e niente; Scurdammece ’o ppassato. Questa è la filosofia del popolo vesuviano buono, pacifico, ma lontano dal concetto di codardia, una maggioranza di popolo inquieta, che anela il convivere sereno e civile, ma che si disorienta sempre più. Il negativo nella nostra terra è rappresentato da una minoranza più esigua di quello che si pensa, ma lo sanno pure i neonati cosa provoca una pera marcia in un paniere di pere buone. Dissi a Paolo Fringuelli: «Non ricordo chi ha detto: l’illusione di ogni ideologo è quella di lusingarsi di cambiare il mondo, ma esso è fatto non gia di deliri mistici di tante idee separate, ma di tanti istinti separati, i quali, quando fraternizzano, finiscono sempre, in un modo o nell’altro, col farsi male a vicenda».