TERZA PARTE
Ogni
progresso è basato sull’universale desiderio,
innato in ogni organismo, di vivere meglio di quanto
consentano le sue entrate.
«Taccuini» - Samuel Butler
CAP. IV
MATERIALE TIPOGRAFICO E PROGETTAZIONE
L’artista e l’ultimo a farsi illusioni della sua
influenza
sul destino degli uomini. L’arte non è una forza,
è soltanto una consolazione.
“L’artista e la società” - Thomas
Mann
LA CULTURA NAPOLETANA ALLE ORIGINI
Come ho accennato nel capitolo precedente Napoli
non ha una sua storia della stampa, tranne notizie frammentarie che si
possono attingere qua e là. Mentre, ad esempio, come abbiamo visto, la
stampa veneziana in un certo senso predominava sulla cultura, nel
Napoletano la stampa si asserviva alla cultura allo scopo di potersi
espandere. E poiché mi accingo a stendere vari flash di compulsazione
libresca relativa alla cultura napoletana, nella maggiore relazione
possibile all’arte amanuense e a quella gutenberghiana, dovrò partire
dalle origini. L’ossatura tecnica di questo capitolo è quella
strutturale delle officine, dal materiale tipografico alla
progettazione. Anche questo capitolo, pertanto, allo scopo di lenirne l’asetticità,
è farcito di dissertazioni di vario genere.
Vedremo cosa accade nell’intimità delle officine e proveremo, mi
auguro, lo stesso fascino che ci fa avvertire la storia antica, come, ad
esempio, quella inerente la cultura napoletana. Sebbene diversi
napoletani o meridionali in genere non abbiano poi quell’eccessivo
entusiasmo per le lettere, si dice che un primo ordinamento dottrinario
in Campania si ebbe col Sacrario della Sibilla Cumana in opera gia dal
VII secolo a. C. I cumani, dunque, diffusero l’alfabeto nel
Napoletano. Nessuno leggeva libri a Napoli, a parte i pochi iniziati, ma
la storia veniva tramandata verbalmente con i fattarielli di
sempre. Tanto più le leggende stavano sempre sulla bocca di tutti. Il
popolo conosceva il poetico mito delle sirene fatto vivere nel nostro
Golfo da Omero, sul quale, a furia di studiarci sopra non si sa più non
già se sia esistito egli, ma la stessa Grecia, o l’Italia dove
poggiamo i piedi. Questione omerica permettendo mi piace dire che 1’eroe
di Itaca approdò a Ischia e fece fuori le tre figlie del figlio di
Tetide in grado di imitare il canto melodioso della madre. Dice… ma
che c’entra questo con 1’arte scrittoria? La letteratura riguarda la
storia e 1’arte, la quale era in pieno fervore quando la città di
Neapolis nacque nel V secolo a. C. Pur essendo un piccolo centro
commerciale da fare invidia ai milanesi, la città non era insensibile
all’influsso artistico e culturale ellenico. Quello romano, invece, di
influsso, Napoli 1’ebbe, come molti sanno, con 1’opera letteraria di
Marco Tullio Cicerone, (e chi volete che non lo conosca), il quale si
fece costruire il Cumunan nella zona flegrea. Questa villa
fungeva anzitutto da centro culturale, a parte qualche bisboccia, ma una
di quelle eruzioni che hanno puntualmente sempre distrutto la mia Torre
del Greco (che il Vesuvio 1’ha come copricapo) rase al suolo la casa
del retore intorno al Lago d’Averno. Questo nel 1538. Dicono gli
storici che Cicerone abbia composto Academica e Repubblica,
in quella casa, ma vallo a controllare se ti riesce. No, perché col
senso campanilistico che ci ritroviamo, non è difficile che si possa,
in qualche occasione, affermare che Dante abbia scritto a Forcella La
Divina Commedia, ispirandosi, in quanto a Beatrice, con
Nanninella ’e Portacapuana, e l’Inferno con la Solfatara di
Pozzuoli.
Freddure a parte, sappiamo bene che la Napoli romana ebbe, tra l’altro,
la sua brava Scuola Filosofica ispirata, nientemeno, che a1 pensiero di
Epicuro. E chi conosce le teorie del filosofo scioglierà da solo
molti enigmi sulle abitudini caratteriali del popolo circumvesuviano.
Questo movimento culturale sembra sia stato capeggiato da Filodemo e
Sirone. (Scusate il tono anfibolo frequente. Purtroppo, da un po’ di
tempo dalle nostre parti si e diffusa in maniera endemica la sindrome
dello statt’accorto. Vale a dire non ti distrarre un attimo che
in qualche modo ti fregano, non importa cosa: il borsello, 1’accendino,
la camicia o le scarpe, 1’aria che respiri, il posto macchina, il
sonno, 1’affetto, 1’amore. Insomma si sono verificati casi in cui
hanno fregato la fregatura stessa, rimanendo fregati. Cosi si finisce
col dubitare pure, perché no, della storia
ufficiale!). Si dice che lo stesso Virgilio era discepolo di Sirone, che
nella Napoli romana testimonia il fiorire della cultura di quel tempo.
A tutti coloro che pensano che 1’abbia vutata a pazziella,
dirò che è vero, giuste le
raccomandazioni della premessa sulla piena libertà concessami.
Aggiungo, però, che spesso, in questi casi si scrive secondo vena e
ambiente di lavoro. Questo libro, a parte la modestia, è
desueto soprattutto da un punto di vista particolare. Credo sia
uno dei pochi, se non l’unico libro al mondo, pensato, compulsato,
coordinato e redatto direttamente sulla macchina compositrice linotipica,
che, a differenza di una linda macchina da scrivere od un elegante
computer, è la più asimmetrica, complessa, grossolana, sincronizzata,
dirugginosa e conseguentemente fascinosa opera di meccanica evoluta mai
costruita. Immaginate intorno a questo aggeggio da terzo girone
lessici, testi di storia, manuali del settore e soprattutto le notiziole
relative a scaturigini che insorgono spontanee lungo la giornata di
lavoro, appiccicate dappertutto con lo scotch. E le correzioni o qualche
ripensamento non gia fatti attraverso cancellature e aggiunte a penna,
ma tramite uno spostamento meccanico ripetitivo di matrici nel
compositoio. Quindi parole poggiate sui tomi, frasi intere, composte,
dimenticate accanto al telefono. Una sera ho scordato un rigo intero di
matrici nel WC. Decisi di sospendere il lavoro perché mancavano molte
matrici di bassa cassa (le minuscole più usate) poiché
la scorta di ogni lettera e di circa 20 pezzi. Insomma un lavoro
da montaggio in macchina, come dicono i cineamatori. E così, secondo 1’umore
della serata salta fuori la pagina.
Cicerone, Virgilio ed Orazio, scusate se è poco, costituiscono le
fondamenta di quella cultura. Ma la città «otiosa»
di Orazio rappresenta la prima frecciatina della storia sulla nota
caratteriale oziosa dei napoletani, estesa, poi ai vesuviani tutti. E
già, perché l’entroterra campano,
appenninicamente più elevato sul livello del mare, favorirebbe maggiore
vigore fisiologico in contrapposizione al secolare deperimento dovuto
alla bassa temperatura costiera. L’accezione peggiore dell’ozio e
senz’altro connessa ai fenomeni climatici. In tutti i paesi
ipertemperati, dove si supera la soglia del parametro sudorifero, si
riduce il vigore delle attività fisiche ed intellettuali, tranne la
scaltrezza e 1’intelligenza che nell’ozio meditativo si acutizzano.
E nemmeno mi accingo, qui, ad esporre la fantasiosa teoria psicologica
per cui la scaltrezza o l’aggressività caratteriale si
riallaccerebbero a quei meccanismi reattivo-difensivi atti ad
esorcizzare il timore salvifico post-mortale relativo all’inferno, che
l’ipertemperatura terrena ci ricorda a livello inconscio in
connessione a certe morali coercitive di stampo religioso. Fenomeno che
si intensifica sempre più nei paesi caldissimi (vedi la densità
confessionale degli orientali e quali reazioni aggressive scatena ancora
oggi).
Dopo il periodo greco-latino della cultura napoletana la stasi perdura
fino alla letteratura latina medioevale del VII secolo, con la
conseguente disoccupazione cronicizzata degli scribi del tempo. L’arte
applicata della tipografia partenopea ha sentito 1’influenza della
cultura greca delle origini per alcuni tratti caratteriali del tipografo
vecchia maniera che via via andranno delineandosi nel lavoro. Ma,
finalmente, diamo uno sguardo molto ravvicinato alla tipografia europea
dei cinque secoli nella specifica terminologia tecnica.
IL TIPOGRAFO VECCHIA MANIERA
I caratteri tipografici vanno in declino insieme al romanticismo.
Essi rimangono legati alla letteratura classica, quella dei salotti di
Mauriac, dei rimpianti di Proust, dei mesti turbamenti del melodramma e
via dicendo. La stampa litografica e la rotocalcografia avanzate vanno a
braccetto col Decadentismo, e, non a caso, col consumismo capitalistico,
nonché con lo sviluppo demografico. Da geometria meccanica
tridimensionale, la composizione tipografica si trasforma in struttura
bidimensionale tramite la concezione fototecnica. Valutiamo da vicino 1’obsoleto
materiale tipografico. E qui è necessario che adoperiate quel processo
mentale che trasforma i segni fonetici delle parole in immagini. Oramai
sappiamo a menadito, come e sfizioso dire, che tutti gli stili, finanche
il gotico, derivano dai caratteri latini. Oggi lo distinguiamo in
Romano antico, intermedio e moderno. I caratteri
calligrafici sono, come suggerisce il termine, molto fluidi. Quelli
fantasia sono elaborati e decorati, ma attingono sempre da stili
già definiti e classificati. Le matrici di bronzo o di nichel per
fabbricare i caratteri di piombo vengono prodotte col sistema della
fresa-pantografo, di gran lunga più massiccia e di altissima precisione
rispetto a quella utilizzata per incidere le targhe.
Agli albori dell’invenzione della stampa i caratteri mobili di piombo
venivano coniati attraverso rudimentali formette a fondere. Col tempo
questi sistemi andavano perfezionandosi. Solo alla metà del XIX secolo
lo scozzese DAVIDE BRUCE fabbricò a New York la prima fonditrice di
caratteri. Gutenberg adoperava delle casse per contenere i caratteri con
più di 200 scomparti poiché usava molti logotipi. Oggi le casse hanno
circa cento scomparti poiché i logotipi sono stati ridotti a una
diecina: fi-fl-ffi-ffl-qu-ae, ecc. In Europa sono in vigore due altezze
del fusto dei caratteri, 1’una altezza francese, 23.566 mm., la
più diffusa in Italia; 1’altra altezza italiana 24,809 mm. Da
notare 1’espressione in millesimi di millimetro. Ciò perché è
necessario che tutti i fusti di una composizione, compresi gli altri
elementi, come linee e cliché, abbiano rigorosamente la stessa altezza,
onde poter ottenere una stampa omogeneamente perfetta. Purtroppo, ben
presto, i residui d’inchiostro o 1’usura compromettono questa
rigidezza tipometrica. Problema che non sussiste con la stampa
planografica offset o rotocalco.
I fregi e i fuselli servono per decorare e guarnire uno stampato.
Indispensabili i filetti, il carattere linea, tanto per
intenderci, scuretti, chiari, punteggiati, ecc. I fili vengono
fabbricati in ottone allo scopo di prolungarne la durata, vista la loro
semplice struttura. La misura tipografica e suddivisa in punti,
come quella metrica lo è in millimetri. Il punto tipografico misura
esattamente 0,370 mm., praticamente lo spessore di un buon cartoncino.
Infatti quando in una tipografia vecchia maniera vi è penuria di
interlinee vengono usate le strisce di cartoncino. 12 punti formano la
riga tipografica, come 10 mm. formano il centimetro. Per ottenere un
centimetro occorrono oltre due righe tipografiche. Venti righe
equivalgono a circa 9 centimetri, e così via.
Il metro del tipografo, guarda caso, si chiama tipometro. Nelle
grosse e medie aziende da piombo, quasi scomparse o convertite o
parzialmente convertite all’offset, il tipografo che conosce a
perfezione tutto il materiale tipografico si chiama compositore. L’impressore
è il tipografo addetto alle macchine da stampa ed ha una conoscenza
sommaria del materiale da composizione. A Napoli ho contattato
impressori che hanno raggiunto il pensionamento senza aver composto mai
un rigo di caratteri. In alcune tipografie, per contro, vi sono
tipografi ambivalenti, i famosi Don Simone stampa e compone.
Nelle botteghe artigiane il tipografo è onnifacente e accentra su di se
tutte le fasi di lavoro.
Questi lavoratori, nei quali mi riconosco, sono satelliti dipendenti dal
complicato meccanismo mentale di eliocentrismo operativo. Le tipografie
artigiane dell’angolo, non convertite o parzialmente convertite all’offset,
sono armate di materiale tipografico fino ai denti grazie al massiccio
mercato dell’usato. La marginatura, com’è facile intuire, è
costituita da lingotti e barrettine più bassi dei caratteri e di tutti
gli elementi stampanti che da essa affiorano. La marginatura, di piombo,
duralluminio, bachelite, ecc, è insomma tutto ciò che si contrappone
al visibile stampato. Tutto va sempre disposto nella geometria del
rettangolo. Nel contesto del telaio, che serra le composizioni, i conti
tipometrici devono tornare, come avviene in banca per il danaro. Un solo
errore di calcolo compromette la tenuta del mosaico; la mobilità di un
elemento provoca disagi allo stampatore. Più elementi mobili provocano
inconvenienti più seri.
Il punto tipografico viene anche detto corpo quando si riferisce
ai caratteri tipografici. Infatti si va dal corpo 6 al corpo 72. Dopo
questa misura i caratteri vengono fabbricati in legno, di minor peso e
di conseguente maneggevolezza, sono misurati in righe: da 8 a 100 righe,
e oltre. La diffusione della stampa offset ha consentito anche al
tipografo più sprovveduto di acquistare sul mercato dell’usato la
diabolica Linotype, di cui tratterò ampiamente più avanti. La
composizione manuale e, quindi, limitata ai caratteri da titolo e da
avviso cittadino. Buona parte della terminologia tipografica è rimasta
invariata anche dopo la diffusione quasi totale della stampa
planografica: offset, rotocalco, ecc.
Ne ho raccolti caratteri dalle casse, da giovinetto. Un modo di
iniziarsi alla cultura non già col libro ma dentro il libro.
Amici soldatini dei bei tempi andati, della Tipografia Turris di
Torre del Greco, di quella Editoriale presso la stazione
Termini a Roma o quella annessa al Ministero della Marina sul Tevere, o
della Genovese, al Pallonetto S. Chiara a Napoli, ed infine della
mia bottega-bazar di Via Purgatorio a Torre del Greco.
L’aneddotica, tramandata verbalmente, relativa al comportamentale
degli artigiani tipografi campani e vastissima, fantasiosa e grottesca.
L’epilogo delle liti comporta, talvolta, lo impiastricciarsi a vicenda
il viso con 1’inchiostro. Le delazioni vengono punite col caffè
corretto al… petrolio. Altri aspetti rasentano il maniacale. Un
anziano tipografo divideva la somma delle prestazioni per il numero di
copie da stampare onde provare 1’ebbrezza dell’accumulo centesimato.
Un altro tipografo dovette cambiare lavoro perché le macchine in
movimento gli davano pulsioni erotiche.
Ah, tipografo napoletano che dici errore: fesseria!
I CARATTERI DI PIOMBO FUSO
STAMPANO L’ULTIMO CUORE DI NAPOLI
Ho gia specificato come la stampa tabellare fu uno dei primi
tentativi dell’uomo di produrre in maniera ripetitiva 1’espressione
figurativa. Non fu mai possibile, prima dell’acquaforte e della
calcografia, però, riprodurre in serie, in maniera fedele, la pittura
propriamente detta con le numerose sfumature e mezzi toni. Il mio popolo
ha sempre amato 1’iconografia, forse perché suggestionato da quella
religiosa; a cospetto dei vecchi codici si incantava sulle miniature e
sulle vecchie stampe xilografiche e le commentava in pubblico. Nasceva
il cantastorie che dal meridione d’Italia si espandeva sino al Nuovo
Mondo. A prescindere dalla cultura napoletana connessa alla stampa su
cui ci soffermeremo via via nel lavoro, il popolo partenopeo, sin dalle
letterature romanze, non ha mai avuto molta dimestichezza con 1’alfabeto.
Apprendeva la storia e 1’arte attraverso il teatrino dei pupi, fino
alle rappresentazioni popolari della Commedia dell’Arte e il
melodramma. Il popolo vesuviano era in cuor suo poeta ed artista e non
ha mai attinto direttamente dai canoni della letteratura classica, in
primo luogo perché l’analfabetismo, è inutile reiterarlo, nel
meridione era quasi totale, in secondo luogo perché il benedetto clima
non induce a concentrarsi sulle sudate carte, per dirla col
pallido Giacomo che, nel suo soggiorno a Torre del Greco, preferiva l’ombra
alla verzura.
Il popolo napoletano, più d’ogni altro in Italia, specie in passato
è quello che più ha marinato la scuola, forse per l’atavica
influenza epicurea delle origini. Proprio i compaesani hanno
fatto orecchi da mercante alla estetica crociana. Dalla Serao fino al De
Crescenzo attuale la forma non avrà mai priorità sul contenuto. Vedi
la canzone napoletana condannata per retorica. Il potere gerarchico dell’espressione
letteraria si trincera dietro i virtuosismi dei capiscuola o si arrende,
tutt’al più, agli sperimentatori avanguardisti, i quali, se hanno
fama possono permettersi anche ciò che, fatto da un povero cristo,
sarebbe quanto meno oggetto di dileggio. Senza generalizzare,
naturalmente, e con tutto il rispetto per i milioni di grandi autori
della letteratura. Dice bene il proverbio: Fatti buon nome e piscia a
letto, diranno che hai sudato? L’espressione adottrinaria sincera,
ma colorita, semplicistica, ma palpitante, è, secondo la letteratura
bene, solo zavorra di scrittore da dopolavoro rionale.
Come esistono le classi gerarchiche inferiori così si classifica una
letteratura non già minore, ma da scandalo. Ma il mio popolo non si
lascia condizionare dall’intellighentzia, con buona pace di Croce e De
Sanctis, e continua con i premi letterari aziendali o ad alimentare un
mercato discografico dove il testo e la musica attingono da moduli
frusti e rancidi, ma immortali per chi, per una ragione o per l’altra,
non diventa dottrinario e la cui sfera sensitiva risente solo i canoni
impartiti dall’educazione domestica o quella della strada che, in
alcuni casi, e l’anticamera della casa, fucina, talvolta, di candidati
all’eslege. Sta ’ncopp’ ’a ’nu mala strada, oppure:
E’ omm’ ’e miez’ ’a via. Queste espressioni suggeriscono
come, i lazzaroni del Viceregno, spinti dal disagio e dal bisogno in un’esistenza
esente da dimora fissa, ripiegassero con espedienti delittuosi come
reazione all’emarginazione.
Il malavitoso delle origini, in pratica, era un uomo vessato dai soprusi
ed veniva iniziato alla dissidenza sin dalla fase orale. Non era
completamente fuori dall’etica o dalla cultura, ma emendava la morale
e la legge a modo suo. Ogni azione umana delittuosa è ingiustificabile
ed aberrante, individuale o corporativa che sia, ma ogni dissidente
tende sempre a sopraffare la sopraffazione, finendo col prevaricare egli
stesso. (Leggi La fattoria degli animali di Orwel). Legge e
fuorilegge sono un dualismo come il bene e il male, l’amore e l’odio,
contrapposti e irriducibili che fanno perno sullo stesso meccanismo di
azioni reattivo-difensive dell’uomo.
La Napoli della vecchia letteratura oleografica, ad esempio, si lasciò
non poco influenzate dai canoni comportamentali della vecchia camorra
perché riconosceva in essa le suggestioni dei moduli delle antiche
letterature romanze. I personaggi malavitosi del secolo scorso erano
carichi di ardente umanità. L’onore, la giustizia, la morte onorata,
erano il retaggio storico di Orlando, Rinaldo, Ruggiero, Astolfo e via
dicendo. Non a caso gli scugnizzi che assistevano all’opera dei pupi,
che esaltavano le gesta di tali eroi, venivano chiamati palatini
e molti dei quali seguivano le fila dell’Onorata Società. I vecchi
canoni d’onore della malavita attingono anche da quelli
politico-religiosi del Medioevo, come avveniva nelle guerre sante. Nelle
guerre fredde, invece, del XX secolo non vi è posto per i guappi
generosi, ne per i Fra Diavolo o i ladri gentiluomini. Non sono
degenerate le corporazioni, ma l’uomo, sempre psicologicamente più
isolato nella folla, l’uomo che soggiace impotente sotto la
coercizione di allettanti, ma nocivi modelli sociali, illuso da ideali
effimeri, là dove l’allucinazione chimerica epidemica si estende in
maniera capillare in tutte le fasce sociali.
Gli estremismi, le rivoluzioni, l’illegalità sono fenomeni di sempre,
rappresentano alcune delle facce poliedriche della cultura millenaria,
con 1’epicentro sul dualismo bene-male, altrimenti detto Dio-demonio.
Una società in cui vengono compromessi i sostegni psichici
fondamentali, ai fini dell’insoluto esistenziale, diventa una società
più inferma, terrorizzata in cantina, dall’ossessione
culturale dell’irreversibile destino di finibilità della vita umana.
Aggredire e prevaricare nell’illusione di potenza fittizia, scaricando
sui deboli e gli oppressi la dannazione del proprio destino di mortali.
La minaccia atomica esclude, inoltre, il palliativo della continuità
ereditaria con eventuali intercessioni salvifiche. La finibilità
individuale o collettiva senza sorta di palingenesi, la massima
espressione della pochezza e dell’impotenza dell’animale uomo. I
caratteri di piombo fuso stampano l’ultimo cuore di Napoli, la
capitale di una razza che, per ultima ha resistito alla faccia
negativa del progresso. Ho usato l’aggettivo negativa, e non
esiziale, per evitare di trasformare questo libro nell’Apocalisse
biblica, dato il ricorrente tema della morte. Ma cosa volete, 1’ho
chiarito nella prefazione che la parte letteraria del lavoro veniva
stesa sotto un’ottica psicosociale. Ebbene due sono i temi centrali
della psiche: la morte ed il sesso. Del thanatos avrete gia piene
le... tasche; riguardo il sesso, potrete attingerlo nei brevi aneddoti
sul comportamentale napoletano passim nel testo presente.
LA LINOTYPE
Gutenberg inventò, o diffuse, i caratteri mobili, Mergenthaler, nel
secolo scorso, perfezionò l’invenzione completando il prototipo della
Linotype (linea di tipi). Entrambi si avvalsero di sperimentazioni
del passato. Sono poche le tipografie artigiane vecchio stampo
(è proprio il caso di dire) che non adoperano questa macchina
straordinaria, che rimane nella storia come uno dei maggiori prodigi
della meccanica. Dopo diversi tentativi di alcuni inventori, falliti
spesso per motivi finanziari, OTTMAR MERGENTHALER nato nel 1854, tedesco
anch’egli, avvalendosi di esperimenti dei suoi predecessori, nel 1886
portava a termine la Linotype. Non mi approfondirò nei particolari
costruttivi in maniera analitica. L’intricata successione dei
movimenti e la complessità dei sincronismi farebbero apparire
inesplicabile la descrizione più minuziosa, togliendo merito alla
potenza dell’alfabeto. Traccerò a grosse linee solo una sintesi del
suo funzionamento, così come si svolge in questo momento sotto le mie
mani.
Tutte le complesse e susseguenti fasi di ogni ciclo sono comandate da un
unico gruppo di eccentrici, fissati su di un solo asse rotante. Il magazzino
contenente le matrici è disposto in posizione obliqua nella parte
superiore della macchina. Esso contiene all’interno solitamente
novanta canali, in ciascuno dei quali slittano in caduta una ventina di
matrici per ogni lettera alfabetica, più la punteggiatura e le
maiuscole. I segni speciali vengono inseriti a mano nel compositoio
della macchina.
La tastiera alfanumerica (minuscole e maiuscole separate) aziona delle
barre verticali che, durante lo sfioramento dei tasti, spingono dei
dispositivi di sganciamento disposti nella parte inferiore del
magazzino. Ciascun tasto sgancia la matrice voluta che va ad allinearsi
in un compositoio mobile, il quale, a rigo ultimato, va a posizionarsi
innanzi alla forma a fondere, dietro la quale un pistone affonda nel
crogiolo di piombo fuso perché si formi rapidamente la barretta gia
solida e improntata lungo la linea di matrici del compositoio mobile.
Indi questi si posiziona innanzi ad un braccio meccanico che preleva le
matrici per riscomporle automaticamente nel magazzino. Il rapporto di
tempo tra un rigo composto a mano ed uno linotipico è almeno di 1 a 6,
senza contare il tempo risparmiato per la scomposizione, e soprattutto l’assenza
di usura dei caratteri, poiché, a stampa ultimata, i righi vengono
rifusi per formare nuove linee di scritto. (queste tecniche sono oggi
(albori del 3° millennio) obsolete e praticate solo per lavorazioni
speciali o in aree geografiche retrograde. N.d.r.).
MASTRO LUIGI FICASECCA
Dovremo, tra poco, trattare la progettazione tipografica che nelle
botteghe avviene raramente sulla carta, proprio come ha sempre operato
Luigi Ficasecca, un anziano tipografo del capoluogo campano. Lavora
ancora e da solo, malgrado le 80 primavere, perché, come me, dice di
avere il piombo nel sangue, non, pero, nel senso del saturnismo. A dire
che nel dopoguerra aveva un organico di cinque camici neri, sei tute blu
e due grembiuli bianchi, quest’ultimi, tiene a sottolineare, coprenti
molta opulenza. «Ma cosa vuoi, caro Luigino, figlio mio, ca figlio
mi puoi essere, anzi nipote, se non pronipote, cosa vuoi, una vertenza
sindacale oggi, una domani e sono finito in mutande».
Il boom economico incominciava a dissolversi negli anni 60-70, ma le
botteghe sorgevano ad ogni angolo. Le amministrazioni imbandivano spesso
gare fittizie. In poche parole transitava un periodo di crisi ancora
oggi per nulla risolto. Spesso rivedo Luigi Ficasecca nel suo
monolocale, angusto, fuligginoso, unto dappertutto. Stanco, emaciato,
curvo sotto quell’aria affettatamente esuberante di sedicente
direttore tecnico. A lutamme, rispondeva al mio fugace saluto
formulato sull’uscio della sua bottega, con l’aria derisoria e
beffarda quanto puerile che assumono i candidi quando vogliono apparire
sarcastici, allo scopo di saziare gli occhi del mondo, l’opinione
altrui. ’A munnezza, contrabbattevo io ricusando il doppio
senso di a lutamme, che non sta per salutamme con aferesi
della s, ma come a lutamme: il letame. Altre volte
adoperava come intercalare in risposta ad un cenno di stupore: E tu
che te credive ca ch’era?, dove gli ultimi lemmi non stanno per
cos’era, ma cachera, ora più esplicito; e via dicendo.
L’ultima volta che mi recai a Napoli per rifornimenti presso il Corpo
di Napoli, dove si concentrano diversi fornitori per arti grafiche,
decisi di fare una scappata pure da Luigi Ficasecca, magari
sfrocoliandolo sul non aver mai capito un fico dell’arte
nera. Era raggiante nel suo tugurio. Mi disse che aveva ripreso 1’hobby
di essiccare i fichi al sole per le ciociole di Natale. Facevo
finta di non accorgermi che aveva, almeno apparentemente, assunto un
apprendista. Alla fine sbotto: «Ma ’o vide ’o guaglione, o no?».
Aveva gli occhi lucidi. Sembrava un regnante detronizzato e diseredato
che, sul lastrico, dopo mesi di stenti, ripiegava con uno scranno in
luogo del trono. Al mio sorriso solidale non trattenne le lacrime. Le
pressioni nostalgiche premevano troppo dal basso. Ed io gli volevo bene,
amavo la scimmia umana, mio simile, che impazza da adolescente con l’ardore,
l’impetuosità, l’azione. Poi sorge, gode, folleggia la giovinezza,
indi lotta e difende la sua posizione, poi cade, poi annaspa,
difficilmente si risolleva definitivamente, anche perché incombe la
drammatica fase senile. Luigi Ficasecca si terse col fazzoletto quel
viso villo e grinzoso e riprese a parlare del più e del meno.
Discutemmo sul lavoro clientelare, la crisi economica, le pressioni
fiscali. Dopo che avemmo centellinato una bibita il ragazzo sbircio l’orologio
da polso e senza fiatare raccolse una banconota dalle mani del vecchio
ed in piena mattinata guadagno 1’uscio. Mi baleno l’ipotesi di una
settimana supercorta, ma 1’uomo dissipo subito le mie
congetture.
«Caro Mari, tu sei giovane, certe cose le puoi e non le puoi capire.
Ciccillo non lavora qui... Insomma... lavora e non lavora... Oggi l’apprendista
prende la paga di un operaio, tanto vale metto a lavorare mio genero che
si puzza dalla santa fame. Il ragazzo... sì
Ciccillo, viene qui tre o quattro volte la settimana, giusto un’oretta.
A me la nostalgia mi uccide, figlio mio: rimpiango i miei bei tempi,
malgrado le due guerre e gli anni ruggenti... Ero un piccolo signore, mi
mangerei le mani a morsi. Mannaggia a Garibaldi e gli americani,
mannaggia! ...Ciccillo sta qui giusto il tempo per potergli fare una
cazziata, che so: una tirata d’orecchi, qualche volta pure un calcio
nel sedere, senza cattiveria, però, in buona fede. Alla fine prende
diecimila lire e se ne và. Così restiamo
soddisfatti tutti e due».
Quando, divertito, gli dissi che aveva escogitato un ottimo sistema,
rispose che era sorto un altro problema: «La mattina, fuori la
bottega, faccio folla folla di scugnizzi. E chi mi chiede tremila lire
per uno schiaffo, chi quattromila lire per una carocchia. Uno
ieri mattina mi ha chiesto centomila lire per una mazziata
generale, dicette: vi concedo pure la lavarella di sangue. Io, prima che
mi arrestano per sadicità prendo la mazza
di scopa e li caccio, così abbuscano lo
stesso, ma senza una lira».
LA PROGETTAZIONE
Vi sono tipografie artigiane che non adottano nessun
metodo di progettazione. Pure nel caso di stampati più complessi l’ideazione
e la scelta realizzativa avviene mentalmente, per così
dire, affacciati sul piombo. Molti miei colleghi torresi e
campani ideano tutto di getto, sfruttando l’immediatezza della
creazione. Il buon risultato del lavoro è anche dovuto alle numerose
esperienze precedenti. Io stesso adotto questa procedura nella mia
bottega di Via Purgatorio, indipendentemente dalla tecnica o veicolo di
stampa adoperati. Tutti i calcoli sono empirici ed immediati, sebbene si
tratti molto spesso di stampati di piccola entità, non per questo,
però, di poca importanza o di basso prestigio. La progettazione
tipografica eseguita in uffici appositi riguarda le grosse aziende
partenopee, che oggi stampano prevalentemente in offset ed utilizzano la
fotocomposizione computerizzata e lo scanner elettronico per la
riproduzione di immagini onde poter realizzare, in tempi relativamente
brevi, le matrici da stampa. In questa prima fase di lavoro tutto viene
ideato, progettato ed eseguito in camice bianco, come in ospedale. I
camici scuri relativi all’arte nera sono sempre più rari a
vedersi.
Nelle medie tipografie campane la progettazione avviene nello stesso
ambiente di lavoro attraverso calcoli e schizzi eseguiti poco prima di
intraprendere il lavoro di composizione. Il proto, generalmente il
tipografo più anziano, conosce a perfezione tutto il materiale
tipografico esistente in officina. Egli è il coordinatore di tutto il
lavoro. I nostri tipografi compositori sono dotati di uno spiccato senso
pratico e, da buoni campani, di una fertile fantasia, pur se questa
categoria è in estinzione. Da questo estro creativo nascono i prodigi
del collage meccanico tipografico. I compositori campani per
secoli hanno saputo assemblare, con gusto ed eleganza, i pezzi
prefabbricati di cui disponevano, che in un certo senso somigliano al
contenuto di un lessico. Le parole, similmente all’attrezzatura
tipografica, solo se combinate con sentimento, talento, virtuosismo, e
perché no, con una punta di artificiosità, danno sorprendenti
risultati.
Oggi le macchine hanno priorità sull’individuo e lo spersonalizzano,
e credo di non esagerare, finoall’annichilimento. Estinti, ormai, i
tempi in cui si aspirava ad imparare l’arte per metterla da parte.
Oggi un operatore è un numero, facilmente
sostituibile, un pezzo di ricambio qualsiasi, da utilizzare finche è
efficiente, e da buttar via non appena consumato. E il logorio avviene
precocemente, oggi, perché l’uomo è svigorito dalle macchine.
Passati i tempi in cui, adolescente, sgambettavo magro e spaurito,
restio agli studi regolari, nella stamperia di Don Ettore, una delle
prime tipografie di Torre del Greco. Sin dal primo impatto col materiale
tipografico, nelle cupe e fuligginose tipografie del secondo dopoguerra,
appresi che la conoscenza dei caratteri e la padronanza d’uso
determina la loro giusta collocazione. Questa maestria e alla base di
tutte le composizioni tipografiche, anche nella versione fototecnica
offset. L’operatore grafico della terra vesuviana, sovente, senza
alcuna cognizione teorica o dottrinale è maestro a orecchio. Ha
sempre plasmato e modellato le sue composizioni tipografiche con
sorprendente senso pratico, forse ignorando che l’arte tipografica si
riallaccia, nel tempo, alle influenze dell’arte pittorica e dell’architettura.
Da tempo, ormai, sono state introdotte nelle sia pur sparute scuole
grafiche le moderne tecnologie relative alla stampa offset, trascurando
i sistemi tradizionali. I nuovi orientamenti sono incentrati sulla
fototecnica grafica, sul disegno, sulla composizione elettronica e,
conseguentemente, sulla ripresa fotografica e montaggio. Beninteso, non
è necessario essere pittori o disegnatori di professione per diventare
valenti tipografi, sia con i vecchi che con i nuovi sistemi. E’
importante, però, che si abbia gusto artistico, senso delle
proporzioni, sensibilità armonica, predisposizione, in una parola, l’euritmia.
Si deve almeno saper distinguere un buon disegno da uno scarabocchio o
un ammirabile dipinto da una crosta. Ci sono dei bravi disegnatori, ad
esempio, che sono dei tipografi mediocri, se viceversa, è meno grave.
Lo stampato tipografico allo stato di abbozzo, va interpretato come un
canovaccio da palcoscenico. Impostato con gusto e sobrietà, quindi
caricato e modellato con la personale forza espressiva attraverso il
gioco degli elementi, sia nel caso di caratteri mobili, filetti e
cliché, che in quello dell’assemblaggio fototecnico.
LE ARTI APPLICATE (LINFA DELLA VECCHIA NAPOLI)
Gli italiani del nord, date le loro caratteristiche somatiche, si
avvicinano ai gruppi etnici europei; i meridionali, chiaramente, ai
gruppi razziali del sud, vale a dire quelli del Continente africano. A
prescindere dal fattore etnico vi è un’altra sorta di contagio da
tener conto, ed è quello dell’assuefarsi ai tratti caratteriali dei
popoli viciniori, al di là delle influenze di natura politica. Gli
italiani del nord hanno molto appreso dall’Europa confinante,
debarbarizzata e civilissima, nazionalsocialismo a parte, sebbene la
civiltà, per dirla col padre della psicoanalisi, ha nevrotizzato il
vecchio mondo. A parte la questione meridionale risolta solo nel
senso che il benessere del sud è dovuto al potere eliocentrico del
nord, con quali modelli viciniori, dopo l’Unità d’Italia, hanno
avuto il modo di identificarsi i meridionali moderni? La nostra
evoluzione rimane sempre in uno status quo da cenerentoli, stagna sempre
in una dipendenza vassallica?
Devo spezzare una lancia a favore del nord Italia, perché si sta
verificando la tendenza alla perequazione, nel bene e nel male. Nel sud
non si può parlare più di aree molto depresse, come all’inizio del
secolo; mentre nel nord non si può riscontrare una buona qualità della
vita, almeno a livello psicologico. L’economia del sud si solleva,
sebbene manipolata dai cisalpini e dalle multinazionali che puntano
soprattutto sulle masse più sprovvedute, maggiormente disponibili alla
grancassa propagandistica perché più inclini agli entusiasmi delle
appariscenze. Noi meridionali siamo degli ottimi consumatori, ma che
cosa produciamo se le nostre risorse, agricoltura ed artigianato, vanno
alla malora? Il sud, in pratica, beneficiando in parte dello sviluppo
nazionale, non si realizza nelle sue risorse naturali (vedi pure il
turismo in parte compromesso) ma si settentrionalizza come una colonia
del nord. Gli africani e gli arabi non possono che offrirci
sentimentalismi accesi e ardori religiosi come modello sociale, di cui
abbiamo avuto piene le tasche per millenni, ma che ci aiutavano a lenire
l’angoscia esistenziale, non di meno la realizzazione individuale nel
lavoro a misura d’uomo, sia pur svolto sempre in condizioni precarie
ed aleatorie, il famoso vivere alla giornata, ma con la viva speranza di
un domani migliore.
Il deterrente atomico stagna la stasi politica internazionale. Le
speranze di rinnovamento, le ambizioni, le lotte sociali sono smorzate
sul nascere. Le arti applicate, linfa della vecchia Napoli, vanno
lentamente e pietosamente estinguendosi, tanto da non farcene neppure
accorgere, e con esse le tradizionali botteghe, immediatamente dopo la
loro massima esplosione numerica che la storia campana ricordi. Si
estinguono dietro le pressioni fiscali, sindacali e multinazionali,
cieche davanti alle condizioni sfavorevoli di un’area geografica. Le
evoluzioni fiscali e sindacali sono giuste e sacrosante, applicate ai
settori giusti. Le botteguccie dell’angolo, neglette e tapine, che in
passato assorbivano una grossa fetta di adolescenti post-scolare,
dovrebbero essere sottoposte a delle leggi speciali che vanno al di là
dello sfruttamento minorile e del lavoro nero, degenerante e abominevole
in una società moderna. Con la tradizione artigiana in crisi, in
passato così connessa e amalgamata nel
costume del popolo partenopeo, insieme all’acutizzarsi della crisi
esistenziale individuale dell’uomo, si dissolvono tutte quelle forme
comportamentali di socievolezza, solidarietà, altruismo, in una frase,
quelle di un popolo d’amore, per dirla con Luciano De Crescenzo.
Napoli perde il candore di una volta. Il cittadino vesuviano diventa
adulto, perde l’immaturità e la salutare incoscienza del passato che
lo faceva guappo d’onore o santo. Si avvicina alla teoria dello
struzzo, assume sembianze megametropolitane, si allontana dall’idea di
Dio dentro l’uomo, della sua enorme potenzialità d’amore. Non
disdegna i tabernacoli solo perché apotropaici e, per la prima volta
nella storia, resta obnubilato innanzi alla sua stessa paura. Sente l’angoscia
del suo nuovo ruolo di pedina venduta al progresso che offre solo ideali
effimeri e precari. Non spera più nella libertà, che esclude il
bisogno né di comandare, né di obbedire. Dimentica di lasciare in pace
se stesso, che è l’unica maniera per lasciare in pace gli altri.
Oblia il sesso come puro atto d’amore, pur se lo ripete dieci, cento,
mille volte, nella sua foga passionale di meridionale virile. Egli
inizia a mitizzare i plutocrati ed i tesaurizzatori e come loro
incomincia a nutrire qualche sospetto sulla propria atavica virilità,
dietro il cogitare freddo dei dottrinarismi divulgati.
Nelle vecchie botteghe tipografiche cupe e fuligginose, spopolate e
decadute, io vedo la napoletanità e la vecchia Citta-regno che
muoiono nella loro oleografia più autentica e palpitante in quel
sincretismo di povertà e gioia di vivere. L’adolescenza, nella terra
vesuviana d’oggi, prostrata anch’essa sotto gli ideali effimeri
dello sport mitizzato e della musica importata, certa di genere
paranoicale, quale coerente colonna sonora delle nevrosi, è trasformata
nei romantici congeniali turbamenti post-puberali, dietro una precoce
problematica esistenziale.
Dov’è finita la confusione faccendiera urbana della mia Torre del
Greco, distrutta dal Vesuvio e ricostruita diecine di volte, attingibile
dalla letteratura d’arte e d’informazione post-bellica? E prima di
proseguire in questo stralcio di sapore retorico rispondo alle smorfie rinitiche
di qualche progressista. Qui non se ne fa una questione di componenti
nostalgiche esasperate o di pessimismo progressista a copertura di
carenze psichiche personali. Mettere sul tappeto i malesseri di un’epoca
vuol dire tentare di rimuoverli. Se avessero ascoltato Leopardi nel
secolo scorso, invece di rivalutare la sua filosofia solo oggi, forse
molti mali si sarebbero prevenuti. La vita è bella in se stessa, ma la
teoria dello struzzo guasta questa realtà. Già la cultura ci ha
insegnato: dipartire per morire, amplesso per coito, così
non abbiamo mai guardato con chiarezza in faccia la morte e il sesso e
li sentiremo sempre misteriosi. Viviamo in una società senza dubbio
più comoda, rispetto al passato, meno cruenta e, tirando le somme,
politicamente tollerabile in confronto alle angherie politiche della
storia, ma la nevrosi di massa planetaria odierna, dovuta a svariati
fattori di evoluzione o involuzione, va risolta né con le
rivoluzioni né con la violenza, ma con la riflessione. Perché non ci
troviamo, come al solito, di fronte ad una crisi politica quanto a
cospetto dell’esasperarsi dell’antico insoluto esistenziale dell’uomo,
sostenuto in passato da molti sostegni psichici a misura di razionalità
umana. Spero tuttavia, malgrado l’apparente caotica babele dei giorni
nostri, che molte persone si sentano fuori da questa orbita, e che
sappiano indicarci, nel futuro atomico, uno sbocco plausibile. In
aggiunta dirò, a qualche barbassoro-culturalista, che ho superato la
fase relativa a1 famoso aneddoto freudiano: “Quanta fatica
letteraria fa costui per coprire i problemi personali”.
Dove sono le strade palcoscenico, 1’umorismo delle logorroiche
meliche voci popolari? Ben venga la retorica oleografica, rivogliamo i
tepidi soli, gli eterni tepori di primavera. Rivogliamo gli usci con
le fornaci fumanti al posto dei cancelli automatici con videocitofono;
le capere in luogo dei giornali di pettegolezzo; le tinozze o le
braci con le rigogliose spighe bionde al posto dei pub con gli amburger
e i crauti. Agogniamo la sinuosità delle forme del più salubre eterno
femminino e non le mascoline silohuette delle manequin. Ben ritornino le
camicette di seta sui seni floridi. Vadano a farsi benedire gli stilisti
miliardari moderni con le loro felpe sintetiche firmate, le borse
policrome ad armacollo ed i pantaloni casual unisex variopinti e
guallarosi. Forse, però, i progressisti l’avranno vinta. La mia
cittadina alle falde del Vesuvio, amena e ridente, come leggo da secoli
sui libri di storia locale, non ridarà mai più alle fanciulle quelle
labbra carnose sulla bocca larga e voluttuosa senza il belletto, il
roseo naturale alle guance prive di fard, lo splendore ai denti d’avorio
tersi con bicarbonato, gli occhi luminosi privi di mascara. Alcuni
dedali sono stati risanati nella mia Torre del Greco. Falansteri
di cemento armato fagocitarono le romantiche magioni-giardino delle
costruzioni spagnole.
Mai più vedrò fanciulle alle finestre dagli infissi detti pezzi d’opera,
da lavare e lucidare nelle prossimità pasquali. Occhi dolcissimi e
sereni, mimetizzati tra vasetti di garofani e rose, le nostre rose, i
garofani di Torre del Greco, rossi come il fuoco del Vesuvio. Immagini a
mezza strada tra il mistico mariano e la passionalità shakesperiana. La
mente richiamava epos trovadorici e cavallereschi che accendevano il
meridionale ardore. Ahimé! Il Decadentismo si faceva avanti, la
letteratura moderna analitica ed introspettiva aveva a mano a mano i
consensi popolari ed interessava pure gli editori campani. La retorica
alla gogna. Pure i giovani dei dedali erano suggestionati dai dialoghi
interiori di Joyce e di Svevo o dallo sconvolgente pensiero di Nietzsche.
Ancora Fromm e Jung e tutti i neofreudiani. Il giovane meridionale si
accorge di aver addentato la mela. Determina che l’attrazione intensa
per la fanciulla del cuore è solo una condizione mentale, un’elaborazione
culturale dell’idea dell’amore. E sospetta, con amarezza, che quella
folle passione che intende placare, non è, in fondo, amore per lei, ma
per se stesso, attraverso lo specchio di lei.
La vecchia Napoli dei guantai, dei ciabattini, dei dolcieri, degli
ambulanti, dei tipografi del piombo fuso tramonta inesorabilmente.
Facciamo una capatina in queste botteghe, finche saremo in tempo.
IL LAVORO DELLE BOTTEGHE
Eccoci di fronte all’arte applicata propriamente detta. Da sempre
i movimenti artistici relativi alla pittura, architettura e via dicendo,
vanno a braccetto con la tipografia, o viceversa. Ciascun lavoro
tipografico, per certi versi, non e meno di un messaggio d’arte, cioè
1’elaborazione e la realizzazione grafica di un’idea del bello.
Nella progettazione con materiale tipografico, ad esempio, i caratteri
parlano. Il disegno di uno stile: Bodoni, Romano, Gotico, Garamond,
ecc. non è solo il risultato fortunato di una elaborazione più o
meno artistica dell’alfabeto. La forza delle aste o la leggerezza dei
tratti, gli svolazzi, la grazia dei contorni e la vivacità dei toni
suggeriscono l’uso appropriato, quindi connaturale dei caratteri
scelti. L’esecuzione del lavoro nelle botteghe artigiane avviene
spesso in maniera frammentaria a causa della scarsità degli addetti
alle svariate mansioni.
Forse il mio caso è emblematico. Spesso la mia giornata, come la via
che mi ospita, e un purgatorio. La bottega angusta, come tutte le
altre della terra vesuviana. La strada sempre a portata di mano. Le
nonnine del gerontocomio adiacente richiedono la scrittura manuale di
missive da destinare ai figli lontani, facoltosi, ma ingrati. Il
falegname od il macellaio di fronte che domandano ora un cacciavite,
più tardi un autoadesivo onde mimetizzare l’ammaccatura alla Vespa.
Punto lo sguardo su di un avventore e dò un’occhiata di sbieco all’apprendista
che mi domanda delucidazioni sul tono di un colore. Intanto l’orecchio
è teso al trillo del telefono. Una mano è gia allungata sulla tastiera
della Linotype per comporre un rigo di correzione. La consorte Rosaria
mi chiede spiccioli per il resto. Ma ci sono i cinquanta avvisi di lutto
da tirare. Un salto da una macchina all’altra con gli stinchi
indolenziti per le contusioni contro le cassette di piombo o le pedane
impilate. Quindi un calcolo tipometrico in piedi. Un occhio sul taccuino
e l’altro che osserva la qualità di stampa all’uscita della
platina. La bocca da un lato sorseggia un caffè corretto ai moscerini,
dall’altro aspira un’ampia boccata di fumo per sedare lo stress. Per
fortuna non è sempre così.
Nelle ore di minore traffico si provvede all’assemblaggio delle
composizioni. Questa operazione richiede rilassamento e concentrazione.
La disposizione delle righe deve essere tale da garantire una buona
leggibilità. La lunghezza di uno scritto, ad esempio, deve essere
proporzionale alla grandezza e allo spessore dei caratteri. L’interlinea
tra un rigo e l’altro deve seguire una regola ottica suggerita dal
gusto e dal senso delle proporzioni. Il lavoro del tipografo
compositore, per certi versi, è più difficile di quello del grafico
montatore offset, perché il tipografo da piombo deve operare
attraverso una tecnica decisamente decorativa e ornamentale, coi
relativi limiti creativi, poiché utilizza esclusivamente materiale
prefabbricato, le cui disposizioni vanno eseguite sempre in parallelo o
comunque con angolazioni a 90 gradi. Difficilmente può disporre
elementi in posizione obliqua o circolare a meno che non ricorra ai
cliché. Il tipografo da piombo, rispetto al grafico fototecnico, gioca
molto sul gusto e sull’equilibrio delle proporzioni. Esso è
un collagista meccanico che assembla dei magistrali mosaici, pur
non disponendo di totale liberta creativa, se non, appunto, nei limiti
del materiale prefabbricato, che esclude la geometria delle curve. Il
tipografo da piombo, tra qualche anno, sarà solo un ricordo.
Sin dalla scoperta dei caratteri mobili il tipografo ha sempre coniugato
le lettere con le immagini; pensate i napoletani, con la loro
predisposizione all’iconografia. Solo la televisione ha offuscato l’endemico
culto del fumetto dei ragazzi campani. Sebbene si possa pensare il
contrario, le lettere predominano sull’immagine a causa del loro netto
contrasto. Equilibrare le masse e le forme in qualsiasi fatto grafico è
una delle regole fondamentali del tipografo. Quasi tutti gli addetti ai
lavori delle tipografie campane sanno che le lettere e le immagini vanno
disposte ed alternate con un ritmo proporzionale, suggerito dal senso
critico interpretativo personale e avvalendosi di esperienze precedenti
personali o di terzi. La spaziatura deve essere armoniosa, coadiuvata da
una sicura scelta dei bianchi. Si dice che la bravura di un autista si
misuri dal freno, ebbene io aggiungo che la maestria di un tipografo si
misura dai bianchi. Tutte queste regole conducono all’euritmia,
la preventiva disposizione armonica, cioè, di tutte le parti che
determinano la gradevolezza visiva di uno stampato.
Non sempre, però, l’assemblaggio della materia grafica deve seguire
le stesse regole. Vi sono dei casi in cui si presentano degli stampati
destinati ad utilizzatori particolari che dietro peculiari motivi, lo
osservano sotto un’ottica diversa da quella convenzionale. La mia
piccola bottega artigiana, ad esempio, realizza ogni tipo di piccolo
lavoro, dalla carta da visita alla partecipazione di nozze, dal
volantino all’avviso murale cittadino, (utilizzando sia caratteri di
piombo che lastre offset di piccolo formato), stampati, cioè, di uso
domestico o relativi alla piccola grafica pubblicitaria di livello
locale. Uno stampato destinato all’osservazione popolare dovrà
contenere delle caratteristiche grafiche di assimilazione diverse da un
catalogo, ad esempio, che interessa dei conoscitori d’arte. Un
volantino dovrà essere coerente al genere di prodotto pubblicizzato e
fedele ai fattori ambientali dei suoi utilizzatori. I cittadini campani,
ad esempio, sono ligi alle tradizioni figurative, alle ampollosità
geometriche: non possiamo sottoporre loro un volantino con ampie aree di
bianco e una grafica avanguardistica, questo comporterebbe diffidenza
non già nei riguardi del tipografo, ma dell’intestatario. In altre
parole il tipografo deve in alcuni casi ridurre la propria cultura
grafica ed abbassarla ad un rango creativo inferiore; talvolta dovrà
modificare le proprie capacità, dirottandole verso 1’indirizzo verso
cui è destinato lo stampato.
L’avviso murale cittadino, diffusissimo nella terra vesuviana,
impropriamente detto manifesto, forse per estensione, sarà
concepito e interpretato in modo diverso da una carta da lettera, non
solo perché il primo viene osservato a distanza rispetto al secondo, ma
poiché sono due stampati destinati ad osservatori diversi. Il
tipografo, specie quello artigiano, addetto alla progettazione, deve
essere anche, non dico psicologo, ma almeno intuitivo e perspicace. Egli
deve spaziare la fantasia e combinare nella maniera migliore le
soluzioni teoriche con quelle pratiche della vita quotidiana. Oggi però
il tipografo della bottega, in barba agli operatori offset, può
valorizzare il vecchio sistema tradizionale con l’ausilio della
sostanza fotopolimerica, la quale, almeno per la fase creativa, elimina
i limiti imposti dal materiale tipografico a caldo. I fotopolimeri
consentono di ottenere i vantaggi fototecnici dell’offset pur
stampando in macchina tipografica, e sostituiscono degnamente il
complesso sistema zincografico eseguito da specialisti scissi dalle
tipografie. Mai nessun tipografo si è cimentato nella fabbricazione di
clichè zincografici proprio a causa della
complessità di esecuzione, specie per quanto riguarda la fase di
acidazione. I fotopolimeri oggi si sviluppano in acqua di rubinetto, ma
hanno un costo di gran lunga superiore a quello delle lastre offset.
Bisogna riconoscere che la fototecnica consente di evolversi e spaziare
la fantasia creativa. I metodi di elaborazione fotografica favoriscono
soluzioni altrimenti irrealizzabili. L’ingrandimento o la riduzione di
una scritta, la sua inversione in negativo, l’illimitato uso di
elementi geometrici curvi sono indispensabili nella grafica corrotta da
ogni tipo di innovazione. L’illustrazione negli stampati è una
trovata antichissima, ma oggi viene concepita non solo come elemento
complementare più o meno essenziale nel contesto grafico, ma come
necessario impasto del nuovo linguaggio grafico a cui l’osservatore
moderno si è avvezzato. L’alfabeto da solo, o interrotto da qualche
figura si rivela graficamente insufficiente. La forza di attrazione
delle cromotipie, le immagini fuse col testo o il testo fuso con le
immagini, insomma il connubio alfabeto-figura costituisce forme
espressive ricche di ricercatezza a vantaggio della gradevolezza visiva
cosi diffusa dalla fotografia propriamente detta, dal cinema e dalla
televisione, specie se l’assemblaggio è concepito con un ritmo sobrio
ed equilibrato da facilitare al massimo la lettura e l’osservazione.
LA CULTURA NAPOLETANA NEL MEDIOEVO AMANUENSE
Prima di concludere il capitolo sulla vecchia tipografia diamo un’altra
occhiata alla cultura napoletana relativa all’arte scrittoria. Dalla
Neapolis greca, poi latina, soprassedendo sugli apologisti e i Padri
della Chiesa che, sembra, non abbiano avuto con Napoli molto da
spartire, ci soffermeremo sulla cultura latina medioevale napoletana.
Gli amanuensi dei monasteri napoletani, specie quelli di S. Severino,
copiarono a iosa gli antichi testi classici greci. La storia ci ricorda
che i monaci napoletani, sotto la guida dell’abate Eugippio,
trascrivevano molti codici antichi ed eseguivano trascrizioni tra greco
e latino. Aveva, naturalmente, carattere prioritario la letteratura
agiografica poiché S. Girolamo proibiva il trattamento completo dei
testi pagani. Spesso nel lavoro di esegesi e nelle traduzioni i monaci
assumevano l’arbitrio di apporre interpolazioni o estrapolazioni allo
scopo di dare un senso cristiano alla quasi totalità dei concetti.
I vesuviani leggono poco, dicono le statistiche, figuriamoci dodici
secoli fa. Vi è quasi una idiosincrasia verso la lettura, un fastidio
epidermico, dovuto ad un disallenamento secolare. Nella totale ignoranza
del popolo napoletano dell’Alto Medioevo i monaci rappresentavano gli
unici sostenitori della cultura della Napoli Vescovile. La lettura è
come il vino, va dosata, ma molti napoletani del popolo preferiscono
esserne astemi, hanno imparato già abbastanza a leggere nel libro della
vita. Infatti, come dice il proverbio, molti sono quelli che
insegnano a leggere, pochi quelli che insegnano a vivere. I lavori
moderni di ermeneutica e filologia vengono compiuti in larga parte su
quei testi tradotti in latino dal greco e viceversa. Pertanto è
improprio, a pensarci bene, definire opera culturale in senso stretto
quella dei monaci, forse è più esatto parlare di “editoria
manuale”. Il monaco metafraste non dà nessuno apporto artistico,
creativo, storiografico o filologico. Il frutto di questi amanuensi
rappresenta, però, l’embrione delle successive scaturigini culturali
medioevali. Sappiamo quanto abbiano, quei codici, influenzato Paolo
Diacono, il longobardo così dentro la cultura partenopea intorno al
750. Egli fu il fautore della poesia epigrafica dell’Italia
meridionale.
Vi furono in Campania molti sostenitori di questo genere letterario,
ricco di espressioni tronfie ed esaltanti. Non mancò, però, chi
formulasse epigrafi denigratorie contro il nostro popolo, come il
Principe di Benevento:”Il popolo napoletano si salva solo per la
sua scaltrezza e la sua perfidia”. E meno male! Che volevano
vederci per secoli e secoli proprio ai piedi di Pilato? E 1’altro
bellimbusto, certo Ausenzio di Nola che fece scrivere, tra l’altro,
sulla sua tomba: Ladruncoli partenopei. Il… malocchio, però,
non perdona? Morì combattendo i napoletani intorno all’850.
Forse attinse da questa fonte chi fece affiggere, undici secoli dopo,
dei cartelli nella stazione ferroviaria di Napoli: Attenzione, città
di ladri. Si era nell’immediato dopoguerra, ma al malocchio, da un
po’ di tempo, neppure i napoletani credono più.
A prescindere dal fenomeno fastidiosissimo della generalizzazione, è
strano che il mio popolo sia visto sempre sotto due aspetti contrapposti
e irriducibili: estrema bontà o notevole aggressività,
spesso con irrazionale compiacimento. Da Malaparte in poi questa moda si
è infervorita, giornalismo, televisione e cinematografo hanno sempre
insistito su questo dualismo. Non esiste un popolo di individui
bianco-neri. La bontà e la cattiveria spesso sono delle condizioni
mentali aleatorie, latenti in ogni individuo. La malvagità consueta è
presente nella minoranza, che, purtroppo, talvolta, per motivi epocali,
acquista sonorità proprio perché ha carattere incidentale, quindi
desueto. Il popolo napoletano è una razza di Esposito, nel senso
politico. Dominato dieci, cento volte nella storia, non appartiene ad un
ceppo genealogico monogamico, politicamente parlando. Il suo retaggio
storico è la precarietà. Quando si affacciano nuovi mali comuni di
stampo socialpolitico dice tra se: ecco, ci risiamo, come si chiamano
questa volta, austriaci, borboni, multinazionali, associazioni a
delinquere? Pazienza, troviamo il modo adeguato per convivere! Chi sono
stati i genitori sociali, i fratelli storici con cui questa razza si
doveva identificare? Chi ha seguito le fasi evolutive psicologiche di
questo popolo?
Il popolo napoletano viene da radici storiche di oppressione e di tanto
in tanto, ancora oggi fa qualche masaniellata. Forse è giusta la
retorica, caro Croce buonanima, quando recita con Charles Peguy: Ogni
padre sul quale il figlio alza la mano è un padre colpevole. Colpevole
di aver fatto un figlio che alza la mano su di lui. Lungi da me ogni
intenzione scolastica o messianica, la giustizia, la felicità sono
utopie come i messianismi politici e religiosi. L’uomo ha ricevuto la
sua diabolica condanna da Dio: la ragione; e la ragione è tollerabile
solo nell’ignoranza e nella contraddizione. Tutti coloro che si
elevano sopra questo stadio sono degli illusi, perché credono di
esorcizzare l’impotenza circa il loro insoluto esistenziale con teorie
che sono ben lungi dal risolvere il mistero della vita e della morte.
Proprio per non cadere nel messianico non dirò di sospettare che la
nostra pace e la nostra serenità potrebbero cominciare appena dopo la
pace e la serenità dell’ultimo degli uomini, perché mai si fa il
punto sul senso di colpa collettivo inconscio delle società agiate,
rispetto al terzo mondo.
Vi fu un altro Diacono, questa volta Giovanni, storico cristiano, che
lavorò su diversi codici. Un terzo Diacono, detto il napoletano, compì
un’altrettanta notevole opera filologica e traduttiva. Dal IX
al X secolo la cultura napoletana era ancora prevalentemente religiosa.
In questo periodo sorsero a Napoli molti monasteri benedettini, quindi
altri scriptorum. L’hora et labora, per i monaci,
consisteva essenzialmente nel copiare migliaia di codici destinati ad
arricchire sempre più le biblioteche ecclesiastiche. Non c’era
monastero, a Napoli, che non avesse la sua magnifica biblioteca, ricca
di pergamene e codici miniati. Solo nel periodo normanno la cultura
napoletana prese una svolta, anche perché la letteratura primitiva
venne offuscata dall’insorgere di nuove forme, che allora avranno
avuto carattere di sperimentazione. La cultura dottrinale, basata sulla
dinamica della cogitazione, suggeriva nuove dimensioni di letteratura.
Già si parlava di medicina e teologia. Nacque la Scuola
Medica Salernitana, i cui studiosi furono i precursori della ricerca
scientifica moderna. La Scuola Salernitana ebbe carattere planetario,
nei limiti del vecchio mondo, naturalmente. Dovunque, questi studiosi,
esercitavano la professione di medico.
A pensarci bene questo interesse dei campani per la medicina è un
retaggio storico, a giudicare da un medico per famiglia dei miei
torresi e dall’affollamento della Facoltà di Medicina dell’Università
di Napoli. Dapprima, in questa fucina di scienza e cultura, si
traducevano in latino opere arabe. Nel periodo normanno, intorno al XII
secolo, assunse carattere prioritario la scienza medica. Dai Curiales,
testi di questa letteratura, a mezza strada tra la medicina e la poesia,
si affermò addirittura un tipo di scrittura, la famosa curialesca
napoletana. Il XIII secolo fu il periodo della decadenza di questa
importante istituzione scientifico-letteraria. «Se vuoi star bene - dice
una delle ricette del Regimen Sanitatis - fuggi dalle cure intense e
continue, non adirarti mai, (futtetenne, come dissero a S. Gennaro i
napoletani moderni quando volevano declassarlo), scaccia la passione
intensa. Ma accosta il labbro ai calici di Bacco molto sobriamente; godi
di tutto il cibo, ma in abbondanza, un bel sonnellino al pomeriggio. Non
trattenere né orina né scorregge. Così vivrai
felice e lunga vita». Come attingono lontano le origini
caratteriali del mio popolo.
COMPOSIZIONE TIPOGRAFICA IN PRATICA
Dalla biblioteca ritorniamo in tipografia col dubbio se sia la parte
letteraria ad alleggerire la noia di quella tecnica o viceversa. Anche
qui è questione di forma mentis. Dalle regole per una vita salutare
passiamo a quelle di una buona stampa. Un rigo di scritto non dovrebbe
essere inferiore a 12 righe tipografiche (poco meno di 6 centimetri di
larghezza) e non superiore a 30 righe (testo di libro). Io, in questo
momento lavoro con la giustezza 27 righe. (La misura si riferisce all’edizione
cartacea del 1998. N.d.r.) Un rigo superiore a 30 righe causerebbe
difficoltà a ricercare il rigo successivo, dato che la nostra lettura
non è bustrofedica. Le interlinee tra i righi di scritto sono
necessarie per allungare il testo e per migliorarne la leggibilità. Le
linee linotipiche, generalmente formanti carattere di testo, mai
superiori al corpo 14, ad eccezione di modifiche speciali, e le righe
composte con i caratteri mobili, pur se accostate, senza interlinee,
consentono la leggibilità perché è calcolata una minima spalla,
sopra e sotto il carattere in maniera da evitare l’accostamento delle
lettere.
Le composizioni possono essere: lupidarie, (spazi irregolari ai
due lati); a bandiera (spazi irregolari solo sul lato destro);
a blocco (testo allineato a destra e sinistra, come questo che
leggete). Tale composizione non consentirebbe più di tre divisioni di
parola consecutive; inoltre, l’ultimo rigo di ogni capoverso non
dovrebbe essere inferiore ad un terzo della giustezza del blocco. Ho
usato il condizionale per le due ultime regole perché io stesso non le
ho rispettate in questo testo poiché le ritengo un momentino (come
dicono alcuni) pedanti. E’ curioso notare che, in origine, tutti i
lavori tipografici che non fossero relativi alla produzione libraria
venissero chiamati lavori accidentali. Il XX secolo ha ribaltato
la questione. Il campionario dei caratteri è uno strumento essenziale
per una composizione equilibrata e gradevole.
Lo sviluppo del testo di un manoscritto o dattiloscritto si calcola
contando un rigo dell’originale ed un rigo del carattere prescelto,
quindi si procederà alle due somme e si confronteranno, potendo
determinare, così, lo spazio che occuperà il libro stampato. Calcolo
inutile per il libro che state leggendo, (Ci si riferisce all’edizione
cartacea del 1998. N.d.r.) perché sono partito con un canovaccio di
cinquanta dattiloscritti e ne saranno venuti fuori, affacciato alla
Linotype, oltre trecento, data la posizione desueta di scrittore che
assume un tipografo. Nei casi di composizione ortodossa, dove l’originale
è completo e limato, la sproporzione del conteggio tipografico
effettuato si modifica attraverso la scelta di caratteri più piccoli o
più grandi, oppure più condensati o più larghi, in caso contrario si
è costretti a diminuire od aumentare il numero di pagine. Nel caso di
testi brevi, oltre ad una maggiore interlineatura, si provvederà ad
aumentare lo spessore della carta per dare al tomo maggiore consistenza.
Nei giornali, una volta, in caso di eccesso avvenivano dei tagli anche
tipograficamente arbitrari, nel testo, o, viceversa, nei casi di
difetto, si provvedeva con una maggiore interlineatura o con l’aggiunta
di inserti. Con la fototecnica offset questi problemi non sussistono,
perché il computer provvede a modificare il testo in lungo ed in largo
a seconda delle esigenze di spazio. In un attimo un carattere minuto
diventa espanso, un testo intero tondo diventa corsivo o neretto, e
così via. Cose da far rivoltare Gutenberg nella tomba!
Le correzioni delle bozze di stampa si eseguono, com’è noto,
attraverso dei segni convenzionali, mai standardizzati. Un segno viene
posto sulla parola da correggere ed uno identico sui margini laterali
del testo, accanto al secondo segno viene scritta la lettera da
sostituire o la parola da aggiungere o da fare in corsivo o in neretto,
mediante tre tipi di sottolineatura: tratteggiata, normale e doppia.
Molti segni convenzionali per le correzioni variano non solo da paese a
paese, ma da regione a regione, ed in certi luoghi, da città a città.
I campionari di caratteri tipografici sono più limitati rispetto a
quelli da computer, dove l’unica limitazione può essere lo spazio
sull’hard o il rallentamento del sistema in caso di moltissimi
caratteri istallati.
Negli ultimi tempi le fonderie di caratteri in Europa si contano sulla
punta delle dita. Nell’Europa, ormai unita, le famiglie di caratteri
più diffuse non hanno un nome internazionale standard, malgrado l’importanza
originaria. Ciò che in Italia viene legittimamente chiamato Bodoni,
in Inghilterra viene detto Moderno, in Germania Jungere
Antiqua, in Francia Didot. Così in Italia diciamo Bastone
in Germania Grottesk, in Francia Antique, in Inghilterra
Sans Serif.
Anche i tipografi tradizionali ancora pochissimi non convertiti all’offset
usano spesso i caratteri da computer data la vastità di scelta,
trasformandoli in cliché per la stampa tipografica o adoperand gli
ouptput laser o duplicatori oramai perfezionati. Oggi gli stili
derivanti dalle famiglie principali sono pressoché infiniti, come
illimitate sono le elaborazioni fototecniche di essi. E’ sempre un
riflesso dell’arte moderna: pittura, architettura, scultura,
letteratura. L’avanguardismo ermetico impera; la chiarezza, il
figurato non solleticano più nessuno. Così gli artisti, i politici e,
perché no, i grafici, si danno da fare. L’uomo trova dei sistemi
convenzionali per esprimersi e comunicare, subito dopo li complica per
sconfiggere la noia del consueto. Diceva bene Rene Char: Diffida dell’uomo
e della sua mania di fare nodi. I caratteri tipografici hanno pure
capacità espressiva sulle parole. Ciò in relazione ai titoli ed agli
slogans. Ad esempio non si userà mai un carattere d’asta debole e
sottile per scrivere acciaio, come si eviterà una scrittura
larga e robusta in un titolo come: Fragilità. In pratica i
caratteri, in sede espressiva, si riallacciano sempre alla loro
primogenitura di ideogrammi.
Gli uomini prima sentono il necessario, di poi
badano all’utile, appresso avvertiscono
il comodo, più innanzi si dilettano del piacere,
quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano
in istrapazzar le sostanze.
«La scienza nuova» - Gianbattista Vico
CAP. V
GLI STAMPATI TIPOGRAFICI
L’arma più potente dell’ignoranza:
la diffusione di materiale stampato.
«Guerra e Pace» - Tolstoj
I LAVORI COMMERCIALI DEL POPOLO VESUVIANO
Le botteghe artigiane della mia Torre del Greco e di tutta la
cintura vesuviana e, beninteso, quelle della capitale del sud,
soddisfano in pieno quasi tutte le esigenze relative agli stampati
popolari e d’uso domestico, detti così per distinguerli da quelli di
uso amministrativo, editoriale, ecc. I lavori commerciali, ad uso
privato vanno dalla carta da visita all’avviso murale (e non
manifesto), perché l’avviso, più o meno graficamente povero, rende
pubblica una notizia commerciale, sportiva, culturale; mentre il
manifesto, come elaborato tipografico, esprime un’idea ugualmente
culturale, commerciale, artistica, ecc. Il manifesto è sempre concepito
sotto un profilo grafico originale, partorito, comunque, da una
personalità artistica, per questo si verifica di tanto in tanto qualche
aborto. (Ce ne approfondiremo più avanti nel capitolo specifico).
Alcuni artigiani, tuttavia, spinti dalla odierna bramosia di lucro,
compiono ogni sforzo per incentivare la produzione a discapito della
qualità. In questi casi si seguono schemi fissi di progettazione nell’assenza
quasi totale di inventiva e creatività, rientrando, cosi, nella
dimensione degli imbrattacarte.
Non tutti i tipografi artigiani, quindi, danno un’impronta personale
al proprio lavoro. Ciò è da attribuire pure ad una domanda scadente
che non riconosce un adeguato compenso al lavoro creativo, il quale
richiede più tempo e maggiore impegno. Ma diamo un’occhiata a questi
lavori cosiddetti commerciali, che devono risultare graditi non
solo al cliente, ma soprattutto al pubblico a cui sono destinati. Il
biglietto da visita, ad esempio, e il piccolo grande stampato,
piccolo nella dimensione, grande per l’importante funzione a cui e
destinato. Il biglietto reclamistico può essere nella grafica
più funzionale poiché avrà carattere prettamente commerciale. Ma
tutti i biglietti di presentazione devono essere coerenti con l’attività
o la professione dei loro intestatari perché ne riflettono la
personalità. Il tipografo deve impostarlo su misura come il sarto fa
con l’abito.
La carta da lettera, alias foglio intestato, deve essere
progettata in modo tale da lasciar trasparire, nell’insieme degli
elementi grafici, l’attività esercitata dal suo intestatario, ancor
prima di leggerne il contenuto. Essa deve ispirare fiducia senza lasciar
trapelare nessuna incertezza grafica. Non bisogna mai eccedere con le
estensioni cromatiche e la scelta dei toni dei colori deve essere
sottoposta ad una attenta analisi. In caso di più colori l’accostamento
deve scivolare sul netto contrasto per raggiungere soluzioni di
gradevolezza cromatica. Le buste vanno stampate con la medesima
impronta del foglio, ma leggermente ridotta. I formati regolamentari
riguardo il bustometro sono 11 x 15 e 11 x 23 circa.
La fattura commerciale dev’essere, nella parte superiore,
pressoché identica alla carta da lettera. Come è ben noto, il
prospetto sotto l’intestazione conterrà le fincature dove verranno
allineati i prodotti coi relativi costi, imposte, ecc. Le fatture
moderne prendono forme sempre più desuete, sia per l’adattamento al
calcolatore, che per le sempre più complesse normative fiscali. L’invito
è lo stampato classico per eccellenza che, per estensione, comprende la
gamma di partecipazioni di nozze, nascita e Comunione. Pure questi
stampati risentono le nuove correnti artistiche e letterarie e mutano
nella forma e nel contenuto rispetto ad un sia pur passato prossimo.
Oggi i testi degli inviti vengono compilati in maniera telegrafica, si
assoggettano spesso a forme bizzarre di contenuto in barba alla
seriosità di una volta. I caratteri e la disposizione si riallacciano
ai moduli architettonici d’avanguardia. E’ finito il tempo del pluralis
maiestatis e del carattere stile inglese con le sue aste
delicatissime, nella spinta dell’ornato. E’ tramontata la maniera
della Signoria Vostra e della affettazione delle forme di
cortesia e di galateo, che già da decenni sapevano di bacucco in
parrucca incipriata. I messaggi forbiti e ricercati fanno posto ai testi
concisi nel contenuto e sintetizzati nella forma. Negli inviti relativi
ai party o bisboccie del sabato sera, numerosissime a Torre del Greco,
non mancano le toccatine ironiche ed ilari fino al doppio senso di
significato erotico, perché, cosa ci fate, da noi se non c’è di
mezzo il sesso non si ride.
E qualche vesuviano autentico dirà: ’0 villoco, mo piglia ’a
rrenzecata. Il mio popolo, si sa, coglie tutte le occasioni per fare
baldoria, compresi gli scioperi. Favoloso l’aneddoto dello sciopero al
Rettifilo, (senza voler togliere nulla a nessuno), dove un alto borghese
si avvicina ad una delle migliaia di persone postulanti verbalmente e
tramite scritte il diritto al lavoro: «Ho un lavoro per te». «Di
che si tratta?». «Bisogna lavorare di vanga e di piccone». «Ma come,
con migliaia e migliaia di persone proprio da me siete venuto a
cadere?».
I vesuviani non amano la serietà, figuriamoci la seriosità, e
nemmeno l’austerità, sa di dominazione. I napoletani, da secoli,
hanno messo in pratica una citazione di Marc’Aurelio: “Nulla
accade all’uomo che la natura non l’abbia fatto capace di sopportare”.
Ebbene, nessun popolo al mondo, in passato, è stato capace, come il
nostro, di sopportare tanto spadroneggiare. Il popolo festaiolo di ieri
si difendeva trincerandosi dietro l’ottimismo che dice: o mangi
questa minestra..., o sotto l’egida della Divina Provvidenza. La
frequenza, però, dei mutamenti gestionali di potere alimentavano la
speranza di un definitivo riscatto. E’ chiaro che oggi, economicamente
e dignitosamente, rispetto al passato, stiamo nel ventre della vacca,
alienazione generale a parte. E sebbene i problemi dell’uomo moderno
siano più di natura psicoesistenziale che politica, è sempre
attraverso la politica che la massa pensa di uscirne.
Oggi la stasi politica internazionale stagnata dal deterrente atomico e
la caduta dei sostegni psichici fatti di ideali politico-religiosi,
hanno incrinato l’atavica risorsa del popolo partenopeo di scivolare
filosoficamente su tutti i problemi politico-sociali. La linfa vitale
delle piedigrotte, dei megapellegrinaggi a Pompei o dalla Mamma
Schiavone, le crapule bulimiche che fanno pranzo e cena una cosa
sola non fagocitano più l’angoscia. L’equilibrio psichico secolare
si incrina. Il fine settimana importato dall’estero, i party a base di
alcool e sniffate del sabato sera rientrano nella routine del
tempo libero campano, ma si rivelano una effimera ed insufficiente
panacea rispetto le evasioni di una volta, come le passeggiate salutari,
le lunghe chiacchierate rionali a centro strada, interrotte di
rado da un omnibus, o le catartiche periodiche domenicali, dove
venivano favoriti gli ingenui contatti sentimentali, i quali
costituivano il preludio delle unioni monogamiche vecchia maniera, l’epilogo
della maggiore commedia umana, la famiglia intesa, questa, come
struttura formativa risalente alle più antiche culture. E’
insufficiente mezzo secolo per suggerire alternative ad istituzioni che
sono nate con l’uomo, mai compromesse nei millenni.
La diffusione della stampa, come il resto dei mass-media, è colpevole
della generale confusione mentale, perché le pressioni sociali esterne
relative al progresso materiale repentino e all’evoluzione delle
scienze positive, per lo più asservite alle asettiche leggi di mercato,
hanno disfatto gli appigli ideologici, unico medicamento dell’universale,
antichissimo interrogativo esistenziale dell’uomo. Gli inviti e le
partecipazioni, per fortuna, sono ancora numerosi nella terra vesuviana,
dove, tra l’altro, le metastasi dell’incancrenimento edonistico di
carattere commerciale sono ancora per il momento contenute, tranne che
nei centri con alto reddito. Da noi ancora non è diffusa in toto
l’ipocrisia tipica di quel compromesso notarile a cui
assomiglia l’unione monogamica moderna che coglie in pieno l’assunto
di tutte le regole negative delle famiglie destinate a disgregarsi sul
nascere. Molte unioni legali sono basate su una convivenza di comodo di
carattere egoistico o su effimere basi terapeutiche atte solo a
compensare squilibri personali, quindi destinate al fallimento. Ogni
individuo adulto, però, è in diritto di decidere, in ultima analisi,
sul fallimento o sul successo della propria esistenza, già meno di
quella del partner, ma è delittuoso imporre angherie e disadattamenti
nevrotici sulla pelle di coloro che non chiedono di nascere. Mi salva
dal sentore messianico il sospetto autobiografico di queste note, ma è
ora di tagliare corto con la digressione, introducendo argomenti di
natura diversa relativi agli stampati popolari, che sono così vicini
alla sfera emotiva dell’uomo.
Le partecipazioni di nozze, nascita, Prima Comunione, ecc. vengono
generalmente prodotte da ditte specializzate che servono tutto il
territorio nazionale. Da questa gamma vastissima il tipografo, in
collaborazione col cliente, decide per la scelta e si assume il compito
di completare i prestampati con le notizie fornite dall’avventore.
Questo lavoro, apparentemente semplice, richiede una buona competenza e
molto gusto, perché una cattiva associazione di elementi grafici nel
pre e post-stampato causerebbe distonia e sgradevolezza. L’avviso
murale urbano, il più grosso stampato delle tipografie artigiane, viene
realizzato in macchina pianocilindrica di vecchia fattura, vale a dire
con assenza di automatismi, dato le basse tirature, e con i tradizionali
caratteri mobili di piombo e di legno, oggi in estinzione. Anche l’avviso
cittadino nella tiratura di 50-100 copie viene realizzato in offset.
Nella mia terra vesuviana sono molto diffusi gli avvisi murali di
decesso. Non sappiamo soffrire ancora da soli. Disdegniamo, chissà
ancora per quanto, la massima di Mark Twain: Il dolore può bastare a
se stessi, ma per vivere a fondo una gioia bisogna dividerla con gli
altri. La solidarietà contro gli oppressori ci insegnava a fare
tutto insieme. Uno stampato, l’avviso di lutto, non molto frequente
nella mia bottega di Via Purgatorio a causa dell’emotività della mia
consorte Rosaria, la quale, puntualmente, si scioglie, all’atto della
commissione, in elegiaci convenevoli con il richiedente.
In più, alla consegna, si abbandona in lamentose querimonie con tale
partecipazione che alla fine insorge l’inadempienza remunerativa sulla
ipotetica base della carità cristiana.
GLI STAMPATI «DELLA STRADA»
Nella vasta gamma di lavori commerciali vi è quell’insieme di
stampati che rappresentano una sorta di messaggio popolare relativo a
gare sportive, manifestazioni folkloristiche, promozioni commerciali, e
via discorrendo. Dall’avviso murale alla locandina, dal volantino alla
cartolina pubblicitaria. Di questi stampati si fa largo uso nel
circondario vesuviano, nella metropoli e nei centri più densi di
popolazione. Questi siti palpitano di iniziative culturali di livello
popolare. La produzione è favorita pure dal clima e dalla maggiore
tolleranza sull’imbrattamento urbanistico. E’ probabile che la
natura di questi stampati abbia avuto origine proprio sotto il Vesuvio,
dove le tradizionali feste popolari hanno radici addirittura pagane. L’ambiente
colorito e climaticamente confortevole della strada contribuisce al
perpetuarsi di questi esternamenti dionisiaci, dove si vedono planare
sulle teste aligeri messaggi, là dove, quando sono di carattere
religioso, sembrano provenire, dedaleggiando, dai meandri del cosmo,
proprio dall’aldilà. Caro popolo di festaioli, il nostro, di crapule
e cioncate pure sui cigli delle strade; di abbuffate di taralli con
sugna e pepe, di frattaglie di maiale, di lupini e semi di zucca o
arachidi tostate (’o spassatiempo); di torrone d’Ospedaletto e di
castagne di Montevergine. E così vola tutto dall’alto, intorno al
Vesuvio, oltre alla cenere vulcanica: volantini, tagliandini inneggianti
la gloria dei Santi, oggetti in disuso a Capodanno, sacchetti di rifiuti
domestici dietro il «vigore» della pigrizia.
La carta stampata, anche minuta, rappresenta la modesta alternativa alla
logorrea dei campani. Il cosiddetto non sputare mai è per noi,
ricambio d’ossigeno. Se vuoi uccidere un napoletano condannalo al
mutismo, tappagli la bocca, dopo due giorni non respirerà più neppure
col naso. La parola stampata, invece, un po’ esotica ed aulica,
associata all’atavica suggestione del verismo figurativo, giustifica l’enorme
quantità di carta stampata prodotta in Campania durante le
consultazioni elettorali. V’è una sorta di meccanismo inconscio, nel
mio popolo, che insuffla credibilità a tutto ciò che è stampato. Un
bozzetto eccellente di un lavoro tipografico rispetto ad un equivalente
pessimo lavoro già stampato perde di credibilità, da noi. I cartai
fornitori per arti grafiche sovente portano i ceri a S. Gennaro nella
speranza che il governo vada in crisi. Ogni referendum è un terno secco
per loro. L’Immacolata Concezione e la compatrona di Torre del Greco;
la festa ne è caratterizzata dall’accensione di numerosi falò alla
vigilia. Nel dopoguerra migliaia di volantini e manifesti elettorali
sostituivano il faticoso insufflaggio tramite gli scarseggianti pruni e
sterpi. Le vecchie impalcature del boom edilizio degli anni 60
lanciavano le fiamme sino in Paradiso a ringraziamento dei vani
ricevuti. Tre elementi infiammano, invece, le mie reminiscenze puerili:
lo sfarfallio dei fac-simile elettorali sotto il sole mai avaro; il
veleggiare del bucato sciorinato sulle corde di canapa tra balcone e
balcone e l’effluvio di naftalina esalante dalle balle di indumenti
donati dai liberatori o dalla Croce Rossa lungo la salita
del Mercato di Shangai di Ercolano.
GLI STAMPATI MODERNI
Un settore delle arti grafiche che si è molto sviluppato in seguito
alle riforme fiscali degli ultimi tempi è quello concernente la
produzione di stampati tipografici come bolle d’accompagnamento
(sembrano dame di compagnia), (oggi 2002 soppresse da tempo. N.d.r.),
schede fiscali, ricevute fiscali, e così via.
Documenti che tutti conosciamo bene, ma che, talvolta, fingiamo di
ignorare. Negli ultimi tempi ha invaso il mercato cartario (grazie a
questi lavori che prevedono quasi sempre l’autocopiatura), la carta
chimica. Essa viene trattata in cartiera: sulla superficie vengono
fissate delle microscopiche vesciche di particelle chimiche, le quali,
sotto la pressione delle biro, si rompono lungo il solco della
scrittura, trasferendo il segno sulle copie sottostanti. L’uso della
tradizionale carta carbone subisce un lento declino, come pure la
carbonatura tipografica, antiestetica e insudiciante. Da ragazzo, sia a
Torre che a Napoli o a Roma, durante le prove d’arte, ho dovuto sempre
eseguire la composizione di uno stampato meccanizzato. Un termine
avaro per raggruppare quella serie di stampati che vanno realizzati
attraverso una disposizione rigorosa delle misure relative alle distanze
degli elementi grafici costituiti da caselle, linee, fincature, ecc.
Questi modelli tipografici venivano introdotti in macchine compilatrici
con tabulazione ed interlineature prestabilite, le prime
apparecchiature, cioè, connesse alla contabilità meccanizzata. Ma,
ahimè, le botteghe artigiane hanno visto scemare gradualmente questo
tipo di lavoro, per altro ben pagato, poiché l’avvento dei
calcolatori ha trasformato questi stampati in moduli continui onde
evitare arresti alla stampante. Le macchine per la stampa di moduli
continui vanno al di là delle possibilità economiche ed impiantistiche
delle tipografie artigiane. Così l’industria assorbe buona parte del
lavoro destinato agli artigiani. Le piccole macchine per moduli
continui, o gli adattamenti alle macchine tipografiche, non sono
concorrenziali come costo di esercizio. Un altro colpo mortale vibrato
al piombo tipografico, perché le matrici di questi stampati vengono
fotocomposte per l’offset ortodossa o quella a secco (fotopolimeri).
LE PUBBLICAZIONI ARTIGIANALI
Diverse tipografie artigiane producono piccole
riviste periodiche, giornali locali in formato ridotto, depliants
illustrati, e via dicendo. Molti di questi lavori vengono realizzati col
sistema classico di progettazione perché sono ancora composti col
materiale tipografico: piombo e cliché. Oggi 2002 non più. N.d.r.).
Tali pubblicazioni, pur se stampate in offset, una volta prevedevano la
composizione col piombo linotipico e l’impaginazione avveniva col
montaggio di bozze di stampa su patinata da fotografare o direttamente
su veline per evitare la ripresa fotografica.
Sono poche le tipografie artigiane che utilizzano la fotocomposizione,
costosa e complessa. Negli ultimi tempi è apparso sul mercato delle
arti grafiche un modesto sistema di composizione elettronica detta
editoria d’ufficio. Non emette pellicole da esporre ma copie a
stampa laser da riprendere in camera oscura. In ogni caso la definizione
è medio-bassa, ancora lontana dalla finezza dei caratteri da stampa.
Fino a 1200 punti a pollice per questi piccoli apparati, 2500 e oltre
per le fotocomposizioni professionali.
La composizione di un libro è semplice quando si tratta di testo
corrente, come questo che avete sotto gli occhi. Le cose si complicano
quando si ha a che fare con pubblicazioni ricche di titoli di vario
stile, tabelle, diagrammi, chiose, illustrazioni, ecc. Anche la semplice
impaginazione di libri con testo corrente, però, deve seguire delle
regole ben precise. La fine di una pagina non dovrebbe avere una parola
divisa, non deve terminare con asterischi o fuselli, si dovrebbero
sfruttare le possibilità delle varietà di tono dei caratteri,
possibilmente senza variarne lo stile ed utilizzare il corsivo ed il
maiuscoletto per le differenziazioni. (Anche qui, dove uso il
condizionale, ritengo le regole eccessive e come noterete in questo
testo alcune sono state trasgredite). Riferimento al testo cartaceo del
1998. N.d.r.). Le note vanno disposte a piede di pagina o a fine
capitolo e di corpo inferiore a quello del testo.
Le caratteristiche principali di un libro sarebbero, in ordine
progressivo: l’occhiello, che ripete il titolo dell’opera; il
frontespizio, che ripete le notizie di copertina; il
retrofrontespizio, che rivela la proprietà letteraria; ancora il
Copyright e, in qualche caso, la firma autografa dell’autore; 1’introduzione
e finalmente il testo, diviso in capitoli, questi sezionati in paragrafi
con titoli e sottotitoli, fino agli indici, il colophon o
soscrizione: finito di stampare, ecc., dulcis in fundo, 1’errata
corrige. Perché Gutenberg, insieme alla stampa, inventò l’errore
di stampa, poiché non s’era mai sentito prima l’errore di
scriptorum. In uno dei suoi primi libri l’orefice di Magonza
scrisse spalmorum invece di psalmorum, nel famoso «Psalmorum
Codex» del 1457. I caratteri mobili, essendo tali vengono
inavvertitamente spostati. Hai voglia di leggere la bozza, dieci, cento
volte, nulla da fare. Un editore diceva: La composizione di un libro
senza nessun errore equivale ad un’opera d’arte.
Oggi l’errata corrige è in disuso. I libri sono lo stesso
zeppi di errori, ma, data la società consumistica, chi volete che
esibisca un documento di prodotto guasto al posto del certificato di
garanzia?. Il sottoscritto, ad esempio, non utilizzerà l’errata
corrige, altrimenti dovrebbe stampare un secondo libro a mo’ di
note esplicative, tanti sono, probabilmente, i refusi, per non dire
le... antipedanterie... A Napoli vi sono diverse tipografie editoriali,
senza dubbio di numero parecchio inferiore a quelle del nord
industriale. I complessi tipografici meridionali producono diversi
libri, specie i testi scolastici. Alcune minuscole tipografie artigiane,
pure, talvolta, si cimentano in questa operazione. E’ il caso mio, ad
esempio. Molti di noi sprovveduti, però, ci avventuriamo, magari senza
conoscere a fondo certe regole fondamentali per la realizzazione di un
libro. (Ma guarda che si deve fare per essere solidale!). Ma andiamo
avanti. In questi casi interviene l’autore che monta le bozze
realizzando un vero menabò, il quale servirà da guida al tipografo
impacciato. Accade, però, che l’autore spesso non riesce ad
ottemperare appieno questo compito per la scarsità di conoscenza di
certe regole grafiche fondamentali. Inevitabilmente viene fuori una
pubblicazione alla maniera di Don Antonio.
UN TIPOGRAFO DI CAMPAGNA
Don Antonio è un tipografo di provincia che un giorno mi
interpellò onde essere illuminato proprio sulla realizzazione di un
volumetto religioso. Mi assicurò che il prete era pipì e un po’
fariniello e che non ci teneva a fare brutta figura. In più quando
si arrabbiava, non potendo essere blasfemo, profferiva le più variegate
scurrilità e trivialità da baccalaiuolo o portuale,
giustificandosi con la teoria che i peccati veniali sono sfoghi
consentiti dal Signore. «Una volta, caro Marittiello, (da noi si
vezzeggiano pure i cognomi), solo per scrivere culo, invece di
culto, me ne disse tante che mi fece venire la diarreta. E’
vero che in Chiesa ridevano tutti, ma benedetto Iddio, che è il suo
capo, urlava: devi fare le mani come i piedi; devono fare ventiquattr’ore
di terremoto con te all’epicentro; tu non morirai nel letto tuo,
disgraziato, ciuccio matricolato; figlio di una meretrice (forse
credeva che la buonanima di mia madre vendeva le merende), insomma mi
fece una chiavica!».
La bottega di Don Antonio aveva le pareti incastonate di gabbie e mi
chiarì subito che il suo era un paesello d’amatori d’uccelli. Gli
feci intanto una chiara relazione sul da farsi per realizzare quel
libro. Ad un tratto mi prese sottobraccio per guadagnare l’uscita in
aperta campagna. «Quando esco dall’Alfa Sud - mi disse - il
tempo che mi rimane lo passo un po’ a stampare, un po’ a zappare.
Guarda che bella campagna! Ci pianto tutto, eh, ma solo per il
fabbisogno personale... e di quello dei clienti».
Lo fissai senza intendere. Mi scosse la falda della giacca con
cordiale veemenza ed aggiunse con un tono di rassegnazione nella voce
“Quando sbaglio qualche lavoro - abbassò gli occhi, poi li puntò
in alto, in un posto indefinito - e questo capita spesso, tu sei un
caro amico, a te lo confesso: quasi sempre, Lui’. - Poi ribadì in
tono perentorio, ma ironico - diciamo pure che non ne azzecco una,
va! I fogli vengono troppo scagnati, o troppo ’nguacchiati...
Il mio forte sono gli errori di grammatica. - Sorrise - Mi
volevano dare il premio Nobello sugli errori di stampa, Marittie’...
Basta! Dopo ogni lavoro, al posto di rifarlo, accontento il cliente con
un paio di chili di pomodori freschi, una spaselluccia di fave, che so,
due mazzi di ravanelli... Vedessi dopo il lavoro com’è buono!».
Ridevo di cuore, fino ai singulti. Presi fiato per domandargli cosa
aveva offerto al prete quella volta. «Offerto? Quello se non lo
fermavo si scippava pure le radici da terra. Disse che doveva nutrirsi
molto, perché le arrabbiature gli portavano l’insonnia e lo facevano
dimagrire giorno per giorno. Intanto la perpetua non fece la spesa per
tre mesi... Vedi una «t» che mi costò... Ma che vuoi, caro
Mari, io non lascerei mai la tipografia, le sono affezionato. Poi in
paese hanno soggezione di me, mi chiamano professore, scienziato, uno mi
chiama ministro; è gente ignorante, io almeno ho fatto la prima alimentare
tre volte, poi mia madre, disperata, mi mandò a imparare l’arte da
Ciccio ’o solachianiello, che i giorni pari aggiustava le scarpe e
quelli dispari faceva i manifesti di morto, e diceva sempre Madonna mia
non li fare morire i giorni pari. Quello si che era un maestro. Aveva
fatto fino alla seconda alimentare senza ripetere neanche un
anno».
Mi congedai da Don Antonio perché volevo subito raggiungere Torre
del Greco, ma sulla strada del ritorno m’imbattei in una bicocca
diroccata e polverosa da dove proveniva uno strano suono. Poi distinsi
dei cinguettii di volatili che appurai provenire da una bifora del
pianterreno. Ora quei suoni prendevano un timbro melico e divenivano, a
mano a mano che m’avvicinavo, più articolati e distinti. Ora
ascoltavo una singolare armonia, qualcosa a mezza strada tra un elegiaco
spirituale ed il vocalìo ammaliante delle sirene di Ulisse. I solisti
del concerto emettevano poi vagiti d’infante. Decisi di non
approfondire, ma, voltatomi per riguadagnare il volante, mi scontrai con
lo sguardo enigmatico d’un bimbo paffuto, ma sudicio. Gli chiesi
perché quei volatili emettessero quegli strani suoni. «Il nonno
- disse con un sorriso d’ebete il fanciullo - acceca gli occhi di
tutti con uno spillo, così cantano
meglio».
Non ho più saputo se Don Antonio portò a termine quel benedetto
libro. A seguito di un’altra visita, infruttuosa, seppi che era andato
a vivere a Modena con una figlia che, purtroppo, era divenuta vedova,
come lui. Probabilmente Don Antonio stampò il libro, ma dovette
emigrare per evitare il linciaggio.
A prescindere da questi casi limite, un libro viene realizzato con buona
competenza in molte tipografie artigiane partenopee vecchia maniera ed
in quelle più evolute tecnicamente, convertite alla stampa offset. Le
pagine di un libro, una volta composte, vengono disposte sul piano della
macchina tipografica tradizionale o sulla lastra offset in maniera tale
che una volta stampato ed effettuate le pieghe del foglio, le pagine
seguiranno l’ordine progressivo.
I GIORNALI ARTIGIANALI LOCALI
In passato la stampa per antonomasia era il giornale.
Il popolo oggi identifica il lavoro tipografico maggiormente con i
numerosi, fiammanti rotocalchi, oltre che con i quotidiani. I primi
giornali venivano realizzati nelle botteghe artigiane dell’epoca.
Durante l’ultimo conflitto mondiale, in assenza dell’energia
elettrica, alcune testate si asservivano al procedimento tipografico
artigianale per alcune edizioni ridotte, oltre ad utilizzare rotative e
pianocilindriche come eccellenti ricoveri a difesa dei soffitti che
crollavano. Dopo la composizione manuale di questi quartini di
notizie urgenti, la stampa avveniva nelle pianocilindriche azionate
manualmente con una leva applicata al volano. Ma oggi, com’è noto, l’avvento
della radioteleiconografia in genere, ha ridotto l’informazione
attraverso la carta stampata. Molti editori hanno dovuto ripiegare con l’etere.
I giornaletti di provincia, quelli scolastici o di associazioni
parrocchiali sono sempre meno reperibili in giro. Il fascino della carta
stampata viene offuscato dai nuovi mezzi di comunicazione di massa, che,
comunque, sono meno concreti della stampa. Col giornale od il
libro, ad esempio, si può attingere quando si vuole senza il timore che
le lettere o le immagini si dissolvano dalla carta, sebbene la
videoregistrazione domestico abbia in larga parte sovvertito questo
concetto; ma è difficile, ad esempio, portare in treno o sulla spiaggia
il videotape ed il televisore. La diffusione del computer portatile
risolve, invece, questo problema.
La tipografia artigiana riesce a produrre un giornale, ma nei limiti
quantitativi, naturalmente, con un minimo di attrezzatura
indispensabile, in vasta disponibilità, oggi, sul mercato dell’usato.
Due o tremila copie di un giornale di medio formato (50 x 70 cm.)
possono essere prodotte da una comune tipografia in possesso della
oramai economicissima Linotype, nel giro di 3-5 giorni. Vi sono
tipografie artigiane in Campania che non stampano per nulla lavori di
testo. Esse realizzano solo modellame e bigliettame per cui adoperano
poco o niente la Linotype, ma uno straccio di computer ce l’hanno
tutti per realizzare piccole matrici offset o cliché fotopolimerici.
Nei casi sporadici le piccole tipografie si rivolgevano alle
linotypie, ormai tutte convertite alla fotocomposizione.
La stampa attraverso piccole macchine offset è diffusa pure nelle
tipografie dell’angolo. Sono diverse le tipografie della terra
vesuviana che stampano solo giornali locali e pubblicazioni di bassa
tiratura, sebbene attratte dalla domanda del settore pubblicitario
commerciale. Nelle tipografie editoriali, grandi o piccole, sino a
qualche decennio fa si avvertiva maggiormente il fascino della stampa
gutenberghiana. In quel chilometro quadrato intorno al Corpo di
Napoli si addensano gli emblemi della cultura napoletana relativa
alla stampa. L’Università, Via Benedetto Croce e Port’Alba con le
numerose librerie, la Posta Centrale con la famosa emeroteca e la
caterva di tipografie artigiane, alcune delle quali ancora tradizionali,
talune antichissime.
LE MATTIZIE DI BOTTEGA
Concluderò questo capitolo con delle facezie. Il rapporto di gomito
nelle botteghe artigiane e più costante e comunicativo di quello
domestico, tranne nei casi di incomunicabilità, che sfociano, il più
delle volte, in un mutismo squallido e deprimente, non da napoletani, in
ultima analisi. Le goliardie liceali napoletane degli anni ’60
sono sconosciute alle mie gaie signorinelle: Francesca e Virna, le prime
due cambiali, infinitamente “care”, d’una…
quaterna che la vita mi ha dato. Se tutte le cambiali fossero così...
mi indebiterei fino al collo!
Quelle locuzioni argute ed ilari degli adolescenti post-bellici si
diffondevano in ogni ambiente, dalla scuola alla strada, ai sodalizi,
alle botteghe. I miei ex apprendisti, durante le visite odierne, mi
rammentano queste gioiose mattizie adatte per farla in barba alla
monotonia d’una lunga giornata di lavoro. Ammesso e non concesso
che io ti dicessi di fare poco il berloffo, tu che faresti?
Oppure le caricate traduzioni letterarie di nutriti
epiteti in vernacolo, le quali suonano: Vai ad operare in ciò che
sta sotto il naso di colui che un giorno ti si spense, comunemente
conosciuta come: Va’ fa’ mmocca a chi t’ è mmuorto. O,
ancora: All’alma di colui che a te percosse i funerei rintocchi dei
sacri bronzi, che sta per: All’anema ’e chi te sona ’a
campana a mmuorto. Inoltre: Adesso piroetto sulle tue guance una
discreta dose di enzimi orali, cioè: Mo te sputo ’nfaccia.
E via dicendo...
Le contumelie moderate si limitano a 1’Eva t’amo tanto, che
faceva inviperire le ragazze d’allora. Ché, dire, oggi, al coetaneo
sessantottino: Levate ’a mutanda, equivale al dammi un bacio
d’una volta. Noi anta ci scandalizziamo anche perché ignoriamo
che i giovani si sforzano a naturalizzare il linguaggio sessuale
(il che non è turpiloquio) allo scopo di esorcizzare l’ipocrisia
bigotta del passato. E, fateci caso, alla fine si finisce ancora col
parlare di morte e di sesso, quando c’è di mezzo la vita. Molte di
queste trovate attingono, però, da una tale letteratura popolare
teatrale pre-alfabetismo, come la maggioranza dei proverbi e delle
locuzioni popolari partenopee. Le diffusero personaggi come Pulcinella o
Felice Sciosciammocca, i cui autori attingevano a loro volta dal popolo.
Quando nella bottega annuncio qualche pubblicazioncella, la prima cosa
che mi chiede la gente è: Ma fa ridere?. Il bello è che essa
ride pure quando ho creduto di scrivere cose serie. Non sarà per
partito preso? Forse anche a Napoli, oggi, si insinua quel proverbio che
recita: Quante volte le bocche ridono ed i cuori non ne sanno nulla.
Abbiamo finito col dottrinalizzare pure le risate? Abbiamo fatto del
proverbiale buon umore napoletano un’altra elaborazione culturale.
Se così fosse, poveri noi!
On Luì - dicono sovente gli ex apprendisti quando s’affacciano
all’uscio della mia bottega - All’alma di colui che a te
percosse... Ed io mi commuovo per stupidaggini del genere, perché
tali non sono. Esse sostituiscono i contatti umani d’un tempo, il
senso dell’amicizia, sempre più compromessi, per questo tronco la
frase dicendo: Curre, cammina, va a fa’ ’o duvere tuoie. Ed
egli docile come un cucciolo riconoscente si avvicina soddisfatto alla
“napoletana”. Io noto la prima stempiatura, gli incipienti segni
della sua dissolta giovinezza. Penso a quando, paternamente, lo
dileggiavo dicendo mesci il caffè, ed egli puerile ed ignaro lo
zuccherava. Ah, scarzappulillo, non più imberbe, col tuo pomo d’Adamo
che va su e giù, con qualche dente in meno e la consorte incinta ogni
nove mesi perché non si decide a fare il maschio. Ricordo quando dicevi
al cliente moroso che cincischiava nelle tasche inventando mille scuse:
Ma dicite ca nun tenita a «zuppa». Rieccovi a fare ’o
duvere vuoste, come un tempo, con la napoletana, dove il
caffè scende. Ridico mesci, e voi, meno candidi, lo
versate, dietro un adulto sorriso sornione. E’ accaduto, l’ultima
volta, appena un mese or sono. Un ex scarzuppulillo centellinò
con me quel nettare dell’amicizia e si dileguò per l’ingresso
borbottando di avere una fretta del diavolo. Un attimo dopo ricomparve: «On
Luì - sbotto - me scurdavo ’na cosa importante». Pausa. «Dai,
parla», ruppi. E lui «Ammesso e non concesso che io ti dicessi
di fare poco il berloffo, tu che faresti?». Fu molto più d’un
abbraccio. Grazie, ragazzi, grazie perché mi fate, talvolta,
riassaporare la giovinezza. Ciao Sergitiello Tramontana, Micheluccio
Sorrentino, Enzuccio Santagata, Albertino Ascione, Sergitiello Paduano
Giruzzo Accardo, Totore Vitiello e, l’ultima leva, Fabiuccio Viscovo.
Grazie per aver tollerato i miei sbalzi d’umore dovuti alle vostre
inottemperanze, per aver saputo sorridere a qualche mia verbale
escandescenza: ’Ata fa’ ’e mmane comm’ e piede!
Quel che il tempo ci apporterà sicuramente
è una perdita; un guadagno o un compenso sono
quasi sempre concepibili, non mai certi.
«Appunti per una definizione della cultura» - T. S. Eliot
CAP. VI
AL DI LA’ DEI CARATTERI MOBILI
E’ il lavoratore solitario a fare il primo passo
in un dato campo. I particolari possono essere
messi a punto da un’equipe, ma l’idea prima
è dovuta all’intraprendenza, al pensiero,
all’intuizione dell’individuo.
“Discorso 1951” Sir. Alexander Fleming
GIOVANNI PAPERINO, TIPOGRAFO SVENTURATO
Per introdurre l’argomento concernente la
meccanizzazione delle immagini desidero sintetizzare in poche righe la
storia lirica e fantasiosa di Giovanni Paperino. Molti buoni tipografi
artigiani della mia terra vesuviana amano talmente il proprio lavoro da
farne una ragione di vita. E’ il caso di Giovanni Paperino, tipografo
artigiano provetto, coscienzioso, esemplare, onesto fino allo scrupolo,
per questo, da piccolo, in collegio, passava il suo tempo a curarsi
ecchimosi, contusioni, ed ematomi vari. Ma reprimeva ripetitivamente le
sue idee anticonformiste bruciando molte energie. Allo scopo di non
confermare gli epiteti o le ingiurie di asociale e disadattato Giovanni
stipulò il contratto monogamico. Veniva spesso nella mia bottega di
Torre del Greco per commissionare timbri di seconda mano. Giovanni
Paperino, sosteneva, tra l’altro, che i nuovi problemi esistenziali
dei circumvesuviani facevano perno sulla sperequazione dell’economia.
E’ un dramma, affermava, vivere nello stesso condominio con una
differenza di introiti da uno a dieci. Il danaro, persino a Napoli, è
divenuto l’unico parametro che determina il valore di un individuo, e
via discorrendo. Paperino era tipografo da sempre, Aveva dato i
fondelli, come lamentava lui, prima ai gestori del corso di formazione
professionale, in collegio, poi ai padroni degli anni cinquanta.
Finalmente aprì bottega ad est del Vesuvio, senza il beneficio di
rivendicazioni sindacali, ma attraverso il centesimare dei suoi
risparmi. Ma da quel momento, da paria mediocre del mondo del lavoro
divenne un potenziale buon partito per l’occhio particolare di certe
donne, non molte per fortuna, che ancora oggi ricercano l’affermazione
accovacciandosi sotto l’egida di un marito portapane. Avvenne uno dei
tanti matrimoni terapeutici dove l’illusione dell’idillio durò
giusto i nove mesi della gravidanza. Giovanni Paperino, dietro un
eccessiva possessività materna, da parte della consorte, si vide
escluso dalla sfera affettiva dei congiunti, in più sentiva opprimente
l’ingerenza della suocera.
Non si rendeva conto di alimentare da se queste manovre inferme della
consorte perché non imponeva i suoi diritti e doveri rispettivamente di
marito e di padre. Finì che, per sentirsi
accettato, si immerse nel lavoro, come si suol dire, fino al collo. La
donna, vittima del modello sociale capitalistico si crogiolava sui sensi
di colpa di Giovanni e, attraverso finissimi ed eleganti ricatti morali,
lo spingeva a sudare, come si suol dire anche questa volta, le sette
camicie. (Perdonatemi le puntualizzazioni stilistiche, ma sento sempre
la presenza della buonanima di Croce che mi fissa dal famedio). Giovanni
Paperino, come tutti gli adulti bambini era, tutto sommato, un candido
ossessionato. Il conflitto si consolidò quando, preso dal bisogno della
fuga, dovette lottare intensamente contro la rinuncia affettiva dei suoi
figliuoli. Una coppietta di pargoletti tenerissimi, si confidava, due
batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro celeste, sebbene,
secondo la moglie, lui avesse contribuito al loro concepimento solo
attraverso un meschino, scellerato semino.
La fetta di potere ottenuta dalla moglie di Paperino era insufficiente
secondo il parametro vigente, a stento riusciva a snobbare i condomini.
Sebbene fosse detentore di una posizione economica superiore alla media
nazionale, l’uomo si sentiva meschino, inottemperante, un poveraccio
da questua. Schiacciato dalle pressioni domestiche il tapino decise di
recarsi a visitare la famosa rassegna grafica del capoluogo lombardo
onde acquistare macchine rapidografiche, turbografiche e, come si suol
dire (per la terza volta), chi più ne ha più ne metta.
Il poveretto, stressato, esaurito, avvertì un malessere nell’aereo,
ma invece di prendere la direzione della toilette aprì per errore un
portello dell’abitacolo pressurizzato e precipitò. Non ebbe paura
perché non dirupava, ma veleggiava, ora cabrava, ora picchiava, su,
giù, a destra e a manca. Per la prima volta nella sua vita provò l’ebbrezza
della libertà. Ad occhi aperti agitava le braccia come un volatile. Il
suo cuore era inerte, non discerneva più la gioia e il dolore, il riso
e il pianto. Una dimensione senza principio ne fine. Poi il vento lo
spinse sempre più oltre, raggiunse la velocità della luce e confermò
la teoria di Einstein, il tempo si arrestò quando sentì il suolo
dolcemente sotto la regione plantare. Dischiuse le palpebre e non gliene
importò un frego di essersi trovato in un retorico immenso prato,
illuminato da un rancido tepido sole onde poter mirare, stagliato
sull’orizzonte infuocato, la diafana creatura dei suoi sogni, la sua
compagna ideale. Giovanni era precipitato in un altro mondo alternativo;
in questo singolare paradiso sentì scrollarsi
di dosso la vecchiezza di millenni di cultura inferma che gli aveva
iniettato sotto l’epidermide la paura di vivere e di morire. Quel
mondo gli rammentava il candore dell’infanzia, la fiducia e la
sicurezza disgregata dal presente. Scoprì l’epilogo della teoria
spazio-tempo, non già l’eternità, ma la vita a ritroso. A mano a
mano che gli anni andavano, Paperino e la sua meravigliosa compagna
ideale ringiovanivano sempre più fino a divenire due pargoletti
paffuti, due batuffoli di cotone idrofilo, l’uno rosa, l’altro
celeste, per poi addormentarsi dolcemente in una culla di giunco,
irradiati dai loro candidi sorrisi, nella consapevolezza soave di un
posto assicurato nel, (cosiddetto per la quarta volta), retorico limbo.
IL CLICHE’ DI ZINCO
Il sogno, invece, dei tipografi artigiani comuni, è
stato sempre quello di poter realizzare cliché nella stessa bottega. Le
complesse fasi del procedimento zincografico hanno sempre scoraggiato
anche i tipografi più intraprendenti. Gli zincografi, agli occhi dei
tipografi del piombo fuso, sono sempre apparsi come una sorta di
alchimisti privilegiati che indettavano maestrie tecnicistiche e che,
comunque, esercitavano un certo ascendente sui loro asserviti. Ma la
chimica industriale ha fatto giustizia, ha messo a punto i composti
fotopolimerici, i quali consentono di ottenere cliché in casa
attraverso un procedimento (come cadono bene le locuzioni): all’acqua
e sapone e all’acqua di rose. Infatti, dopo la semplice
fase di esposizione, lo sviluppo avviene in acqua di rubinetto.
Bisogna ricordare che, per quanto la stampa offset abbia soppiantato
quella a caratteri mobili vi sono delle lavorazioni che restano
tipografiche e, allo stato, non si possono sostituire: stampa in oro
tramite foil, stampa di supporti cartacei preconfezionati, rilievografia
classica e chimica, ecc.
Vediamo, per il momento, come viene fabbricato un cliché di zinco al
tratto. Devo subito puntualizzare che il procedimento fotografico per
ottenere la matrice di qualsivoglia veicolo di stampa e sempre lo
stesso. E’ necessaria, in tutti i casi, una maschera che consente alla
luce attinica di agire o meno. Questa matrice della matrice, per così
dire, è essenzialmente costituita da una pellicola o un montaggio di
pellicole fotografiche. Per ottenere un semplice cliché di zinco,
dobbiamo sfruttare la contrapposizione della pellicola ortocromatica ad
alto contrasto: nero totale o bianco assoluto. Immaginiamo di voler
convertire in cliché anastatico un disegno o una pagina di scritto.
Fotograferemo l’originale con un apparecchio specifico capace di
incamerare negativi di grosso formato o più semplicemente
scannerizziamo la pagina fino ad ottenere con il procedimento
disponibile: laser, fotounità, ecc. una pellicola negativa che
risulterà, come è noto, nera la dove le zone dell’originale sono
bianche, e trasparente dove sull’originale risulta nero.
Lo zincografo avrà preventivamente preparato la lastra di zinco con una
speciale vernice fotosensibile, spalmata in centrifuga onde ottenere uno
strato omogeneo. Fatta essiccare, la lastra viene sottoposta alla
pellicola a perfetto contatto in appositi bromografi sotto vuoto.
La luce attinica agirà solo attraverso le zone trasparenti, nel nostro
caso i segni delle lettere e il disegno. La vernice fotosensibile
indurirà solo nei punti colpiti dalla luce. Le zone neutre rimarranno
solubili allo sviluppo che lascerà, in quei posti, ricomparire il
metallo. E fin qui nulla di complicato, a parte la centrifugazione del
bicromato sensibile sullo zinco. La difficoltà si presenta quando si
immerge la lastra in acido nitrico che corroderà lo zinco solo nei
punti esenti di vernice. La laboriosa incisione è sotto costante
controllo dell’operatore che eviterà innanzitutto attacchi impropri
dell’acido al fianco dei rilievi delle lettere in formazione. Quando 1’incisione
chimica avrà raggiunto la profondità desiderata il cliché è bello e
pronto per la stampa. Esso avrà l’aspetto del bassorilievo di un
comune timbro, laddove gli elementi grafici sono disposti a rovescio e
in rilievo e le parti bianche (sulla carta) sottoposte. Il procedimento
fotopolimerico è pressoché identico con la differenza che non esiste
acidazione, lo “scavo” del bassorilievo avviene spazzolando con
acqua di rubinetto tiepida. Ciò consente a chiunque di fabbricare
cliché di “plastica”.
IL RETINO
Fin qui abbiamo appreso che i segni in superficie del
cliché raccolgono il colore dai rulli inchiostratori delle macchine
tipografiche per trasferirlo sulla carta, similmente alla funzione del
rilievo dei caratteri mobili. Le zone più basse che costituiscono la
base dei rilievi di stampa non sfiorano i rulli e risultano bianche
sulla carta. Ma come si ottengono le tonalità di grigio in una foto
stampata? Se proviamo a tracciare su d’un comune foglio bianco tanti
puntini precisi ed equidistanti tra loro noteremo che alla distanza di
qualche metro essi scompariranno dal nostro controllo visivo ed
apparirà una zona di una distinta tonalità di grigio. Più piccoli e
distanti saranno i puntini, minore sarà l’intensità del grigio. Per
ottenere un grigio piuttosto scuro dobbiamo tracciare dei punti più
nutriti e più accostati. I punti addossati o fusi formano il nero. Se
queste tracce vengono articolate in relazione a delle figure otterremo
una rudimentale immagine tipografica da giornale.
Il clichè riproducente una fotografia ha lo stesso principio del nostro
puerile esperimento, è composto da parti microscopiche totalmente nere
o bianche, quindi alte e basse. Il segreto sta nella caratteristica
microbica dei mirmifici puntini, che non vengono percepiti ad occhio
nudo come tali, ma quali zone grigie più o meno scure che vanno appunto
dal bianco al nero. Un cliché di una foto, detto a mezzatinta,
presenta, nella sua struttura, una miriade di punti di microbica
dimensione a diversa distanza da loro: piccolissimi e distanti nelle
zone chiare; più sostenuti e ravvicinati in quelle medie; quasi uniti
nelle parti scure, nelle zone nere sono fusi assieme e si va nel
fondino tipografico. Quindi l’omogeneità dell’inchiostro
distribuito dai rulli viene rotta dalle differenti zone di presa dei
puntini.
A scomporre l’immagine in punti, in sede fotomeccanica, è il
retino, costituito da un supporto dello spessore vario, a seconda se
si tratta di retino a distanza o a contatto. Il retino a contatto, molto
diffuso e pratico, è spesso quanto una pellicola e altrettanto
flessibile, nella cui base semitrasparente appaiono fittissime serie di
linee orizzontali e verticali, l’incrocio delle quali forma i punti
che allo stato di retino sono tutti uguali. Essi si assottigliano per
riflessione ottica della luce in fase di ripresa lungo le parti chiare
dell’immagine; al contrario nelle parti scure si ingrossano perché la
luce riflessa è minore. Il retino viene anteposto, a stretto contatto
(sottovuoto), alla pellicola vergine in fase di ripresa o nei passaggi
da negativo in positivo e viceversa. I retini vanno da un minimo di 25
linee a cm. quando il cliché è destinato ad una carta ruvida come
quella dei giornali; 40 linee per carte collate e lisciate, fino ad 80
linee ed oltre per le carte patinate. L’offset consente un maggior
numero di linee del retino, perché il sistema trasferisce solo un
sottile velo di inchiostro ed evita l’impasto dei punti. Il retino 25
linee dei giornali è visibile ad occhio nudo come la luna ed il sole.
Per osservare bene una retinatura oltre le 60 linee è necessaria una
buona lente d’ingrandimento. Oggi la selezione dei colori è
totalmente computerizzata e la possibilità di errori è minima.
I TIPOGRAFI DIPENDENTI NEL NAPOLETANO
La stampa di foto a colori (policromia) come avviene?
«Attraverso quattro immagini retinate sovrapposte» rispose
Giorgio ad un mio cliente. Io non ho mai conosciuto un artista più
sincero, autentico, folle, di Giorgio, né in tutta Torre del Greco, col
suo Istituto d’Arte, né ad Ercolano, né a Napoli, né in tutta la
Campania. Giorgio era una tavolozza personificata. Erano i tempi
in cui il Ministero della Pubblica Istruzione ebbe delle crisi di
coscienza ed istituì numerosi corsi serali
di recupero per anziani e giovani volenterosi. Era già caduto l’Impero
Padrone, almeno nel linguaggio; il sessantotto a una spanna. Noi giovani
campani avevamo in comune il problema dell’occupazione. Nasceva il
posto clientelare e quello da comperare. Anelavamo la “sistemazione”
per assicurarci la nostra fetta di dignità, per uscire dall’emarginazione
e dalla miseria. Provenivamo da una Napoli prostrata nei disagi e nell’inedia.
Malaparte ci ricorda la drammaticità di quegli anni, forse eccedendo
nella trasfigurazione artistica con fioriti, declamatori ed ampollosi
virtuosismi di stile. Tutti i popoli nell’annichilimento prolungato
diventano servili e confusi. Nella disperazione non esistono popoli
migliori o peggiori, ma solo folla di individui che, obnubilati, lottano
per la sopravvivenza. Qualsiasi altro popolo al posto di quello
napoletano, non avrebbe fatto cose migliori. E’ facile giudicare
con la pancia piena, come diciamo noi. Con buona pace di Curzio, che
amo e ammiro come scrittore e come persona, “La Pelle”
sarebbe stata stilata dietro un’altra ottica se, invece di trovarsi,
egli, nella condizione di consumare bisbocce con gli anglo-americani, il
destino l’avesse voluto gomito a gomito coi diseredati, a dormire nei
loro tuguri, a soffrire la propria fame e per quella dei figli, che egli
non aveva e non solo a osservarli di passaggio, con l’occhio distorto
e assetato del cronista.
Ecco perché un posto, nel dopoguerra, rappresentava la mèta per
i giovani di allora, a cui le madri ancora rammendavano i calzini o
facevano risuolar le scarpe. Allora, oggi si dovrebbe rifiutare il
benessere, ammesso che sia veramente tale? No, si dovrebbe apprezzare la
parte buona di esso, ma non si può quando, sotto la molla consumistica,
esso alimenta un crescendo di se e rende i consumatori dipendenti di
dosi crescenti all’infinito. Mai come oggi cade bene la locuzione:
stavamo meglio quando stavamo peggio, e non credo che sia solo un
qualunquistico luogo comune. La vita dei campani era senza dubbio più
serena nel secolo scorso, sia pure nelle ristrettezze e nel servilismo,
perché si apprezzava e si utilizzava bene quel poco che si otteneva.
Chi poco tiene caro tiene, si dice a Napoli. Questa condizione
mentale è totalmente sconosciuta alla generazione attuale.
La stampa tipografica ebbe il suo fulgore ai tempi della Serao. La
moglie di Scarfoglio fu la prima a scuotere il dirigismo politico e
difendeva tutte le categorie disagiate dei lavoratori, non di meno i
tipografi: «Napoli - diceva - è il paese dove meno costa l’opera
tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un
terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a
Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in
questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono
certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare
neppure tre numeri...». Ciò accadeva nel 1906. Dopo due grandi
guerre la situazione era immutata, se non peggiorata. Ricordo con
amarezza le angherie umilianti che i tipografi, capi di famiglia,
dovevano subire a salvaguardia del posto di lavoro.
Oggi, grazie a Dio, tutti i tipografi dipendenti hanno riscattato
diritti e dignità, sebbene, in diversi casi la pizza degli abusi si sia
rivoltata. Questo dimostra che non esistono categorie o classi buone o
cattive, ma che la benignità e la malvagità sono delle condizioni
mentali presenti in ogni uomo, e che insorgono secondo la posizione che
si detiene, in base a quale lato si tiene il coltello. L’homo
homini lupus di Plauto, quindi di Hobbes, è l’estremizzazione di
una cruda realtà, anche se oggi alla luce della psicanalisi si tende,
se non a giustificare, a capire i meccanismi di difesa-aggressione dell’uomo.
Perdonatemi il tono messianico, il dare sempre l’impressione di
correre sul filo della bravura e della filantropia, ma devo riportare un
proverbio della raccolta di Annarosa Selene: Ci vuole un coraggio da
leone per astenersi dal fare violenza ai deboli.
GIORGIO, AVANGUARDISTA AUTENTICO
Quando ripenso a Giorgio, vero maestro del colore, esperto di
grafica artistica da riproduzione, mi prende il magone. Rimembro i tempi
andati del dopoguerra, quando noi ragazzi campani venivamo coinvolti nei
mestieri improvvisati dei grandi. Una volta tentai di fare il madonnaro:
fu un disastro, la pittura non faceva al caso mio. Infatti non ho mai
capito la pittura di Giorgio. Amavo il suo entusiasmo, il suo credere
ciecamente alla propria opera. Diceva che nelle sue
super-avanguardistiche tele vi era concentrata tutta la travagliata
storia di Napoli, un popolo clown. Ricordo Giorgio nella sua grossa mole
fisica, quando fece saltare la serratura della porta d’ingresso di Via
Purgatorio con una spallata. Si difese subito dicendo che la nostra è
un’epoca disonesta, perché fanno le porte di ricotta...
«Desidero cento visita - aggiunse. - Lui’, me li devi
consegnare… ieri».
Giorgio mi osservava, con la testa altrove, mentre infilavo nel
gruppo di rulli della pianocilindrica dei fogli di prova stampati più
volte allo scopo di sottrarre inchiostro eccessivo. Mi fece notare che
quelle scartine avevano fatto tutte le guerre. Infatti erano
fogli di avviamento, passati per la macchina più volte in un arco di
tempo lungo. Dove compariva una scritta, dove un fondino carminio, più
in là un tono di colore indefinito, e tanti altri elementi frammentari
e alla rinfusa. Un risultato che a volerlo realizzare non bastava
Picasso; una di queste scartine di cartoncino rigido non si arrotolò,
riuscì spontanea dalla macinazione
e veleggiò intrepida per adagiarsi docile ai piedi di Giorgio. L’uomo
dilatò le pupille e tentava di dischiudere le labbra nello sforzo vano
di profferir parola. Era in completa afasia, tanto che io sospettavo i
sintomi incipienti del grande male. Raccolse la scartina con la
cautela di un artificiere, la poggiò lentamente sul banco, indi mi si
avvicinò e mi estorse dalla guancia l’adesione ad un bacio vigoroso,
per fortuna brevissimo. Lacrimava di cuore, poi si dimenava nel corpo,
batteva i piedi sul pavimento, indi faceva le fusa e sorrideva ebete.
Prima che incominciasse a rotolarsi per terra capii che provava una
gioia autentica, puerile. Tra riso e pianto, tremante, in pieno orgasmo
fece il gesto di rilasciarmi un assegno, poi, per mia sfortuna, si.
rimise il carnet in tasca dicendo che una tale opera non aveva prezzo,
il cui compenso non rientrava nelle sue possibilità. (Il suo conto
corrente era sempre in rosso...).
Quella scartina, per me, onestamente,
insignificante, fu la vita per Giorgio. Quando gli dissi, più dietro lo
spavento che dietro la generosità, che poteva tenerla, ricominciò con
quei, devo confessarlo, disgustosi baci a labbra piene. Fosse stato un
russo o un mafioso, povero me! Quella scartina fu l’emblema del suo
genere artistico, che, nemmeno nei momenti di pathos di più alta
ispirazione, di maggiore follia creativa aveva saputo realizzare. Prese
a sbaciucchiare la macchina tipografica, la fece lustra, (anche se un
tantino maleodorante), come il gatto fa col proprio corpo.
Malgrado le apparenze paranoicali, Giorgio era tanto buono, non solo,
pure culturalmente preparato, e di una intelligenza singolare. Si dirà:
non vuol dire, ma e mille volte preferibile un folle buono che un
equilibrato malvagio. Giorgio era quello che si suol dire un vero amico.
Egli sfatava l’assioma di Pierre Reverdy: L’amicizia è una
complicità e, quando cessa, l’amicizia svanisce.
Giorgio fu amico sino alla fine. Nel letto di morte cincischiava all’altezza
dei precordi nel tentativo vano di raccogliere un portafoglio che non
aveva mai contenuto più di tre o quattro banconote, voleva ripagarmi
quella gioia che, senza alcuna fatica, involontariamente gli avevo dato
cinque anni prima in quella negletta fucina di maestosi esempi di vita
che e la mia bottega di via Purgatorio. Pensai, in lagrime, quanto basta
poco per rendere felice un uomo rimasto lontano dall’affettata, adulta
sedicenza, un uomo che aveva provato l’ebbrezza di sentirsi grande in
una dimensione bambina. Una parte del mio smisurato amore per le arti
grafiche è dovuta a lui.
LA STAMPA DI FOTO A COLORI
L’argomento relativo alla stampa a colori è così
vasto e complesso che costerà fatica sintetizzarlo in poche parole. L’immagine
a colori viene scomposta otticamente nelle sue tre tinte fondamentali
per venire ricomposta in sede di stampa con i tre cliché retinati da
sovrapporre. Gli inchiostri fondamentali sono il giallo, il magenta e il
turchese, i quali, fusi insieme, grazie alla percentuale differenza dei
puntini durante la sovrapposizione, ricompongono tutti i colori dell’immagine
originale, persino il nero, ricavato con la somma dei tre colori
fondamentali. Quando il nero ottenuto dalla tricromia non è sufficiente
si provvede a creare il quarto cliché del nero, ottenuto con 1’uso di
tutti e tre i filtri di selezione. Per ottenere il cliché che sarà
stampato col colore magenta si userà il filtro verde; per
il cliché del giallo si adopererà il filtro viola; per
quello del turchese il filtro arancio.
Per meglio comprendere il principio del filtro basta tracciare su di un
cartoncino bianco due zone colorate: l’una nera, l’altra rossa, Se
si osserva il cartoncino al buio sotto la fioca luce di una lampadina
rossa del tipo per camera oscura, sarà visibile solo la zona nera
disegnata. La lampadina rossa ha rappresentato il filtro che ha
sottratto il colore come per incanto. L’occhio vigile dell’apparecchio
fotografico si comporta allo stesso modo. Tutti i cliché tipografici di
zinco dello spessore medio di 2 mm. vengono montati con doppio adesivo
su blocchi sistematici di duralluminio della stessa altezza del
materiale tipografico (cliché compreso), in sostituzione delle vecchie
basi di legno, mai rettificate. Oramai non si realizzano più
quadricromie con i cliché zincografici, ma il procedimento della
selezione dei colori è lo stesso non solo per la stampa offset, ma per
qualsiasi veicolo di stampa antico o moderno. Le lastre litografiche,
intanto, hanno bisogno, per essere esposte, di un positivo anziché un
negativo.
A MODA OFFSET
Con i clichè di zinco l’argomento
della stampa a caratteri mobili è, per il momento, concluso. Tutti gli
altri sistemi di stampa prescindono da quella rilievografica
ideata da Gutenberg. La stampa offset, detta planografica
(elementi stampanti e bianchi sullo stesso piano) è basata sul
principio di repulsione tra l’acqua corrente e gli inchiostri grassi
tipografici. La lastra offset, in ogni fase di stampa viene inumidita da
un velo d’acqua dai rulli bagnanti, e immediatamente dopo unta da
quelli inchiostranti. Le zone della lastra che dovranno risultare
bianche sulla carta, predisposte al principio di repulsione dei grassi,
rifiuteranno l’inchiostro, se umide; le zone costituenti il disegno e
le scritte, malgrado l’umidificazione vengono perfettamente
inchiostrate, sempre che l’umido non sia eccessivo. Viceversa, una
eccessiva inchiostrazione imbratterà, se pure irregolarmente, le zone
di bianco. Realizzare una lastra o matrice offset è più semplice di
quello che si pensa. Il montaggio positivo: supporto trasparente con
zone stampabili nere, viene posto a perfetto contatto con la lastra
pre-sensibilizzata per la fase di esposizione a luce attinica. Le lastre
offset sono positive per un processo di inversione del materiale
fotosensibile, onde agevolare il montaggio che in positivo è più
facile. La fase successiva all’esposizione è molto semplice perché
non è previsto nessun processo di acidazione come per i cliché di
zinco.
Le matrici offset vengono sviluppate attraverso lo strofinio piuttosto
vigoroso di un tampone manuale con alimentazione progressiva di un solo
bagno. Immediatamente dopo le lastre, se non vengono subito adoperate
per la stampa, vengono protette dall’ossidazione tramite un velo di
gomma applicato con un tampone imbevuto, La gomma, essiccata, viene
asportata con acqua solo quando la macchina offset è pronta per l’abbrivaggio.
Mentre la realizzazione di un clichè di zinco costituisce solo una
delle numerose fasi di preparazione dell’assemblaggio in piombo, la
lastra offset rappresenta la matrice grafica completa, il supporto,
cioè, come unico elemento matrice di tutto un preventivo lavoro
fototecnico realizzato sui tecnigrafi, con la fotocomposizione, nella
camera oscura, sui banchi luminosi di montaggio o addirittura totalmente
impaginato a video.
Il materiale del grafico offset e costituito essenzialmente da immagini
nere su supporti trasparenti. I neri sostituiscono i caratteri
tipografici e i cliché di zinco; le trasparenze: la marginatura. Il
lavoro di montaggio sugli astralon e idealmente simile a quello della
composizione tipografica. Tipografia come mosaico, offset
come collage. Il montaggio classico relativo alla realizzazione
della lastra offset avviene posizionando l’astralon a contatto su di
un foglio millimetrato trasparente che favorisce il calcolo delle
distanze, gli allineamenti, ecc. Il sistema offset incomincia a
rientrare nell’ordine di idee anche delle botteghe tipografiche dell’angolo
che provvedono all’acquisto di una piccola macchina. Sono comunque
sprovviste della fotocomposizione, ancora di costo elevato, fino a
qualche anno fa si realizzavano le lastre fotografando le bozze
tipografiche. Negli ultimi tempi si è diffusa una configurazione
computeristica modesta, a basso costo, denominata Editoria d’ufficio
che è antata via via sempre più perfezionandosi e arricchendosi.
Il sistemia non equivale, pero, alla fotocomposizione, soprattutto a
causa della bassa definizione (massimo 1200 punti a pollice col sistema
laser), ma idonea per tutti i lavori di piccola entità senza grosse
pretese qualitative.
A contribuire allo sviluppo dell’offset sono le evoluzioni tecniche.
Le moderne macchine elettroniche dette a scansione, per esempio,
hanno completamente automatizzato la selezione dei colori. I vecchi
cromisti sono scomparsi insieme alla loro partecipazione emotiva a quel
complesso lavoro. Forse le selezioni di colori saranno meno
personalizzate con i prodigisell’informatica, ma non si può dire che
siano scadenti o imperfette. Le macchine consentono maggiori controlli,
correzioni preventive sulle maschere, su cui è possibile agire con ogni
sorta di elaborazione. Il montaggio degli elementi selezionati viene
fatto su di un’unica traccia detta viola, costituita da un
supporto fotosensibile su cui viene impressionata la struttura generale
del montaggio. Il colore viola, come falsariga dell’immagine da
sovrapporre, è neutro per la luce attinica. La viola è
indispensabile per garantire la perfezione micrometrica dei retinati
selezionati da sovrapporre l’uno sull’altro, incerta ed imprecisa se
eseguita montaggio su montaggio.
CENNI SUL ROTOCALCO
Noi meridionali spesso accusiamo qualunquisticamente
sempre la dirigenza politica. I settentrionali, dal canto loro,
attribuiscono le cause del lento sviluppo del sud all’inerzia del
popolo stesso dovuto a fattori storici, ambientali, climatici, ecc. E
quando si ricorda che i nostri emigrati a Milano o in Europa sono quelli
che producono di più viene risposto che essi vengono fuori dal guscio,
cambiano clima e mentalità e dimenticano storia, costumi e abitudini,
ma soprattutto, vengono condizionati dall’ambiente produttivo, umano e
meccanico sopra la molla dell’emulazione. Comunque vadano le cose la
realtà è inequivocabile, nel settentrione d’Italia vi sono diecine e
diecine di officine grafiche di grossa entità, molte delle quali
adottano il sistema rotocalco. Nel sud questi impianti si contano sul
naso. E pensare che il primo rotocalco illustrato fu napoletano.
Il rotocalco, come ho gia detto in precedenza, deriva dall’antica calcografia.
Abbiamo pure visto che il sistema offset prevede matrici di stampa
caratterizzate da elementi stampanti e bianchi disposti sullo stesso
piano e che vengono differenziati dal principio di repulsione acqua e
inchiostri grassi. Inoltre sappiamo bene che il sistema tipografico,
esente da tali processi chimici, sfrutta l’antichissimo principio dell’incisione
xilografica, rilievi: stampa, incavi: bianco. Le matrici
rotocalcografiche, invece, curve perché montate
o costituite da cilindri di rame, sfruttano il principio della vecchia
incisione calcografica. (Rilievi: bianchi, incavi: stampa).
La preparazione di matrici rotocalco prevede sempre il solito
montaggio fototecnico. L’incisione del cilindro avviene tramite
acidazione come per i cliché di zinco. Dopo che è stato trattato con
uno strato di gelatina fotosensibile, all’atto dello sviluppo
rivelerà spessori diversi in relazione ai vari toni dell’immagine.
Là dove la gelatina è meno spessa (zone scure) l’acido scaverà in
maggiore profondità; dove è più spessa (zone chiare) l’acido avrà
meno tempo di morsura per cui gli alveoli saranno meno incavati. La
diversa profondità degli incavi determinerà i toni dell’immagine in
tutta la gamma dei chiaroscuri. Tutto il cilindro è comunque alveolato
in maniera uniforme poiché non è lo spessore degli alveoli che
accumulano più o meno inchiostro, ma la loro profondità. Più profondi
sono gli alveoli di un tratto, maggiore inchiostro assorbirà la carta.
Gli alveoli poco profondi trasferiranno poco inchiostro e daranno zone
grigie. L’assenza di alveoli darà il bianco.
Il cilindro rotocalcografico viene “innaffiato” con lo spruzzo di
inchiostro liquido, alimentato da una pompa. Il colore, ad essiccazione
rapidissima, inonda gli alveoli, mentre una racla deterge subito gli
eccessi. Sulla carta viene trasferito solo il contenuto delle incisioni.
Per ovviare alla durezza della stampa rotocalco, rispetto alla
morbidezza delle immagini consentita dagli altri sistemi, si usa
retinare tutto il cilindro rotocalcografico, anche nelle zone totalmente
nere costituite da titoli e testo. Le immagini si ammorbidiscono, ma i
caratteri piccoli perdono di nitidezza. Se osserverete i caratteri di
testo su di una qualsiasi rivista rotocalco, noterete tanti mezzi
puntini specie intorno alle lettere piccole. Con una lente d’ingrandimento
distinguerete la retinatura. L’alveolatura, chiaramente, è
invisibile. Devo aggiungere che negli ultimi tempi si è tentato con
successo di variare i punti del retino relativo alle tonalità,
ciò solo nei toni più chiari della scala dei grigi, esattamente fino
al 50%. Oltre questa intensità di chiaroscuro agisce solo la
profondità degli alveoli. La stampa rotocalco è il veicolo che
maggiormente gonfia le edicole. Quando si parla della stampa relativa
alle edicole le lettere dell’alfabeto, messe l’una dietro l’altra,
formano distanze che bisognerebbe misurarle in anni luce. Per fortuna il
linguaggio dei rotocalchi non viene dottrinalizzato ma è conforme ad
uno strumento convenzionale di realtà esteriore. Forse il linguaggio
più giusto, perché assimilato da tutti. Ma dice Humboldt: Il
linguaggio ha origine ogni qual volta si parla. Le centinaia di
riviste illustrate che settimanalmente affollano le edicole adoperano la
lingua d’uso corrente per motivi commerciali, rasentando appena quella
letteraria, espressiva, tecnica, aulica o settoriale delle librerie. Il
successo di queste pubblicazioni è dovuto alla stessa edicola, sempre a
portata di… piedi, il principale veicolo di distribuzione di
letteratura di massa facile e popolare.
LA CULTURA NAPOLETANA MEDIOEVALE ALL’APICE DEI
CODEX
E QUALCHE DIVAGAZIONE
E’ arrivato il momento di trattare la stampa serigrafica.
Intanto faremo un’altra sosta nel passato napoletano con la macchina
del tempo della nostra fantasia. Ritorniamo al medioevo nel periodo di
maggiore produzione dei codex. Il primo utilizzo della stampa
serigrafica, però, risale a tempi molto remoti, poi l’impiego si
dileguò nel tempo perché inadeguato agli interessi prevalentemente
culturali dei due millenni. Il consumismo del XX secolo l’ ha
riportata alla luce. La storia ci ricorda corsi e ricorsi, mode che
ritornano e riflussi. Nel medioevo la serigrafia non è mai stata
applicata. Le esigenze di decorazione si limitavano a supporti come
carta, pergamena e affini stampabili con la xilografia e la calcografia.
I testi scritti venivano prodotti dalle officine scrittorie, che a
Napoli furono sempre numerose, grazie ai monaci. La stampa serigrafica
ha poco da spartire con la cultura, in passato come oggi, ad eccezione
dell’arte pittorica, estesa alla grafica in serie, poiché la
pubblicità a cui essa è asservita, vanta oggi, bisogna riconoscerlo,
delle inconfutabili forme d’arte. Il medioevo napoletano ricorda una
tappa importante per la cultura, la fondazione dell’Università di
Napoli. I dubbi che fosse stato Ruggero il Normanno a volerla si sono da
tempo dissipati dietro studi e ritrattazioni. Tutti sono concordi che il
fondatore di questa fucina di geni della cultura partenopea fu Federico
II di Hohenstaufen, meglio noto come Federico II di Svevia. Si dice
fosse un uomo colto, chissà con quale parametro, però, lo si
giudicasse; voglio sperare non quello della casata, poiché è trito il
concetto che nobili non sono i ricchi, ma quelli che fanno nobili
cose. Ma andiamo avanti. Napoli, grazie alla influenza della Scuola
Siciliana di poesia, rinomata allora, dove anche Federico operava, fu al
centro della cultura italiana dell’epoca. L’Università (è palese a
tutte le matricole che si accalcano nell’austero edificio ad angolo
tra Via Mezzocannone e il Rettifilo) sorse nel 1224, indi furono
istituiti gli studi maggiori: filosofia e teologia, tanto per variare.
Ebbe priorità S. Tommaso d’Aquino, il quale, accomunato a tutti i
frati dei famosi ordini Domenicano e Francescano, diffuse la cultura in
tutto il regno. Sorrido al ricordo delle imprecazioni degli studenti che
mi supplicano, nella bottega di Via Purgatorio, di allestire la loro
tesi in un paio d’ore, ciancicando ilari ingiurie all’indirizzo dei
baroni bianchi.
Allora i frati non facevano che politica religiosa, il che nasce da
presupposti di pace, a parte le guerre sante, ma qualche forma di
baronato doveva pure esistere, come in tutte le gerarchie. Con buona
pace di S. Tommaso, a cui bisogna riconoscere i meriti di un
intellettuale geniale e di un religioso fervido e sincero. In più i
frati, in quel periodo, dovettero ben faticarsi la pagnotta dietro le
cattedre, poiché tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, si
presumeva, ovviamente, patteggiassero per il Pontefice. Grazie a Dio, in
ultima analisi, la lotta tra Impero e Papato non ostacolò di molto la
diffusione della cultura di priorità teosofica dei cattedratici santi e
dei copisti monaci. Anche Fra’ Giovanni di Napoli aveva i suoi fans.
Non come S. Tommaso, naturalmente, che divenne domenicano proprio a
Napoli. Quando l’Università fu fondata era ancora in fasce, e sin d’allora
non già stritolava i serpenti nella culla, ma li incitava alla
preghiera. Infatti, a quarant’anni, invece di strappare i piloni dell’edificio
universitario elevò in alto la voce della sua verità. Quando si dice:
bisogna nascere, Ercole o santo!
Cultura e movimento letterario ben vennero anche da parte dei Frati
Minori, gli umili francescani, che sostennero quella cultura
teofilosofica del loro stupefacente S. Francesco. Al di là della
religione ci si sforzava, intanto, di tentare una letteratura artistica.
Non si poteva passare la giornata tra preghiere, contrizioni e memento
mori. Dalle gesta trovadoriche si passò ad inneggiare la Vergine con la
poesia siculo-partenopea (zuppa o panbagnato), che finalmente precedera
il Dolce stil novo. Con tutto il rispetto per la Signora Celeste.
Devo premettere, che, a mio avviso, le religioni sono un grande sostegno
per il genere umano, tranne nei casi di notevole fanatismo, che rasenta
il paranoicale. Dante, a prescindere dalla fisima religiosa, di
frequente si abbandonava ai desideri carnali, celando le legittime
pulsioni dietro il paravento descrittivo degli angelici tratti somatici
femminili. D’altra parte doveva pur sbarcare il lunario offrendo
argomenti validi, e quali più de: la donna e l’inferno, cosi connessi
alla luce della psicoanalisi?. Ma Dante sbagliò epoca per mettersi a
fare il letterato, doveva attendere l’era gutenberghiana. La figlia
Beatrice non sarebbe finita in convento perché priva di dote. Dante è
l’emblema del: Carmina non dant panem. Un esempio per il
sottoscritto da far tesoro? I libri che si fatica dalla penna alla
legatoria, restano nella dimensione degli artisti della domenica o degli
scrittori intercomunali, con l’unica soddisfazione del dono con la
dedica?. E cosa cambia per uno che non ha ambizioni e non è nemmeno
velleitario, ma sente solo la il desiderio di comunicare, diffondere
quello che sa e quello che penza.
Intanto il Concilio di Lione del 1245, con la sentenza di scomunica del
Sovrano, scatenò la persecuzione di buona parte del Clero dotto, sino a
lasciar morire sul rogo diversi monaci. I sensi di colpa, comunque, non
risparmiano nessuno. Federico II sentiva di tiranneggiare i napoletani,
che si ridussero a poche migliaia, spostandosi in provincia. Forse
proprio per questo fondo 1’Università a Napoli, (oltre che per la sua
passione per lo studio) e qui si devono fare le dovute riserve. Fu per
riscattare la sua impopolarità? Ma a parte lo scarso apprezzamento di
certe iniziative, comunque di stampo aristocratico, con cui i napoletani
medioevali avevano poca dimestichezza, il popolo non si vedeva ripagato
con tale ripiego, a giudicare dai sostanziali e più emergenti privilegi
di cui veniva privato; in secondo luogo la moltitudine non sapeva
neppure apprezzare l’importanza dello «Studio Generale», destinato a
primeggiare sulle altre Università del territorio peninsulare.
A giudicare dallo stato di degrado urbano e socioculturale della cintura
vesuviana, sembra che l’evoluzione etico-culturale e civica non sia
mai avvenuta e che il livello di questi valori sia stagnato nella misura
in cui era verso la fine del primo millenarismo della storia. Non v’è
più possibilità di smottamento e di sensibilizzazione. C’è, oltre
la buona volontà di alcuni, un muro di gomma. Pubblicai, 1’anno
passato un libro fotografico di Torre del Greco antica con relativa
nutrita introduzione, allo scopo di rispolverare il meglio di un passato
appena prossimo. A parte 1’interesse legato alla componente nostalgica
non ho avuti altri riscontri. Nemo propheta in patria? O v’è
il sospetto del secondo scopo su iniziative che non beneficiano di
contributi comunali? Questo è un altro aspetto caratteriale drammatico
che si è insinuato nel mio popolo, che in fondo amo insieme alle pietre
della città, la certezza del secondo scopo, irreversibilmente.
Nella mia bottega di Via Purgatorio guai a consigliare un tipo di carta:
è perché lo si ha in eccedenza; un tipo di carattere: è perché non
se ne ha abbastanza. Tutte le buone opere, secondo la gente d’oggi,
dovrebbero avere un fine recondito legato al lucro. Ma se il danaro, in
fondo, non è che un mezzo per ottenere rispetto, stima, ammirazione,
perché non potrebbe essere l’opera buona lo strumento diretto per
ottenere ciò, senza mezzi venali?
Ciò accade quando il capitalismo impera col suo Vangelo: il consumismo,
le sue chiese: le multinazionali e il grande esercito di operatori
pastorali: gli agenti di commercio, tutti avvinghiati alla massa
abbindolata dei consumatori, mai sazia, perché non si accorge di
comprare solo illusioni. Ciò accade, purtroppo, quando le arti grafiche
sono per il settanta per cento asservite alle spietate leggi di mercato;
quando le democrazie si crogiolano nella demagogia e numerose
incrinature di corruzione guastano come la malerba tutta la fioritura
etico culturale positiva di un’era. L’arte della stampa per
insufflare nel popolo pure buoni propositi non c’era alla fine del
primo millenarismo della storia che, grazie a Dio, non vide la fine del
mondo (e chi sa se la vede il secondo, lasciando guadagnare la palma ai
Testimoni di Geova anziché all’evangelista biblico). (Oggi 2002, non
l’ha vista. N.d.r.).
C’è crisi di contenuto. Le ciarle messianiche ed idealistiche
potevano convincere allora, nella mia Torre del Greco e nella Campania
tutta, sebbene si registrasse il novanta per cento di analfabetismo. La
cultura era esclusivo patrimonio dei pochi iniziati, per lo più
appartenenti alla casta clericale o a quella della gerarchia regnante.
Nessun figlio ’e Peppe ’o fravecatore de La Torre de lu
Grieco, o di Giuvanne ’o pisciavinnolo, di S. Lucia sognava
una cattedra, non solo, ma di fare il bidello negli «Studi Generali»
alias Università, tanto meno di avere la potenzialità di uscire dall’epidemico
analfabetismo medioevale. Disordine e degrado erano di casa intorno al
Vesuvio anche allora, ma a causa dei frequenti mutamenti politici dovuti
alle dominazioni. Precarietà, inclinazione alla dissidenza e all’eslege
che lasceranno l’impronta caratteriale fino al popolo vesuviano d’oggi,
sempre disposto agli adattamenti ed ai ripieghi sregolati, alla
tolleranza del malcostume urbano e dirigenziale, dietro rassegnate
reazioni di malcontento, come si fa contro l’ineluttabilità del
destino. Forse e un’ altra delle equilibrate forme di scaltrezza di
fronte ad una realtà difficilmente mutabile, allora perché consci di
disporre della fatua difesa dell’ignoranza, oggi ben consapevoli dell’irreversibile
stasi politica dei paesi allineati, dovuta al deterrente atomico. E’
forse una filosofia ancestrale che aiuta a sopravvivere e ad evitare
ulteriori annichilimenti come quello relativo all’ultima guerra
mondiale.
Intorno all’anno mille faceva eccezione alla esigua minoranza di colti
meridionali la comunità del Regno di Sicilia, almeno in forma poetica,
grazie appunto alla Scuola Siciliana, laddove molte liriche destavano
interesse persino nel popolo. Grazie a Federico II di Svevia, per un
motivo o per l’altro, il terreno a Napoli fu spianato perché la
diffusione della cultura, con 1’Università prima, con 1’invenzione
della stampa poi, si insinuasse in diverse fasce della popolazione.
Certo era ancora lontana l’epoca degli intellettuali laici. La poesia
siciliana risentiva dell’adorazione deistica dei cattedratici, la
quale pseudolaicalmente dorava la donna in lamentose querimonie. Donna
sacra nella sua integrità morale perché vista sotto il lucore divino,
a cui ci si dispone con devozione ed abbandono pur di ottenerne la
benevolenza. Una passionalità a mezza strada tra il mistico ed il
possessivo, che nei siciliani persiste tuttora. Una integrità
monogamica che non consente la minima infedele trasgressione.
Ora spulciamo le note caratteriali dei miei torresi e dei cittadini di
molti centri vesuviani economicamente affermati, nonché di quella
Napoli commerciale che ha origine dai mercanteggiamenti lazzaronici e
via via coi traffici anglo-americani fino alla moderna borghesia del
business partenopeo vigente. Ho 1’impressione che noi vesuviani, sin d’allora,
anche per un’atavica scarsa dimestichezza con la grammatica, abbiamo
appreso trasversalmente quella ideologia frammista di venerazione
deistica ed eterno femminino; forse il concetto rientra emendato nel
nostro ordine di idee; soggiacciamo a mezza strada tra la passionalità
distico-verginale e quella femmino-matriarcale. La donna, nel
napoletano, e da temere, da venerare e da punire. I ruoli sono: vergineo
da bimba (guai ai pedofili nelle carceri napoletane);
oggettuale-sessuale da giovane, dietro la copertura sentimentale;
possessivo-assolutistico da sposa; diabolico da suocera. Il ruolo di
madre, invece, conserva la sacralità deistica. Ma l’essenza sta nel
ruolo, e non nel soggetto, perché la stessa donna che sostiene i ruoli
di madre e di suocera contemporaneamente viene osservata da due ottiche
contrapposte come il dualismo bene-male. In pratica tutto il meridione
è sottoposto a questi canoni istintuali, ma più a sud si va, più è
intenso e connaturato il sentimento di essenza deistico-verginale della
donna, che prevale sugli altri ruoli.
Gli scriptorum e le tipografie hanno in fondo diffuso queste
concezioni istintuali ferrate pure da speculazioni di tono scolastico
relative alle prime iniziative culturali del secondo medioevo. Insomma,
amanuensi e prototipografi non hanno fatto altro che parlare
prevalentemente di Dio e della donna, dopo gli epos eroici. E malgrado
gli sforzi ostinati per distinguere un popolo dall’altro, grazie alla
stampa, la diffusione delle culture, che in fondo si combinano tra loro,
come oggi le religioni, suggeriscono: Tutto il mondo è paese.
L’uomo fa tanta fatica per creare dei sostegni ideologici contro
il mistero della vita e della morte e poi ne diventa dissenziente, come
nell’area geografica del Nord Europa, dove i puntelli psichici delle
culture millenarie di stampo religioso sono crollati. E’ proprio là
che si riscontra una delle più alte percentuali di suicidi di tutto il
globo terracqueo. Si è sordi all’idea che per debellare ideologie
culturali durate millenni non bastano un centinaio d’anni, ma periodi
altrettanto lunghi. L’uomo vive mediamente l’arco di sessant’anni,
ma sufficienti per incamerare (ed esserne condizionato) ideologie c
credenze millenarie non rimuovibili a livello inconscio. Beninteso,
tutto lo sviluppo culturale dell’epoca, a due secoli dall’invenzione
della stampa, interessava la solita minoranza di napoletani. Resta
indubbio, allo stato, che Gutenberg sia stato il maggiore artefice della
diffusione di questa affezione che e la cultura nei secoli, con l’ausilio,
via via della graduale quasi scomparsa dell’analfabetismo a livello
planetaria extratribale. Non avrebbe mai immaginato, però, il geniale
orefice, l’evoluzione ed i1 sopravvento odierni delle tecniche che
allora erano lente e malagevoli rispetto al suo sistema. Ai termini
litografia, calcografia, serigrafia avrebbe risposto con un sacco di
risate.
LA SERIGRAFIA
Il sistema serigrafico si rivolge esclusivamente alla grafica
commerciale e in modo speciale al settore pubblicitario, a prescindere
dalla serigrafia artistica. Le matrici serigrafiche in origine erano
costruite con seta (da qui seri-grafia). Poi furono utilizzati i
tessuti di taffettà sino alle moderne fibre sintetiche, più resistenti
ed economiche. Oggi si usa principalmente nylon, poliestere e
tessuto metallico (acciaio inossidabile). Il nylon è quello
adoperato nella maggior parte dei casi. La matrice serigrafica ha l’aspetto
di una tela prima di essere montata in cornice. La seta viene
fissata al telaietto di legno con punti metallici o colla speciale
resistente ai solventi. Pochi operatori realizzano un telaio serigrafico
col metodo cosiddetto indiretto, idoneo per lavori retinati o di
alta definizione. Conosco il metodo dietro esperienza libresca. Il
sistema indiretto utilizza anche film fotosensibili che, una volta
trattati, vengono fissati sulla seta. Il metodo diretto, diffuso
è semplicissimo, è quello che viene praticato persino nelle scuole o
nelle abitazioni di artisti. La prima fase di preparazione delle matrici
è quella fototecnica, come per tutti gli altri veicoli di stampa. Il
montaggio e 1’assemblaggio è pressoché uguale a quello per
realizzare cliché tipografici, lastre offset, ecc.
Il tessuto di questi quadri da stampa può essere a maglia stretta o
larga allo scopo di consentire più o meno uso d’inchiostro sui
supporti da decorare. I serigrafi sono una minoranza rispetto ai
tipografi, non per questo, però, vi è scarsa possibilità di
apprendistato, anche perché le attrezzature si limitano a pochi
elementi facilmente collocabili in qualsiasi ambiente. Napoli, tanto per
variare, è in critica posizione geografica circa i produttori ed i
distributori di materiale serigrafico, per cui è difficile attingere
informazioni sulle continue evoluzioni chimiche e tecniche di questa
branca della tecnologia poligrafica. Intorno al Vesuvio i fornitori si
contano sulle dita di una sola mano e si limitano alla competenza del
servizio commerciale. Le aziende serigrafiche campane fanno capo
direttamente ai produttori del nord, che nella maggior parte dei casi
sono dei confezionatori perché importano dall’estero le materie prime
e le norme d’uso.
Ora vediamo, a pochi centimetri dal naso, come avviene il fenomeno
serigrafico. Sul telaio viene spalmato uno strato di gelatina a base di
alcool polivinilico, con l’aggiunta, al momento, di una piccola
percentuale di bicromato di ammonio, onde renderla fotosensibile. Il
telaio viene fatto essiccare a luce attenuata in appositi armadi. (Io ho
sempre usato con successo un paio di stufette ventilate). La gelatina è
al massimo della sensibilità quando è completamente asciutta. Una
sensibilità relativa per la luce normale, ma alta per la luce
ultravioletta. Ciò allo scopo di consentire maggiore liberta di
manipolazioni in ambienti normalmente illuminati. Le pellicole
(positive) o il montaggio di esse, vengono poste a contatto con il
tessuto serigrafico occluso dalla gelatina sensibilizzata ben asciugata,
quindi si procede all’insolazione, non per la strada, naturalmente, ma
in appositi torchi a pressione meccanica con luce della medesima
frequenza di quella solare. Ad esposizione conclusa il telaio viene
sviluppato con getto a doccia d’acqua corrente, preferibilmente
tiepida. E’ accaduto che la luce ha indurito la gelatina in quelle
zone trasparenti della pellicola fotografica, mentre le zone nere, in
pratica lo scritto o i disegni, non essendo state colpite dalla luce,
perché mascherate, si sono sciolte sotto la doccia. Solo in queste zone
1’inchiostro avrà la possibilità di essere erogato attraverso la
pressione di uno spremitore o racla, che farà l’andirivieni copia
dietro copia, all’interno del telaio.
Nel caso di più colori bisogna preparare tanti telai per quanti sono i
colori da sovrapporre, come tutti i sistemi di stampa. La realizzazione
di un’immagine a colori retinata è complessa e difficoltosa con il
sistema serigrafico, in primo luogo perché i punti del retino si
confondono con le maglie del tessuto, che in questo caso sarà
abbastanza largo e di metallo onde evitare problemi di registro; in
secondo luogo gli inchiostri serigrafici hanno come prerogativa l’intensità
e la coprenza, per cui i colori fondamentali non si fondono bene per
ottenere i toni intermedi.
TOTONNO PEZZE ’NCULO E VICIENZO PIERE PE’ TTERRA
L’arte serigrafica si è dequalificata sul nascere,
a Napoli; il motivo lo troverete da soli nella storiella che segue. Un
minimo impianto serigrafico si limita, si può dire, al solo materiale
di consumo: telaio e inchiostro. Molti circumvesuviani hanno annoverato
questo mestiere tra le migliaia improvvisati da secoli. Questo
contribuisce al degrado (noi diciamo lo sputtanamento) di certo lavoro
specialistico, perché le ditte regolari, soggette ad oneri vari, si
vedono anch’esse costrette a mirare alla quantità, a discapito del
pregio qualitativo.
Ed eccoci arrivati a Totonno pezze ’nculo e Vicienzo piere
pe’ tterra. Tutti sanno che i soprannomi riflettono la
personalità, il mestiere, la condizione di un individuo, quindi potete
già farvi un’idea della morale della favola. I due tipografi in
questione erano ubicati sulla stessa strada 1’uno di fronte all’altro.
La spietata lotta commerciale durava da ben cinque lustri. Non si
contavano le aggressioni fisiche, le rappresaglie, i boicottaggi. Sulle
due fazioni nacque un vero mercato nero, giochi d’azzardo, ecc. Si
scommetteva su chi rompeva prima la testa all’altro, sul numero dei
clienti che entravano in ciascuna bottega nell’arco della giornata e
via discorrendo. Scrivani e assistiti lavoravano a tutto spiano, tra
cabala e smorfia. Insomma nacque un’attività economica che
arrotondava i magri stipendi del vicinato. Intanto, i due, durante le
tregue lavoravano come turchi, poiché a mano a mano che i costi si
riducevano, la clientela diveniva sempre più nutrita. Quando le
prestazioni raggiunsero il costo zero Totonne pezze ’nculo e
Vicienzo piere pe’ tterra dilapidarono tutte le loro risorse e
mandarono le fami- glie sul lastrico. Quella strada morì nel senso
commerciale. I “bancarellari” tentarono nuovi siti. Gli
scommettitori ripiegarono con il toto nero. In tutto il quartiere
aleggiava un’aria di detrimento.
I due ambulavano nel quartiere, boccheggianti per l’inedia, dimessi e
malnutriti, il viso grinzoso ed emaciato. Un giorno si incontrarono. Non
si azzuffarono, non avevano altra forza che quella della disperazione.
Non si sa bene se si abbracciarono nel tentativo di non buscarle, come
fanno i pugili, o se si caddero addosso per il deperimento. Fatto
sta che decisero all’unisono di fare appello al buon cuore dei
passanti. Col viso smunto, non rasato, rattoppati e semiscalzi,
puntualmente, ogni mattina occupavano le postazioni dei sagrati di due
chiese, guarda caso, prospicienti l’una all’altra. Trascorsero
alcuni mesi e, se pur non navigavano nell’oro, li si vedeva più
nutriti, rasati, con banchetto con urna per ricevere l’obolo senza la
mano tesa, il telone controvento, la ceneriera, il mazzo di carte, il
minibar nel banchetto, ed i ringraziamenti formulati in locuzioni
rivolte ai defunti, stampati in cartoncino formato visita per le 500
lire, in pergamena per le 1000, in papiro originale dell’antica Cina, made
in Forcella, per le 10.000. Ma un giorno 1’uno notava maggiore
affluenza sull’altro sagrato e decise di scemare le tariffe.
Dichiarare la guerra ad una grande potenza era meno grave. Aggressioni.
Parolacce. Boicottaggi. Teste rotte. E ancora: bancarelle. Assistiti.
Scommesse. Insomma un altro quartiere di Napoli si risollevò dalla
secolare indigenza. Totonne pezze’ncule e Vicienzo piere pe’
tterra questa volta finirono in mutande, alla lettera. Distrutti
dalla fame, annichilati nel disonore perirono e furono inumati, destino
infame, l’uno dirimpetto all’altro in un povero viale del
camposanto, a pochi passi da un cenotafio e un famedio. Ma accadde...
(Intelligenti pauca).
LA FLESSOGRAFIA
I clichè per la stampa flessografica vengono ottenuti
tramite la copiatura meccanica di una normale composizione
tipografica. La stampa flessografica è idonea per alcuni lavori di
cartotecnica; per decorare la carta da imballo, per fabbricare timbri,
ecc., lavori, comunque, per cui non si richiede una eccezionale qualità
di stampa. Il procedimento per 1’esecuzione di una gomma flessografica
è, appunto, pressoché simile a quello per la fabbricazione dei comuni
timbri di gomma. La composizione tipografica di piombo viene fatta
imprimere a caldo in un cartone speciale detto flan o flano. Si
tratta di un composto relativo alla chimica organica, che ha sostituito
il gesso o il piombo dolce di una volta. La composizione viene
introdotta in una pressa che dispone di due piani di pressione
riscaldati a 120-140 gradi. I caratteri poggiano sul piano inferiore,
naturalmente. Sulla composizione viene adagiato il flano dal lato
trattato per lo scopo, quindi si procede lentamente al pompaggio, nel
caso di pressa idraulica, affinché i due piani si accostino e i
materiali subiscano il solo contatto. Il flano, ammorbidito dal calore
(120-140°), penetra lentamente sul rilievo dei caratteri conservando 1’impronta
una volta raffreddato. Estratta la composizione si provvede ad
introdurre il sandwich composto dal flano (negativo) e la gomma che dopo
la penetrazione a caldo sarà positiva. Abbiamo ottenuto un cliché di
gomma flessibile da applicare con doppio adesivo ai cilindri delle
macchine flessografiche.
LE STEREOTIPIE
Attraverso un analogo sistema, già accennato in
precedenza, ma più complesso e laborioso, si realizzavano le
stereotipie dei quotidiani, procedimento scomparso. Le stereotipie per
le rotative di giornale conservano la caratteristica del rilievo
tipografico. Ciascuna composizione linotypica e a caratteri mobili:
testo, titoli, pubblicità, cliché, ecc., insomma la pagina di
giornale, viene introdotta in una pressa simile a quella descritta poc’anzi.
Sulla pagina composta viene adagiato il flano fabbricato con sostanze
chimiche diverse poiché esso, dopo la formazione dell’impronta, deve
rimanere flessibile per assumere la forma semicilindrica delle matrici
da rotativa. Il flano viene pressato lentamente sulla composizione
perché, con l’ausilio del calore, avvenga la formazione completa dell’impronta
incisa in tutti i suoi particolari, compresi i microscopici puntini
delle immagini retinate. Il flano speciale viene inserito in una
fonditrice semicilindrica essendo, ormai, una matrice negativa di
fusione. Il piombo viene fatto erogare nella forma a fondere curva,
quindi solidifica a contatto del flano raccogliendone 1’impronta
positiva. Le stereotipie di piombo vengono fresate e pulite nelle
parti eccedenti perché possano essere montate perfettamente sui
cilindri della rotativa. I numerosi giornali che hanno raccolto le nuove
tecnologie dette a freddo, per distinguerle da quelle a caldo
(piombo fuso), utilizzano lastre offset per rotative predisposte a
questo sistema. Il sistema rotocalco, invece si adatta a tutti i
periodici illustrati ebdomadari.
PAOLO FRINGUELLI, GIORNALISTA SUI GENERIS
Ma in Campania vi è pure chi stampa il suo bravo foglietto
quotidiano. Non si tratta del solito scrittore da dopolavoro comunale o
poeta della domenica. Egli è uno strano filosofo che tira
quotidianamente col ciclostile una modesta pubblicazione in folio. Il
contenuto della stampa di Paolo Fringuelli, perché di estetica non si
parla proprio, può essere riassunto in poche parole. La teoria di Paolo
Fringuelli, bruno, tarchiato, con gli occhi piccolissimi dietro occhiali
enormi, consiste in un movimento starei per dire paracristiano o
ideal-politico-cristiano, come meglio viene, che postula la
giustizia sociale attraverso le sole pacifiche (? ) armi: carta, penna e
calamaio. Questa particolare forma di giustizia, però, pretende un
riscatto dei brutti, dei poveri, degli oppressi, insomma di tutto il
negativo storico. Si tratterebbe, in pratica, di ribaltare i valori
materiali universalmente riconosciuti. Ghettizzare e sottomettere, ad
esempio, i ricchi, i belli, i saccenti, i detentori del potere, i quali,
tutto sommato, costituiscono delle minoranze. Stabilire, in parole
diverse, un classismo alla rovescia. Creare un’ inversione di
interessi, un modello sociale di valori pratici più vicino alla massa.
Egli è convinto che ciò sia possibile poiché la massa è più
numerosa, e, da che mondo e mondo, la maggioranza vince.
Si dirà, ad esempio, alla vista di una bella ragazza: Pussa via,
bella e oca che non sei altro, che hai la marmellata al posto del
cervello? Oppure: Disgraziatò di un possidente, non ti
aovicinare, sa’, con la peste bubbonica della ricchezza, con la tua
solitudine squallida! E ancora: Meschino di un potente, sparati
la tua bomba atomica nel didietro perché, sappi, che essa manderà all’inferno
te per primo, e via ciarlando.
Paolo Fringuelli ripete i moduli rancidi della protesta qualunquistica
sostenendo che i poteri si camuffano di democrazia; che il sapere e la
diffusione della stampa hanno scosso i giovani dal torpore dei
vaneggiamenti filosofici, dall’illusione degli ideali politici,
eccetera, eccetera. «La cultura è 1’informazione, caro il mio
tipografo conformista - mi disse - fraternizza il figlio del
ricco con quello del povero ed entrambi vanno nei fondelli ai
genitori».
Paolo Fringuelli si desta puntualmente alle quattro del mattino,
ciclostila in fretta tutto ciò che rimugina durante la notte. Alle
dieci in punto esce la sua edizione quotidiana che distribuisce a mano
personalmente, ogni giorno in un paesello della provincia. A Napoli non
sarebbe mai più andato perché un paio di volte… «Mi indofarono
di mazzate, chilli chiaveche! Fai bene, va’!». Gli risposi
che il prezzo che pagano i profeti è caro. Ci sedemmo su di una
panchina nella Villa Comunale di Torre del Greco, e gli chiesi perché
ce l’avesse in particolar modo con i fondelli dei suoi nemici. Ed egli
per tutta risposta mi accusò di essere certamente un tipografo venduto
al sistema, una pedina della società capitalistica.
Le sue spontanee reazioni non mi irritavano. Era sincero, in cuor suo,
era solo un uomo mediocre affascinato dalla moda del giornalismo. Ma
qualche idea originale non mancava, anche se astratta, fantasiosa ed
utopistica. Non valeva la pena di compiere sforzi intellettivi per dire
la mia, in fondo gli volevo bene, perché finisco col voler bene a
tutti, prima o poi, con la mia passionale tendenza all’analisi, ma
compromessa, spesso, da un sentimentalismo che più partenopeo non si
può. Dopo me stesso, vedo tutti come bambini cresciuti; in questo modo
si riesce ad intenerirsi a cospetto dei malvagi, dei pazzi, dei maniaci
pure cruenti. Veder le loro carcasse d’adulti, non richieste, come
scafandri sui loro corpi minuscoli, con quei ditini mirmicolanti; quasi
sempre bimbi vessati, soffocati dalle angherie forse inconsapevoli dei
genitori e degli educatori. Poveri assassini, poveri maniaci, poveri
malvagi, (si fa per dire) quanto male hanno ricevuto le loro testoline
in formazione, quanta indifferenza ed incuria, per essere condannati a
divenir tali, a vegetare nella loro irreversibile maledizione. Forse noi
sani che giustamente li condanniamo dovremmo espiare la nostra piccola
parte di colpa, non altro la diffusissima politica dello struzzo,
proprio quella che da noi talvolta fa pensare: Ad un palmo del mio
sedere faccia chi vuole!
Ma noi genitori, meno degli educatori, non siamo psicologi, e
soprattutto molti di noi siamo degli incoscienti bambini cresciuti,
quindi agiamo in buona fede pur quando commettiamo errori gravissimi.
Per fortuna i casi gravi sono ancora contenuti, pure nella mia terra. La
maggioranza, male che vada, pecca solo di connivenza, forse allo scopo
di non peggiorare situazioni scabrose. E vabbuono, nun fa niente;
chiurimme n’uocchio; E’ cos’ ’e niente; Scurdammece ’o
ppassato. Questa è la filosofia del popolo vesuviano buono,
pacifico, ma lontano dal concetto di codardia, una maggioranza di popolo
inquieta, che anela il convivere sereno e civile, ma che si disorienta
sempre più. Il negativo nella nostra terra è rappresentato da una
minoranza più esigua di quello che si pensa, ma lo sanno pure i neonati
cosa provoca una pera marcia in un paniere di pere buone. Dissi a Paolo
Fringuelli: «Non ricordo chi ha detto: l’illusione di ogni
ideologo è quella di lusingarsi di cambiare il mondo, ma esso è fatto
non gia di deliri mistici di tante idee separate, ma di tanti istinti
separati, i quali, quando fraternizzano, finiscono sempre, in un modo o
nell’altro, col farsi male a vicenda».
Ogni
generazione intenta a distruggere i buoni risultati
di un’epoca precedente è convinta di migliorarli.
«L’uomo senza qualità» - Musil
CAP. VII
LA CARTA E GLI INCHIOSTRI
II libro deve desiderare penna, inchiostro e
scrivania;
ma di solito sono penna, inchiostro e scrivania
a desiderare il libro.
“Umano, troppo umano” Nietzsche
LA CARTA
Onde poter scrivere c’e bisogno di carta, nella
maggior parte dei casi. Forse l’industria commerciale ne assorbe più
di quella editoriale, specie in Italia, non, chiaramente, per un’eccessiva
domanda di… carta igienica, ma a causa dello sviluppo eccezionale
della cartotecnica in funzione del fatto che noi italiani teniamo molto
all’aspetto esteriore. Quindi tutto il commerciabile ha un involucro
che dovrebbe proteggere o preservare igienicamente, ma che ubbidisce
innanzitutto al fattore propagandistico, visto che nessun astuccio è
anonimo. «Che ve lo devo dare in mano?», disse un pescivendolo
torrese al suo avventore, il quale aveva notato, durante la pesa, una
carta da avvolgere molto spessa che avrebbe aggiunto molto peso al
merluzzo per la nennella deperita. Il Cliente irritato sbotto: «Non
lo voglio in mano, ma nemmeno a quel posto, però!».
E’ chiaro che potevo fare a meno di cadere in queste che hanno l’apparenza
di mediocrità espressive di tono scurrile. Questo lavoro, però, non va
avanti sotto l’ottica dell’analisi scelta, del purismo letterario,
è volutamente ibrido, aperto a tutti i linguaggi espressivi. In fondo
è saggio quel proverbio che dice: Ogni volta che si ride si toglie
un chiodo alla bara. Non è colpa mia se noi vesuviani ridiamo di
cuore soprattutto col doppio senso erotico.
L’invenzione della carta, avvenuta migliaia di anni fa, era nata dall’esigenza
di creare un supporto idoneo e pratico per la scrittura. La storia ci
insegna che ben 3500 anni prima della nascita di Cristo gli egiziani
scoprirono il papiro, fabbricato con le fibre della pianta omonima. Nel
III secolo a. C., invece, si utilizzarono le pelli di animali
opportunamente conciate per ottenere solidi e maneggevoli supporti per
la scrittura. Si dice che la prima concia sembri essere stata eseguita
in una città chiamata Pergamino (non Pergamo), da cui:
pergamena. La scoperta della carta propriamente detta risale ad un
centinaio di anni d. C. ed è da attribuirsi ai cinesi, che la
preparavano con materie fibrose ricavate dal gelso e dalle canne di
bambù. In futuro gli stessi cinesi sostituirono la materia vegetale con
la macerazione di stracci. Gli occhi a mandorla custodirono il
segreto della produzione della carta per molto tempo. In seguito, però,
la carta fu utilizzata in tutto il mondo. Con 1’invenzione della
stampa a caratteri mobili nel 1450, la carta fu completamente
valorizzata e diffusa.
Grazie al Signore il mio popolo ha sempre avuto un profondo rispetto per
la carta, specie se stampata. Con essa vi ride, vi piange, ma spesso
finisce per utilizzarla in sostituzione della carta igienica. Mi
verrebbe voglia di dire che noi abbiamo i popò più acculturati
del mondo. Invece questa abitudine diffusa nel dopoguerra si e
dileguata. Oggi una famiglia napoletana spende un terzo dello stipendio
tra detersivi, ammorbidenti, lucidanti, e carta igienica. Ancora oggi a
Napoli e in provincia si vedono i buzzurri o i fruttaroli ambulanti
confezionare la loro mercanzia con i famosi cuoppi, ricavati
dalle riviste rotocalco. Un bel giorno dei ragazzacci di Torre del Greco
ne combinarono una coi cosiddetti fiocchi ad un anziano fruttaiuoli
ambulante che sostava sempre innanzi ai sagrati delle chiese, in attesa
che le massaie devote, dopo le prime contrizioni mattutine,
provvedessero alla spesa quotidiana. Il malcapitato fruttaiuolo
era storpiato e mezzo cieco e raccattava dai ragazzi di strada i
giornali rotocalco per gli incarti. Una mattina gli appiopparono una
intera annata di un mensile pornografico. I cuoppi fiammanti di
policromie dei pornodivi finirono nelle borse delle bigotte a diecine
prima che scoppiasse lo scandalo. Finché vi sarà legno sulla terra
sarà possibile fabbricare carta. Pure con la paglia e con gli stracci
si ottengono gli impasti per la produzione del principale supporto
relativo alla stampa. Napoli offre un valido contributo alla
fabbricazione della carta riciclata. Sono ormai numerosi i cartai
campani, (un ennesimo mestiere improvvisato), che hanno un po’
rimpiazzato i vecchi “saponar”i di una volta, che offrivano
quattro piatti e sei bicchieri, o una bacinella di stagno in cambio di
stracci vecchi, i quali, a pensarci bene, erano in parte destinati alla
produzione della carta. Pure quella dei giornali invenduti o di quelli
usati, raccolti porta per porta, spesso da fantomatiche organizzazioni
di beneficenza, viene riciclata.
La carta da imballo e quella dei giornali hanno una grande percentuale
di pasta di legno. Le normali carte da stampa, invece, contengono pasta
di legno e cellulosa. Migliore è la carta, maggiore è la percentuale
di cellulosa. La cellulosa è una fibra legnosa che viene trattata
chimicamente per dare candore e un bell’aspetto alla carta, che
soprattutto non ingiallirà nel tempo. L’antichissimo sistema, invece,
di fabbricare la carta con gli stracci prevede la macerazione di questi.
Essi vengono strizzati e fatti fermentare in appositi contenitori,
quindi macinati e ridotti in poltiglia Un tempo la carta veniva prodotta
un foglio per volta con la lentezza che si può immaginare. Fu Louis
Robert, nella meta del secolo scorso, a fabbricarla a ciclo continuo. La
macchina che ideò produceva ben sei lunghi metri di carta al
minuto per 50 centimetri di larghezza. Gli stracci sono ottimi per
produrre la carta poiché il cotone ed il lino non sono altro che
cellulosa. Oggi, con le fibre sintetiche, il discorso cambia. Alla pasta
di legno e alla cellulosa vengono aggiunti additivi e collanti per
attutirne l’assorbenza e permetterne la scrittura e la stampa.
Oggi costa più la carta neutra che quella stampata! Questo paradosso mi
porta la mente verso l’adolescenza, quando la corsa in treno, della
Circumvesuviana, Torre-Napoli costava meno di quella Torre-Ercolano,
confinanti, rispetto ai 12 chilometri che dividono la mia cittadina dal
Capoluogo. L’enigma verrà inumato con la mia carcassa, un giorno. La
carta stampata dei rotocalchi, quindi, a conti fatti, costa meno di
quella neutra perché la differenza è a carico dei numerosi
inserzionisti pubblicitari, grazie ai quali si evita il lievitare dei
costi delle pubblicazioni. Semmai gli inserzionisti anticipano questo
contributo, perché, alla fine, sono sempre i lettori, indirettamente, a
contribuire realmente attraverso l’acquisto dei prodotti
pubblicizzati. Quel po’ che si risparmia sul giornale, caro ci costa,
dietro il meccanismo del martellamento della grancassa. Devo qui
spezzare una lancia a favore della bersagliata mamma Rai, alla quale
quel canone, come diciamo a Napoli, glielo fanno uscire per le
orecchie. Tutta la pubblicità assimilata in più dalle innocenti
telelibere ci costa altro che centomila lire l’anno! (Considerazione
degli anni 80. N.d.r.).
LA FABBRICAZIONE DELLA CARTA
Ma vediamo insieme come nasce la carta. Dopo
aver tolto la corteccia ai tronchi, il legno viene sfibrato con apposite
mole. La pasta di legno ottenuta viene fatta essiccare e imbiancare da
vari composti chimici, atti ad eliminare la sua naturale colorazione. La
cellulosa, invece, viene ottenuta facendo cuocere il legno macinato con
altre sostanze chimiche, ottenendo fibre burattate da materie impure
come resine, grassi, ecc. La cellulosa di paglia è ricavata da paglia
di grano, riso e via dicendo. La collatura, invece, avviene con saponi
di resina ed altri composti.
L’impasto fibroso viene trasformato in una enorme striscia continua
che avanza su fitte reti metalliche onde favorire la colatura delle
acque. Quindi la carta viene pressata e asciugata. La collatura e la
lisciatura avvengono in fasi successive. Lo so, non è sufficientemente
chiaro, rivediamo la scena a rallentatore. L’impasto parte dagli
enormi serbatoi della vasca di afflusso, la quale ha una fessura
regolabile. Un cilindro speciale detto ballerino mantiene 1’uniformità
dello spessore della carta, ed è proprio questo cilindro, a proposito,
che forma, quando necessita, la filigrana, perché appositamente
trattato. Il nastro di carta largo una diecina di metri avanza, poi, nei
cilindri pressatori, e ancora in quelli essiccatori. Un ultimo gruppo di
cilindri provvede a collare e lisciare la carta allo scopo di
predisporla all’uso che ne facciamo. Altri tipi di carta, invece,
vengono calandrati, cioè ricevono il giusto grado di lisciatura perché
risultino più idonei alla scrittura e alla stampa.
Inoltre la carta può essere ulteriormente trattata per usi speciali.
Può essere martellata, goffrata, telata, colorata in superficie con
pigmenti speciali, ecc. E’ facile scrivere sulla carta, ma non
ugualmente stamparvici, specie con le macchine offset, là dove il
foglio, al passaggio in pressione di stampa, può subire degli
stiramenti, specie se non è immesso col senso della fibra favorevole
alla stabilità dimensionale. Il problema è maggiormente sentito quando
si devono stampate colori successivi sovrapposti. E’ possibile
riconoscere la posizione della fibra inumidendo i due lati di un angolo
del foglio. Quello contenente la fibra in senso verticale si ondulerà
meno dell’altro. Ricordo il buon Friz, quando venne ad installare una
fiammante bicolore offset alla tipografia del Ministero della Marina,
sul Tevere. Aveva voglia di ripetere le bagnature alla carta, con le
labbra! Non c’era commilitone che non facesse finta di non capire. Il
povero Friz ritorno in patria disidradato. La stabilità dimensionale
della carta viene pure compromessa dall’umidità e da altri agenti
atmosferici. Per questo le macchine pluricolori hanno invaso il mercato,
perché i vari colori vengono stampati successivamente in un tempo
unico. Il primo gruppo stampa è neutro, la pressione del quale serve
solo a stirare la carta.
I TIPI DI CARTA
La carta delle bobine viene tagliata nelle misure
standard 70 x 100 e 64 x 88 cm. I formati più diffusi in Italia sono i
sottomultipli del 70 x 100, ma l’invasione dei fotocopiatori stranieri
ha diffuso pure da noi i sottomultipli del 64 x 88, molto usati all’estero,
come il formato UNI, 1’A4: 21 x 29,7. La carta si può tagliare in
tutte le misure. E’ un’operazione che richiede pratica ed
esperienza. Innanzitutto bisogna saperla manipolare, specie quando e
sottilissima (pelure). Noi tapini bottegai tipografi non siamo provvisti
dei moderni prodigiosi tagliacarte elettronici, adoperiamo ancora i
modelli Rivoluzione francese, che ne hanno mietuto dita e,
talvolta, qualche mano, tuttavia trasformati a norma. I moderni sono
provvisti di programmi elettronici e cellule di sicurezza sofisticate.
Non sempre c’è da fidarsi, pero, dei cervelli senz’anima. Noi
artigiani non solo facciamo a meno del programma, non che ci faccia
schifo, intendiamoci, ma evitiamo pure i calcoli matematici perché
determiniamo le forme geometriche relative alle suddivisioni ottenibili
dal formato disteso con calcoli e regole mentali memorizzate durante le
numerose esperienze precedenti.
Ed eccoci arrivati ad un’altra divagazione. Colgo l’occasione per
chiedere venia se i risvolti narrativi sono sempre ambientati nelle
tipografie artigiane inserite nel contesto urbano come i bar e le
tabaccherie. Delle industrie grafiche riuscirei solo a rifletterne l’aspetto
tecnico passim nel testo. Malgrado i tentativi sperimentali non riesco a
creare una narrativa tecnica, ma bisogna rimboccarsi le maniche,
cosa leggeranno, se no, i robot ? Non riesco a cogliere elementi
antropomorfi negli ambienti industriali. Gli uomini sembrano il
complemento meccanico delle macchine, le quali somigliano a tante strigi
impietose inclini all’asservimento. Non più uomini, automi, che si
muovono al ritmo dei cuscinetti a sfera e delle bielle e manovelle;
soprattutto in quelle aziende convertite ai più lucrosi avanguardismi,
dove la dimensione umana è appena avvertibile durante qualche, ancora
consentita, pausa relativa ai bisogni corporali. Ma vedrete, si finirà
col dotare le maestranze non gia di orinali, ma di pitali per l’incontinenza,
o, ancora più pratici, di capaci assorbenti, forse, modificheranno il
processo metabolico.
MARIO ESPOSITO, IL ROBESPIERRE DELLA CARTA
Lo stesso Mario Esposito, detto il Robespierre,
mi ha dato conferma di quanto appena esposto, durante un colloquio avuto
con lui dopo la sua morte (sic). Mario viene spesso nella mia bottega di
Torre del Greco. Egli ama la mia città perché v’è vissuto un
politico onesto: Enrico de Nicola (Dio mio, come cambiano i tempi!). In
più il Robespierre usufruisce dei benefici terapeutici che Torre
gli elargisce. Sosta un po’ nella mia bottega, rinnovando l’attributo
di chiodo al mio tagliacarte, quindi prosegue per la Nazionale e
giù sulla Litoranea, superba stazione termale, secondo lui.
«Quando mi immergo nelle acque inquinate, che dico, brodolose,
fecciose, pantanose e lutulenti, - mi disse Mario - io mi sento
rinascere. Che bisogno c’e di sottoporsi alla fangoterapia a Ischia. I
miei anticorpi sono i più virili del mondo, prima si pazzéano i
batteri, poi li fagocitano, perché i microbi, sappi, sono sempre
femmine, poiché se non stai attento ti fregano!». Mario Cesoia è
uno di quei personaggi di cui è difficile stabilire quando ironizzano e
quando fanno sul serio. «Modestia a parte - aggiunse - io
sono il più grande tagliatore cartaceo del globo. Ai tempi della
Rivoluzione Francese avrei fatto affari d’oro. Oddio, non è che
adesso teste non ce ne sarebbero da tagliare... Durante le elezioni, una
volta, ho tagliato due miliardi e trecentomila tonnellate di carta;
eppure, mi devi credere, 1’ultimo quintale mi fece il servizio... si,
quando andai all’altro mondo, ti ricordi?».
Mario Esposito detto cesoia, malgrado i suoi inesorabili anticorpi
si ritiene un autentico ospedale ambulante e, chiaramente attribuisce la
colpa ai padroni, quelli vecchi, precisa, perché i nuovi,
o sono buoni o lo devono essere per forza. Mario non si spiega come
abbia fatto a prendere lo zucchero (diabete) mentre nella vita
gli hanno dato sempre veleno; tanto meno sa capire come abbia
preso l’acqua nella pancia (cirrosi epatica) se ha sempre
tracannato ettolitri di vino. Prodigi del vernacolo!
La mattina di un gelido e grigio febbraio Mario Cesoia, alias il
Robespierre, morò, per dirla con lui. Dopo 12 ore dall’accertato
decesso fu scovato in cucina, dagli addetti delle pompe funebri, mentre
strombettava una fanfara sul bevante di un fiasco di Barolo.
Dichiaro alla stampa: «La catalessi e un tranquillo sonno fetale. Se
volete sapere se esiste l’altro mondo mi date sei o settecento milioni
ed io vi accontento. So bene che non me li date perché non mi credete,
ma se io lo so davvero? ... Il risveglio - concluse con una smorfia
di disgusto Mario, sotto la luce violenta del quarzo - è deprimente.
Questo ve lo dico gratis. Perché ti ritrovi in questa schifezza di
mondo e rivedi le stesse facce, la stessa gente che si agita, irrompe,
si precipita per arrivare dove? E già, voi siete giornalisti, sono
frasi fatte, eh? Ma io faccio il tipografo da cinquant’anni e qualche
cosina 1’ho imparata. Ha detto una volta Giorgio Bassani: ” Per
capire veramente come stanno le cose a questo mondo bisognerebbe
morire almeno una volta». - Mi strizzo 1’occhio. - Che facciamo?
Il certificato medico parla chiaro. Va be’ facciamo cinque milioni e 1’affare
e fatto! Cinque milioni li spendete in un giorno, all’inferno, per un
poco di ghiaccio fetente che vi può passare qualche diavolo corrotto».
Mario Robespierre non ottenne i cinque milioni, ma ha lasciato il
lavoro per la nuova professione di assistito. Chi più di lui
può dare i numeri?, si e chiesta la gente. Il più delle volte le
prende, specie quando fa perdere poste alte, ma quando l’azzecca
lo piazzano su di una sorta di stallo pontificale aleggiandolo con due
flabelli. L’ultima volta che l’ho visto gli ho chiesto: «A me lo
puoi dire, sarò una tomba, l’inferno esiste o no ?».
Mi fissa come per dire: povero grullo: «E ti pare che se io ero
sicuro che 1’inferno non esiste sopportavo ancora quella strega di mia
moglie e quell’arpia di mia suocera? E da mo’ che le avrei tagliate
quelle teste, sai il taglio che sogno tutte le notti, altro che risme.
Le avrei bollite e le avrei messe fuori il balcone appese con un limone
in bocca. Le lingue le avrei bruciate, cremate, perché quelle sarebbero
capaci di vituperare pure dopo morte».
CARATTERISTICHE CARTACEE
Ma riprendiamo il nostro argomento. La carta più
leggera è la cosiddetta pelure, che va dai 30 ai 40 gr. al mq.
Essa viene utilizzata per facilitare il ricalco tramite carta carbone o
per usi relativi ad esigenze di spessore o di peso, come nel caso della
corrispondenza via aerea. (Oggi 2002 è stata quasi soppressa con l’avvento
della carta chimica e quello dei fax. N.d.r.). La normale carta
satinata, dai 50 ai 150 gr. al mq. è utilizzata per numerosi lavori di
stampa compresi quelli editoriali. La carta patinata lucida od opaca va
da una grammatura di 80 a 400 grammi (cartoncino pesante) e si presta
per le illustrazioni retinate, specie se stampate con clichè di zinco
(in disuso) con retinatura fino ad 80 linee al cmq. e oltre o in offset
con retini fino a 150 linee.
I cartoncini vengono prodotti con una varietà notevole. La grammatura
varia da 150 a 500 gr. al mq. Essi, com’e noto, vengono adoperati per
realizzare lavori commerciali come biglietti, cartoline, copertine,
schede, cartelle per atti e via dicendo, nonché come copertine per uso
editoriale. Abbiamo i cartoncini tipo Bristol od opalino, gli
schedografici, i telati, i martellati, i vergati e i tracciati, i
puntinati, gli ondulati, i rasati, i plastificati monotrattati e, dulcis
in fundo, i pergamenati. La pergamena propriamente detta, invece, e
100-180 gr.
E’ presente sul mercato un vasto mercato di carta allestita e
preconfezionata. La prima riguarda più le tipografie che le cartolerie,
la seconda entrambi i settori. La carta allestita consiste nel
rismettame e il bigliettame vario; il preconfezionato riguarda, come
dire, lo scatolame cartaceo: Biglietti con buste, inviti con buste,
partecipazioni, buste internografate, e i prelavorati in genere. A
Napoli e a Salerno vi sono rivenditori grossisti che forniscono tutti i
tipografi artigiani della regione. I complessi tipografici si
riforniscono dalle cartiere. La carta distesa 70 x 100 e 64 x 88 cm.
viene confezionata in risme per le grammature da 30 a 60 gr. al mq.
Oltre questo peso la carta viene confezionata i pacchi da 250 fogli (da
80 a 130 gr. al mq.) e da 125 o 100 fogli, il cartoncino. La
suddivisione così ripartita prevede sempre
pressappoco lo stesso peso per consentirne lo spostamento manuale. L’unica
cosa nelle arti grafiche che è rimasta a misura d’uomo.
Non bisogna dimenticare il settore delle buste, prodotte in una varietà
infinita di formati e grammature, sia per 1’uso tipografico che per
quello commerciale e alimentare, destinate, queste, ad un massiccio
rilancio, perché sono biodegradabili, in contrapposizione a quelle di
polietilene largamente inquinanti. In più le cartiere producono
tonnellate di cartoncino destinato agli astucci contenenti ogni tipo di
mercanzia, dai prodotti alimentari a quelli medicinali, Infine spendiamo
qualche parola per 1’utilissimo cartone ondulato da imballo,
indispensabile per l’uso di ogni sorta di spedizione merceologica a
livello planetario. Ne riparleremo più avanti nel paragrafo relativo
alla cartotecnica.
LA CULTURA NAPOLETANA PRIMA DI GUTENBERG
Conclusa la breve panoramica sulla carta è
necessario trattare, sebbene a grossi tratti, l’argomento tecnico
relativo agli inchiostri. Prima, però, con la scusa di rilassarci,
facciamo un’altra sosta nella storia. Gli inchiostri da stampa vengono
prodotti oggi in milioni di tonnellate l’anno per tener testa alla
domanda della, sebbene concorrenziata, era della carta. Produzione di
colori di gran lunga superiore a quella secolare, atta alla copiatura
dei codex. Una esigua quantità d’inchiostro, ricavata da materie
vegetali, veniva prodotta ancora ai tempi di Roberto d’Angiò, alias
il Saggio, il quale, come Federico II, sembra favorisse la cultura
napoletana durante il suo Regno. Fu in quel periodo che Giovanni
Boccaccio scrisse alcune sue opere durante il soggiorno napoletano. In
quel tempo numerosi letterati italiani insegnarono all’Università di
Napoli, compreso chi ci denigrava, come Cino da Pistoia, ad esempio, che
immortalò qua e là versi e pareri non del tutto edificanti per Napoli.
Roberto il Saggio mise assieme una vasta biblioteca di codici di ogni
tempo, così gravosamente copiati dalle officine scrittorie. Il re,
bontà sua, mise pure a disposizione un vasto ambiente di lavoro per
copisti e miniaturisti laici. Per i sovrani è stato sempre facile
affermarsi in ogni campo, da qui dev’essere derivata la nostra
locuzione popolare: La flatulenza del capo non olezza, più
colorita nella sua versione originale: ’A puzza d’ ’o masto nun
fete. Non dimentichiamo che Napoli, a differenza di Londra, Parigi o
S. Francisco, vanta una vasta letteratura popolare caratterizzata da
lazzi scurrili, prosaicità facete o trivialità da portuali, che
attingono da un bisogno atavico di rimuovere (con tali innocue
trasgressioni) quella conflittualità osservanza - inadempienza»,
circa le solite normative divino-terrene di una cultura locale radicata
sulla ossequianza sudditale, in alternativa alla reazione delittuosa d’esito
irreversibile. In altre parole il popolo, attraverso atteggiamenti
blasfemi o scurrili, reagisce alle angherie dirigenziali in alternativa
alle conseguenze di pulsioni reattive di tono delittuoso.
Il popolo napoletano per secoli ha fatto finta di non sentire molte
puzze e continua a far finta di non sentirle. Non è affatto codardo, ma
saggio, e vorrebbe, in maggioranza, regolare i conti con sberle e
cazzotti, alla Bud Spencer. E’ una razza, quella vesuviana, al
di là di certa minoranza purulenta di immaturi settici, che tendono a
diffondere la cancrena in tutto il tessuto sociale, ancora adulta,
sebbene si avvertano le prime avvisaglie di confusione e
disorientamento. Un popolo, come molti altri, che ha da tempo superato
la fase cervantesiana e che riconosce bene l’utopia delle rivoluzioni.
Così gli scritti di Roberto d’Angiò
(come, ad esempio, il famoso epitaffio per la nipote Clemenza, figlia di
Carlo Martello) passano alla storia.
Spesso, però, le mediocrità e le baggianate di uomini storicamente
famosi sono valide sol perché fatte da uomini tali, o pure perché
vissuti quando vi era penuria di opere artisticamente e culturalmente
valide. Un po’ come accade oggi, talvolta, per alcuni riconoscimenti
ufficiali. Uomini ed opere egregie restano in ombra perché scavalcate
dai primi posti, mentre, per contro, opere ed uomini mediocri si
affermano per l’assenza temporanea di elementi migliori. Senza parlare
delle affermazioni di carattere competitivo dove un voto od un centesimo
di secondo distruggono la carriera di uomini validi.
Intanto il Petrarca accettò di essere esaminato, per alcuni
riconoscimenti, dal sovrano, «L’unico - disse - che accetto
come giudice del mio ingegno». Ma qui, a mio parere, la cosa faceva
perno più sull’appoggio politico che sulla perizia letteraria. Dante,
per tutta risposta, denigrava il re sermone, altrettanto per
ragioni politiche. Ma è bene ribadire che il fulcro di tutta la cultura
napoletana di quel periodo storico fu l’opera di S. Tommaso d’Aquino,
il quale, in assenza non già solo delle collane economiche divulgative
moderne, ma pure di quelle prototipografiche di Aldo Manuzio, si
disponeva sugli ampi sagrati ed intratteneva la folla napoletana, in
volgare, con i concetti essenziali della sua dottrina cristiana. Fino al
XV secolo, che vedrà la scoperta del Nuovo Mondo e quella della stampa
a caratteri mobili, la cultura napoletana s’incentrava sugli studi
teofilosofici, quindi furono ben scarse le opere prosastiche o in versi
degne di rilievo. Vigeva la poesia provenzale importata dagli stessi
angioini, la quale influì non poco, secondo i filologi, sull’insorgere
della poesia popolare napoletana, che si affermerà definitivamente solo
nel Cinquecento, in pieno periodo della scoperta della stampa.
Intanto gli scriptorum erano in pieno fulgore. Era 1’esplosione
pirotecnica conclusiva di un’arte plurisecolare destinata di lì
a poco ad estinguersi, o a sopravvivere come i fuochi fatui nelle
scuole elementari sotto il nome di calligrafia o bella
scrittura, per incenerirsi completamente nel secondo dopoguerra. Non
di meno, di stabile affermazione era la miniatura, essenzialmente
legata ai codici danteschi. Molto nota la Divina Commedia miniata a
Napoli in quel periodo e conservata gelosamente presso la Biblioteca dei
Gerolomini. Si tratta di un codex molto discusso, copiato, sembra, da un
altro codice toscano realizzato appunto da scribi fiorentini. Quest’opera,
detta pure filippina, nacque dalla stretta collaborazione di un
provetto amanuense ed un esperto miniatore. Il genere di letteratura
artistica miniata si propagò in molte province del Regno, i cui
operatori erano attratti dalla cultura artistico-letteraria degli
angioini.
INCHIOSTRI GRAFICI E LORO USO
Anticamente, pure all’epoca degli angioini, 1’inchiostro,
come ho già detto, veniva fabbricato per lo più con materie vegetali.
Il nerofumo come pigmento da sempre viene prodotto tramite combustione
da fiamma. I cinesi, ancora una volta, sono stati maestri nella
produzione degli inchiostri. Alcune pergamene, ad esempio, venivano
scritte con inchiostro oro o argento, fabbricato con l’impasto delle
polveri degli stessi metalli. Il più famoso strumento di scrittura fu
lo stilo, da cui derivano stile, stilistica, stilografica, ecc.
Un altro rudimentale strumento fu il calamo, da cui: calamaio.
Infine si ebbe la penna di volatile, usata per centinaia d’anni. Il
nero, per millenni, è stato 1’inchiostro da scrittura e tipografico
più usato. Oggi le industrie per la produzione di inchiostri da stampa
sono dei veri e propri laboratori chimici. Si dice che un tempo i
tipografi preparavano da sé vernici e pigmenti, custodendone
gelosamente le formule. La vernice costituisce il veicolo di trasporto
del colore dal calamaio della macchina, giù per i rulli inchiostratori
(alcuni mobili per stemperarlo), fino alla carta.
Il pigmento è il colore impresso sulla carta. Le caratteristiche
principali del pigmento dell’inchiostro grafico sono 1’intensità
della tinta e la resistenza, principalmente alla luce e all’acqua.
Le vernici, invece, erano ricavate da oli vegetali che hanno la
proprietà di essiccare per ossidazione, anche su carta che non ha
nessuna capacita di assorbimento, come, ad esempio, la carta patinata.
Oggi queste vernici sono per lo più sintetiche, ma conservano tutte le
caratteristiche di quelle naturali. I pigmenti vengono ricavati da
sostanze inorganiche, solo il nerofumo, come ho detto, viene ottenuto
con la combustione di fiamma, gas, ecc. In passato venivano usati
pigmenti ricavati dalle terre colorate, ma esse non favorivano la
preparazione di inchiostri raffinati e si rivelano meno idonei delle
sostanze vegetali o chimiche.
Altri tipi di inchiostri vengono detti ad essiccazione per
penetrazione. (Si prega i libidinosi di non sbarrare gli occhi).
Questi composti, a base minerale, sono adatti per le carte poco lisciate
e comunque non patinate. Essi vengono adoperati per carte ruvide e
possono restare sulle vecchie macchine tipografiche anni interi senza il
timore che possano essiccare. Sono in commercio degli essiccanti
separati che agiscono anch’essi come assorbitori di ossigeno, e il
tipografo può amalgamarli all’inchiostro. Questi composti sono
prodotti col manganese, zinco, ecc. e vanno dosati in piccole
percentuali, una dose eccessiva provocherebbe 1’effetto opposto,
perché romperebbe l’equilibrio delle molecole. L’essiccazione degli
stampati è favorita dagli ambienti riscaldati. La carta umida in un
ambiente freddo ritarda il processo di essiccazione tra le molecole e l’aria.
Per ciascun sistema di stampa (tipografia, offset, rotocalco,
flessografia, serigrafia, ecc.) viene prodotto 1’inchiostro idoneo.
Gli inchiostri tipo offset, ad esempio, hanno la massima repulsione per
l’acqua. Ma ciò non basta, gli inchiostri di uno stesso veicolo di
stampa presentano sostanziali differenziazioni in relazione agli
svariati tipi di supporti; in più si tiene conto addirittura del tipo
di macchina, della velocità di stampa, e via dicendo.
La stampa tipografica, caratteri e cliché, consente maggiore
tollerabilità per l’uso di inchiostri, anche non molto indicati, non
così, invece, per gli altri sistemi. L’inchiostro offset, ad esempio,
è di scarsa acidità per non compromettere la durata delle lastre che
in effetti sono dei sottili supporti trattati con delicate sostanze
chimiche fotosensibili. Il piombo tipografico, invece, resiste ad ogni
tipo di acido o solvente. Il pigmento dell’inchiostro offset deve
essere molto intenso poiché la lastra ne deposita sulla carta una
quantità minima. In più un composto poco viscoso imbratterebbe i rulli
bagnatori più del normale compromettendo la qualità della stampa.
Gli inchiostri per rotocalco, invece, sono di natura totalmente
differente, essi essiccano per evaporazione, come i flessografici,
perché i loro solventi sono molto volatili. Anche in questo caso le
formule di questi composti variano a seconda dell’impianto adoperato,
in relazione alla velocità, al tipo di carta, alla sovrapposizione dei
colori, ecc. Anche se molto fluidi essiccano non appena a contatto della
carta, perché in un solo ciclo veloce avviene la stampa di più colori,
la piegatura, il taglio, la spillatura e la rifilatura delle riviste.
Gli inchiostri flessografici sono liquidi, essi, un tempo, venivano
preparati sciogliendo l’anilina in alcool con altri additivi. Oggi
sono stati sostituiti con altri composti chimici meno nocivi (?), i cui
solventi sono sempre molto volatili. Meriterebbero un capitolo intero
gli inchiostri serigrafici, poiché ne occorre uno per ciascun supporto
da decorare. Sono così tanti che spesso non si tratta neppure di
inchiostri, basta pensare alla crema o al cioccolato liquido che vengono
adoperati dalle industrie per decorare dolciumi in serie. Le bottiglie
vengono serigrafate tramite composti vetrificabili. Altri tipi sono
composti da vernici ricavate dalla materia stessa da decorare in maniera
da favorirne la fusione, ecc. (Vedi paragrafo: Stampa serigrafica).
IO, GARZONE TIPQGRAFO
E a proposito di inchiostro, mi rivedo adolescente,
avviluppato nel camice di apprendista tipografo compositore, nero da
capo a piedi. L’unto fuligginoso, la naftalina e il madore della
fatica lasciano esalare un tanfo tipico della categoria, che non supera,
però, la soglia dello sgradevole. Per la strada, durante le commissioni
venivo scambiato per il garzone del carbonaio. E’ la carretta dello
stampatore, mi difendevo dall’aria di dileggio che avvertivo nei
passanti. Appena mezzo secolo fa i furgoni erano un lusso. Il trasporto
merceologico per brevi distanze avveniva con la famosa carrettella
condotta a braccia. Gravunaro! gridava qualche moccioso con aria
di scherno, ed io, con un groppo alla gola, accostavo la carrettella sul
ciglio della strada e puerilmente irrompevo a piangere sotto l’umido
androne di un vecchio palazzo. «E’ un onore apparire insudiciati
per il lavoro», diceva mastro Enrico per consolarmi, al ritorno.
Sembra una battuta tratta dal libro Cuore. Allora mi stava bene, mi
faceva sentire una specie di martire eroico. Solo diversi anni dopo ho
capito qual è il sudiciume di cui molti di noi dovremmo vergognarci.
Oggi gli adolescenti sono tutti nutriti a sufficienza e ben vestiti;
nessun dodicenne, oggi, governa più una carrettella per istrada come i
paria indiani o i portantini cinesi, gli uomini mulo. Non è tanto la
dignità che si è data al lavoratore adulto occidentale che commuove,
ma la quasi eliminazione dello sfruttamento minorile, di questo bisogna
dare atto ai sindacati, al di là degli errori corporativi. I
giovinetti, oggi, scrivono e si esprimono molto bene, ma diversi di loro
non comunicano, questo è un dramma ancora peggiore dell’ignoranza e
della sporcizia. In Italia, oggi, si consumano migliaia di tonnellate di
detersivo l’anno, grazie alla grancassa propagandistica, anche per
alternare, probabilmente, i tentativi di lavarsi dentro. Il cerimoniale
dell’ablùzione si è diffuso nelle società occidentali attraverso le
plurime detergenze oggettuali, docce domestiche e talassoterapia di
massa tra milioni di spiagge e piscine, ma questo e uno scongiuro
tribale, effimero, ci vuol ben altro per riguadagnare la tolleranza all’insoluto
esistenziale.
Credere al progresso non significa che un progresso
ci sia stato.
«Diari» - Kafka
CAP. VIII
I VARI SISTEMI DI STAMPA VISTI DA VICINO
Bisogna proprio dire
che gli uomini sono riusciti
a dare alle proprie macchine agilità, forse energia,
precisione di movimenti ed eleganza di linee,
lucentezza e rapidità; ma una bella voce allegra,
una voce cordiale che sia come l’espressione di un’anima, no.
«Se la luna mi porta fortuna» Achille Campanile
LA STAMPA TIPOGRAFICA
Abbiamo visto che la stampa tipografica a caratteri
mobili è quella che ha dominato il mercato
librario per cinque secoli. Ancora oggi il sistema non è stato
completamente abbandonato neppure dalle industrie grafiche. Il principio
della stampa tipografica è simile a quello elementare che compiamo
quotidianamente nel nostro ufficio: la timbratura. Il timbro è la
composizione tipografica; la scrivania il piano portaforme;
la nostra mano il cilindro di pressione. Le macchine
tipografiche, però, più massicce e resistenti di noi, compiono quel
gesto con decisione, sistematicità, ripetitività regolare. Le macchine
tipografiche per caratteri di piombo si distinguono in tre categorie
fondamentali: platine, piano-cilindriche e rotative. Le
macchine platine sono di piccolo formato (per formato s’intende la
dimensione massima del foglio che si può immettere). Le vecchie
platine: le pedali, con puntatura a mano e funzionamento appunto
a pedale, successivamente motorizzate, ancora vengono utilizzate per
lavori minuti o per la fustellatura (taglio sagomato con lamine d’acciaio
di forma geometrica).
La platina fu completamente automatizzata da una casa tedesca che ne
fece un gioiello meccanico, èla famigerata Haidelbegr detta stella.
Prodotte in serie hanno dominato il mercato mondiale per molti decenni,
grazie all’estrema praticità d’uso. Questi tipi di macchine sono
adatte ad una infinità di piccoli lavori commerciali dove non si
richiede abbondanza di pressione di stampa ed inchiostrazione. Sono, tra
1’altro, molto veloci, malgrado il solito arresto di fase,
caratteristico delle macchine da piombo. Io ne posseggo due, l’una e
più vecchia della buonanima di mio nonno; l’altra è di più recente
costruzione.
La macchina presenta verticalmente il piano portaforme, dove viene
posizionata la composizione stretta in un telaio metallico. Una pompa d’aria
meccanica alimenta un braccio aspiratore che raccoglie il foglio
dalla pila e lo immette nelle pinze mobili che roteano sul piano di
pressione onde posizionare il foglio tra la composizione (ad ogni giro
inchiostrata) ed il piano di pressione, che va a schiacciare la
carta contro i caratteri. La stessa pinza porta la carta sulla pila d’uscita.
Le macchine piano-cilindriche, invece, furono fabbricate per i formati
di carta più estesi, dove c’è maggiore necessità di pressione e di
inchiostrazione. Nel metodo delle macchine platine la carta si trova in
posizione piana durante l’impatto di stampa, Nel sistema
piano-cilindrico la carta prende la posizione del cilindro di pressione
che gira sul proprio asse rotolando sulla composizione, la quale
avanza, a sua volta, sul piano portaforme mobile, che compie 1’andirivieni
ad ogni fase di stampa. La struttura delle macchine pianocilindriche è
molto robusta. Maggiore è il formato della composizione, superiore
sarà la pressione richiesta. Immaginate sulla vostra scrivania due
timbri, l’uno piccolino, l’altro grosso come il formato di un libro
e che ne riproduce una pagina. Mentre il primo viene timbrato
disinvoltamente con la leggera pressione di una mano, il secondo
richiederà la presa con entrambe le mani e vi costringerà ad alzarvi
dalla sedia onde contribuire all’impatto col peso del vostro stesso
corpo. Solo in questo modo tutti i caratteri saranno leggibili dopo la
timbratura. Nelle macchine piano-cilindriche il sistema di
inchiostrazione è molto più efficiente di quello delle platine. I
rulli inchiostratori sono più numerosi e diversi, alcuni oscillanti per
la macinazione dell’inchiostro. Inoltre i rulli di forma,
quelli, cioè, che sfiorano la superficie dei caratteri, restano sempre
uniti al resto dei rulli del gruppo inchiostratore, a differenza delle
platine, in maniera tale da favorire un’alimentazione costante,
indispensabile in caso di forme fitte di caratteri grossi o fondi pieni.
Sono ancora in uso poche vecchie piano-cilindriche con puntatura a mano
e uscita dei fogli a cordicelle e ventaglio. Esse, pero sono
utili per le piccole tirature di avvisi murali cittadini. Ma la maggior
parte delle piano-cilindriche della seconda generazione sono dotate di
mettifoglio automatico ad aspirazione e dell’uscita a catena,
vale a dire meno rudimentale. Durante questo secolo sono state costruite
centinaia di migliaia di macchine tipografiche propriamente dette,
oramai in piena obsolescenza. La loro evoluzione è durata l’arco di
un secolo. Molti, in origine, furono i tentativi per accrescerne le
prestazioni. Furono costruite, senza successo, le bianca e volta,
che imprimevano entrambi i lati della carta contemporaneamente. Poi si
tentò di combinarle tra loro. Nacque la bicolore tipografica, da questo
principio derivano le pluricolori offset e rotocalco di diffusione
totale planetaria. Ogni gruppo ha il proprio cilindro stampa, l’autonomo
gruppo inchiostratore, ecc.
ARTIGIANATO OBSOLETO
Le macchine tipografiche vecchia maniera vanno
purtroppo scomparendo. Chi mi sente dire purtroppo mi taccerà di
misoneismo. Ebbene, chiariamo subito la mia posizione. Solo uno stupido
non saprebbe valutare i vantaggi pratici del progresso e la sua
legittimità in relazione alle esigenze di mercato. Ma il punto è un
altro. Perché 1’uomo, a prescindere dalla incalzante domanda connessa
al movimento demografico, viene coercizzato nel consumismo? La gente
crede che tutto ciò che compra sia necessario o addirittura
indispensabile. Infatti finisce con esserlo quando se ne crea la
dipendenza. Il mondo è diventato, nell’arco di un secolo, una
gigantesca fabbrica di medicamenti psichici oggettuali e alimentari. Le
arti grafiche, asservite alla grancassa, ne sono state coinvolte
in misura spaventosa. La stampa tipografica, in cinque secoli, e stata l’unico
strumento che ha diffuso in maniera capillare i due millenni di cultura,
lasciando cogliere a tutti, tra l’altro, pure dei benefici essenziali,
come i sostegni psichici contro l’insoluto di finibilità terrena,
rincrudito dal timore di assenza salvifica post-mortale. Sostegni più
comunemente noti come valori etico-spirituali, che alimentavano
costantemente nell’uomo, la speranza e la reversibilità.
Il deterrente atomico ha stagnato la stasi politica planetaria, quindi
ogni speranza di rinnovamento, a prescindere dal timore inconscio di un’apocalisse
esente da ogni sorta di palingenesi. In più, i moderni mass-media di
natura elettronica diffondono massicciamente, prevalentemente l’edonismo
consumistico, anche attraverso programmi artistici e d’evasione,
esaltando un modello sociale di uomo schiavo della bellezza e del
successo, infermo nelle più svariate dipendenze materiali. L’etica
e il nutrimento spirituale sono retorica da anacoreta, ma senz’altro
meno esiziali e più accessibili dei sostegni effimeri moderni, data la
precarietà del loro accaparramento. Il paradigma moderno dei valori
umani (sempre visto sotto è’ottica di sostegno psichico di stampo
esistenziale) e quello del potere d’acquisto.
La sperequazione, connaturata nell’istintuale agonistico dell’uomo,
si è allargata non solo tra le classi, ma nelle classi, generando forme
morbose di malcontento ed intollerabilità condominiali ed urbane mai
verificate nella storia. Finche 1’uomo non prenderà consapevolezza di
stare affogando nel tentativo di spegnere il fuoco con la benzina, non
ci sarà speranza per la razza umana, perché la folle corsa conduce ad
una sola meta: quella di morire prima e peggio!
Lo sviluppo della stampa offset e della relativa fotocomposizione
elettronica ha determinato una svolta decisiva all’evoluzione della
stampa. Al sistema offset, comunque, sono preclusi molti piccoli lavori
artigianali realizzabili, per il momento, solo con il sistema
tradizionale. In un futuro non molto lontano pure i bottegai tipografi
dovranno, giocoforza, convertirsi alle nuove tecnologie, altrimenti
difficilmente sopravviveranno. La vita frenetica di oggi ha
settentrionalizzato il rapporto cliente tipografo. Forse le commissioni,
un giorno, passeranno solo attraverso le caselle postali, i telex, i
telefax e, come è bello dire, chi più ne ha più ne metta. L’afflato
comunicativo del mercanteggiamento si incrina a causa del ritmo sempre
più serrato della vita moderna. Il tempo è sempre più tiranno, altro
che maestro in ogni cosa, come diceva il filosofo. Vecchi assiomi
di stampo speculativo vanno completamente rivisitati.
Un giorno ho appiccicato un cartello sulla vetrina della mia bottega di
Via Purgatorio, dove si leggeva: 100 carte da visita in omaggio a chi
lascia trascorrere almeno un secondo tra una bussata e 1’altra. L’utente
appare sull’uscio trafelato, dipendente di una cinesi perpetua,
stressato dal traffico urbano, intensissimo nella cintura vesuviana ed
in ispecial modo a Torre del Greco, dove la carrabilità è ferma a
quella barrocciabile, modificata solo dal catrame. Egli ha appena la
forza di dire: Mi serve il tipografo, fate voi. Quante volte devo
dar corpo alla vaga idea del cliente, traducendo il pensiero in modello
di stampa, creando in esso il messaggio rivolto agli utilizzatori, a
loro volta sprovveduti e distratti, come quasi tutti i recepitori di
messaggi pubblicitari stampati, corrotti dai concorrenti mezzi di
comunicazione moderni.
Tra i lavori artigiani presunti per fare quattrini, quello tipografico
è il meno indicato, a meno che il danaro non lo si stampi direttamente,
ammesso che si abbia le attrezzature costose e specifiche per farlo.
Oggi, e non è un’affermazione di comodo, chi sceglie di fare l’artigiano
tipografo, nella terra vesuviana, incappa, per dirla in frase fatta, in
una brutta gatta da pelare. Il fisco ha educato gli artigiani, i
sindacati hanno dirozzato gli imprenditori ed istruito i dipendenti, e
sta bene, ma l’avventore, a riguardo, chi l’ha aggiornato?
LE ROTATIVE STEREOTIPICHE
Ritorniamo a noi. Le rotative sono le moderne macchine da stampa per
antonomasia. Questa generalizzazione si è diffusa attraverso il
cinema e la televisione che hanno sempre mostrato immagini eloquenti di
rotografia su ogni argomento concernente le arti grafiche. Esistono
delle rotative che producono tutt’altro che giornali. Prima di ogni
cosa la carta introdotta non è a bobine, ma a fogli sciolti. In queste
macchine, oramai in disuso, il piano portaforme fu sostituito da un
cilindro su cui viene fissata una impronta stereotipica della
composizione tipografica, allo scopo di eliminare l’arresto di fase
dell’andirivieni tipico delle macchine tradizionali da piombo, tutto
appannaggio della velocità di stampa. Le rotative con l’introduzione
a bobina, invece, furono costruite per i quotidiani. Innanzitutto esse
comprendono in una sola combinata tanti gruppi rotanti con pressione di
stampa e rulli inchiostratori autonomi; in secondo luogo la bobina,
sfruttando il principio della ruota, come i cilindri di impronta e di
pressione, elimina il sia pur fulmineo arresto del mettifoglio, in modo
da consentire al complesso meccanico velocità incredibili. Le rotative
in genere hanno invaso il mercato mondiale, esse, oltre ad obbedire al
principio della ruota, si conformano all’epidemica mania dell’uomo
di voler superare la velocita della luce, allo scopo di fermare il tempo
e procurarsi finalmente l’immortalità. Ma le corse moderne
provocano solo infarti, ictus e, bene che vada, alimentano l’ansia
sempre crescente, e l’ansia è non altro che il polo positivo dell’angoscia.
LA CULTURA NAPOLETANA AI TEMPI DI GUTENBERG
Precederò, guarda caso, l’argomento della
trionfante stampa offset, cioè il sistema che ha completamente
soppiantato la scoperta gutenberghiana, con un’altra sosta nella
storia relativa al periodo in cui l’arte nera veniva ideata.
Nel Rinascimento vi furono a Napoli miniaturisti di grande prestigio che
tutt’oggi si possono apprezzare attraverso le opere del tempo
aragonese. I codex miniati rinascimentali, benché considerati nella
sfera dell’arte minore, sono diversi e di grande rilevanza
storico-artistica. Ormai 1’Italia vanta da tempo una cultura artistico
letteraria, come dire, aborigena, che attinge sempre meno, non gia le
influenze, ma le importazioni di moduli culturali europei, come ai tempi
delle dominazioni. Nel periodo aragonese giunsero a Napoli anche
numerosi artisti catalani che lavoravano in stretta collaborazione con
gli amanuensi, non solo, ma anche con i prototipografi, pure se i tomi
prodotti con la scriptura artificialiter venivano illustrati, in
larga parte, usando il bulino xilografico anziché il mestichino per
minio e vernice, o lo stilo, il calamo e la penna d’oca.
Nella vasta biblioteca aragonese miniaturisti e calligrafi lavoravano,
come si suol dire, a tutto spiano, dietro smorfie rinitiche dei
calligrafi quando passavano loro, appunto sotto il naso, le
imitazioni tipografiche. Gli aragonesi lasciarono evolvere la
cultura letteraria a Napoli, sia latina che volgare, dove si distingueva
il celebre Giovanni Pontano, il quale, forse per la prima volta
nella storia, compi uno sforzo per allargare la cultura a tutte le fasce
sociali dell’Italia meridionale. Un po’ come faceva a Firenze Lorenzo
il Magnifico. L’Accademia, appunto, pontaniana, si avvalse, tra 1’altro,
di uomini illustri, come il Panormita e il Sannazaro. Il
Centro di Studi, fondato però dal Panormita, costituiva il Centro
Umanistico Napoletano, dove venivano compiute opere di filologia ed
esegesi, di storiografia e di traduzione di testi antichi. La stampa a
caratteri mobili ha certamente contribuito a tramandarci la cultura
dietro la moltiplicazione in serie degli scritti, poiché le copie
singole dei codici, visto i saccheggi e le devastazioni belliche,
potevano lasciar dissolvere nel nulla numerose notizie storiche e
letterarie delle più particolareggiate.
Ma la pigrizia mentale dei circumvesuviani, favorita pure dall’evasione
teleiconografica e dal sole generoso nelle giornate lavorative sempre
più corte, rende inusitate le torme di tomi accatastati nelle librerie.
Solo le targhe stradali ci ricordano la storia, 1’arte, la
letteratura. Molti giovani frequentano la mia bottega artigiana, in
prossimità degli esami, per fotocopiare stralci libreschi in massima
riduzione ottica, da celare o mimetizzare nelle cintole o nelle cavità
più recondite dell’abbigliamento, a causa dell’endemica incapacità
di coordinare e memorizzare la materia studiata, o forse solo letta, tra
un disco ed un video dei big più in voga. Una persona su cinque
frequenta gli studi regolari per 1’interesse dello studio in se.
Dileggiata dai colleghi, per giunta, quale secchiona, pedante,
introversa. Le Università pullulano di matricole. Diversi studenti,
però, studiano non già solo per l’amore del sapere, ma per il
prestigio che il pezzo di carta dà. Alcuni ancora ritengono la
cultura come strumento di intimidazione, come potere aulico che eleva a
ranghi superiori.
Un sentimento antico di riscatto di un popolo proveniente da un
analfabetismo secolare; se generalizzato, pero, perde della sua forza e
della sua stessa essenza, e quello che si sta verificando. Ma diceva
Galilei: La differenza che passa tra un filosofo ed un laureato in
filosofia e quella che intercorre tra un artista che crea la sua opera d’arte
e uno che la copia. Per contro, un fatto e ormai lapalissiano. La
maggiore parte delle nevrosi si riscontrano nelle società dove il
sapere, la cultura, la civiltà sono più avanzate. Il fatti non
foste per vivere come bruti... dantesco è oggi discutibile alla
luce della psicologia moderna. Lo conferma il nostro vecchio motto:
Chi capisce patisce, e 1’espressione: Pathos creativo, ecc. Questo
dimostra come il sapere, le speculazioni cogitali e la tendenza all’analisi
complichino la vita. Il popolo napoletano per millenni è
vissuto lontano dalla cultura dottrinaria, sostenendo, invece, la
sua filosofia di sopravvivenza tollerabile; oggi nevrotizzato dalla
civiltà occidentale va in conflittualità, come tutti. Le azioni
reattivo-difensive sono le solite: estremismo politico o passività
religiosa, coscrizione malavitosa, suggestioni poetiche e
liberalizzazione (?) della sessualità, questa l’unico esorcismo
valido, sessualità espletata confusamente e compromessa dall’AIDS,
per rendere ancora più precaria l’era atomica. Sarà nel giusto Freud
quando dice: La vita umana era cosi meno infelice prima di ogni
culturà e di ogni tendenza civilizzatrice?
All’epoca della scoperta della stampa Lorenzo il Magnifico
insisteva con gli studi filosofici, mentre a Napoli, finalmente, si ebbe
una fioritura poetica. L’umbro Pontano, segretario di stato al
servizio degli aragonesi fece valere anche le sue doti oratorie, ed
insieme a Lorenzo Valla furono i pilastri della cultura
napoletana dell’epoca. Non di meno si distinse il Sannazaro con
le sue opere teatrali destinate ad una speciale recitazione, la quale si
accostava alle tiritere dei vecchi giullari di corte. Si dedicò pure ad
una poesia in volgare, ma si espresse in latino nelle sue maggiori
opere. Nel XV secolo nasce una prosa popolare che incomincia a liberarsi
dai dottrinarismi e va sempre più incontro alla massa. Masuccio
Guardati, alias il Salernitano, amalgama la lingua col dialetto
napoletano ed il latino. Le sue novelle furono date alle stampe, invece
che agli amanuensi, favorendone, così, la diffusione popolare, per modo
di dire, perché, è superfluo reiterarlo, coloro che sapevano leggere
erano una minoranza.
La tipografia napoletana prendeva consistenza, ma il maggiore mezzo di
diffusione delle opere popolari era il teatro con l’espressione
verbale, comprensibile da tutti. L’analfabetismo, ancora massiccio,
arrestava la produzione di libri di carattere divulgativo. Dovranno
passare ancora dei secoli prima che la massa dei vesuviani possa far
involare la fantasia attraverso la lettura di un libro. Quando, pero,
questo è accaduto, il tomo, col suo fascino peculiare, prodotto da
officine fuligginose a misura d’uomo, con la fatica fisica e mentale
che caratterizza ogni arte applicata, realizzato con sudore ed
emicranie, viene fagocitato dai nuovi espedienti dell’informatica che
esclude 1’uomo dalla partecipazione diretta, emotiva, epidermica,
olfattiva, al lavoro. Si estingue il vociare logorroico dei tipografi
napoletani; scompare l’unto e la fuliggine delle attrezzature ed il
fragore delle pianocilindriche. Le moderne officine sono ben linde ed
opali, vi impera uno strano, glaciale silenzio. Ambienti chiari, silenti
ed asettici come gli ospedali. La produzione tocca vette mai raggiunte.
Danaro a valanga, successo commerciale. I diagrammi produttivi e
finanziari sono in continua ascesa, in contrapposizione a quelli
affettivi. Si nota una gelida solitudine, più nessun calore umano,
nessuna forma d’amore.
LITOGRAFIA, MADRE DEL SISTEMA OFFSET
La vecchia litografia, da cui deriva la
moderna stampa offset, prevede come matrici delle pietre speciali, le
quali vengono trattate e disegnate con particolari vernici grasse, gomma
arabica ed acido nitrico; risciacquo ed olio di trementina. La tintura
di asfalto ridà il grasso al disegno, mentre le altre zone della pietra
ricevono solo acqua. Una volta inumidita la pietra, solo il disegno
accetta 1’inchiostro dal rullo. Questa tecnica viene ancora adoperata
da quegli artisti che desiderano riprodurre in serie le loro opere. Per
la stampa utilizzano un torchio simile a quello usato da SENEFELDER agli
inizi del 1800. La moderna stampa offset, come ho gia detto nelle pagine
precedenti, si basa su questo principio. Le pietre litografiche sono
state sostituite con pratiche e leggerissime lastre di zinco e
specialmente di alluminio, oggi presensibilizzate da ditte altamente
specializzate, montate sui cilindri rotanti consentono alte tirature a
velocità sostenuta. Le lastre, come gia descritto, vengono preparate
dietro la realizzazione di un montaggio fototecnico separato. Il
calcolatore sostituisce la gloriosa Linotype (che in questo momento mi
piange sotto le mani). Il computer stabilisce in completo automatismo i
valori e le caratteristiche della composizione. Il sistema
fotocompositivo utilizza tutti i tipi di caratteri nelle diverse
grandezze, stabilendone elettronicamente la disposizione, gli
intervalli, ecc. Il cervello ha racchiuso in se, e miniaturizzati
nei sofisticati circuiti, una intera officina tipografica. E come se non
bastasse, il testo e gli schemi composti vengono integralmente
memorizzati in maniera che 1’operatore può visionarli e modificarli
come e quando vuole. Alla fine tutti i dati di un composto vengono
impressionati su disco per essere eventualmente rimanipolati in futuro.
E MACCHINE OFFSET
Offset significa in inglese riporto, poiché 1’impatto
sulla carta non avviene direttamente dalla matrice, ma da un cilindro
rivestito di telo gommato che raccoglie 1’impronta da essa. Mentre,
però, le composizioni tipografiche da piombo sono formate a rovescio,
cioè con le scritte da destra a sinistra, poiché quando baciano
la carta risultano diritte, le lastre offset vengono impressionate
diritte, si rovesciano sul caucciù per riaddrizzarsi sulla carta.
Le normali macchine offset monocolori sono strutturalmente di semplice
concezione meccanica, ma più perfette nei sincronismi e nei contatti
rispetto a quelle da piombo. Una tipografica da discreti risultati anche
quando non e perfettamente a punto, mentre una offset, anche
dietro una lieve sfasatura, o una cattiva regolazione dei cilindri dà
risultati di stampa inaccettabili. Una macchina offset monta
strutturalmente tre cilindri: quello portamatrici, quello di trasporto
(rivestito di caucciù), e quello di stampa o pressione. I cilindri sono
di uguale diametro e girano simultaneamente. Il gruppo dei rulli
inchiostratori è simile a quello delle macchine tipografiche,
ugualmente un rullo si accosta al cilindro di calamaio ad ogni giro per
attingere la giusta quantità di inchiostro e trasferirla al gruppo dei
rulli inchiostratori. Gli ultimi rulli vanno a contatto della lastra. Un
altro gruppo di rulli provvede ad inumidire la matrice ogni volta prima
dell’inchiostrazione.
L’OFFSET ASETTICA E BUROCRATICA
La stampa offset si è oramai diffusa a macchia d’olio nelle
grandi e medie tipografie campane. E’ un peccato, per certi versi, che
il lavoro creativo a misura d’omo debba finire schematizzato e
codicizzato. Lo stampato eseguito, per così dire,
a mano, viene davvero svolto, per dirla in chiave retorica, col braccio,
con la mente e col cuore. L’industria, in un futuro prossimo,
accetterà i lavori di piccola entità solo se passano sotto schemi di
progettazione codicizzati e combinati con altri lavori per coprire i
formati di macchina. Il piccolo tipografo impegnato fa del suo lavoro la
completezza della sua personalità, come la donna lo fa con la
maternità, perché plasma e modella col tocco delle dita gli elementi
meccanici della composizione come fossero sculture di argilla, sino ad
esclamare michelangiolescamente: Perché non parli! Poi si
guarderà bene di sfasciare tutto con un martello...
A compiere il capolavoro e la maestria dei miei colleghi torresi e
campani tutti, ed una certa spinta nevrotica per garantire le giuste
dosi di: pathos creativo, abnegazione, sacrificio e, diciamolo pure, la
disposizione alla perdita di tempo, là dove il modesto, sudato provento
rimane un fatto marginale. L’artigiano appartiene al popolo, 1’industria
alle multinazionali, è facile tirare le somme. Gli stampati
personalizzati diverranno proibitivi. L’industria capitalistica (come
in tutto il libro: non faccio politica), tende a soffocare tradizioni e
folklore, perché vuole il popolo prima suo lavoratore dipendente, poi
consumatore, tutto appannaggio del plusvalore. Non è servito a nulla il
secolo di messianismo marxiano. Gli addetti ai lavori che mi seguono
possono interpretare, in queste parole, un’apologia al piombo fuso e
una denigrazione all’avanguardia tipografica.
Dirò subito che le intenzioni di questo libro sono sentitamente
costruttive, affatto recriminatorie. Lo possono confermare i miei
colleghi artigiani di Torre del Greco con i quali ho sempre un dialogo
aperto, a parte qualche lieve screzio di carattere concorrenziale. Si
prendano le mie parole come osservazioni acritiche anche se talvolta
compare una parvenza polemica. Sia chiaro una volta per tutte che io
amo e rispetto tutta la famiglia planetaria dei tipografi, sia il
nipote bottegaio che il nonno industriale pedissequo
al sistema. In più so valutare bene il salto produttivo e qualitativo
delle nuove tecnologie offset, i problemi che postulo sono di natura
diversa e credo di averli abbastanza designati. E’ probabile, devo
riconoscerlo, che alcune considerazioni siano piuttosto soggettive. E’
la deformazione professionale di un bottegaio a mezza strada tra l’arte
applicata e la filosopsicopoesia. Colui che mi vede operare nella
mia bottega artigiana di Via Purgatorio, saltare qua e là, in quei
settanta metri quadrati di terraneo polveroso, tra la pianocilindrica e
la Linotype, fra la pressa dei timbri e la carretta dei manifesti,
sa che ho precluso sul nascere ogni forma di ambizione incrementizia ed
economica. Questa presupporrebbe compromessi ed intrallazzi che non
rientrano nel mio ordine di idee.
Un cliente di Via Montedoro mi dice spesso: Mari, mi sembri Diogene
nella botte. Un altro di Via Cesare Battisti è convinto che sia
affetto da manie di piccolezza. In tutti gli eccessi vi sono disturbi
della personalità. “La perfezione”, “la normalità” non sono
universali. Ogni uomo, nel bene e nel male risponde coi risultati della
sua età evolutiva, condizionato da fattori ambientali, da problematiche
domestiche. L’altruismo - dice Roberto Gervaso - non è
altro che il rimorso dell’egoismo. Spesso la bontà e la dolcezza
affettate si celano sotto pulsioni aggressive.
Ma cosa vogliamo da questo povero uomo, da questa scimmia intelligente
che sublima la libido distorta in centomila attività umane. Cosa
vogliamo da questi uomini maschi, forse gelosi della maternità,
come la donna del pene, che esaltano il loro modesto lavoro, che si
completano in esso, che fanno delle loro botteghe, talvolta, tanti
covi uterini. Non mettiamoli tutti nei capannoni insieme ai robot,
numerati come carcerati, spersonalizzati e svirilizzati dalla potenza
delle macchine. Salviamoli dalle conseguenze esiziali della cieca corsa
dell’uomo verso il pozzo senza fondo del desiderio di danaro, il
cosiddetto sterco del diavolo.
Oggi l’utente si rivolge ancora a noi bottegai tipografi per la
realizzazione di carta da lettere e biglietti da visita. La prima cosa
che esige è il contatto diretto col titolare della bottega. Il lavoro
viene discusso, modificato e trasformato, tra un caffè centellinato ed
una Marlboro, che spesso brucia da sola in un angolo. Talvolta si sfocia
in argomenti che esulano dal lavoro, alla fine si mercanteggia e spesso
non ci si mette d’accordo. Poi il cliente ritorna, ha perduto la
traccia, si ricomincia daccapo. Quindi si procede finalmente alla
realizzazione dello stampato con un’altra esperienza umana acquisita.
Qualche perplessità costringe a ricontattare il cliente, altri scambi
di idee mentre si raggiunge la comune
soluzione. Alla consegna l’avventore sarà appagato e soddisfatto ad
un costo moderato, riforme legislative e fiscali permettendo.
L’industria grafica, invece, offre come primo traguardo l’ufficio
accettazione, dove il lavoro viene sottoposto all’attenzione di
grafici e designer di fama interregionale. (Fatti il nome e piscia a
letto, diranno che hai sudato). Ma andiamo avanti. I designer hanno
tutti dei nomi esotici, come gli artisti dello spettacolo, sembrano gli
psicoanalisti della stampa. Sempre sussiegosi e perentori. Sulla parete
dietro la scrivania di pura pelle di ermellino vi è un poster
rappresentante un marchio di una. multinazionale. L’austero designer
aggiungerà che quell’idea è costata mezzo milione di dollari. L’avventore
si deterge dalla fronte il primo madore, poi vorrebbe scappare, ma
oramai è dentro, si rende conto che pagherà a caro prezzo la sua mania
di snobbare. Alla fine l’utente, dopo veri e propri diverbi, dovrà
accontentarsi dei caratteri trasferibili e di un marchio di tipo
generico, che somiglia sempre a quello di una nota fabbrica di
provoloni. La bozza passa all’ufficio amministrativo; poi ritorna all’ufficio
grafico per la conferma d’ordine sotto le facce disgustate dei
barbassori. Dopo un congruo acconto, l’originale passa in sala
composizione elettronica, prima vagliato e valutato da un’equipe,
quindi purificato da mediocrità linguistiche; indi in camera
oscura, sui tavoli luminosi, nel reparto lastre e, dulcis in fundo, nell’officina
di stampa, che sarebbe il terzo girone. Il lavoro, ordinato a
Natale sarà pronto a Pasqua. Il cliente si guarderà bene, in futuro,
di rimettere piede in quella bolgia, ridimensionerà le sue idee
rilevaticce e appena gli capiterà un bottegaio tipografo sotto mano lo
abbraccerà e lo bacerà a mo’ di emigrato.
I dirigenti delle industrie grafiche mi perdonino l’ardire ancora una
volta. Mi scusino per l’ironia e la maniera iperbolica di dire delle
loro signorie. Bando agli scherzi da prete e andiamo avanti. In realtà
i grossi complessi nemmeno possono prendere in considerazione lavori di
piccola entità a causa di difficoltà strutturali ed amministrative. Il
mio era solo un ironico, pietoso grido di speranza associato ad una
timida proposta: che i poveri utilizzatori di stampati di piccolo
taglio, una volta estinte le botteghe, vengano trattati almeno nel modo
anzi descritto. E’ comunque doveroso ricordare che le industrie
grafiche napoletane, malgrado le palesi difficoltà gestionali degli
ultimi anni, sostengono una buona fetta di livello occupazionale della
categoria. Molti non chiudono i battenti solò per salvaguardare i posti
di lavoro. Ciò e ammirevole. I risentimenti dei tipografi nei riguardi
dei vecchi padroni despoti e sfruttatori vanno via via dissolvendosi.
Forse oggi bisogna combattere il risentimento dei titolari nei riguardi
delle nuove leve. Non è improbabile, per certi versi, che insieme all’estinzione
delle botteghe, alcune industrie tipografiche possano anche retrocedere
nel rango di tipografie artigiane. Auguriamoci che ciò non accada mai!
E, credetemi, in questo ambiguo carosello di parole, non sto acciaccando
e medicando tenendo fede al proverbio che dice: Per vivere
comodamente bisogna accendere una candela a S. Antonio e una al diavolo.
Le trovate goliardiche sono fatte così. E’ difficile discernere
quando uno scherza o quando fa sul serio. Ciascuno la interpreti a modo
suo. Intelligenti pauca.
Ma al di la dell’ambiguità e dei doppi sensi, grazie a Dio i
nuovi dirigenti d’azienda hanno una condotta moderata. Vi è molto
più rispetto della dignità individuale e maggiore adeguatezza
remunerativa. E’ indubbio che i dipendenti abbiano acquistato più
decoro. Vanno fortunatamente scomparendo anche i delatori che hanno
fatto il gioco degli ultimi baroni della carta stampata. In quasi tutte
le aziende tipografiche campane si respira un’aria diversa, più
onesta più democratica.
IL PROCEDIMENTO OFFSET
La stampa offset, essendo planografica, (cioè
bianchi e scritte sullo stesso piano), non richiede 1’avviamento
tipico della stampa tipografica, poiché non vi è necessita di
taccheggio (livellamento degli elementi tipografici usurati dagli
impieghi precedenti, livellamento tra caratteri e cliché, ecc.).
Comunque lievi taccheggi, in offset, nella misura di centesimi di
millimetro vanno praticati sotto il caucciù nelle zone intense di nero
o la dove il caucciù presentasse delle lievissime deficienze. La stampa
offset va costantemente controllata. I cilindri vanno puliti
periodicamente nel corso di lunghe tirature, poiché il pulviscolo della
carta o altre interferenze possono provocare alterazioni all’immagine
impressa sulla carta. Di estrema importanza è la giusta dose d’acqua.
Una insufficiente umidità della lastra causa aloni e macchie
indesiderate; una umidità eccessiva, invece, provoca la scomposizione
della viscosità dell’inchiostro. Acqua e inchiostro diventano una
dannosa miscela che causa mancanza di corpo nella tinta e conseguenti
effetti di sbiadimento o chiazze irregolari. L’avviamento di un lavoro
offset richiede meno tempo di quello che occorre per uno tipografico, ma
consuma più carta per gli scarti. Una composizione tipografica, però,
regolata per bene ed avviata consente lunghissime tirature, con solo
sporadici controlli relativi all’alimentazione della carta, dell’inchiostro
e all’eventualità che un margine possa raggiungere la
superficie dei caratteri comparendo sulla carta nella sua bella forma
geometrica. Mentre per la stampa tipografica ogni tipo di carta si
rivela idoneo, per quella offset bisogna fare una scelta oculata anche
in relazione al tipo di lavoro da eseguire. La carta subisce, come ho
gia detto, delle trasformazioni dimensionali, sia per influenze
atmosferiche che per stiramenti meccanici dovuti alla pressione offset e
all’umidità che la caratterizza. Nelle grosse aziende vi sono degli
appositi locali atti al condizionamento della carta. Bisogna scegliere
tipi di carta idonei alle policromie sovrapposte, perché non si abbiano
variazioni di stabilita dimensionale, specie nelle macchine monocolore.
L’umidità mal regolata può causare il rigonfiamento delle fibre
provocando 1’allungamento della carta fino a 1 millimetro. Essa deve
accedere in pressione con la fibra a favore per evitare deformazioni.
LE ROTATIVE OFFSET
Le macchine offset comuni vanno da un formato minimo
di 35 x 50 cm. a un massimo di 140 x 200 cm. E’ inutile ripetere che
per formato macchina s’intende la misura massima del foglio
introducibile. La velocità di stampa varia dalle 6000 alle 10.000 copie
orarie in relazione al formato e alle caratteristiche costruttive. Le
macchine offset pluricolori dei grandi complessi assicurano praticità e
velocità, in più i controlli sono automatici. La carta non subisce
soste che favoriscono 1’alterazione dimensionale. Eventuali errori
cromatici o di registro vengono corretti elettronicamente. Le rotative
offset con immissione di carta a bobine hanno in media cinque gruppi
stampa. Il quinto, posizionato all’ingresso, e a secco e serve solo al
preventivo stiramento della carta. Queste macchine a bobina non
ottennero molto successo al loro apparire sul mercato editoriale, anche
per la concorrente stampa rotocalcografica. L’avvento della
fotocomposizione ha ribaltato le cose perché un gran numero di
quotidiani le adotta sostituendole alle rotative stereotipiche
tipografiche. E’ chiaro che le rotative offset da giornale hanno un
numero di gruppi stampa relativo alla quantità di pagine del
quotidiano.
IL SISTEMA ROTOCALCO E LO SNOB
Il sistema rotocalco procede di pari passo con la
stampa offset, grazie alla altrettanto elevata velocità che consente.
Mors tua vita mea anche per i sistemi di stampa. La miniatura, ad
esempio, tendeva a scomparire nel XV secolo per favorire la xilografia,
compatibile con i caratteri di piombo. In quel tempo il procedimento
calcografico, padre della moderna rotocalcografia, veniva adoperato
separatamente e solo per stampe d’arte o similari, là dove non vi
fosse presenza di testo.
Ma al centro dei fatti culturali del Cinquecento napoletano inoltrato fu
1’affermazione del libro stampato dietro le spinte precedenti di
Francesco Del Tuppo, malgrado il vicereame non contribuisse
sufficientemente alla diffusione della cultura. Forse si avvertiva il
sentore che la letteratura, per altro diffusa dalla stampa, potesse
aprire gli occhi persino al popolo analfabeta tentato dall’erudizione.
Una cosa è certa: Napoli stagnò culturalmente in una stasi di un paio
di secoli. Per conseguenza la tipografia napoletana fu soffocata sul
nascere. Malgrado tutto, all’arte tipografica partenopea di quel tempo
contribuirono molti nomi illustri dell’Università di Napoli, come
Giovan Tommaso Zanca, Giovan Bernardino Longo, ecc. Vi fu, in seguito,
qualche tipografo famoso come Mattia Canger, ma la maggioranza delle
opere letterarie venivano stampate a Venezia dal famoso Aldo Manuzio.
Nacque anche una editoria napoletana coi relativi librai, ma lo sviluppo
era lentissimo per volontà dei vicerè. Certo si era ben lontani dai
prodigi della stampa rotocalco e dal famoso Mattino illustrato.
Se l’invenzione della stampa a caratteri mobili avesse incontrato a
Napoli regimi più favorevoli alla cultura, la tipografia napoletana non
avrebbe avuto nulla da invidiare a quella veneziana. Ma, è risaputo, i
“se” non fanno storia, ed i poveri circumvesuviani, una volta
per una ragione, una volta per un’altra devono sempre ingollare
bocconi amari.
Oggi tutte le riviste illustrate di grossa tiratura, a cadenza
ebdomadario, vengono stampate in rotocalcografia. Come ho già accennato
nelle pagine precedenti, la stampa rotocalcografica avviene attraverso
cilindri-matrici acidati similmente ai cliché tipografici. L’inchiostro
viene “spruzzato” sulla superficie dei cilindri per
depositarsi negli alveoli incisi. La carta, aderendo al cilindro,
assorbe il colore dagli alveoli e rimane bianca nelle zone alte dell’incisione
poiché tale superficie viene pulita da un’apposita racla prima che la
carta aderisca al cilindro matrice. Queste operazioni avvengono in
frazioni di secondo. La stampa rotocalcografica e cilindrico-diretta,
vale a dire che, a differenza della matrice offset = riporto (sul
caucciù), il cilindro rotocalco impronta direttamente la carta, per cui
1’incisione delle scritte e disposta a rovescio come per il sistema
tipografico. I cilindri-matrice possono essere incisi su se stessi o
essere di volta in volta rivestiti da lastre di rame incise. L’inchiostro
e molto fluido, come quello flessografico. Nelle macchine veloci viene spruzzato
a getto-fontana. L’inchiostrazione avviene in reparti chiusi, a prova
d’aria, onde evitare l’evaporazione dei solventi, molto volatili, i
quali hanno la proprietà di asciugarsi non appena avviene l’impatto
di stampa, in maniera da consentire le successive, immediate
sovrapposizioni di colori.
Nessuna tipografia artigiana, per ovvi motivi, adopera il sistema
rotocalco, esso è prettamente industriale. I canoni creativi relativi
alla grafica sono inferiori rispetto a quelli tipografici ed offset
perché seguono schemi di impaginazione standardizzati e ripetitivi, a
parte le elaborazioni più o meno artistiche della grafica
inserzionistica, che viene comunque realizzata in studi grafici scissi
sia dalla redazione che dalle officine rotocalco. La televisione spesso
ci porta in questi ambienti ormai tutti convertiti ai computers, dove le
strutture interne rivelano 1’aspetto tecnologico avanguardistico.
Queste immagini suggestionano gli spettatori condizionandoli a
generalizzare sulla realtà strutturale delle officine tipografiche in
genere, dalla bottega all’industria. Come si ignora la funzione
romantica della carrozzella nel traffico cittadino, cosi le botteghe
artigiane, all’occhio corrotto dell’uomo moderno, diventano le
carrozzelle delle arti grafiche, anacronistiche ed antiprogressiste.
Poi c’e lo snob. Egli è sempre impeccabile nell’aspetto esteriore.
Difficilmente non ha segatura nel cervello, come le donne belle che non
si coltivano mai dentro, e poiché Daniel Mussy dice: La bruttezza ha
un vantaggio sulla bellezza, dura, quando superano la soglia della
senilità si disperano. Lo snob muove il passo indugiando. Infine
ferisce 1’ingresso della mia tapina bottega di Via Purgatorio.
Innanzitutto pretende che io abbia i pattini ai plantari perché non
attende più d’un secondo e già manifesta 1’impazienza
tamburellando coi polpastrelli sul banchetto di accettazione. Poi storce
tutto, naso, bocca, occhi, collo. Bisogna riconoscergliene 1’abilità.
Mi chiede, schivo ed austero dov’e l’ufficio, ed io gli rispondo che
non c’è. Allora mi chiede dov’e la segretaria, il fattorino, il
proto, ed io gli rispondo che non esistono. A questo punto lo snob
dà piglio alla tiritera: ...che nel meridione siamo arretrati di
cento anni, (Meno male, si contenta di poco), ...che siamo
retrivi ed antiprogressisti, ...che la sera andiamo a letto con le
galline perché ci piace proliferare, senza apprendere i progressi dalla
televisione. Allora gli faccio notare che per emergere bisogna
scendere a compromessi, condividere illegalità, in alcuni casi divenire
malvagi ed egotisti e, in ultima analisi persino cruenti. Lo snob
poggiando il palmo della mano sinistra a manca del torace e mostrando
tutti i trentadue denti finti sfiata un sonoro, irritante, odioso
«Embe?».
Lenito il rovello intuisco che la cornice somatica dell’interrogazione
cela l’intenzione spocchiosa di ostentare l’anello di brillanti e
alcuni disgustosi denti d’oro incastonati nella protesi totale.
Aggiunge «Purché ci si adegui, si salvi la faccia, si appaia
secondo le convenzioni. Egotisti o succubi, non v’e alternativa. Non c’e
- conclude lo snob - neppure una poltrona, una sedia, che so, uno
sgabello, per non dire un trono, in modo da sedersi e polemizzare
un paio d’ore, e alla fine, se 1’avrò vinta, vi ordinerò i cento
biglietti da visita?». «Ah sì -
rispondo tronfio - un posto dove sedervi ce 1’ho, ed è pure
comodo, rilassante, potrete adagiare i vostri bei glutei profumati e, su
preterizione, mica vi dico che è il cesso e che si trova dietro quella
porticina in fondo a sinistra”.
LE MACCHINE ROTOCALCO
Come si può ben immaginare quel cliente 1’ho
perduto per sempre. Da quel giorno frequenta solo le grosse industrie,
quelle delle pluricolori offset e rotocalco. Nelle aziende
rotocalcografiche le piccole macchine monocolore ad immissione a foglio
singolo sono pressoché simili a quelle offset. Chiaramente si
differenziano nel tipo di matrice, nel sistema di stampa diretto o
indiretto e nel metodo d’inchiostrazione. La macchina rotocalco a
foglio permette di sfruttare appieno la qualità consentita dal sistema
poiché la loro velocità relativamente ridotta, rispetto alle macchine
rotative, favorisce la costanza delle registrazioni fatte in fase di
avviamento e, innanzitutto, non si verifica la precoce usura dei
cilindri-matrice. Le macchine rotocalco più diffuse sono quelle
rotative dei grandi complessi editoriali. Esse sono dei veri e propri
mostri di produzione. In quelle più moderne la parte elettronica esegue
in completo automatismo la regolazione di tutti i dispositivi di
controllo. Queste macchine gigantesche sono combinate, all’uscita dei
vari gruppi stampa, con tagliatrici piegatrici ed infine cucitrici. L’alimentazione
della bobina di carta, il percorso, il registro dei colori, sono simili
a quelli delle rotative stereotipiche od offset. L’essiccazione dell’inchiostro
avviene con getto d’aria per favorire 1’evaporazione repentina dei
solventi. Oltre alle riviste illustrate le rotative rotocalco stampano
libri, carta da imballo, giornali illustrati, valori bollati,
fotoromanzi, e via dicendo. Queste macchine diaboliche stampano migliaia
di riviste al giorno in una sola fase di lavoro, a prescindere dalla
preparazione preventiva delle matrici. I cilindri rotocalco girano
vorticosamente su se stessi annaffiati dalla sorgente d’inchiostro
liquido, la cui eccedenza viene eliminata da una racla a perfetto
contatto dei cilindri stessi, mentre il chilometrico nastro di carta
scorre velocissimo tra i cilindri- matrice e cilindri-pressione
rivestiti di gomma, con una precisione micrometrica. Alla fine le pagine
impresse più volte successivamente, subito asciutte, tagliate piegate e
spillate sono pronte per la distribuzione nelle edicole. Cose da far
strarivoltare Gutenberg nell’avello.
ROTOCALCO OTTIMO BUSINESS
La stampa rotocalco, come ho gia detto, non ha nessun
punto in comune con quella dei caratteri mobili, da sempre. Mentre la
tipografia gutenberghiana ha favorito la fioritura di centinaia di
milioni di tipografie in tutto il mondo, la calcografia, da sistema
secondario, si e trasformata, in questo secolo, in sistema primario
industrialmente parlando. Non ho mai saputo dedurre, dalle note
biografiche del Maestro di Magonza, se egli ponesse la sua scoperta
sotto un profilo idealistico culturale-artistico, o la vedesse come
punto di partenza di una progressiva ascesa industriale. Non ho
compreso, cioè, se rientrasse nel suo ordine di idee una futura
evoluzione e trasformazione della scoperta, in maniera tale da capire di
gettare le basi per un vero e proprio gigantesco business planetario.
Ciò che sconcerta, sfogliando i manuali relativi alle arti applicate in
genere, è la scissione oculata della materia tecnica da quella umana.
Basta osservare i manuali di fotografia, di disegno, ecc. Si tratta di
mezzi strettamente connessi alla sfera sensitiva dell’uomo, ma si dà
prioritaria importanza al mezzo e non al fine. Nei manuali primeggia
sempre 1’indirizzo didattico formativo e 1’utilizzo pratico
commerciale, ma la poesia, da cui si dipana l’arte applicata, rimane
in penombra. Questo libro, pur articolato su di un’ossatura tecnica,
si spazia senza frugalità sull’altra faccia dell’arte applicata,
senza nulla togliere all’autorevolezza della letteratura settoriale
tipografica.
L’artigiano tipografo della mia terra è lontano dai traffici del
business multinazionale a cui, spesso, è asservita la stampa
rotocalcografica. Egli, tapino bottegaio sognatore e romantico, che fa
scorrere i suoi anni tra le carrette pianocilindriche e gli avventori
sprovveduti e frettolosi, per cui sarà docente, praticone, imbonitore e
poi tipografo. Si dice che a Napoli i dirigenti (traduzione
neologistica del vecchio lemma padrone), abbiano fatto tutti la
gavetta, partiti, cioè, dal rango di artigiani tipografi. Non possono
obliare, loro, che non v’è arte applicata senza la componente emotiva
in tutta la sua sfera. Afflato comune all’operatore ed al richiedente
sino agli utilizzatori. Al di là di questa dimensione rimane la
meccanizzazione e la prioritaria commercializzazione del prodotto
artistico che seguirà leggi di mercato come gli schemi precostruiti e
ripetitivi.
Il prodotto artigianale tipografico, anche nel contenuto, è
condizionato via via dal popolo; esso viene modellato e modificato in
relazione ai sentimenti comuni, al costume, al folklore, agli
avvenimenti. Molti stampati tipografici sono peculiari alla singola
regione. La gioia e il dolore di un popolo, soprattutto, si
riflettono nelle opere degli artigiani. La materia tecnica con
quella umana, specie alle pendici del Vesuvio, si fonde. Molti tipografi
artigiani della mia terra, cari milanesi del business rotocalcografico,
non scambierebbero la loro travagliata posizione per traguardi più
ambiti, (da voi naturalmente). Cosi come gli ultimi nostalgici
napoletani non baratterebbero il loro basso per un attico a Via Orazio.
Neofobia, autolesionismo, orgoglio immaturo, nostalgia patologica,
potete pensarle tutte, ma non potetenegare che la felicità è
soggettiva. Non si creerà mai un modello di felicita universale,
altrimenti al mondo ci sarebbe una sola ideologia. Malgrado le
apparenze, il degrado voluto da una minoranza sopraffattrice e dal
progresso asettico, nonostante la confusione generale, la babele urbana
e domestica, il popolo vesuviano rimane sentimentale. Abbiamo impiegato
secoli per divenirlo, sono pochi cinquant’anni per convincerci a
portare cuori artificiali. Nell’endemica corsa al potere economico che
ha colpito pure la cintura vesuviana, vi e chi scarta 1’ipotesi dell’arricchimento.
Forse perché ricusa la politica dello
struzzo e si da mentalmente una ripassatina al pentalogo della
ricchezza:
1) nascere ricchi, ed ereditare pure le nefandezze connaturate; 2)
asservire i cavalli trainanti del potere;3) votarsi all’eslege
dalla truffa al delitto; 4) speculare sul plusvalore operaio; 5)
soggiogare la gente con messianismi fasulli, ciarlatanerie e stregonerie
varie.
Dateci un mondo pulito, e noi stamperemo in rotocalco; dateci un mondo
dignitoso e noi stamperemo in rotocalco; dateci un mondo dove almeno
nelle mura domestiche si parli la stessa lingua e noi stamperemo in
rotocalco; dateci un mondo vivibile, dove 1’amore, che e nient’altro
che la paura sconfitta, possa trionfare, e noi stamperemo in
rotocalco bobine di carta lunghe quindici miliardi di anni luce, per
informare ancheò’ultima galassia, che la terra ce 1’ha fatta, è
salva.
Ettore Imparato conclude così la sua «Piccola storia di Napoli»:
«I Romani vennero per liberare Napoli dai Sanniti, i Goti dai
Romani, i Bizantini dai Goti, gli Svevi dai Bizantini, gli Angioini
dagli Svevi, gli Aragonesi dagli Angioini, Carlo VIII dagli Aragonesi,
gli Spagnoli dai Francesi, gli Austriaci dagli Spagnoli, i Borboni dagli
Austriaci, i Francesi dai Borboni, i Borboni nuovamente dai Francesi,
Garibaldi dai Borboni, gli Alleati dai Fascisti. (...) Meno male che il
napoletano, quando e come può, sa liberarsi da solo! In mancanza sa
vivere libero anche sotto 1’oppressione. (...) Egli ha preso pregi e
difetti di tante razze, dalla cui fusione ha tratto una vivida
intelligenza, invidiata da altri popoli». Magnifica osservazione!
Ma le leggi di natura sono inesorabili. Ora che il popolo napoletano
poteva far tesoro delle esperienze acquisite, finite le oppressioni, è
incappato nella problematica esistenziale planetaria, verso cui
intelligenza, scaltrezza ed arte dell’arrangiarsi a poco servono,
perché e stata compromessa non gia più la liberta sociale, ma quella
individuale interiore.
Mille cose avanzano,
novecentonovantanove
regrediscono, questo e il progresso.
«Frammenti di un diario intimo» - Henri Frederic Amiel
CAP. IX
I VEICOLI DI STAMPA MINORI
La tecnica c’e sempre stata, solo i più
non hanno studiato abbastanza per saperlo.
«Problemi della lirica» Gohfried Benn
LA STAMPA FLESSOGRAFICA
La parola flessografia deriva dalla
flessione del clichè rilievografico
adoperato per questo particolare sistema di stampa. Abbiamo già visto,
nelle pagine precedenti, come viene ottenuta una copia della
composizione tipografica. Il clichè flessografico, dunque, viene
montato su di un cilindro matrice curvo. La qualità della stampa
flessografica non è delle migliori, anzi è decisamente scadente. Ciò
dipende dalla mancanza di durezza, quindi di stabilita della gomma
stessa. Un leggero miglioramento si è avuto con 1’utilizzo delle
matrici flessibili fotopolimeriche, ma i risultati non sono mai
paragonabili alla stampa tipografica od offset. In flessografia vengono
stampati: le carte da imballo, i sacchetti di materia plastica, le carte
per rivestimenti e via discorrendo. Lavori, insomma, che non richiedono
particolare finezza di stampa. Il clichè di gomma, comunque, viene
rettificato al massimo perché venga eliminato il benché minimo
dislivello causato dalla cottura, che apparirebbe sul prodotto stampato
come una zona schiacciata, cioè con gli elementi grafici
deformati e dai contorni sdoppiati, rispetto alle altre più nitide e
regolari. Gli inchiostri flessografici sono liquidi, come quelli
rotocalco; sono anch’essi molto volatili e consentono una essiccazione
rapidissima per l’evaporazione immediata dei solventi.
LE MACCHINE FLESSOGRAFICHE
Queste macchine sono anch’esse a pressione
cilindrica diretta, come il rotocalco, ma il principio e simile alle
rotative stereotipiche. Le macchine flessografiche sono di semplice
struttura. Elementare e anche il trascinamento della bobina, come pure 1’inchiostrazione,
poiché le tinte vengono pescate da un rullo che attinge in una semplice
vaschetta. Il gruppo stampa di una macchina monocolore è costituito dal
cilindro portamatrice e quello di pressione abbinati ai soli due rulli
inchiostratori, l’uno che pesca l’inchiostro dalla vaschetta, l’altro,
a contatto, che elimina le eccedenze. Sistema che adopero per stampare
scotch. Il montaggio del clichè sul cilindro-matrice è facile, più
complesso diventa quello sulle macchine pluricolore con più
rulli-matrice. I clichè di gomma riproducenti i vari colori selezionati
vengono applicati ai cilindri con speciali sistemi ottici o meccanici
che avvengono, comunque, fuori macchina. L’inchiostro nelle macchine
flessografiche deve essere rimescolato e ridiluito perché l’evaporazione
dei solventi ne varia la giusta diluizione causando cambiamenti di tono
e difficoltà meccaniche al trascinamento della lunga bobina. L’essiccazione
dell’inchiostro flessografico sulla carta non richiede particolari
accorgimenti. Per la stampa di materia plastica, invece, per nulla
assorbente, l’essicazione richiede dispositivi ausiliari che
favoriscono l’evaporazione dei solventi. Sono molto diffuse le
macchine flessografiche che stampano carta per avvolgere da banco, e
quelle che decorano sacchetti di polietilene o altre materie plastiche
di largo consumo quotidiano. Questi sacchetti, come è noto, vengono
decorati con scritte e disegni relativi alla ragione sociale del negozio
che li distribuisce. Le macchine flessografiche, che stampano tubolari
di plastica relativi ai sacchetti, sono delle combinate che provvedono,
con dispositivi aggiunti, al taglio e alla sagomatura dei sacchetti,
come la fustellatura del manico, le angolature, ecc.
Le flessografiche adatte alla stampa di carta in bobina sono invece
dotate di taglierine alla fine del ciclo di stampa. La flessografia, in
Campania, e diffusa a livello artigianale. Il flessografo vesuviano e
artigianalmente accomunato al tipografo bottegaio, poiché la sua
clientela è composta da piccoli negozianti, salumieri, pasticcieri,
rosticcieri, e via dicendo. Come il tipografo, il flessografo campano si
adatta in locali di fortuna chissà perché sempre angusti. C’e tanto
spazio sulla terra e oltre di essa, eppure a molti di noi ne tocca
pochissimo.
IL TIPOGRAFO ARTIGIANO E L’AVVENTORE
Il banchetto di accettazione si affaccia subito sull’ingresso,
ed in molti casi si tratta di un banco contenente casse di caratteri.
Quando càpitano più clienti, ad esempio le numerose famiglie convenute
per la scelta delle partecipazioni, allora effettivamente si riscontra
il disagio lamentato dallo snob della breve narrazione
precedente. Io rimedio, in parte, facendo sedere un infante in cima ad
una pianocilindrica in modo che stia buono per un’oretta; invito gli
sposi a sgranchirsi le gambe, assisi su di una pila di carta; le due
suocere, è chiaro, le piazzo sedute sul piano del tagliacarte, nella
speranza di una provvidenziale… amputazione delle lingue oltre il
frenulo. Si crea un’atmosfera grottesca e ironica.
E’ proprio in quel momento che il testereccio ottuso guadagna 1’ingresso
e si fa largo, quel poco che può, ed esclama «Mari!» con gesto
spagnolesco. Con la coda dell’occhio osserva i presenti disposti alla
sua teatralità. «Siete la schifezza dei tipografi! - aggiunge.
Poi sbottona il copione ripassato più volte durante il tragitto. - Mi
avete rovinato, mi avete. Mi sono visto addosso la finanza, i
carabinieri, la digosse, 1’effebbiae, tutti». Fa una pausa di
suspense per alimentare la curiosità dei presenti. «Ecco, ecco qua
- ansima affettatamente cavando dal taschino un timbro di gomma -
...mi avete sbagliato la partita IVA, ho contraffatto cento, mille,
milioni di docu... - Un Oooooh generale lo ridimensiona nella foga;
un po’ rantolando riprende -...e va be’, zeri in più zeri in
meno... Ma lui - dice ai presenti puntandomi 1’indice
tremante - lui mi vuole vedere in mutande, mi vuole; con la barba in
faccia e i figli per la mano davanti alle chiese a chiedere 1’elemosina».
I presenti, abituati da secoli al caratteriale locale, sono
sorpresi, non già per la rabidezza del tale, ma per la flemma con cui
rovisto tra gli originali dei lavori eseguiti, la cui ricerca, così
immediata, e imprevedibile dal furibondo. Alla presenza pubblica del
foglietto da lui scritto che dimostra la mia incolpevolezza lo pseudo
energumeno si sgonfia e tra mille sbirciatine rapidissime ai presenti,
abbozza un sorriso decisamente ebete. Poi accenna ad una specie di goffo
inchino e muove lentamente all’indietro tergendosi la schiuma agli
angoli della bocca biascicando «Cacchio, stavo proprio dormendo quando
1’ho scritto». Poi si dilegua per 1’uscio senza nemmeno accennare
un saluto.
I presenti avrebbero voluto vedermi pavoneggiare nei vapori inebrianti
della vittoria, non già per solidarietà, s’intende, ma per ottenere
il terzo numero da giocare secco solo per Napoli, quando l’immaturo
ricompare sull’uscio sbottando: “…e Caro il mio tipografo, voi
la testa di cardulella sempre ce l’avete, lo stesso avete
sbagliato, perché, se proprio volete saperlo, quando ritirai il
capucchiello, qua - accenna il timbro - mi deste mille lire in
piu sulla resta».
E’ un cliente affezionato, adesso, a cinque anni da quella volta.
Ma oramai posso rivelare il bluf. Per ricondurlo in sé mi assoggettai
ad una sorta di scaltrezza: non gli mostrai altro, quel giorno, molto
rapidamente, e ritirandolo in tempo, che il conticino del mio salumiere
di Via Cesare Battisti.
Desidero, comunque, non apparire onniscente e perfezionista lungo questi
flash aneddotici relativi alla mia bottega di Via Purgatorio, dove
compaio il più delle volte trionfante o comunque marciante sul filo
della bravura. Cado spessissimo in errori, come molti altri. E’ bene
chiarire che non mi reputo né peggiore né
migliore degli altri miei circumvesuviani. Chiunque, però, s’imbatte
nello strumento della scrittura finisce con l’essere un tantino
analitico e pedante e finisce di tanto in tanto, di mettersi in bella
mostra.
Lasciamo la flessografia per imbroccare, tra poco, la serigrafia, due
veicoli di stampa molto legati al popolo vesuviano moderno, perché
connessi ai consumi giornalieri in genere, E l’andamento commerciale
è, a Napoli, come diciamo noi, tutto un programma. I
settentrionali dicono che da noi non si commercia, ma si svende. Al di
là, talvolta, della merce di provenienza furtiva, è facile trovare a
Napoli un prodotto fabbricato a Milano inferiore al prezzo di costo. Gli
agenti di commercio spesso si fanno la croce ’a smerza. Ciò e
da imputare soprattutto all’offerta massiccia e all’atavico
individualismo commerciale. Da noi le parole: cooperativa d’acquisto
o solidarietà commerciale suonano lontane. Il prezzo fisso è
utopistico e non regge. Nel mercanteggiamento sono favoriti i più
abili. Generalmente, pero, 1’artigiano divide la clientela in due
categorie, quella composta da persone che non superano la soglia dell’intolleranza,
e quella costituita da individui apparentemente scaltri, ma che, per
dirla ancora in gergo, vogliono essere fatti fessi e contenti,
(attraverso la maggiorazione preventiva del costo delle materie prime ed
altri espedienti).
Ciascun cliente sente il bisogno di sapersi privilegiato rispetto agli
altri. Al di là dell’espediente «Mi manda Picone», l’avventore
non si presenta con un «Buongiorno», ma con un «Sono amico
del tale consigliere o della certa fiamma gialla», ecc. Quando
proprio non lo manda nessuno, dirà: “Avrò un trenta, quaranta
milioni di lavoro da far eseguire, ma per il momento mi occorrono cento
biglietti da visita, che sconto mi fate?” Io generalmente rispondo
che su trenta, quaranta milioni di lavoro, praticamente 1’incasso di
un anno di lavoro artigianale, sarei disposto a regalare non cento, ma
diecimila carte da visita, ma quei cento li dovrà pagare a prezzo pieno
perché a fine settimana chiudo bottega per cessata attività... Insomma
necessitano gli antidoti agli espedienti, ed il più scaltro la spunta,
con molta eleganza. Ma non sempre mi capita di spuntarla perché spesso
si hanno delle le fregature dall’avventore.
LA SERIGRAFIA NEL SUO LARGO USO
Non temo smentite, per dirla con la Serao, affermando
che noi tipografi artigiani campani lavoriamo il doppio per guadagnare
la meta rispetto ai tipografi artigiani del privilegiato nord. Eppure
gli oneri sociali vengono ottemperati nella stessa misura, anzi,
talvolta si è costretti a subire tributi fuori legge ed
ingerenze varie, nella solitudine della modesta autarchia gestionale.
L’altro male annoso è la concorrenza, per nulla leale, rincruditasi
con la massiccia pluralità delle botteghe. Io mi sono rifugiato su di
un isolotto di salvezza, sebbene lungo e largo venti spanne, dove
accarezzo varie tecniche poligrafiche. La mia tapina bottega di Via
Purgatorio sostiene un insieme di ritrovati atti alla sopravvivenza,
risolti con arnesi combinati, vecchi ordigni da macero modificati, resi
idonei alla risoluzione di problemi tecnici altrimenti eseguibili solo
con le moderne, sofisticate attrezzature, fuori dalla portata economica
di una bottega. Il sistema serigrafico, ad esempio, consente di spaziare
la fantasia attraverso una serie infinita di marchingegni. Se ci
si lascia prendere da questa sorta di personalismo si sfocia facilmente
nella sublimazione o, se volete, esaltazione professionale, la quale
determina un appagamento ideale, tutt’altro che redditizio, ma d’una
autocompiacenza quasi espiatoria, specie quando ci si stagna, a lungo
andare, nel circolo vizioso della limitazione dei mezzi finanziari.
Questa è l’alternativa alla realtà professionale campana vigente,
condizionata da regolamentazioni clientelari pregne di compromessi;
realizzare, cioè, al di la del lucro, i propri sogni nei campi elisi,
meno razionali, della fantasia.
Il fatto stesso che tutti i sistemi di stampa, dai primordi ai nostri
giorni, abbiano sempre previsto la carta, o i suoi prototipi, come
supporto su cui trasferire l’inchiostro, fa sì che il tipografo che
si cimenta nelle sconfinate possibilità realizzative serigrafiche, si
senta quanto meno privilegiato. Forse per questo ho la tendenza a
reiterare attraverso il materiale pubblicitario personale: Tipografia
Mari, stampa su tutto, anche se ciò stimola un po’ troppo la
fantasia della mia clientela torrese suggerendole le richieste più
strane. Una volta, quando si volevano decorare oggetti solidi e
tridimensionali, si ricorreva all’incisione, anche su lapidi, stele,
insegne, ecc. L’incisione, ancora attuata per casi particolari,
avviene attraverso la fresa a pantografo, e sebbene computerizzata,
rimane un sistema lento di riproduzione poiché la fresa deve comunque
seguire tutto il solco del disegno. Il sistema di incisione, che
comunque non è stampa, rimane idoneo ed insostituibile per la scrittura
di pezzi singoli, come, ad esempio, la produzione di targhe, di cui
tratterò alla fine del lavoro.
L’esigenza di riprodurre oggetti decorati, in una società così
spietatamente consumistica ha suggerito all’industria
planetaria di rivisitare l’antico sistema di fregiare gli oggetti
attraverso apposite maschere di seta, metodo attinto in alcuni
testi della vecchia Cina. La stampa serigrafica, secoli or sono,
rasentata qua e la in Europa da qualche artista predisposto alle
ricerche sperimentali, si è affermata pienamente in questo secolo e non
solo in Europa. In passato si era così impegnati
a sviluppare e diffondere la stampa tipografica a caratteri mobili che
si tralasciavano le tecniche parallele, che comunque risultavano meno
pratiche e veloci, soprattutto con l’assenza della fotografia atta a
realizzare velocemente le matrici.
In primo luogo, in passato, i prodotti commerciali erano minori, non
solo proporzionalmente al movimento demografico; in secondo luogo le
materie di vendita non erano sottoposte al processo di confezionamento
dove fa gioco la grancassa. La plastica non esisteva. Quei pochi
arditi che desideravano dare delle indicazioni ai rudimentali
contenitori di legno, vetro, o in lega, ricorrevano all’incisione o
alla classica etichetta, oggi perfezionata e per nulla soppiantata,
poiché la stampa offset consente sfumature e dettagli imparagonabili.
Infatti la lattografia si avvale del sistema offset.
Oltre ad essere una tecnica che non consente qualità garantite da altri
sistemi, la serigrafia è un procedimento lento di stampa, a causa della
struttura del veicolo di trasferimento dell’inchiostro. La racla che
preme il colore attraverso le maglie della seta non può superare una
certa velocità, nella sua corsa, poiché si andrebbe ulteriormente
oltre la soglia della tolleranza qualitativa. Negli ultimi tempi si sono
costruite macchine relativamente veloci e sofisticate, molte delle quali
completamente automatiche, che accelerano al massimo tutte le fasi,
tranne quella del raclaggio. Moltissimi serigrafi artigiani, però, come
il sottoscritto, lavorano con le macchine a raclaggio manuale o al
massimo con quelle a raclaggio assistito o con le semiautomatiche, che
prevedono l’immissione manuale del foglio o dell’oggetto da
decorare.
Numerosi sono gli artisti che riproducono le loro opere in serigrafia
anche attraverso attrezzature rudimentali. La vera arte, secondo loro,
è povera. D’altra parte lamentava Abel Bonnard: Quando un artista
o uno scrittore si vantano di guadagnare molto ci avvertono, senza
saperlo, che hanno cambiato mestiere. Alcuni studenti universitari,
fuori zona, si sostengono economicamente praticando in proprio la
serigrafia poiché, come ho gia detto, 1’attrezzatura essenziale
consiste in un portatelaio ribaltabile fissato con cerniere al un piano
qualsiasi, i cui bracci consentono un movimento a libro, ed una racla di
gomma. Come si può notare dedico maggiore spazio alla tecnica
serigrafica allo scopo di diffondere l’uso didattico od hobbistico,
sperando di non causare ulteriori danni al settore commerciale. Prima,
però, allo scopo di alleggerire, o appesantire (dipende dai punti di
vista) l’asetticità della materia tecnica, daremo un’altra capatina
nella storia napoletana relativa alla cultura e alla stampa.
LA STAMPA NEL SECOLO DEI LUMI NAPOLETANO
Il passato storico napoletano non ricorda, come ho
gia detto, l’uso di tecniche serigrafiche, nemmeno allo stato
rudimentale, tranne che per qualche sporadico uso artistico. La stampa
tipografica a caratteri mobili aveva raggiunto il suo legittimo
sviluppo. La cultura napoletana attraversò anch’essa il cosiddetto
secolo dei lumi. Si era dissolta, finalmente, la stasi culturale del
vicereame che, senza dubbio, ebbe un’influenza negativa sullo sviluppo
della stampa tipografica a Napoli. Grazie a Dio le iniziative culturali
riprendevano corpo malgrado la moda decadente dei cicisbei e delle
parrucche incipriate del momento. Nella seconda metà del Settecento si
affermò Gianbattista Vico, il quale dominò la cultura
napoletana di tutto il secolo successivo. Come molti sanno fu poeta e
scrittore, ma soprattutto filosofo. Figlio di un piccolo borghese,
libraio, tanto per stare in tema di stampa, Gianbattista, da buon
napoletano, fu prolifico in fatto di marmocchi; titolare della cattedra
di Rettorica della nostra Università, questo studioso rappresenta un
pilastro della cultura napoletana, tanto che quando si vuole esaltare
Napoli nel senso culturale si dice: la città che diede i natali a Vico.
Egli immortalò la sua filosofia attraverso la Scienza nuova, che
influenzò gli studiosi di tutta Europa. Anticipo, tra l’altro, l’idealismo
napoletano moderno rifacendosi agli studi rinascimentali. Fu,
probabilmente, 1’incidentale botta in testa che, secondo i biografi,
subì da bambino, a scatenare la sua genialità.
Vittima, invece, della controversia tra Papato e Reame fu Pietro
Giannone, che postulava lo stato laico nel suo Libera Chiesa,
libero Stato. Nemmeno con l’avvento dei Borboni poté rientrare a
Napoli e morì nelle carceri di Torino a metà secolo. Il Secolo dell’erudizione
ci ricorda molti nomi della nostra cultura. Filologi e studiosi di vario
indirizzo fondarono 1’Accademia di Ercolano, nell’antica città
sepolta, che Carlo di Borbone cominciava a portare alla luce. La
tipografia napoletana avanzava a braccetto col nostro Settecento
culturale. Tutti gli operatori letterari dell’epoca contribuirono all’affermazione
napoletana dell’arte nera. Tra questi ancora Antonio Genovesi con le
sue Meditazioni sulla religione, abbastanza scabrosette per un
sacerdote; Gaetano Filangieri, da cui il nome dell’odierno
Istituto di pena giovanile; Pietro Colletta, con la sua Storia
del Reame di Napoli, e via discorrendo.
Cert’è che per le tipografie campane non mancavano autori nel periodo
in cui incominciava a svilupparsi il giornalismo, o perlomeno la stampa
d’informazione in nuce. Ferdinando Galiani compose, all’epoca,
diversi scritti sul dialetto napoletano, oltre al suo Socrate
immaginario. Allora le poesie in vernacolo non venivano ancora allineate
nelle fila delle composizioni artistiche. Si aveva, infatti, la poesia d’arte,
dialettale, popolaresca, ecc.
A metà secolo XVIII sorse 1’Accademia delle Belle Arti. Carlo di
Borbone prima e Ferdinando IV poi, bontà loro, elargirono
molti ducati all’Università di Napoli, quindi furono istituite molte
nuove cattedre. Il secolo XVIII prospettava un buon avvenire per le
tipografie napoletane, perché andava concretizzandosi, come ho detto,
la stampa d’informazione a larga diffusione. Più del secolo
precedente il popolo veniva informato attraverso le famose gazzette: dei
fogli, singoli graficamente poveri, censurati volitivamente e
distribuiti, naturalmente, a pagamento al popolo più erudito.
Intorno al 1630 fu pubblicata una prima gazzetta di rilievo. Solo verso
fine secolo, però, si ebbe un autentico giornalino, a Napoli, e veniva
pubblicato, secondo alcune fonti, in un fabbricato dell’odierna Via
Monteoliveto. La stampa tipografica d’informazione napoletana aveva
preso piede. Erano, certo, ancora lontane le agenzie giornalistiche, ma
non mancavano delatori con notizie di prima, seconda, terza mano ed
oltre; tutto, però, sotto la stretta sorveglianza del governo.
Ma a prescindere dall’informazione, sotto Carlo di Borbone, il
giornalismo aveva preso indirizzo letterario. Così Napoli, la Capitale
del Regno delle due Sicilie, vantava alla fine del secolo XVIII diverse
pubblicazioni periodiche, sebbene di veste grafica rudimentale, ma di
grande importanza giornalistico-culturale. Il Vico, il Genovesi e il
Giannone erano alcuni eminenti collaboratori.
Prima di passare alle macchine serigrafiche diamo una spulciatina ai
maggiori giornali di quell’epoca: La Gazzetta Napolitana, che
comprendeva una specifica rubrica letteraria; Il Giornale Letterario
di Giuseppe Maria Boezio; Il Giornale Enciclopedico di Napoli
di Giuseppe Vairo Rosa; La Scelta Miscellanea, di De
Silva; Il Giornale Enciclopedico d’Italia dell’abate Scarpelli,
fino ai più famosi: Il Giornale e Il Monitore di Eleonora
Pimentel Fonseca, la cui avvincente, avventurosa biografia si può
attingere in uno dei romanzi storici moderni più famosi e di grande
levatura artistico-culturale: “Il resto di niente” di Enzo
Striano che è stato paragonato ai “Promessi Sposi”; infatti si
studia nelle scuole.
MACCHINE PER LA STAMPA SERIGRAFICA IN PIANO
Bisogna subito distinguere due tipi di macchine
serigrafiche, quelle per la stampa di supporti piani e quelle per la
decorazione di oggetti di qualsiasi forma geometrica. Le prime sono
adatte alla stampa di fogli di carta, plastica, alluminio, ecc. Per la
stampa di fogli leggeri la macchina prevede il piano aspi- rante che
provvede a trattenere il foglio durante il contatto della matrice, ciò
per evitare che il supporto si attacchi alla seta stampante,
compromettendo le copie successive. Per lo stesso motivo il telaio non
va a contatto del foglio da decorare, ma distante qualche millimetro. Lo
spessore idoneo di questo fuori contatto è stabilito in
relazione al formato di stampa e alla flessibilità della seta. E’ la
pressione della racla a determinare la stampa, come una riga mobile,
cioè lo spigolo della racla inclinata che avanza. Il registro è
assicurato dalle guide del foglio per garantire sempre la medesima
posizione, indispensabile nei lavori a più colori sovrapposti o
semplicemente accostati. L’operatore posiziona il foglio sul piano
accostandolo alle squadrette di registro costituite da semplici strisce
adesive, quindi abbassa il telaio che si fermerà sugli spessori di
fuori contatto posizionati sotto i bordi della cornice. Intanto la pompa
aspirante trattiene il foglio sul piano mentre l’operatore afferra la
racla e la inclina a 45 gradi, quindi attinge l’inchiostro dal lato
opposto del telaio e, premendolo sulla seta, lo fa scivolare verso di
se. A fine corsa, ancora prima di rialzare il telaio, la seta è gia
fuori contatto. Quindi, alzata la cornice si provvede a posizionare il
foglio sullo stenditoio onde procedere alla fase successiva.
Nel caso di maggiore esigenza di inchiostrazione, come per la stampa di
materiale assorbente, ad esempio la stoffa, lo spigolo della racla sarà
più arrotondato e si lavorerà con una inclinazione maggiore, ma
soprattutto si adopererà una seta con maglie più larghe, le quali
consentono una maggiore erogazione d’inchiostro, non solo, ma si
eliminerà il fuori contatto perché non si corre il rischio di
sbavature o doppie immagini. Le macchine manuali o semiautomatiche di
piccolo formato non consentono la decorazione di fogli superiori a 50 x
70 cm. Le macchine simili di formato maggiore adatte ai manifesti e alla
cartellonistica, arrivano ad un formato di 100 x 140 cm. e oltre. Queste
macchine sono dotate del meccanismo detto a racla assistita, o
servoracla, se più vi piace, data l’impossibilita manuale di
operare su formati così ampi. Le copie stampate con le semiautomatiche
risultano qualitativamente ottimali e regolari, anche perché l’operatore
potrà effettuare maggiori controlli poiché non impegnato nel faticoso
raclaggio manuale.
Oggi sono in commercio macchine completamente automatiche per la stampa
di supporti in piano. L’immissione avviene tramite mettifogli ad
aspirazione simile a quelli delle macchine grafiche. Il foglio va a
posizionarsi contro le squadrette di registro, questa volta di metallo e
con regolazione micrometrica, quindi viene stampato ed espulso
automaticamente per essere sottoposto ad essiccazione forzata con getti
d’aria calda o con raggi infrarossi, ecc. I supporti prelevati dalle
macchine manuali o semiautomatiche vanno adagiati in appositi stenditoi,
poiché qualsiasi oggetto decorato in serigrafia non asciuga mai subito,
non solo si guasta al graffio, ma ha bisogno almeno di qualche minuto
per andare fuori polvere. Se così non fosse le maglie della matrice si
occluderebbero al primo passaggio e sarebbero impossibili le stampe
successive.
L’OGGETTISTICA SERIGRAFICA NEL CARATTERIALE
VESUVIANO
La mia Torre del Greco ed altri centri della
provincia non offrono molte possibilità di lavoro serigrafico.
Commercianti ed artigiani che usufruiscono dell’oggettistica
promozionale relativa alla strenna natalizia aderiscono pure alle
proposte per corrispondenza di serigrafi del nord. Nella capitale del
sud, invece, la stampa serigrafica è più operante, anche perché
soddisfa la domanda dello estremo sud quasi sprovvisto di officine
serigrafiche, sia pure di livello artigianale. La stampa serigrafica
consente la decorazione di una infinità di prodotti legati allo sport,
alle religioni, al commercio. I serigrafi campani decorano la maglietta
con l’effige di Maradona, la bandiera col ciuccio e,
indifferentemente, 1’immagine del Volto Santo e il portachiavi
con la Vergine di Pompei. Questa oggettualità anche suggerita, se non
imposta, dalla moda consumistica si riallaccia alla simbologia della
speranza, del riscatto sportivo, storico, religioso-salvifico, al di là
da venire.
Sono feticci atti a rimuovere crediti sociali incamerati sin dall’età
puerile. Anche l’impetuosità, 1’esuberanza, l’aggressività dei
napoletani fa perno su questo desiderio atavico di rivalsa covato sin
dal fallimento masaniellesco, interpretato come utopia di rinnovamento.
Gli amuleti aiutano a scongiurare le eterne insidie della mente adulta e
ci fanno apparire scapigliati, ribelli e incoscienti come gli scugnizzi,
le cui note caratteriali ogni adulto vesuviano porta dentro. Questa
oggettistica esasperata nel contenuto e nella quantità rappresenta una
sorta di animismo tribale apotropaico. Si dice che essere coraggiosi non
significa non avere paura, ma vincere la paura. Questo è possibile solo
dietro una sorta di incoscienza, nella capacità atarassica di scivolare
su tutti i problemi, anche i più emergenti. Queste risorse interiori
del popolo vesuviano si traducono in un reattivo al dolore, un
inimitabile adattamento al sacrificio, alle rinunce; risorse, queste,
non ancora completamente compromesse dal sistema doppiofaccista del
progresso. Il mio popolo sarà l’ultimo a cedere alla babele finale,
anche se i segni di disorientamento sono gia evidenti dato lo stacco
netto delle generazioni pre-post sessantottine.
Non ci si deve meravigliare, quindi, di certe stravaganze e bizzarrìe
che derivano da questa irrazionale e fantasiosa personalità di massa,
la quale trasforma in concretezza anche sogni e fortuna. Non è raro
quel cliente che mi appare sull’uscio della bottega di Torre del Greco
anfanando «Per venire da lei ho sorpassato almeno dieci tipografie,
risarcitemi almeno i soldi del carburante». Un signore che non
avevo mai veduto prima irruppe nella bottega sbratando una richiesta di
cento pagelline di lutto con la pretesa di non remunerarmi perché, per
venire da me aveva subìto un incidente d’automobile. Esasperato gli
rimbrottai che se non spariva subito, i ricordini di lutto li avrei
fatti alla sua persona, al che mi rispose candidamente che tentare non
nuoce.
Dulcis in fundo, un mio cliente affezionato disse che non l’avrei
più rivisto perché conto 17 righi punteggiati sulle fatture che gli
consegnavo, in più era il giorno 17 novembre, e stavo per dargli 17
mila lire di resto. Riteniamola una coincidenza, questi neppure arriva a
casa, cade per le scale e si rompe una gamba. Non solo non e venuto più
nella mia bottega, ma si e trasferito a Pompei, e piuttosto che passare
per Torre del Greco preferisce fare il giro
per 1’Asia…
LE MACCHINE PER LA STAMPA DI OGGETTI
Queste macchine si distinguono in più categorie. Vi
sono quelle per la stampa di oggetti conici, cilindrici o circolari;
altre per la decorazione di oggetti tridimensionali flessibili, ancora
per oggetti tridimensionali poliedrici, ecc. Oggigiorno tutti i prodotti
commerciali sono contenuti all’interno di involucri policromi decorati
in massima parte in serigrafia. Shampoo, dentifricio, mascara,
candeggina e, consentitemi ancora qualche gradevole frase fatta: chi
più ne ha più ne metta.
Per la stampa di oggetti cilindri, conici, sferici, comunque là dove
esiste la geometria delle curve, il meccanismo centrale serigrafico
subisce una variazione che somiglia all’aneddoto di Maometto e la
montagna. La racla resta ferma, mentre il telaio di seta scorre sotto di
essa scivolando sull’oggetto, il quale compie una rivoluzione
su se stesso. In caso contrario il telaio avrebbe dovuto assumere la
forma curva dell’oggetto ma ciò causerebbe una serie di problemi, tra
cui, ad esempio, il tracimare dell’inchiostro dalla cornice sagomata,
ecc.
Gli oggetti tridimensionali flessibili, invece, come tutti i flaconi,
vanno gonfiati all’atto della stampa, per dare al supporto stesso la
rigidezza necessaria atta a sostenere la pressione della racla. La
stampa di oggetti sagomati, però, prevede telaietti di forma
appropriata che vadano a combaciare con il lato dell’oggetto
predisposto alla decorazione, superando ostacoli come bordi, spigoli,
ecc. Molte volte, per oggetti di produzione continua vengono costruite
delle macchine che sono studiate, progettate e realizzate in funzione
dell’oggetto stesso, favorendo al massimo la praticità di lavoro, la
velocità di stampa e la qualità della decorazione.
Molti tessuti vengono stampati in serigrafia ed alcuni con macchine
combinate. Con le piccole macchine serigrafiche è possibile stampare
solo tessuti tagliati o confezionati come foulard, asciugamani,
magliette, ecc. Per decorare tessuti confezionati a più colori
necessita una macchina circolare a più telai. Su di un asse centrale
sono incernierati otto bracci per fissare quattro telai che avranno un
movimento rotatorio. I piani sono due o più, per dare la possibilità
di lavorare a più persone. Si procede al raclaggio col primo telaio e
via via coi successivi. La stampa progressiva immediata, senza timore di
sbavature, è possibile grazie alla proprietà di assorbimento dei
tessuti. E’ agevole, comunque, stampare oggetti sfaccettati anche con
le comuni semplici attrezzature per la stampa in piano, sempre che l’incernieramento
sia elevabile, altrimenti bisogna operare a telaio semiabbassato con
conseguente pericolo di tracimazione dell’inchiostro. Oltre agli
essiccatoi a griglie metalliche del formato medio di 70 x 100 cm.
(standard della carta italiana), sono in commercio diversi ritrovati per
lasciar asciugare oggetti tridimensionali, fino al metodo suggerito da
madre natura, cioè quello di disporli a castello, se di forma tale da
consentirlo.
LA STAMPA SERIGRAFICA
Vista la relativa semplicità delle macchine
serigrafiche, la bontà della stampa dipende molto dalla matrice e dall’idoneità
dell’inchiostro in relazione al supporto da decorare, per cui ogni
tipo è sostanzialmente diverso da un altro. Spesso la vernice che
veicolizza il pigmento è composta dalle polveri della materia del
supporto stesso, là dove il solvente causa la saldatura. Una cosa è
stampare la carta, l’altra, ad esempio, è decorare il ferro. Vi sono
inchiostri serigrafici che dopo la stampa devono subire, insieme al loro
supporto, ulteriori processi di lavorazione o trasformazione termica
come, ad esempio, nella produzione di posters a rilievo o
maschere carnevalesche di plastica. Il processo di stampa diventa qui
una saldatura inchiostro-supporto. Come gli inchiostri grafici, quelli
serigrafici essiccano per evaporazione dei solventi o per ossidazione,
in massima parte, la particolarità sta silo nel veicolo di stampa. Per
aggredire supporti come il vetro o il metallo, occorrono inchiostri a
smalto. La loro essiccazione richiede almeno 8 ore, dopo di che
presentano una buona resistenza al graffio.
Molti supporti richiedono la necessità di essere stampati con vernici
che garantiscono un totale ancoraggio. L’essiccazione avviene qui per
polimerizzazione, cioè attraverso quel processo chimico molecolare che
accelera al massimo i normali, lenti processi di essiccazione naturale.
D’altra parte molte vernici o collanti speciali, anche per uso
domestico, sfruttano oggi questo principio. Il prodotto viene fornito in
due componenti separate, la vernice vera e propria ed il suo
catalizzatore, da miscelare in percentuale al momento dell’uso.
La stampa di tessuti prevede inchiostri o lacche speciali a base d’acqua
e vengono diluiti leggermente, quando se ne presenta la necessità, con
acqua di rubinetto. L’inchiostro adatto per il cotone generalmente non
è coprente ed è adatto per la stampa di colori sovrapposti, da
fondersi. Le lacche per fibre sintetiche, invece, come l’acrilico,
ecc., sono coprenti e adatte per la stampa di colori chiari su tinte
scure. Questi inchiostri vengono anch’essi polimerizzati ed essiccati
in forno a raggi infrarossi o con presse a caldo.
Infine, per decorare quei supporti destinati a subire forti
sollecitazioni come lavaggio, strofinio, attrito, strizzamento, agenti
atmosferici, ecc., vengono adoperati inchiostri speciali. Abbiamo i
vetrificabili per bottiglie; i termofusibili per metallo, e
via dicendo. Alcuni vengono stampati con tessuto serigrafico metallico
(acciaio inossidabile). Questi telai fungono da resistenza elettrica e
consentono la fusione termica dell’inchiostro speciale sul supporto da
decorare.
I1 sottoscritto si crogiola spesso nelle infinite possibilità
realizzative del lavoro serigrafico, che, ripeto, in molti casi non
richiede altra attrezzatura che una cornice di nylon ed una racla,
oltre, naturalmente, ai materiali di consumo. Un angolo della mia
bottega di Via Purgatorio, spesso si trasforma in una fucina di
elaborazioni alchemiche. Il celato che si rivela stimola, come il
sesso. Per concludere è doveroso aggiungere che molti contenitori di
prodotti commerciali vengono stampati in lattografia, che adotta
il sistema offset, grazie alla precipua prerogativa della stampa
indiretta, in pratica la latta rigida raccoglie l’impronta dal
cilindro gommato e non da una matrice altrettanto rigida, il che
comprometterebbe un contatto omogeneo e provocherebbe l’usura quasi
immediata della matrice stessa. Questo sistema consente di ottenere
immagini policrome di eccezionale finezza, proprie della stampa offset.
La stampa serigrafica, comunque, al di là della poliedricità di
applicazione, detiene una prerogativa essenziale, la maggiore resistenza
alla luce ed al graffio, delle decorazioni grazie alla totale libertà
dei chimici fabbricanti gli inchiostri; offre la possibilità delle più
svariate tecniche di ancoraggio delle vernici, che spesso vernici non
sono. In più la serigrafia consente di abbondare con l’inchiostro
specie sui materiali assorbenti, cosa impossibile con il sistema offset,
che per consentire l’equilibrio acqua-inchiostro prevede sempre un
sottile velo di colore.
LA CARTARIA GENOVA
E’ arrivato il momento di concludere il nono
capitolo di un libro che appare un’apologia delle arti grafiche
tradizionali. E qui formuliamo una sorta di commiato ad esse, poiché da
ora in poi tratterò argomenti sull’industria grafica editoriale.
Mille personaggi connessi alla tipografia vecchia maniera irrompono dai
miei precordi. Ciascuno di essi si è stanziato in quel vasto
territorio, ferace e generoso, che e il cuore di molti noi napoletani.
Mario Genova era un giovane generoso, volitivo, esuberante. Quale
tipografo non ricorda il lucore gioviale e rasserenante dei suoi occhi;
il suo caratteriale a mezza strada tra il nobiluomo e il portuale. I
Genova, bisogna riconoscerlo, malgrado l’agiatezza, si rimboccano le
maniche e dimostrano che la fatica fisica non è solo destinata ai
diseredati, ai bisognosi, ma pure espressione patriziale di solidarietà
sociale.
Da qualche anno il dottore Genova e la signora Giovanna sono vicini a
Dio. Non possono stare altrove persone che prendono tanto posto nel
cuore dei conoscenti. Vicino a Dio è Mario, che ha riabbracciato i
genitori nella maniera autentica, quella legata al rapporto
genitori-figlioletti, compromessa nella vita adulta degli occidentali,
dietro oscure elaborazioni culturali. La Cartaria Genova è
rappresentata da Massimo e Maurizio, con rispettive consorti e prole.
Malgrado i colpi mancini del destino è una delle ditte del settore più
attive e rigogliose di tutto il territorio campano, grazie pure alla
solerzia di Massimo Genova, il burbero benefico, che solo a cospetto
delle mie piccole Serena e Veronica lascia trapelare la sua vera natura,
quella potenzialità di disposizione alla tenerezza e alla benevolenza
che, spesso, il ruolo sociale lascia occluse dentro, cristallizzando
forme comportamentali di apparente austerità e riservatezza.
Maurizio detiene la pacatezza quasi superficiale del commerciante
sentimentale che ha meno dimestichezza con le cifre e maggiore
disposizione alle operazioni di stoccaggio di magazzino e al trasporto
merceologico. Non dimentico, certo Rafele, Felice e ’Ngiulillo, dal
somatico villereccio, sempre tronfi, in paese, quando ostentano la loro
appartenenza nientemeno che al prestigioso mondo delle arti grafiche,
pur se contano solo fogli di carta da mane a sera. Personaggi con i cui
i tipografi hanno contatto, quasi giornaliero, nell’arco della vita
intera.
E le voci... accordi melici ovattati di passato. Il compositore
tarchiato e paffuto: Rafe’ ’na resema ’e mezzofino, m’ ’a
porto ’ncuollo; Il titolare impressore, legatore e fattorino:
Massimo, otto scatole ’e Diplomatica, m’aggio abbuscata ’a jurnata...
Però t’ ’o ddico ’a mo’ nun tengo sorde. Segna. E il
sedicente industrialotto-bottegaio di provincia: Mauri’,
spicceme tu, i’ m’ aggio scurdato che bboglio, se no fràteto
allucca.
Signora Maaari - diceva Mario napoletanizzando al massimo quell’espressione
che sottintende un dileggioso assioma partenopeo, martellatoci per anni
dai Genova, sintetizzato dal popolo nella simpatica dicotomia
Provvidenza-effetti bancari, che si traduce nella pluralità delle
figlie-femmine, le cui quattro nostre viste nascere, da loro, e
seguite nell’età evolutiva. Fino a che giustizia fu fatta, nel senso
che Massimo e Mario beneficiarono in prima persona dell’ebbrezza
della prole di conformazione muliebre, che attribuirono al maliardo
influsso scaturito da una sorta di incantesimo da noi perpetrato sul
loro destino proliferatorio, sulla base dell’aver compagno a duolo,
scema la pena.
Signora Maaari. Non potremo mai dimenticare questa voce, come non si
scorda mai la voce delle mamme napoletane che raccolgono a se i
figlioletti dall’alto dei davanzali dei balconcini e delle portelle
della Napoli spagnola. Ed il tono megafonico della voce della nonnina
Genova? E le vanterie hobby-fotografico od hobby-giardinaggio del
dottore Alberto? E l’amorevole, materna cadenza settentrionale della
signora Giovanna? Sembrano risvolti onirici, ma non ha importanza; la
vita scorre come un fiume impetuoso che raccoglie e trasporta con se
tutto ciò che trova sulla sua strada, tranne che i buoni sentimenti, l’amore,
che e potenziale in tutti gli uomini, nessuno escluso. Signora Maaari!
...
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