PARTE
QUARTA
Non si fa la felicità di molti facendoli correre
prima ancora che abbiano imparato a camminare.
«La donna del tenente francese» - John Fowiers
CAP. X
L’INDUSTRIA GRAFICA EDITORIALE
Se la stampa non
esistesse bisognerebbe inventarla;
ma oramai c’è, e noi ne viviamo.
“Le illusioni perdute” . De Balzao
OSSERVAZIONI PRELIMINARI
Alle soglie del XXI secolo suona anacronistico
parlare di stampa tipografica a caratteri mobili e trattarne la
materia tecnica come se fosse in pieno fulgore. Anche gli epitaffi,
però, parlano del defunto con molto ardore, per ciò che di buono e
nobile ha rappresentato il soggetto in vita. Nessun individuo
conosciuto e nessun arte praticata muore nel cuore dell’uomo, anche
se tramontata, tanto meno un’arte applicata rimasta affascinante ed
immutata per cinque secoli. La tipografia napoletana ha avuto il suo
massimo splendore nel diciannovesimo secolo, grazie pure al radicale
rinnovamento politico e culturale, ed è già il caso di parlare di
media industria editoriale. La rivoluzione culturale romantica ci
ricorda nomi nostrani come Basilio Puoti e Francesco De
Sanctis, e non si tratta di brustolini, per dirla alla Arbore. Ma
pur se l’arte tipografica aveva ormai grande risonanza sociale nella
vita dei campani, era ancora al di là da venire l’idea di libertà
di stampa. (Vedi il più grande romanzo storico napoletano attuale “Il
resto di niente” di Enzo Striano già citato).
Nell’Ottocento napoletano nacquero numerose pubblicazioni
periodiche. Agli albori del secolo uscirono il Monitore delle due
Sicilie e Il Corriere di Napoli. La Voce del Secolo vide la
luce nel primo quarto di secolo, indi La Voce del Popolo, La
Minerva Napoletana, ecc. A metà secolo compaiono i periodici L’Omnibus
Letterario e Il Tempo.
Il vero rinnovamento letterario, come è ben noto, nasce con la
critica di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa.
Perseguitato politicamente come il De Sanctis fu Luigi Settembrini,
altro ingegno lucido. Gia nel Settecento la letteratura dialettale
aveva avuto le prime affermazioni, ma nel Risorgimento se ne riscontro
la massima fioritura con Salvatore Di Giacomo e Ferdinando
Russo. Si affermo definitivamente pure la Canzone Napoletana, nata
con i canti popolareschi del XV secolo, dopo che Alfonso d’Aragona
decretò il dialetto come lingua ufficiale del Regno.
Le tipografie vesuviane sorgevano sempre più numerose, dislocate in
provincia ed agglomerate nel Centro storico intorno all’Università.
Qualche opificio già tentava pubblicazioni su scala nazionale, ma si
era ancora lontani dalla massiccia produzione editoriale moderna. In
qualità di tipografo artigiano devo faticare per trattare argomenti
socio-industriali. Essendo al di qua del campo tecnocratico devo
trarre delle conclusioni solo dall’esperienza libresca, benché sia
abbastanza infarinato, pure in maniera empirica nel complesso delle
tecnologie industriali, non addentro, comunque alle problematiche
della tecnocrazia. In fondo, è inutile reiterarlo, questo modesto
lavoro non segue una linea tecno-politica, ma socio-lirica di un’arte
applicata. Non vedo quale poesia si possa cogliere dalla robotica
industriale e, nella fattispecie, dalle turbostampanti ed il loro
legame socio-finanziario. Quindi ritorniamo nella dimensione che ci
compete e guardiamo insieme lo sviluppo editoriale con l’occhio
innocente del popolo.
Ho già detto che alcuni complessi tipografici campani sono la
risultanza dell’evoluzione di antiche tipografie artigiane, le
quali, approfittando del boom economico degli anni 60 e di un certo
lassismo fiscale, nonché dei benefici della buonanima Cassa per il
Mezzogiorno, realizzavano il sogno di emulare i cugini industriali
del nord, e ben fecero, crearono molti posti di lavoro, anche se,
talvolta, non soddisfacentemente remunerati. Infatti oggi si può dire
che tale sviluppo, equizzato nelle spettanze relative al costo del
lavoro, abbia giovato pure ai lavoratori dipendenti. Alcuni colleghi
tipografi di Torre del Greco e dei paesi viciniori mi hanno fatto una
chiara relazione sull’evoluzione e le trasformazioni tecnologiche di
queste aziende in relazione ai mutamenti politici, sindacali ed alle
continue riforme legislative in fatto fiscale. Ma la tipografia
napoletana è eternamente succube di una domanda labile dovuta all’eccessiva
pluralità dell’offerta, per cui è frequente il fenomeno di
dilaniamento concorrenziale ritenuta erroneamente l’unica arma di
difesa ed offesa. Ciò è storicamente atavico, dovuto alla
precarietà epocale delle dominazioni, ecc.
In più si presentano spesso casi di mancata corresponsione
remunerativa a causa di fallimenti o bancarotta, anche fraudolenta, da
parte dei fruitori di grosse partite di stampati, per cui, talvolta,
il bilancio di queste aziende si incrina quasi a spaccarsi. Senza
contare le ingerenze malavitose. I nostri grossi datori di lavoro
odierni, tra fisco, sindacati, malavita e bancarottieri hanno, come si
dice da noi, appeso i panni ad un cattivo chiodo.
Le idee e le opinioni degli uomini, sociali, religiose o
politiche, vengono forgiate tra i focolari domestici, sulle ginocchia
materne, c’è poco da discutere. Ecco perché la matrice delle
considerazioni sociali è l’ottica psicologica; tutto si dipana da
questo mirino. La formazione nell’età evolutiva individuale
determina ogni tipo di scelta sociale, le influenze esterne
suggeriscono solo le etichette da appiccicare sul petto. Così le
peculiarità psicosessuali-affettive determinano le varie
sublimazioni, politiche, religiose e professionali. Arturo mi rispose
che questa è psicologia spicciola, da primo anno d’Università e
che comunque, come tutte le dottrine, sono nient’altro che ciance,
teorie, supposizioni e basta. E’ vero?
ARTURO, TIPOGRAFO ERUDITO
Arturo è un collega tipografo di Portici. Quando
ci incontriamo, ogni anno, in occasione della Festa dei Quattro
Altari, mi parla spesso dei nuovi datori di lavoro. «Non
capisco perché - disse una volta - la gente si ostina ancora a
parlar male dei padroni. Non starei nei loro panni nemmeno come pulce.
Credono di conquistare la felicità col danaro, mentre, in pochi anni,
si ritrovano addosso tutti i disturbi psicosomatici contemplati nei
manuali di Franz Alexander. D’altra parte - sostiene Arturo -
padrone significa grosso padre, ora, caro Mari, parleresti così
male di tuo padre, anche se grosso e tesaurizzatore, anche se,
spesso, snaturato? Un padre, pure se ingiuria i propri figli, li
sfrutta, li aggredisce o li opprime, lo fa sempre a fin di bene...
ama, come si suol dire, a modo suo, ma sempre amore paterno è...».
Io ed Arturo avanziamo tra la ressa, abbacinati dalle luminarie
cinematiche, sostando entusiasmati innanzi agli Altari: dipinti
su gigantesche tele, ed intanto gli dico che l’imprenditore del sud
non è né migliore né peggiore degli altri, ma sostanzialmente
diverso. E’ dissimile la sua sfera emotiva, la sua base culturale,
la sua natura storica d’essere padrone. E’ vero che abbiamo avuto
casi di padronismo acuto cronico, come, ad esempio il famoso
imprenditore tipografo X. Y. che spianava le banconote col ferro da
stiro, ogni sera, puntualmente, prima di obbedire al suo rituale
apotropaico antinflazionistico e rifugiarsi in una nutrita sequela di
scongiuri cabalo-mistici, per abbandonarsi, infine, tra le cosiddette
braccia di Morfeo. La sua anima, di notte, diveniva un batuffolo di
bambagia soffice che rimbalzava tra Belzebu, il fattucchiere e Nostro
Signore.
Avevamo raggiunto il Porto di Torre per incrapularci, poi, in un
convivio luciano a base di mitili, taralli impepati e birra esotica,
indi assistere agli spari pirotecnici che concludono quella massiccia
rivelazione di folklore pregna di suggestione religiosa. «Gli
imprenditori del nord - chiacchiucchiava Arturo, con la lingua
ostacolata da lubrici mitili - perseguono il capitale
principalmente per sentirsi superiori a quelli del sud. Poveri ricchi,
emarginati nel loro potere, essi pretendono d’ottenere stima e
ammirazione, ma in fondo, alla base di questi desideri v’è solo un
bisogno d’amore, voglio dire l’antidoto alla paura esistenziale.
Purtroppo la ricchezza li divide dalla gente semplice, l’unica a
poter elargire il sentimento più utile alla vita. Ho detto gente
semplice, ma non distorta dall’idea culturale della povertà che
presume invidia e risentimenti. Da quelle parti - aggiunge Arturo,
dopo aver tracannato un intero tre quarti - hanno poca
invidia tra di loro, vedono realizzato il loro scopo. Che gusto c’è
ad essere ricchi quando non ci sono abbastanza poveri ad ossequiarti,
a girarti sempre intorno, a rodersi l’anima in segreto? I loro
fratelli d’Italia poveri sono quelli del sud, essi sono utili allo
scopo. Per questo si accaniscono a propinarci tutto quello che
producono, ma lavorati da quelli del sud; devo forse delucidarti sulla
natura della rivalità fraterna?».
Gli spari fantasmagorici coprono le teorie di Arturo. Ora aspira
ampie boccate di fumo. Dopo la botta finale, nel mentre
ambuliamo stirandoci le membra in piena fase peptica, conclude: «Il
bisogno di potere-danaro dei fratelli d’Italia imprenditori del sud,
invece, scaturisce da un’atavica brama di volersi svincolare dalle
grinfie feudali, dal vassallaggio (oggi clientelismo). Il
sentimento infermo di alcuni imprenditori meridionali, compreso
commercianti ed artigiani ambiziosi, è conflittuale, perché il
soggetto si dibatte tra un antico desiderio di riscatto, la
coercizione consumistica e l’economia malata del sud, subordinata a
quella più razionale del nord. Da noi il desiderio di emergere in
maniera consistente, e prevalere, si ripercuote non già su quelli
più a sud poiché, poveri africani, non hanno neppure la mazza
per andare mendicando, ma sui malcapitati che si hanno sotto
mano, insomma i paria delle gerarchie, industriali, commerciali,
marziali, domestiche, sempre molto numerosi. Ai lavoratori dipendenti,
a prescindere dalle seconde attività e dai doppi stipendi coniugali
che talvolta sottraggono lavoro ai disoccupati, è preclusa ogni
possibilità di ascesa in questo senso.
Tale bisogno infermo, questa sorta di prevaricazione a catena, è
rappresentata e sostenuta dalle mogli, che non hanno niente a che fare
con le donne, degne di tutta la stima ed il rispetto; le mogli, senza
generalizzare, pretendono solo dalla forza economica domestica il
riscatto delle dominazioni del passato, dell’antica condizione
contadina».
Arturo prende fiato in cima al pendio di Via Cesare Battisti. Io lo
seguo con attenzione perché le nostre idee hanno diversi punti in
comune. Quindi prende posto al volante ed io lo ascolto dal
finestrino. Arturo sostiene che la mania di fare soldi dei
settentrionali è legata alla problematica esistenziale planetaria,
quella nostra, in più, prende radici dalla storia locale. Quando
questo bisogno si intensifica si finisce con lo scendere a compromessi
anche di natura eslege e delittuosa. Il primo traguardo è il posto. E
qui cominciano i problemi, perché il posto ti mette nell’orbita,
sebbene periferica, dell’eliocentrismo del potere economico, indi il
matrimonio, poi spinta psicologica della moglie ed empirica dei
bisogni (e non delle necessità) legati al consumismo coercizzato. La
corsa e irrefrenabile. Non si rinunzia a nessun tentativo, altrimenti
ci si sente emarginati.
”Nessun circumvesuviano, caro Mari, non ha mai tentato di fare l’imprenditore,
almeno una volta nella vita, anche il bancarellaro, pur di sentire l’ebbrezza
dell’ascesa. Statte bbuono, Marittie’ ».
E voltato la gavezza ...dei cavalli motore, naturalmente, punta
verso Portici, dileguandosi per il Miglio d’Oro dannunziano. La
finanza, col capitalismo prioritario, si depluralizza concentrandosi
nel potere oligarchico. Non già solo l’artigiano, ma l’industriale
medio rischia di uscire dal rango dei privilegiati. Gli sforzi dell’industria
tipografica campana sono sostenuti. E’ difficile tener testa ai
continui progressi tecnologici. Molte aziende fanno capriole per
reggere il gioco del mercato e delle evoluzioni tecniche. Ma spesso si
sottopongono a ristrutturazioni e ridimensionamenti che favoriscono l’aumento
dei cassintegrati.
LE NUOVE TECNICHE
L’industria grafica moderna ha quasi eliminato
del tutto l’uso dei caratteri tipografici di piombo. Già negli anni
60 si era diffuso il sistema per realizzare titoli e slogans con i
trasferibili, noti oramai a tutti pur se soppressi anch’essi, i
quali, tra l’altro, abolivano l’handicap estetico della spalla
dei caratteri, consentendo soluzioni tecniche di massimo accostamento
delle lettere o dei righi, sovrapposizioni, incastri, ecc. In più i
trasferibili venivano prodotti nella totalità della gamma di stili,
rispetto al parziale corredo di caratteri di piombo che dispone la
tipografia più attrezzata. La vera rivoluzione grafica compositiva
attuale, è 1’informatica con la fotocomposizione computerizzata
(vedi capitola relativo). A prescindere dal disegno e dalla fotografia
puri, fine a se stessi, il grafico moderno basa il proprio lavoro
sulla fusione di tutti gli elementi fototecnici che ha a
disposizione, sia quelli creativi, inventati per 1’occasione, sia
quelli sistematici, costituiti da materiale fotocomposto,
trasferibili, fondi, retinature speciali, disegni standard e persino
bozze di elementi tipografici. E’ prioritaria la massiccia
disponibilità di elementi grafici d’archivio denominati clippart.
Al di fuori dei miei trasognamenti di parte e della reale
utilizzazione degli standard fotocomponibili, 1’elaborazione
fotografica di testo e immagine oggi consente un’altrettanto
libertà creativa, se pur facilitata, meno emotiva, olfattiva,
epidermica, diretta, del fuligginoso, meccanico materiale tipografico.
L’evoluzione massiccia della fototecnica è strettamente connessa
alla stampa offset, che all’inizio si distingueva essenzialmente
solo per 1’assenza di pressione, visibile, invece, sugli stampati
tipografici; e per l’inversione in negativo di scritte; nonché per
la velocità di stampa. Oggi tali effetti e prerogative sono scontate,
1’evoluzione grafica si rivolge verso follie creative simili
a quelle dell’arte avanguardistica.
L’industria grafica relativa all’editoria e alla pubblicità
commerciale sperimenta sempre nuovi moduli creativi. Oggi sono diffusi
numerosi studi grafici molti di loro di una certa levatura, quasi
tutti autonomi, scissi, cioè, dalle officine offset, i quali,
quotidianamente, spremono tutto il loro ingegno e le proprie risorse
allo scopo di ottenere i migliori risultati di creatività e
gradevolezza visiva, coadiuvati dalle infinite possibilità della
fototecnica moderna legata alla stampa offset, di cui sono pienamente
abilitati. Gli stampati relativi all’informazione non vengono molto
elaborati, quelli, invece, che riguardano le pubblicazioni di
carattere tecnico o specialistico o, in particolar modo, quelli legati
alla grafica pubblicitaria, subiscono ogni sorta di trasformazione.
Una foto può essere solarizzata (eliminazione dei mezzi toni);
può essere accentuata o indebolita nelle ombre, scurita nel fondo o
schiarita, ecc. In alcuni casi effetti non previsti danno vita a
tecniche nuove.
Al di la delle artificiosità tecniche e delle standardizzazioni
ripetitive, la grafica moderna si riallaccia, come quella antica, ai
moduli artistici vigenti ed all’architettura. Oggi 1’industria
chimica fotografica ha messo in commercio emulsioni speciali per la
fototecnica, che consentono di ottenere maggiori effetti in tempi
minori, anche se, sostanzialmente di utilità produttiva. Anche le
macchine da ripresa sono migliorate notevolmente a questo proposito.
In più, gia da qualche decennio, sono state realizzate ottiche che
permettono decentramenti e deformazioni anamorfiche di scritte ed
immagini, ma subito sostituite da appositi software più immediati e
pratici. Bisogna riconoscere che una scritta, in diversi casi, risulta
più gradevole e vistosa se invertita in negativo, o se ondulata e
incassata nell’immagine. Si sono affermate diverse tecniche nuove,
magari nate per caso in camera oscura o digitando per errore una
tastiera da computer, come 1’effetto grana, la posterizzazione, 1’immagine
scomposta in sole linee parallele, in linee concentriche, irregolari,
a semicerchio, ecc.
Alcune di queste elaborazioni fanno apparire, ad esempio, la foto
quasi un disegno eseguito con abili tecniche. Io sono abbonato ad una
pubblicazione inglese che distribuisce in tutto il mondo queste utili
elaborazioni generiche, oggi in edizione elettronica. Il grafico
moderno, più del tipografo compositore, deve essere un abile
collagista, ma le sue realizzazioni sono molto facilitate per cui si
ottengono risultati più complessi con meno lavoro. Ma qual è la
molla che ha spinto queste evoluzioni, quella dell’arte o del
business? Mah, diciamo tutt’e due, cosi nessuno va in collera.
PROGETTAZIONE GRAFIGA MODERNA
Nel capitolo relativo alle vecchie tipografie
artigiane da piombo abbiamo osservato la progettazione in funzione del
materiale tipografico sistematico: caratteri, filetti, fregi, cliché,
ecc., che, comunque, a prescindere dalle botteghe, prevede anche
calcoli preventivi tramite bozzetti tracciati a mano o collages di
bozze di caratteri per controllarne l’effetto (menabò). La
progettazione grafica moderna relativa all’industria editoriale e a
quella della grafica pubblicitaria, prevede oltre che una preparazione
teorico-pratica della materia tecnica, l’osservanza di regole e
norme basate sulla evoluzione storico-culturale della pittura e dell’architettura,
vista la totale liberta geometrica del sistema. Il grafico, intanto,
deve lavorare dentro certi canoni sperimentati e garantiti; in molti
casi di grosse produzioni, non può sconfinare nell’azzardo perché
le poste in gioco sono enormi, specie quando si opera su scala
nazionale. Anche se in misura minore e meno dottrinaria, i vecchi
compositori tipografi hanno sempre tenuto conto di tali cognizioni. Le
realizzazioni grafiche del passato, pur se progettate dagli autori di
testo e immagini, sono sempre passate sotto la trafila del
tipografo compositore che ha sempre svolto la funzione di esecutore
materiale di un’arte applicata.
Oggi la figura del tipografo compositore mezzo artista e metà
carbonaio sopravvive solo nelle botteghe artigiane che, giocoforza,
per un motivo o per 1’altro, non si convertono all’offset. Nell’industria
editoriale l’autore è in istretta collaborazione con il grafico o
designer. In alcuni casi il primo esprime un’idea, mentre il secondo
la realizza in modo empirico. Il tipografo fototecnico, in questo
caso, è solo un fotografo montatore di pellicole. Questo non toglie
che lasci la sua impronta creativa nell’assemblaggio definitivo,
come accadeva al tipografo compositore che disponeva, in base alla sua
maestria, gli elementi di piombo nel mosaico progettato col menabò. L’espressione
internazionale graphic designer si traduce in Italia: progettista
grafico. Una professione moderna remuneratissima. Il designer
inserito nel campo grafico conosce, anche se le vede solo praticare,
tutte le tecniche e le caratteristiche della stampa offset.
L’artista sa quale ruolo importante assume il marchio nella grafica
commerciale e pubblicitaria, per questo quando ne azzecca uno ricava
proventi favolosi. Il marchio trae origine dalla simbologia grafica d’origine
e si perde nella cosiddetta notte dei tempi. Il classico ideogramma si
ricollega un po’ agli stemmi araldici, specie quelli relativi alla
simbologia animale: aquile, draghi, leoni, ecc. I moderni marchi,
invece, sono più orientati verso i segni fonetici relativi alle
iniziali della ragione sociale della ditta che li rappresenta. Per la
realizzazione grafica di un marchio i designer producono centinaia di
bozzetti, eseguiti attraverso calcoli geometrici complicatissimi. Alla
fine salta fuori un minuscolo monogramma dove un paio di lettere dell’alfabeto
si intrecciano o si combinano tra loro, magari invertite in negativo o
sapientemente incastonate in una gradevole quanto mai ambigua figura
geometrica.
Solo cento milioni di lire, e il gioco è fatto!
L’ideogramma moderno, anche se contiene segni fonetici, è il
simbolo di un messaggio strettamente connesso all’attività svolta
dalla ditta che lo rappresenta. I marchi moderni, come la grafica in
genere, abbandonano i vecchi canoni di disegno ornato per indirizzarsi
sempre più verso 1’elaborazione geometrica, talvolta esasperata. La
progettazione grafica moderna, oltre a considerare indispensabile
nella composizione, la presenza di disegni e immagini fotografiche
sempre più elaborate, tiene anche gran conto dell’aspetto
significativo della struttura degli stili alfabetici, anche se spesso
tende a camuffarli con alcune trovate di ambiguità grafica, spesso
fondendo insieme 1’espressione alfabetica con quella figurativa.
Alcune di queste forme di grafica esasperata vengono standardizzate e
catalogate. Basta osservare la struttura di alcune serie di moderni
caratteri tipo fantasia, dove ciascun segno dell’alfabeto
contiene in sé una figura grafica che si ripete negli altri segni.
(Vedi i cataloghi degli oramai tramontati trasferibili o degli attuali
corredi da computer).
Già gli amanuensi tendevano ad ornare i simboli fonetici di
frische frasche, meglio comprensibili
come elementi aggiuntivi ornati fatti di angoli, spigoli e svolazzi di
impronta floreale, fino a creare, con le capolettere, minuscole opere
d’arte. L’invasione della stampa a caratteri mobili snellì la
decorazione nei caratteri appannaggio della chiarezza della lettura.
Fu il periodo Liberty a ridare grazie, codine e svolazzi ai caratteri,
che attingevano nei motivi floreali; impronte a tutt’oggi esistenti
in alcuni stili fantasia. Ma la grafica moderna fonda le sue basi
nella priorità geometrica delle forme. La linea sconfigge la curva, e
pensare che il vecchio materiale tipografico era svantaggiato dalle
curve; oggi che la fotocomposizione ha superato questo scoglio, le
curve sono in disuso. E’ proprio vero: Quando si hanno denti non
si ha pane e quando si ha pane non si hanno denti. Oppure 1’altro
proverbio che dice sapientemente: Al povero manca il pane e al
ricco l’appetito.
La linea vince e, state tranquilli, non mi metto ad analizzare i
motivi inconsci per cui gli architetti moderni tendono a squadrare
tutto, le strutture architettoniche, l’arredamento, l’automobile,
persino i suoi fari non sono più circolari. (si dice che nell’aldilà
non esiste il cerchio, pure le pizze e i pneumatici sono quadrati).
Ora stiamo ad attendere che nell’aldiquà facciano le lampadine
quadrate... Ché la donna gia l’hanno squadrata, poi dicono
che i ragazzi di oggi sono meno virili, forse sono solo meno
stimolati, per l’eccesso di nudo, perché non si capisce che è il
celato a stimolare e non lo scoperto. Diceva Andre Gide, intanto:
Una gioventù troppo casta porta ad una vecchiaia dissoluta. E’ più
facile rinunciare al «conosciuto» che al sempre
«immaginato».
Il bisogno stesso di elaborare le fotografie facendole apparire sempre
più dei disegni dimostra che ci si vuole a tutti i costi allontanare
dai canoni artistici classici, là dove la fotografia è molto vicina
alla pittura figurativa. Fin da quando lo stile Liberty suggerì l’elaborazione
grafica del manifesto realizzato con la fusione di testo nell’immagine,
si sono consolidati i legami tra grafica, pittura e architettura. Il
manifesto, da un secolo, e il parametro dell’evoluzione artistica.
IL MANIFESTO
Il manifesto, dunque, ha sempre rappresentato il
mezzo grafico più prossimo alla rappresentazione pittorica,
imitandone forme artistiche e tecniche e persino il contenuto relativo
ai messaggi delle varie branche della cultura. Al manifesto si
ricollegano gli sviluppi compositivi tipografici dal secolo scorso
sino ai giorni nostri. Infatti il più grosso degli stampati ha poco
più di un secolo, e le ragioni di questa sua “giovinezza”
sono da ricercare nella difficoltà, antecedente al secolo XIX, di
realizzare grandi immagini tipografiche coi sistemi ripetitivi. Nell’accezione
storico culturale del manifesto sono stati scritti diversi trattati
che esaltano l’affinità pittorica, il valore grafico compositivo,
la rilevanza storica e l’importanza relativa al messaggio
commerciale. La ricerca artistico-grafica del manifesto, sempre d’impronta
psicologica, fonda le basi sul binomio parola-immagine. Mentre, però,
in genere, gli stampati pubblicitari, per così dire, da mano, sono
spesso una riduzione spinta del manifesto, difficilmente, viceversa,
si ottiene quest’ultimo da un ingrandimento, ad esempio, di una
cartolina pubblicitaria. Ripeto, a proposito, che mai un avviso murale
composto di soli elementi grafici fonetici, sebbene elaborati ed
edulcorati da cornici e disegni messi li, a caso, può definirsi un manifesto,
poiché il termine implica sempre, sin dalle origini, la metafora di
un’idea, un messaggio, espresso essenzialmente da elementi
figurativi. Quindi le mura di Torre del Greco, di Portici, di Torre
Annunziata e di tutti i centri evoluti del circondario vesuviano, sono
tappezzati di avvisi murali e qualche manifesto, che si
vedono più di rado e sono quelli commerciali o politici che,
attraverso una combinazione allegorica di testo-immagine, esprimono un’idea,
un messaggio e non una semplice comunicazione più o meno abbellita da
elementi tipografici prefabbricati. Al di là delle profonde analisi
dei trattati settoriali sopraccennati, attinenti a dottrine
artistiche, politiche e sociali varie, mi piace sottolineare, in
questa sede, che lo sforzo di ogni operatore, sia esso lontano
tipografo romantico o moderno designer, è quello di stimolare, in
primo luogo, la fantasia e la sfera affettiva non solo individuale, ma
relativa a quella sorta di personalità di massa degli osservatori. In
più vengono adottate tecniche di contenuto e di forma atte a
modificare l’assimilazione, come, ad esempio, nelle rappresentazioni
teatrali o audiovisive vengono previste tecniche psicologiche
analoghe, cioè pause o posposizioni onde consentire i commenti, le
risate, le interiezioni della collettività implicata.
Così nella progettazione grafica si tiene conto di tutte le passibili
reazioni psicologiche dell’osservatore. Spesso fanno gioco oltre la
trasfigurazione allegorica e l’ambiguità del reale, 1’ironia, il
paradosso, il grottesco, il desueto o, meglio ancora, l’originale e
l’inedito. Dalla vecchia vignetta (da vigna, motivo floreale)
caricaturale di stampo pittorico propria della litografia
ottocentesca, si passa all’analisi psicologica, attraverso elementi
grafici formati essenzialmente da un amalgama di artificiosità
fototecniche: riprese fotografiche elaborate, scritte di tono
invertito, spesso dirottate sull’inventiva desueta, puntando pure
sullo stimolo che si ricava con l’irrazionale e la componente
stupore. Pur se spesso si nota, come in tutta la grafica offset,
una frequenza di moduli standardizzati. Trovano, intanto, soluzioni
molteplici l’alternanza dei colori e le tecniche
prospettico-tridimensionali.
I manifesti commerciali, anche grazie alla rivisitazione di certi
canoni etico-religiosi, cadono spesso nel banale, nel mediocre della
sensualità ridicola. Senza contare le trasgressioni lessicali o
grammaticali volute. Gli esotismi, comunque, i solecismi, i
dialettalismi, per altro diffusi dai mass-media, dalla stampa d’informazione
e da una certa letteratura sperimentale, non hanno, tutto sommato,
nulla di nocivo per un pubblico moderno ed erudito, che li sa
riconoscere e valutare nella giusta ottica, ma che dirottano, nel
contenuto, il discorso arte-cultura, prerogative da sempre sostenute
dalle arti applicate. Cosa dire, poi, dei manifesti politici dove,
molto spesso, d’arte non se ne sente neppure lodore? Nei lavori di
correnti politiche cosiddette democratiche la nota artistica fa
capolino di tanto in tanto, ma Dio ci scampi dai manifesti stranieri
di regime totalitario, che insistono solo sugli slogans di partito e
sulle tradizioni di folklore.
E’ interessante, comunque osservare i manifesti politici italiani
del nostro dopoguerra fino ad oggi. Tutti hanno in comune lo scopo di
solleticare la personalità di massa attraverso messaggi semplici, ma
incisivi, che fanno vibrare le corde più vulnerabili della sfera
emotiva dell’uomo. Per garantire una buona sintesi percettiva il
designer sa bene che gli osservatori dei suoi manifesti non sono né
bibliomani, né pinacotecomani, sia pure col suffisso fili, ma
uomini cosiddetti della strada, intontiti dai clacson, soffocati dai
gas di scarico, afflosciati dall’afa, mirmicolanti nella ressa.
Almeno questa è la realtà urbana della cintura vesuviana, senza
aggiungere il panico relativo al disordine pubblico, caratterizzato da
scippi, rapine, estorsioni, problemi, comunque che, purtroppo,
prendono dimensioni planetarie. In queste condizioni la percezione
visiva non si assoggetterà mai ad una euritmia grafica complessa e da
interpretare dietro canoni dottrinali settoriali, o ad una lenta
riflessione, ma sarà di agevole assimilazione, soprattutto di
contenuto ricco di significato.
Alle pendici del Vesuvio, come in ogni angolo del Globo gli individui
sono tutti formati dietro gli avvenimenti dell’età evolutiva; al di
là della cultura e delle tradizioni locali, ciascuno ha una
caratteristica di ricezione percettiva diversa da un altro, realtà, a
mio avviso, riscontrabile finanche intorno allo sterminator Vesevo,
dove, ai giorni nostri, ciascuno sembra seguire una individuale
filosofia, dissociata gradualmente dalla secolare napoletanità. Vi
sono individui, ad esempio, che vengono colpiti da manifesti banali e
di cattivo gusto e che rimangono insensibili di fronte al capolavoro
di un provetto designer, e viceversa. V’è da dedurre che, a
giudicare dalle influenze psico-evolutive infantili individuali e da
quelle socio ambientali, certi moduli artistici, al contrario della
matematica, restano sempre opinabili e discutibili, malgrado l’energia
coercizzante di quei mostri spersonalizzanti che sono i mass-media,
coadiuvati dall’edulcorata malia della grancassa propagandistica
martellante. Altro che lavaggi del cervello. Difendiamoci
timidamente con le fragili locuzioni: Non è bello ciò che e bello
ma quel che piace; Dove c’è gusto non c’è perdenza; Ogni
scarrafone e bello a’ mamma soja, eccetera, eccetera.
LA CULTURA NAPOLETANA IN PIENA ERA DELLA CARTA
Sono ormai lontani i tempi della priorità teofilosofica culturale
che caratterizzava il periodo della nascita delle Università in tutta
Europa. La cultura napoletana in seno all’Università di Napoli
vede, alla fine del secolo scorso, sotto il Ministro della Pubblica
Istruzione Francesco De Sanctis, personaggi come Settembrini,
De Blasiis, Spaventa, ecc. Ma, a far ruotare a tutto spiano le
pianocilindriche tipografiche furono personaggi come lo scrittore
popolare Francesco Mastriani, con i suoi 115 romanzi, poco
valutati dalla critica, ma di larga diffusione e Vittorio Imbriani,
che si distinsero nel periodo letterario della fine del secolo scorso.
Più in luce la giornalista scrittrice Matilde Serao, coi suoi
famosi Ventre di Napoli e Paese di Cuccagna. Redattrice
a Roma del Capitan Fracassa, seguì, poi le orme del marito Edoardo
Scarfoglio col suo Corriere di Napoli e Corriere di
Roma. Autrice dei noti Mosconi sul Mattino di Napoli,
fondò infine Il Giorno.
Il tarantino Scarfoglio fondò Il Mattino e scrisse saggi e
varie prose. Tartarin influì positivamente il suo allievo Roberto
Bracco, valido critico e giornalista, sprovvisto persino di
licenza elementare. Esempio emblematico di autodidatta, fu
deputato e persino candidato al Premio Nobel. Alla fine dell’Ottocento
Benedetto Croce partorisce la Critica Estetica,
provocando una vera rivoluzione di pensiero filosofico-letterario.
Fondatore della rivista La Critica, compose centinaia di opere
tra cui spiccano La Letteratura della Nuova Italia, Poesia e
non Poesia, Storia d’Italia..., ecc. Pasquale Villari,
alla fine del secolo scorso compose diverse opere di critica e di
storia, altrettanto Ruggiero Bonghi che fondò, tra 1’altro, La
Stampa di Torino. Studi di Storia Letteraria Napoletana e
Manuale della Letteratura Napoletana, furono, invece, valide opere
di Francesco Torraca.
Una specie di lazzarone letterato fu invece Ferdinando Russo,
poeta dialettale di vivace realismo, come pure, anche se in maniera
più pacata, Raffaele Viviani col suo teatro. Quindi Rocco
Galdieri, che espresse nelle sue opere quel suo triste umorismo
nel Monsignor Perrelli, pubblicato a cavallo fra i due secoli. Ernesto
Murolo, invece, scrisse molte poesie in vernacolo, diverse delle
quali furono musicate. Ancora Libero Bovio ed il crepuscolare Eduardo
Nicolardi, nonchè il famoso poeta Giovanni Gaeta,
altrimenti detto E. A. Mario, che scrisse La Leggenda
del Piave e la canzone Balocchi e Profumi.
Dopo la Serao ritornarono a Napoli i tentativi ben riusciti di
narrativa. Negli anni trenta Carlo Bernari pubblica I tre
operai. Di Bernari sono Guerra e pace, Vesuvio e
pane, fino al Foro nel parabrezza degli anni 70. Nel
periodo tra le due guerre si distingue Anna Maria Ortese con Città
involontaria, i racconti Angelici dolori, fino a Il mare
non bagna Napoli, degli anni 50. Intorno al secondo
conflitto mondiale il narratore napoletano di spicco è Giuseppe
Marotta col suo famoso L’oro di Napoli, quindi Gli
alunni del sole, San Gennaro non dice mai no, ecc.
Dopo la guerra esordisce Domenico Rea di Nocera Inferiore, con Spaccanapoli,
Una vampata di rossore, ecc. Quindi Michele Prisco,
di Torre Annunziata, coi famosi racconti dell’esordio La
provincia addormentata, poi Figli difficili, ecc. Altro
romanziere del secondo dopoguerra sarà Luigi Compagnone che
esordì con La Festa, poi La vita nuova di Pinocchio, L’onorata
morte, ecc.
Infine Mario Pomilio con Il testimone e Il cimitero
cinese, L’uccello nella cupola, ecc. Vi sono molti altri
intellettuali napoletani di rilievo nel campo della filosofia, della
critica, del giornalismo, della filologia che, secondo me, vanno
citati in trattazioni specifiche più ampie, di natura critica,
antologica, storiografica, per cui discrepanze od omissioni spero
saranno qui tollerate. Un ultimo autore contemporaneo, però, degno di
menzione, è il poliedrico Luciano De Crescenzo, filosofo, umorista e
scrittore di cristallina fattura, che insieme a tutti gli altri
intellettuali napoletani, citati o meno, ha contribuito allo sviluppo
dell’editoria non solo napoletana.
IL PREZZO DEL PROGRESSO
Anche l’industria italiana e, per conseguenza,
quella napoletana, tende ad escludere la dimensione umana dalla
produttività. Per fortuna nel Napoletano è ancora possibile
intravedere l’aspetto umano del lavoro, nei centri storici, dominati
dagli agglomerati di bassi, dove gli ultimi artigiani svolgono
il loro lavoro a misura d’uomo, perché ancora operano in un
contesto proletario e piccolo borghese, che condiziona il modo di
lavorare e di vendere secondo le vecchie tradizioni, dove si ricusa l’impatto
appena decennale di certi repentini stravolgimenti tecnicistici e
consumistici sotto casa propria. Certi moduli edonistici tendono al
convertimento, lentamente, come il tarlo fa col legno, o la goccia con
la pietra, facendo leva sul martellamento pubblicitario legato al
modello sociale planetario di benessere illusorio, attraverso
espedienti come il risparmio ottenuto coi prodotti di serie, o l’adescamento
dei supermercati, che eliminano perdite di tempo prezioso, utilizzato,
poi, per i giorni di lotta, atta a procurarsi altro danaro, e…
ancora risparmiare al solo scopo di rispendere. Un circolo vizioso
come la tossicodipendenza, ma legale ed istituzionalizzato da cui
nessuno, non solo non può, ma non deve sottrarsi.
Qualcuno dei tipografi che è riuscito a costruire il capannone,
magari dietro un compromesso stipulato coi “fiori all’occhiello”,
è finito forse ghettizzato in un lussuoso appartamento dei
quartieri bene, europeizzato ed irrimediabilmente escluso dal calore
della Napoli oleografica dove i sostegni psichici essenziali di
solidarietà, di contatto umano, ancora si osservano nei mercatini
rionali o quelli domenicali di Piazza Ferrovia, o di Poggioreale,
nelle botteghe, nelle case-giardino delle vecchie costruzioni
spagnole. Le stesse officine industriali dei quotidiani della
capitale del sud hanno definitivamente visto dissolto il calore
umano che esalava, all’unisono, dai precordi dei giornalisti e
tipografi e dai crogiuoli delle linotype. Era l’ardere del piombo
fuso ad accomunare autori e tipografi in una sola famiglia.
Le notizie sprigionavano anch’esse la soavità di una metropoli
ancora lontana dalla giungla urbana, animata dalle Piedigrotte, dalle
serene periodiche domenicali e dallo strabenedetto pane e
ppummarole, e dal derivato sacrale ragù, o dalla defilippiana
ritualità di pasta e fagioli o caffè che scendeva. Oggi pure
i napoletani il caffè lo fanno salire per dimostrare che il
mondo, nell’arco di pochi decenni, è cambiato da così a così,
grazie all’indomita ascesa industriale. Nelle redazioni dei
giornali, anch’esse linde ed asettiche come gli ospedali, il
giornalista infreddolisce per 1’assenza dei crogiuoli, per la
nefandezza delle notizie, per il suo esclusivo rapporto di lavoro con
...il terminale.
Chi ha le tempie canute ricorda che il tipografo delle botteghe, nel
dopo guerra doveva accontentarsi delle bruschette o delle marenne
a base di melanzane a funghetti e friarielli, mentre quello che
faticava al giornale poteva permettersi la fetta di prosciutto.
Spesso i compositori o gli impaginatori dei giornali davano il loro
diretto contributo ai pezzi di cronaca, perchè facevano da tramite
tra ambiente popolare e redazione, suggerendo, tra l’altro,
espressioni gergali, peculiarità caratteriali e comportamentali del
popolo, sconosciute alla classe alto borghese dei giornalisti agiati
di allora. Chissà chi furono gli informatori della Serao, forse la
masnada di camici neri rattoppati e bisunti che la circondava. Quale
tipografo artigiano negli anta può dimenticare le rasserenanti
giornate di lavoro in queste officine grafiche. Lazzi, facezie,
scherzi da prete e soprattutto spiccava quella sorta di paradossale
religiosità nel turpiloquio, poetico, colorito, ilare, puerile ed
innocente. Questi erano i soli delitti che si confessavano la
domenica in chiesa. Dovevano pur farsi perdonare qualcosa, altrimenti
i reverendi avrebbero rischiato la cassa integrazione.
IL SOGNO DEL GIORNALISMO
Le tipografie artigiane vesuviane che ancora
realizzano nella maniera tradizionale le pubblicazioncelle locali
pressate dalle ambizioni letterarie degli oscuri docenti di lettere, o
dei cultori di sogni nel cassetto, o dei poeti del sabato sera di fama
intercomunale, arrotondano il fatturato in un contesto lavorativo
molto compromesso dall’offerta satura. Ebbene, io appartengo alla
categoria di questi sciagurati sognatori, conscio, però, del
carmina non dant panem, non solo, ma pure del nemo propheta in
patria, poiché queste sporadiche mie esperienze scrittorie
desuetamente autofabbricate in tomi, sono destinate, volutamente a non
valicare il circondario urbano?. (Grazie a Internet questo dubbio dell’autore
si è finalmente dissipato. Questo libro è continuamente scaricato
dagli italiani di tutto il mondo. N.d.r.). Sono comunque solidale con
tutti gli sventurati come me, e quasi mi rammarico del
privilegio di poter prevalere, almeno quantitativamente, sugli altri,
che la sorte non li ha voluti nemmeno bottegai tipografi. Comprendo,
anche se non giustifico, coloro che non sanno valutare i propri
limiti, e continuano imperterriti in questo cammino spinoso,
attribuendo il loro insuccesso solo a fattori egemonici da circolo
chiuso.
Oggi, più che mai, in tutti i settori umani, l’estetica prevale sul
contenuto, questo tende a soffocare l’espressione popolare nell’arte
scrittoria, ed è una discriminazione. Chiunque ha il diritto di
esternare i propri sentimenti, anche al di fuori di virtuosismi
dottrinari. L’importante è riconoscere la propria posizione e non
ostinarsi ad apparire quello che si vorrebbe essere e non si è. Non
è la semplicità d’espressione che è nociva, quando c’è
contenuto, ma l’elaborazione culturale della povertà estetica ad
alimentare il desiderio di abbarbicarsi verso i fastigi di castelli di
cui non si è provveduto, negli anni, a mettere su con tenacia e
abnegazione, dietro un allenamento estenuante, mattone su mattone.
Il primo giornale della storia fu quello prodotto dai Cinesi nel 400
d. C. Per la realizzazione della sua composizione venivano adoperati
caratteri di terracotta, piombo e argento, e veniva stampato
nientemeno che su seta. Fu il primo e il più longevo della storia.
Nacque col nome di King-Pao, che tradotto significa pressappoco
Notizie di corte. Nei secoli che seguirono la testata
cambiò spesso, vale la pena citare solo una traduzione: Giornale
del Celeste Impero. Gli storici dicono che nel XIV secolo divenne
settimanale e nel XIX quotidiano, grazie, molto probabilmente, all’avvento
della Linotype. Alla fine dell’Impero, nel 1912 fu soppresso.
Il giornale quotidiano si affermò nel XIX secolo grazie all’automatizzazione
della composizione tipografica e delle macchine da stampa. In Francia
il più diffuso dell’epoca fu la Liberte, che raggiunse le
centomila copie al giorno durante la Rivoluzione. In Inghilterra
ricordo il famoso Times; in Italia La Nazione di
Firenze, Il Corriere della Sera di Milano, Il Resto del
Carlino di Bologna, ecc. Giornale, è lampante, significa:
raccolta di notizie del giorno, quindi: quotidiano. Ma in tutte le
epoche si era gia trovato il modo di diffondere notizie scritte. In
tutta Europa, già prima dell’invenzione della stampa, esistevano i
cosiddetti novellieri, che trasmettevano notizie attraverso,
appunto, le novelle. Esse venivano copiate a mano,
naturalmente, e vendute come dei normali periodici. L’invenzione di
Gutenberg trasformò queste novelle in veri notiziari. Si
trattava di fogli stampati da un solo lato, contenenti un solo
articolo per volta. In seguito vennero stampati pure sul fronte retro
ed illustrati con le xilografie anche inserite nel testo. Fino a pochi
anni fa l’architettura di una pagina di giornale era pressoché
simile per quasi tutte le testate del mondo, perché il sistema era
quello tradizionale dei caratteri di piombo meccanizzati da
Mergenthaler. Infatti mentre compongo le parole che state leggendo,
sbircio sulla sinistra della mia Linotype una targhetta con su inciso:
Linotype Italiana S.p.A. - Milano, licenziataria della Mergenthaler
Linotype C. - New York - USA. Le pagine di giornale, dunque,
venivano fino a qualche decennio fa assemblate con piombo linotypico e
cliché, sistema detto, oggi, a caldo, per distinguerlo da
quello a freddo (in tutti i sensi) della composizione
computerizzata e la fototecnica offset. L’elettronica ha messo la
parola fine all’evoluzione più avanzata della scoperta
gutenberghiana, dando il sapore di vetustà a processi di
automatizzazione scoperti appena qualche decennio prima. Ma entriamo
un po’ nella vecchia tipografia gutemberghiana ed in quella moderna.
Nell’officina giornalistica tutto deve procedere con la rigorosità
simile a quella degli orari ferroviari. Non sono ammessi ritardi o
interruzioni per nessuna ragione, ad eccezione degli scioperi... Nel
sistema tradizionale, oramai scomparso, il proto smista gli originali
da comporre e li invia ai vari linotipisti per la composizione del
testo in colonne e le immagini alla zincografia interna per la
realizzazione dei cliché di zinco. Le pagine vuote sono rappresentate
da telai di metallo dove sono già disposte le composizioni fisse, ad
esempio la testata del giornale, le pubblicità, ed altro. Una volta
eseguite le correzioni delle colonne di piombo, gli impaginatori
sistemano le stesse negli spazi preventivamente stabiliti dalla
redazione per mezzo del menabò. I piccoli spazi vuoti si riempiono
con brevi notizie, slogan, o piccole inserzioni pubblicitarie o di
altra natura. Se il piombo in eccesso è poco allora si provvederà a
ridurre lo spazio dalle colonne fra i titoli, fino all’estrema
soluzione del taglio.
I titoli vengono composti a mano o anche con speciali macchine
fonditrici dette monotype. La misura delle illustrazioni viene
stabilita in colonne, come i titoli. Una volta assemblato tutto nel
telaio, le pagine sono pronte per la realizzazione delle stereotipie
di cui ne ho gia trattato il processo. Le stereotipie curve vengono
montate sui cilindri della rotativa, composta da tanti gruppi stampa.
Le più grandi consentono di stampare giornali di formato standard
fino a 100 pagine, con una produzione oraria di 20-30.000 giornali l’ora,
e scusate i costruttori se è poco. Il giornale, all’uscita dalla
macchina, termina a mo’ d’imbuto per immettersi nella piegatrice
abbinata, la quale provvede anche al taglio. Tutto avviene in perfetto
sincronismo e ad altissima velocità.
Il secondo sistema a freddo quello adottato oggigiorno non è
altro che quello offset da rotativa. La composizione è fototecnica.
Il computer, dopo la battitura, elabora il testo secondo le
necessità. Se lo scritto è lungo la macchina provvederà in un lampo
ad accorciarlo riducendo gli spazi tra le parole o le interlinee o,
meglio ancora, riduce il carattere provvedendo automaticamente alla
divisione in sillabe, correggendo persino gli errori grammaticali e
ortografici. Una volta realizzate le colonne ed i titoli fotocomposti
si procede al montaggio sul tavolo luminoso. Sono già in uso macchine
dedicate con cui èpossibile comporre le pagine intere su video che
andranno direttamente in ouptput, che nel caso industriale si tratta
di fotounità enormi ad altissima risoluzione.
I giornali illustrati, altrimenti detti settimanali, vengono stampati
col sistema rotocalco che, circa le immagini a colori, si è rivelato
idoneo alle altissime velocità. La progettazione di una rivista
illustrata avviene in modo simile a quella dei quotidiani, ma richiede
maggiore impegno a causa delle numerose immagini policrome. In più le
stesse pagine passano almeno sotto quattro gruppi di diverso colore.
Alcune riviste, comunque, non prevedono il rotocalco che non consente
altissime definizioni, e vengono stampate col sistema offset, come
pure gli oramai policromi testi scolastici, la migliore produzione
libraria, le pubblicazioni a dispense settimanali, l’insieme di
quelle opere, cioè, destinate a rimanere nel tempo. La stampa offset
consente maggiori finezze di dettaglio, anche per la sua precipua
caratteristica di stampa indiretta e, in complesso, la qualità
generale è nettamente superiore ad altri
sistemi basati per lo più solo sulle alte velocità produttive.
Intanto le pubblicazioni editoriali non richiedono tempi di produzione
brevissimi come accade per la stampa periodica.
Le riproduzioni a colori realizzate con le moderne attrezzature
fototecniche e stampate in offset, raggiungono livelli cromatici e
tridimensionali superiori a quelli delle immagini fotografiche
originali da cui sono state riprodotte.
IL CONCETTO DELL’AMORE TEMA CENTRALE DELLA LETTERATURA
Prima di concludere il capitolo con alcune note sulla pubblicità
stampata, su scala nazionale, divagheremo questa volta nientemeno che
con una teoria sull’amore, così legato,
da sempre, all’arte scrittoria e alla stampa. Visto lo spirito del
libro, anche questa volta non desidero postulare nulla a nessuno. Si
tratta sempre di osservazioni del tutto soggettive e non sottintendono
nessuna intenzione di tono scolastico. Vi è un abisso tra la natura
dell’amore e l’idea culturale dell’amore poliedricamente
elaborata, a mio modesto avviso, naturalmente. L’amore, purgato di
volta in volta dalle mode letterarie della storia lo conosciamo tutti.
La psicologia moderna un bel mattino ha deciso di spogliare l’umano
da molte croste culturali lasciandolo nudo nel suo stato primitivo di
istintualità. L’animale uomo ha un
istinto di conservazione personificato, modificato dalla cultura.
Alcuni sono concordi nel supporre che tutte le invenzioni
culturali sono delle difese dall’angoscia, connaturata negli animali
ragionevoli, coscienti del loro destino di finibilità, non solo, ma
di probabile assenza salvifica post-mortale. Ma al di la delle
affermate teorie speculative o psico-scientifiche, il timore, o più
semplicemente il senso di finire, è presente in ogni forma
cerebrale.
L’animale, a mezza strada tra l’uomo e la pianta, vessato o
recluso presenta gli stessi sintomi angosciosi dell’uomo
ragionevole, che sfociano, a lungo andare, nel disequilibrio. L’appassimento
delle piante è un chiaro esempio di deperimento fisico. Esse,
istintivamente, (anche se la terminologia è impropria) nei loro
limiti compiono ogni sforzo per riprendere vita e, nel caso di
intervento dell’uomo o della natura, ce la mettono tutta per
risorgere. Io suppongo che una forma iniziale di difesa, più
comprensibile come senso di conservazione, sia presente gia
nello stadio fecondo pre-fetale. La prima reazione ovulo-cellulare e
quindi la difesa dall’estinzione, che si accentua mano mano con lo
sforzo neo-fetale contro la probabile minaccia abortiva. La lotta con
la finibilità, quindi, non e subito istintuale-cerebrale
pre-post-natale, ma è già presente con la formazione delle prime
cellule; diviene istintuale durante lo stadio fetale avanzato, e si
consolida in quello neonatale, onde perpetuarsi nell’esistenza. Ma l’uomo,
per sua sfortuna, e dotato di ragione ed ha inventato la cultura che
complica per subito esorcizzare questi timori associati. Quindi alla
difesa istintuale si aggiunge l’elaborazione culturale dell’idea
di morte, caratterizzata dal timore di una probabile assenza
salvifica. La confusione umana è concentrata nel sincretismo
Dio-Amore - Dio-Punitore. In realtà l’amore non è il bene che
dualizza il male, quindi Dio-demonio, ma amore come esorcismo della
paura, non solo di finire, ma di rivivere, dopo, nella sofferenza.
Diremo, allora: Dio: idea della vita, demonio: idea della
morte. A prescindere dalle teorie teofilosofiche millenarie, l’idea
di Dio come garanzia di continuità e indispensabile agli animali
dotati di ragione, sebbene la dottrinalizzazione di certi elementari
concetti abbia generato maggiore confusione. Senza nulla togliere ai
Padri della Chiesa ed ai teologi, e con tutto il rispetto per i
credenti di ogni Confessione, i quali trovano serenità e sollievo,
bisogna ammettere che Diderot non aveva tutti i torti quando disse che
“…le religione annunciata in passato da ignoranti facevano milioni
di credenti, predicate poi da dotti fanno solo degli increduli”.
A prescindere dai quindici miliardi di anni luce che ci separano dall’ultima
galassia sentita dalla terra (la Luna e a un secondo luce), la
Religione è una grande realtà per lenire l’orrore della morte
vista dalla nostra cultura, tranne due elementi comuni a molte
Confessioni, che alimentano l’angoscia umana: l’idea dell’inferno
e l’elaborazione culturale della sessualità ad esso relativa.
Metabolismo sessuale regolamentato, quindi compromesso nella sua
biologica istintualità che, se non censurato o modificato nella sua
appetibilità, sarebbe tanto più naturale e moderato, ed uno dei più
idonei toccasana spontanei per scongiurare l’angoscia
istintivo-culturale di finibilità, in ragione di abusi, pulsioni
pluridirezionali, fino all’omosessualità, senza contare le pulsioni
incestuose coatte, manifeste o inconsce; reati sufficienti per
annullare la garanzia salvifica al di là da venire. L’eterosessualità,
dunque, non condizionata dall’idea di peccato, che richiama subito l’inferno,
è la più idonea equilibratrice della vita cellulare-psico-metabolica,
connessa all’idea di Dio-amore, così, invece, irrazionalmente
elaborata culturalmente, non altro che da fantasiosi bisogni di
espiazione terrena.
Il suicida, molto spesso, ammazza se stesso per non morire! ... Egli
annega negli angosciosi sensi di colpa inconsci, cioè sempre
indefiniti, quindi, nell’immotivazione, attribuita spesso ad
ingerenze demoniache, vorrebbe uccidere un male senza volto, che in
buona percentuale si rivela come consapevolezza celata in cantina,
dell’elaborazione culturale: morte-inferno-sofferenza eterna, pregna
di terrore, fulcro inconscio di tutti gli stati depressivi più a meno
gravi. Nell’impotenza ansiosa il suicida ripiega, in alternativa,
con il possibile annientamento della debole carcassa cerebrale,
portatrice da anni, con alti e bassi, l’angoscia oramai
incancrenita, tanto più coatta ed ossessiva perché
inesplicabile in superficie, dietro l’esclusione di ogni
possibilità di rimozione.
Il tema, sovente reiterato dell’insoluto esistenziale, non altro l’angoscia
umana che ha origine direttamente dalla consapevolezza di
finibiltà e probabile assenza salvifica, in base alle elaborazioni
culturali di millenni, fu magistralmente generato dallo psicoterapeuta
Luigi De Marchi, nel suo Scimmietta ti amo,, citato nella
premessa, nella bibliografia e nella nota a margine d’essa, da cui
sono stato sensibilmente illuminato e spinto a formulare, lungo il
presente libro, alcune riflessioni, che partono dall’assunto del suo
geniale saggio.
Amore e morte, Eros e Thanatos, i temi di base che hanno,
direttamente e indirettamente, lasciato produrre all’umano milioni
di libri stampati dando un sostenuto contributo allo sviluppo dell’arte
nera in tutto il mondo. Le difese, (anche sotto le freudiane
sublimazioni: artistiche, politiche, religiose, professionali, ecc.)
sono molto spesso contrastanti, e vanno dall’annichilimento mistico
alla violenza criminale, quando le si sostituiscono all’unico
antidoto diretto alla paura esistenziale, cioè l’amore, (specie
concretizzato nei contatti fisici, continuità della difesa
uterina, catarsi fisiologica naturale) inteso come l’opposto dell’angoscia,
quando esente dall’idea di peccato.
Dio e anche l’organismo che vive, la cellula che si riproduce nel
disegno inesplicabile della natura e della creazione e bisogna sempre
favorire questo processo anche nei suoi legittimi appetiti, foss’anche
nell’atarassia epicurea. La morte - diceva intanto il
filosofo - non e nulla per noi, perché quando noi siamo essa non c’è,
e quando c’è noi non siamo pù. Dunque amore non come opposto
dell’odio, ma come inverso della paura. Più è
attenuato questo timore, più l’uomo è capace di amare. L’amore
come salute mentale, che stabilisce il giusto compromesso con l’infernizzazione
della vita.
L’idea di Dio anche in questa dimensione e utilissima per vivere in
modo più sereno possibile, senza per nulla escludere la dimensione
transumana. L’amore nell’accezione di fisicità, come inverso
della paura, è essenzialmente quello per antonomasia, cioè
l’eterosessualità. La proverbiale sicurezza del ventre
materno avvezza specie l’animale uomo a scongiurare il timore di
finibilità già nelle parti lubriche di questo grembo, che conservano
tutte le caratteristiche delle mucose erogene freudiane. Da questo
tipo di benessere-scongiuro si dipanano poi tutte le peculiarità
della sfera affettiva, tenerezza, attrazione, affetto, compassione
e pietà, proiettive e, talvolta, come la carità, prevedono un
tornaconto salvifico. L’amore nudo, naturale, legittimo, non
puramente animale, fuori d’ogni elaborazione culturale, compresa
quella che leggete..., perché s’e avvalsa della corruzione
dottrinaria per stare coi tempi, per esprimere concetti di un
naturalismo preculturale.
LA PUBBLICITA’ SU SCALA NAZIONALE
Ed eccoci pronti a concludere il decimo capitolo,
con un argomento meno teorico dopo una dissertazione così profonda.
Gli avvisi murali, le locandine ed i volantini relativi alla
propaganda commerciale locale, ancora sopravvivono nella cintura
vesuviana, dove è sempre consentito imbrattare le strade, dietro
esose tariffe, naturalmente. Questi stampati rappresentano un buon
sostegno anche per le botteghe artigiane, meno care (grazie alla
concorrenza) delle affissioni comunali. Per questi lavori come diciamo
noi, sciué sciué, vi è quasi assenza di progettazione
grafica. Tutto avviene nella dimensione del materiale tipografico o,
al massimo, degli stereotipati assemblaggi fototecnici terra terra,
emulanti, però, quasi sempre, composti originali già affermati della
pubblicità, come dire, ufficiale, fatta su scala nazionale. L’applicazione
della fotografia nel campo grafico ha ridotto fortemente l’uso del
disegno e della vignetta. Anche perché diverse elaborazioni
fotografiche come l’effetto grana, la solarizzazione, ecc. danno
risultati tali, là dove il disegno puro difficilmente potrebbe
arrivare.
Senza nulla togliere ai progressisti, (anche perchè io
antiprogressista non sono se non nella misura di ciò che il progresso
danneggia l’umanità), devo osservare che l’artificiosità dei
mezzi moderni s’intona al clima ipocrita e doppiofaccista della
società attuale. I prodotti, per lo più alimentari, spesso di
coltura artificiale (e qui, consentitemi, la mia Torre del Greco e la
cintura vesuviana non c’entrano, per una volta) vengono pompati da
una pubblicità che soffoca scaturigini artistiche a misura d’uomo,
ma sottolineano lo stereotipo delle macchine. Certo pure il nerofumo e
le vernici sono dei mezzi, ma di origine vegetale e non certo
sintetici come quelli moderni, ottenuti da precipitazioni chimiche
inquinanti e nocive. In pratica l’uomo-natura trasformato in
uomo-macchina si denota in ogni forma espressiva, pure quella
artistica propriamente detta.
La cartolina pubblicitaria su scala nazionale non è altro, spesso,
che la riduzione del manifesto murale. La ripetitività dell’immagine
ha lo scopo di non tradire il moderno concetto propagandistico
psico-stereotipico più comunemente conosciuto come lavaggio del
cervello. Troppi interessi consumistici, checché se ne dica,
sacrificano la purezza artistica della grafica moderna pubblicitaria.
Oggi si deve parlare di una ben congegnata psico-grafica,
quando ci si rivolge alla pubblicità su scala nazionale sia stampata
che radioteleiconografica. E’ già lontano il tempo in cui l’espressione
grafica si reggeva su canoni romantici, su di un’allegoria, seppur
retorica, che assecondava, tuttalpiù, la tendenza pittorica del
tempo. Nell’etichetta moderna, tanto per dirne una, spesso decorata
direttamente sull’involucro del prodotto, vi è quasi sempre una
fusione tra il logotipo o il marchio e gli elementi figurativi
relativi al prodotto.
L’umanità geme, per metà schiacciata
sotto il peso dei progressi che ha fatti.
«Le due sorgenti della morale e della religione» - Bergson
CAP. XI
LAVORAZIONI AFFINI ALLE ARTI GRAFICHE
Che cosa e lavoro? E che cosa non è lavoro?
Sono questioni che lasciano perplessi i più saggi
fra gli uomini.
Bhegavedglta
LA LEGATORIA
La legatoria è un’arte antica; la cartotecnica,
invece, è una branca moderna della legatoria. La prima è antica come
la scrittura. Si è sempre trovato il modo di raccogliere insieme dei
fogli scritti. La legatura classica ha avuto la sua fioritura nel
medioevo; molte copertine di codici, perfettamente conservate,
rappresentano delle vere e proprie opere d’arte. Questi tomi erano
robustissimi, la facciata frontale era lavorata nientemeno che da
artisti orafi ed incisori, quindi con metalli preziosi e talvolta
comparivano incastonature di gioielli. I legatori, come gli amanuensi,
erano anch’essi monaci, tanto per variare. Altre copertine venivano
realizzate rivestendo sottili tavolette di legno invece del cartone
odierno, con sete e velluti pregiati. Poi fu usato il cuoio e la pelle
di lusso. La legatoria artistica ha avuto, in un millennio, diverse
scuole, una per ogni nazione europea, prima e dopo 1’invenzione
gutenberghiana. Cosi gli intarsi, le incisioni a caldo, le cesellature
riflettono il periodo artistico e culturale.
Come è facile constatare, nelle librerie o nelle biblioteche, la
legatura moderna spesso si riallaccia a certi stili d’epoca, a
seconda del contenuto del libro. A parte questi casi sporadici 1’industrializzazione
ha favorito il declino della legatura artistica durata fino al secolo
scorso con l’alternativa delle semplici legature meccanizzate dell’industria
moderna.
Le legatorie artigiane del Napoletano dispongono di poche macchine;
distribuite a iosa nella località Corpo di Napoli: Mezzocannone,
Benedetto Croce, Forcella, Via Nilo, spesso semiautomatiche e molte di
esse vanno avanti grazie alle pubblicazioni a dispense e raramente
praticano lavori industriali, tutt’al più legano le cinquecento
copie del poeta del palazzo di fronte, il quale tormenta i poveri
artigiani sino a che non prova l’orgasmo di avere tra le mani la
prima copia del suo capolavoro che ancora esala profumo di resina. Per
motivi di lavoro ho trascorso diversi anni in questa zona che è il
fulcro della tipografia napoletana vecchia maniera, sia per la
presenza dell’Università che per le librerie più famose. Molte
altre botteghe sono dislocate lungo la cintura vesuviana: Portici,
Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata, Castellammare, Somma, S.
Giuseppe, ecc. In queste modeste legatorie, sebbene si tratti sempre
di lavorazione in serie, è la persona fisica a creare una sorta di
catena di montaggio del libro.
Le legatorie industriali campane, invece, dispongono di macchine
complesse, si tratta di combinate che raggruppano in un solo congegno
meccanico piegatrice, cucitrice e tagliatrice, come le brossuratrici,
le quali compiono il ciclo completo della legatura di un libro. Il
dorso talvolta non viene cucito, ma rifilato e fresato perché la
colla speciale penetri in più punti in maniera da rendere l’apertura
più tenace. Il libro brossurato viene incassato in una copertina di
cartoncino di media grammatura, come è ben noto a tutti coloro che
hanno acquistato almeno una volta un libro delle collane economiche.
Le legatorie industriali dispongono di tagliacarte trilaterali,
i quali provvedono alla rifilatura dei libri intonsi in un solo colpo
sui tre lati. Le copertine rigide in tela, o vilpelle, e talvolta di
vera pelle o bazzana, sono riservate alle oramai esigue edizioni di
lusso, opere importanti come enciclopedie di valore, pubblicazioni
artistiche, e via dicendo.
I libri vengono stampati generalmente su fogli distesi nei formati 70
x 100 o 64 x 88; ciascun foglio, a seconda del formato della pagina,
contiene otto, sedici o trentadue pagine. Nell’ultimo caso si
provvede a stampare meta foglio, cioè 50 x 70 anziché 70 x 100 cm.
per evitare fastidi di piegatura, o anche nei casi in cui non si
possiede una macchina da stampa superiore alla metà foglio, come nel
caso del libro che state leggendo, che è stato stampato in una
pianocilindrica tipografica, otto pagine per volta, sulla metà del 64
x 88. Piegando il foglio sempre a metà risulta il sedicesimo
del formato: 16 x 22, non rifilato. Ciascun sedicesimo che avrà la
sequenza progressiva delle pagine, verrà cucito al successivo;
quinterni, quindi, successivamente incollati sul dorso ed incassati
nella copertina, nel caso di legatura semplice, come la presente. Il
libro si rifila sui tre lati, ed è pronto per la lettura. Nel caso di
copertina rigida esso verrà rifilato dopo la dorsatura e poi
incollato nella copertina, non gia sul dorso, ma sui risguardi
(primo e ultimo foglio di due quartini più resistenti) e la coperta.
Diremo, intanto, legare un libro e non rilegare, come fa
l’artigiano quando ripara e riveste un vecchio libro. Alcuni volumi
di lusso vengono dorati sui tre tagli, ciò per evitare l’infiltrazione
di polvere, ma l’accorgimento serve più a migliorarne l’aspetto
estetico e dare prestigio al prodotto. Il procedimento è sempre più
in disuso, tranne che per una buona parte di agende personali di buona
qualità con, appunto, il taglio oro.
Si sono molto diffuse, negli ultimi tempi, le moderne legature dette a
fogli sciolti, che prevedono la foratura del dorso e 1’unione dei
fogli con anelli sia paralleli che a spirale, anche se spirale non è
ma ne ha solo l’aspetto. Questi tipi di legature, molto semplici e
pratiche, non si addicono al libro propriamente detto, ma a
pubblicazioni come appunti di studio, cataloghi, campionari, ecc. dove
è consentita l’eventuale sottrazione o aggiunta di fogli per
aggiornamenti o altri motivi.
LA STAMPA A CALDO
La decorazione dei libri moderni viene eseguita con
la stampa a caldo, cioè col trasferimento di un pigmento colorato
(prevalentemente oro) disteso su di un sottile nastro di cellophan “foil”
e trasferito sulle copertine dei libri attraverso punzoni riscaldati.
I punzoni possono essere sostituiti con i comuni clichè di zinco, il
sottoscritto usa le stesse composizioni tipografiche a caratteri
mobili. Nei casi di lunghe tirature ricorro alle lettere componibili
di ottone, resistentissime al calore e all’usura. Ci sono diversi
sistemi che consentono la «stampa a dorare», alcuni
riguardano la punzonatura manuale degli antichi indoratori praticata
irreversibilmente sui dorsi dei libri gia legati o rilegati in periodi
precedenti la decisione dell’indoratura, con punzoni riscaldati
sulla candela. Poi vi è il sistema più usato dagli artigiani
legatori, che consiste nell’indorare attraverso presse a caldo
simili a piccoli torchi azionabili da leve manuali. Il piano superiore
contenente il punzone stretto in telaio si abbassa su quello
inferiore, freddo, su cui è poggiato il supporto da decorare. I
caratteri riscaldati premono sul nastro pigmentato interposto tra i
due piani, cosicché il calore, sciogliendo il colore solo lungo i
tratti del disegno o delle lettere, lascia nitida e brillante l’intera
decorazione sul supporto. Io uso una macchina del genere per tesi di
laurea e per decorare agende relative alla strenna natalizia.
Negli ultimi tempi si è diffuso un sistema completamente
automatizzato, che comunque sfrutta il principio gutenberghiano della
rilievografia. La stampa a caldo una volta interessava solo il settore
librario, oggi sconfina in quello grafico ed in special modo in quello
cartotecnico. Molti flaconi di plastica flessibile, astucci cartacei,
oggettistica di fintapelle elettrosaldata, vengono decorati a caldo
per la caratteristica di ottima brillantezza che consente il sistema
sperie per i colori metallizzati. La stampa a caldo viene anche
praticata su oggettistica promozionale di plastica, legno, tutti quei
materiali, insomma, duttili al calore e non totalmente duri.
TOTONNO PALLAPPESE, TIPOGRAFO IELLATO
La sosta letteraria questa volta non ci induce a
soggiacere spauriti sotto le occulte ed enimmatiche teorie come l’Eros-Thanatos
freudiano, e via dicendo, ma ci invita ad una pausa distensiva, dove,
comunque sesso e morte non sono esclusi, dal. momento che si parla di
essere umani. Chi dovesse cogliere solo trivialità e scurrilità nell’argomento
che segue e meglio che volti pagina, con tutto il rispetto per le sue
idee. Ma credo che nessuno si scandalizzi con la storia di Totonne
Pallappese, perché una cosa è la villania da portuale e un’altra
l’umorismo erotico, anche se licenzioso. E poi, come posso ovviare
al dato di fatto che tutti i colleghi tipografi della cintura
vesuviana siano in un modo o nell’altro avviluppati nella
problematica psicosessuale. Infatti il caso di Totonno è affine,
anche se diametralmente opposto, a quello di Giorgio scarafone,
precedentemente narrato.
La storia di questo tipografo vesuviano, la cui virilità, appunto
ignea, si rivelava insufficiente, e patetica ed ilare nel contempo. Un
giorno, nella mia bottega di Via Purgatorio dichiarò pubblicamente
che la sua coglia fungeva da guanciale, oramai, alla sua mentula
logorata ed in avanzato stato di atrofia, e gli epididimi
completamente aridi come le dune del Sahara. Non sarebbe il caso di
ironizzare, dileggiando un momentino il povero Totonno, ma il
sesso e il peto sono i temi centrali dell’umorismo vesuviano, quindi
prendiamo la cosa sotto l’aspetto del beneficio sociale di carattere
evasivo a base di flatulenza e sessuomania.
Veniamo al sodo, anche se non sarebbe proprio il caso di usare
questa frase fatta, perché Totonno pallappese veniva insidiato
dalla consorte ventiquattrore su ventiquattro, non escluso le feste
comandate, anzi. Lo possedeva fisicamente sempre e dovunque,
molto spesso nella sua bottega, ad est del Vesuvio, contro le
pianocilindriche, sulle pedane impilate, là dove definire ninfomania,
quella della donna, equivarrebbe ad aggettivare piccolo l’Universo.
L’ossessa, e non sono iperbolico, si rivelava un’autentica
megagalassia erotica in espansione. E poiché non rientrava nel suo
ordine di idee la trasgressione monogamica, essendo stata educata
dalle teste di pezza, pretendeva il legittimo dovere
coniugale solo dal malcapitato, minacciando, spesso, la richiesta d’intervento
della Sacra Rota.
Quando, ahilui, mi vidi apparire sull’uscio della mia tipografia
Totonno, pallido, emaciato, bacucco che più non si può, venticinque
chilogrammi abito e scarpe compresi, prognosticai la, quando prima,
raccolta dei suoi resti dal suolo, col cucchiaino, per dirla in gergo.
Gli dissi che, purtroppo, era condannato a soccombere sotto un assioma
legislativo. Nessuna normativa sociale planetaria si oppone all’ottemperanza
del dovere coniugale del maschio, da secoli detentore di priorità
erotica attiva, anche se in misura da sanatorio. Doveva agire d’astuzia.
Una volta falliti anche i tentativi, suggeritile, della pratica
onanistica o del bambolo gonfiabile, doveva inevitabilmente ripiegare
con un cavillo da paglietta, diventare, ad esempio, pazzo, a
cui tutto e tollerato.
«Con l’aiuto di Santa Veronica, protettrice anche dei tipografi,
caro Totonno, dovrai divenire pazzo, e risolvi la cosa, tutto ti sarà
consentito e tua moglie si guarderà bene dall’usarti violenza».
«Io sono 1’unico uomo al mondo - rispose Totonno con un fil di
voce - che non saprei simulare mai la pazzia, con tutta la
debolezza che mi ritrovo addosso mi scapperebbe da ridere... No,
non e cosa». «Non devi simulare la pazzia, Totonno caro, devi
diventare pazzo sul serio. Lo so che non è facile, ma a parte il
fatto che sei sulla strada, basta una spinta e ti verremo a trovare a
Capodichino o ad Aversa». Totonno Pallappese al solo udire la
parola spinta si afflosciò su di una sedia dietro il mio
banchetto d’accettazione: «Solo una spinta ci vuole e poi esco
dalla porta coi piedi avanti... No... io non discerno più,
scambio i testicoli di ciuccio per lampadine elettriche e prendo le sputazze
per monete d’argento. Sono un uomo finito, ormai. Mi sono
rassegnato, mi piange il cuore, però, pensando ai ventidue figli
miei, potenziali orfanelli».
Io postulavo la mia tesi e gli suggerii di coricarsi per qualche
giorno, onde guadagnare la giusta energia per mettere in atto l’espediente,
ma alla parola letto reagì con un mancamento. Non potevo usare
parole come: letto, duro, seno perché si sentiva male all’istante.
«Allora fai una cosa - insistevo - va’ in riva al mare e,
ravvivato dalla brezza, mettiti a pensare all’Universo. Quante sono
le galassie, Totonno? - L’uomo, o ciò che rimaneva d’esso,
scosse la testa. - Sono migliaia - ripresi - se non milioni,
o miliardi, chi sa. A che distanza da noi sta 1’ultima galassia
sperimeritata dall’uomo? - Totonno
Pallappese aveva dei lampi di luce negli occhi, poi delle contrazioni
maxillo facciali, quindi i primi sintomi frenopatici. - Milardi di
anni luce - aggiunsi. - Toto’ la chiave per diventare pazzo a
breve termine è questa. Abbandonati a queste elucubrazioni,
intensamente: cosa c’e oltre 1’Universo, ammesso che abbia una
fine, e oltre 1’oltre cosa c’e, Toto’, e oltre 1’oltre dell’oltre
cosa ci sarà mai?».
Questo episodio rivela un inedito. Nessuno sa che la barzelletta del
pazzo e della mazza di scopa, fu ispirata dal caso di Totonno
Pallappese, che da quando, quel giorno, l’accompagnai al pronto
soccorso, non s’è più ripreso. Ma non mi sento colpevole per
avergli insegnato il modo per imparare a volare, non già per
tener fede al luogo comune che la pazzia è più vicina alla verità,
o per avallare la tesi di Michel Foucault: Mai la psicologia potrà
dire sulla follia la verità, perché è la follia che detiene la
verità sulla psicologia, ma perché è meglio, tutto sommato, un
pazzo vivo che un iper-eterosessuale morto. Avrei voluto dire, però,
a Totonno, ma non feci in tempo, che avrebbe dovuto spogliare il suo
stato dall’elaborazione culturale dell’idea di pazzia, che
alimenta la stessa proprio con il timore diabolico esorcizzante che la
gente mostra nei confronti di essa e che si riallaccia sempre al
thanatos freudiano, quindi all’angoscia primaria dell’uomo. Avrei
voluto dirgli, antifreudianamente, che attraverso la paradossale
libertà della follia, senza, pero, l’angoscia culturale ad
essa connessa, aveva adoperato la fuga dal sesso e non la
sublimazione, per scongiurare l’angoscia
della morte.
Avrei ancora voluto dire a Totonno che anche la solitudine, l’emarginazione,
scevre da qualsivoglia elaborazione culturale angosciante, sono
tollerabili, anche se mai consigliabili, perché eludono il concetto
del sociale, quindi dell’amore come inverso della paura. Forse aveva
ragione il filosofo quando diceva: Nulla accade a un uomo che la
natura (e non la cultura) non l’abbia fatto capace di
sopportare.
Appena Totonno Pallappese comincio la spola tra le case di cura,
secondo la legge 180, la moglie prese i voti, ritornando alle origini
di quelle che erano state le cause dei suoi disturbi sessuali. Ma se i
familiari non avessero guardato con sospetto e timore Totonno, egli
non avrebbe preferito il covo uterino dell’ospedale per una famiglia
di spaventati, perché ancora immersi nell’ignoranza culturale
medioevale. Totonno, per dieci anni, ha puntato un asse di scopa verso
la Via Lattea all’alba e al vespero. Non ho mai capito se la sua
fosse pazzia autentica o scaltrezza napoletana. Quando alla fine gli
tolsi la scopa di mano per imitarlo, come tutti sapete mi rispose,
come vuole la barzelletta: «Sono anni che non vedo niente io, lui
se ne viene fresco fresco e vuole vedere».
LA CARTOTECNICA
Ai nostri tempi la cartotecnica si è scissa dalla
legatoria a causa della crescente domanda di materiale precostruito,
come buste, sacchetti, registri, rubriche, bloccame e schedame
prestampato, scatole, astucci, e un’infinità di altri prodotti
derivati della carta. Una volta la fabbricazione di buste e sacchetti
avveniva a mano in botteghe artigiane. Solo qualche macchina
semiautomatica contribuiva a snellire il lavoro di diecine di ragazze
adibite a questo compito. Oltre alle buste, si producevano manualmente
cartelline per atti, raccoglitori per documenti, custodie, quaderni,
ecc., questo sino a qualche decennio fa. La cartotecnica ha raggiunto
1’entità industriale odierna anche dietro 1’esigenza di una
società consumistica, che vuole selezionati e confezionati tutti i
prodotti merceologici. La cartotecnica legata al settore commerciale
produce astucci, involucri, sacchetti, tutti quei prodotti ottenuti
con la trasformazione di carta e cartone. Gli astucci fustellati di
cartoncino policromo prestampato vengono prodotti in misura notevole
per tutti i settori merceologici, specie in Italia, dove anche gli
alimenti devono far bella mostra di sé per trovare chi si interessi a
loro. Questo è uno dei motivi perché anche in Italia si fa tanto
abuso di medicinali.
Le industrie cartotecniche generalmente stampano in proprio i loro
prodotti. In alcuni casi, invece, la cartotecnica è abbinata ad un’officina
grafica il cui lavoro viene svolto in stretta collaborazione. Inoltre
vi sono ditte che concentrano il loro lavoro su di un solo settore
della cartotecnica, così abbiamo gli
astuccifici, i sacchettifici, gli scatolifici, ecc. I grossi complessi
industriali merceologici hanno in seno all’azienda tipografica la
cartotecnica, ed alimentano direttamente il settore confezionamento
dei loro prodotti. Non mi soffermo sui prestampati per ufficio, in
pratica la cancelleria prefabbricata perché esula dalla cartotecnica,
la quale si è inserita, invece, nel settore pubblicitario con la
produzione di oggettistica cartacea, quali i calendari, le agende, gli
elettrosaldati e tutti quei prodotti la dove vi è
la presenza di carta e cartone. Le macchine per la cartotecnica
sono tra le più svariate e numerose, come è facile
intuire, visto la vastità di prodotti che interessa il settore. Le
moderne macchine per la fabbricazione di buste in genere sono dei veri
mostri produttivi, che compiono il ciclo completo di lavoro. Alcune
macchine vengono progettate per la fabbricazione di un solo prodotto.
Ma la principale macchina della cartotecnica è la
fustellatrice.
Fustellare significa tagliare singolarmente in sequenza attraverso una
lama sagomata secondo la forma di un disegno. A differenza del taglio
lineare multiplo effettuato con il tagliacarte, che al massimo può
eseguire un taglio trilaterale, di un blocco di carta. La fustellatura
avviene per foglio singolo. Le fustellatrici in genere funzionano col
principio delle platine tipografiche, infatti io fustello con una di
queste macchine. Anche con le pianocilindriche di fabbricazione
tedesca e facile fustellare pure i formati grandi. Basta escludere i
rulli di forma e posizionare la fustella al posto dei caratteri
tipografici. All’atto dell’impressione il cartoncino viene
tagliato secondo la sagoma. La fustella ha l’aspetto di un clichè
tipografico dallo zoccolo di legno ed al posto del rilievo
zincografico emergono le lame taglienti. L’astuccio sagomato,
secondo la preventiva progettazione, viene spogliato dallo sfido di
contorno ed è pronto per divenire, con le pieghe, una scatola. Noi
siamo abituati sempre ad accartocciare gli astucci usati e buttarli
nella pattumiera, ma se proviamo ad aprirli con cautela, staccando
qualche eventuale lato incollato, avremo sotto gli occhi un cartoncino
disteso, sagomato soprattutto nei contorni, e noteremo che al centro
della fustella erano state inserite delle lame dette cordoni,
che solcano soltanto quei tratti la dove è destinata la piegatura.
Alcuni scatolifici producono solo astucci, altri, scatole di vario
genere, compresi quelli trasparenti in PVC o acetato, con o senza base
vellutata. Tal’altri sono specializzati per la produzione di
involucri o cassette di cartone ondulato, i quali hanno snellito e
reso pratica ogni tipo di spedizione. La cartotecnica avrebbe avuto
uno sviluppo maggiore se non ci fosse stato l’avvento della
plastica, che ha in parte sostituito carte trattate e cartone, nonché
molti materiali come, ad esempio, i manici dei timbri, tanto
per rimanere in tema di arti grafiche. La plastica si è inserita nel
settore cartotecnico per la produzione di rubriche telefoniche,
custodie, copertine di ogni genere, portatessere, cartelle per atti,
ecc. Prodotti che una volta venivano fabbricati rivestendo il cartone
con tele o con carte trattate per la legatoria.
LE INVENZIONI...CULTURALI
Pian pianino mi avvio alla conclusione di questo
viaggio con itinerario incerto e sregolato con voli pindarici,
elucubrazioni e la massima eterogeneità di argomentazioni, però,
misteriosamente connesse anche perché non ho compiuto nessuno sforzo
per le cuciture e la continuità. Mi rendo conto di aver sfiorato
argomenti che con le arti grafiche, sul piano pratico, avrebbero da
spartire poco meno che niente, questo apparentemente; ma se si
considera che la stampa tipografica, per cinque secoli, si è
asservita parzialmente al business, ma essenzialmente alla
letteratura, la quale è l’immagine speculare della ragione umana,
allora si penserà non solo che vi è un nesso con le argomentazioni,
ma si determinerà che l’arte applicata costituisce il braccio, e la
cultura la mente dell’uomo. A prescindere dal sentore sincretico
dell’affermazione che può cadere accomodante, una cosa è certa,
che le arti grafiche rappresentano la concretizzazione più antica del
pensiero umano, la materializzazione delle idee e il maggiore
strumento di diffusione della cultura, la quale, sotto certi aspetti,
è un mostro di traslazione più o meno astratta della realtà,
ammesso che la realtà possa concretizzarsi nella dimensione umana
della ragione, mai appagata sul mistero della vita e della morte.
La speculazione di pensiero ha messo su gigantesche impalcature
inventive che, come torri babeliche, si propongono da secoli se non di
risolvere, almeno di dare una dimensione razionale a ciò che si trova
al di là della soglia della ragione umana. L’uomo non si
rassegnerà mai della sua impotenza rispetto al mistero. Le più
grosse invenzioni dell’uomo, dunque, sono proprio in seno alla
cultura. Al di là della religione queste cattedrali assiomatiche si
sono così incancrenite nei secoli, che
la loro essenza è entrata a far parte delle cellule e dei geni.
L’incesto, ad esempio, era una cosa aberrante anche per Freud, come
lo è per tutte le persone civili, come noi tutti; una più audace
riflessione, però, ci chiarisce che esso, a prescindere dalle Sacre
Scritture, è un tabù che fa perno anche sui problemi concezionali
causati dai rapporti tra consanguinei, cosa che non inibisce gli
animali non dotati di ragione e di cultura se non quella meramente
istintuale, materializzata solo nel DNA.. Ma l’angoscia dell’uomo,
legata al timore di una probabile assenza salvifica, è strettamente
connessa alle pulsioni inconsce gia dalla “sessualità prenatale”
lubrico-uterina e post-natale epidermico-mucotica del complesso
rapporto mamma-neonato. Fisicità naturali ed innocenti che, elaborate
e censurate poi dalla cultura, provocano negli immaturi, cioè i non
domati, i più devastanti sensi di colpa che la sfera emotiva dell’uomo
possa incamerare e sfociano inevitabilmente nell’unico drenaggio
dell’angoscia, perché richiamano costantemente l’idea dell’inferno.
Le sospettate o coatte idee incestuose mai chiaramente manifeste
restano quasi sempre istintuali e mai chiare pur se morbose, e
deprimenti perché aberranti; ma nella quasi totalità dei casi i
sensi di colpa relativi ad idee incestuose inesplicabili perché
latenti, legate all’età evolutiva, non lasciano rivelare la loro
natura in superficie e si manifestano come un’angoscia indefinita,
precludendo ogni tentativo di rimozione.
Tempi duri per sublimare arti e professioni cosiddette nobili, o
rifugiarsi nell’ascetismo, nella poesia, che quasi sempre riflettono
l’infermità esistenziale. Il lavoro, vasto terreno di sublimazioni
della massa, atto a scongiurare la problematica esistenziale
approfondita, viene compromesso dall’alternativa robotica. Il lavoro
a misura d’uomo, spersonalizzato sul parametro del potere economico,
assorbe l’energia mentale al popolo onde garantire il supporto per
reggere i compromessi psichici con la realtà esterna.
Altre invenzioni culturali sono quelle relative alle idee della
bellezza e della ricchezza, che condizionano l’esistenza di miliardi
di persone, pur appartenenti alla priorità numerica. Se si tien conto
che la massa planetaria è in netta maggioranza non bella e non ricca,
non è vero, allora, che sempre la maggioranza vince, forse non vince
quasi mai. Ma il bello e il successo sono un potere caduco, e oltre a
ledere i brutti e i poveri, finisce, in fondo, col danneggiare i
propri detentori, che, se non compiono sforzi sostenuti onde evitare
il decadimento, finiscono col cadere in un’angoscia maggiore. Diceva
Daniel Mussy: La bruttezza ha un vantaggio sulla bellezza, dura per
sempre. Io aggiungo pure la povertà.
Un’altra elaborazione culturale di un’idea, nel maschio, e il
concetto dell’eroe, molto diffuso nella terra vesuviana, portato su
nel tempo dai lazzaroni prima e dai malavitosi loro discendenti, dopo,
si rifà ai moduli. classici della letteratura romanza e provenzale.
Concetto esportato anche nel Nuovo Mondo, dove si può attingere dalla
letteratura western. Oggi, grazie a Dio, il concetto dell’eroe e
stato rivisitato in chiave psicologica. Gia i napoletani meno
incoscienti, non codardi, beninteso, hanno sempre detto: “Il
miglior guappo e quello che torna a casa”. L’eroe è tale solo
se inconsapevole. Solo un soggetto condizionato dall’opinione altrui
e dotato di una buona dose di incoscienza rischia la vita per un
ideale le cui basi perdono acqua da tutte le parti. Non è vero che l’eroe
non si ama, egli trabocca di amor proprio a tal punto da sfidare la
morte, quasi sempre convinto di cavarsela perché obnubilato dall’orgoglio;
ma da una confusa valutazione di se stesso, perché ignora la propria
potenzialità umana se non nella misura dell’irruenza e dell’irrazionalità.
Un uomo equilibrato, legato ai mille interessi che la vita gli ha
proposto non rischia di morire solo per tener fede all’elaborazione
culturale di un’idea. Diceva Pirandello: E’ più facile essere
un eroe che un galantuomo, eroe si può essere una volta tanto,
galantuomo si dev’essere ogni giorno. Nella cintura vesuviana,
come in tutto il sud, il concetto dell’eroe e anche strettamente
connesso alla virilità maschile.
Alle donne, per contro, vengono concesse tutte le debolezze e le
paure, più che in ogni altra parte del globo. Anzi, il coraggio e l’intraprendenza
in una donna sono sintomi di mascolinità. Il maschio vesuviano che
non si difende dalle minacce ingiuriose o, semplicemente dal dileggio
sente non solo di perdere la dignità, ma vede compromessa la propria
virilità sedicente ed ostentata sin dall’infanzia come per
scongiurare ogni sospetto. L’obnubilato subito annulla l’istinto
di conservazione, nonché affetti, averi, timori di assenza salvifica
e si precipita come un kamikaze sulla nave dell’incoscienza. L’atteggiamento
è modificato, però, nei casi di vis-a-vis, questo dimostra
come gli occhi del mondo e l’opinione altrui influiscano sulla
nostra esistenza. Anche, soprattutto, nella corsa al successo tradotta
in potere-danaro. Non desidero far passare per caratteriali delle
condizioni mentali presenti in molti gruppi sociali, voglio solo
sottolinearne la frequenza, a costo di essere tacciato, dai miei cari
circumvesuviani, di psicopatia, bruttezza, codardia, che
giustificherebbero il movente delle considerazioni esposte.
I TIMBRI
L’ultima nota tecnica di questo lavoro riguarda
la fabbricazione di prodotti abbastanza a margine delle arti grafiche,
ma che ne assumono molte peculiarità. Non tutte le botteghe artigiane
si cimentano nella fabbricazione di timbri. Il motivo del dissenso
è poliedrico. Alla base vige il
convincimento che la produzione di timbri non eseguita a tempo pieno
rappresenti una perdita di tempo prezioso da sottrarre ad operazioni
più remunerative. Intanto il sistema classico per la produzione dei
timbri ne prevede una quantità minima per giustificare la convenienza
economica in relazione al lavoro da svolgere, che resta quasi immutato
rispetto ad un numero esiguo o nutrito di timbri da realizzare,
perché le fasi di lavorazione rimangono
invariate, indipendentemente, appunto, dalla quantità di timbri. La
composizione linotipica non fa pesare nemmeno alla mia persona il
numero delle righe destinate alla trasformazione in gomma. Bisogna
confessare che noi altri fabbricanti di timbri ci strofiniamo le palme
delle mani in vista di leggi e riforme di natura fiscale, perché in
quelle occasioni sforniamo, è proprio il caso di dire, centinaia di
nuovi timbri. A sollevare la precarietà stagnante delle botteghe
artigiane di provincia è proprio tale
mago della pioggia, concretizzato nei provvedimenti legislativi,
riforme fiscali o sanitarie, consultazioni elettorali, ecc. In questi
casi la bottega artigiana concentra l’attenzione sulle richieste del
momento, vincendo un po’ la precaria situazione delle commesse
legata ad una domanda sempre più labile, riscattando, infine, anche
se per pochi giorni da leone, la dignità professionale, compromessa
dalla concorrenza nei tempi di magra.
Un altro momento buono, per le botteghe artigiane e la
primavera. Almeno nella mia Torre del Greco, marzo è
provvidenziale per i tipografi. Gli sposi, sortiti dalle loro
tane compaiono, sebbene incerti, sull’uscio della bottega, già
spalancato al primo tepore di primavera. Quando i colombi sono
accompagnati dai genitori, allora la scelta delle partecipazioni si
tramuta in una vera farsa. E’ oltremodo malagevole conciliare le
parti. Si troverà la mamma di lei, professoressa di lettere, che
esigerà il carattere stile inglese, mentre la genitrice di lui
laureata in informatica, preferirà il carattere byte dei display. In
alcuni casi la controversia origina una vera e propria guerra fredda.
Le suocere, indispettite, ragionano oramai per partito preso. Tutto
ciò che va bene ad una fazione, inevitabilmente va male all’altra.
Immaginate dieci persone agitate, accalcate in quei due metri quadrati
di pavimento che dispongo all’ingresso, innanzi al banchetto di
accettazione. In breve si odono mugugnii e ciancicherie. Non è raro
che i Montecchi e i Capuleti comincino anche a trascendere
verbalmente; in qualche raro caso si è verificata una vera e propria
rissa, in qualche caso cruenta, dopo di che i colombelli, per quanto
mi risulta, non si sono mai più uniti in matrimonio.
I timbri e le targhe provengono quasi sempre dalla stessa bottega
artigiana, almeno nel Napoletano, sebbene siano prodotti
rispettivamente con attrezzature per nulla attinenti tra loro. Ma come
tutti i sistemi di lavorazione pure i timbri e le targhe sono
indirizzati verso processi di fabbricazione trasformati o
diversificati. I timbri, ad esempio, sono stati sempre ottenuti con la
realizzazione di una copia in gomma della composizione tipografica, in
pratica il processo stereotipico ampiamente descritto in precedenza.
La composizione tipografica, stretta ed impugnata, è essa stessa
timbrabile, pur se rigida, analogamente il cliché di zinco. Se
montiamo su di un’impugnatura una piccola composizione tipografica
od un cliché abbiamo ottenuto un rudimentale timbro di metallo come
quelli che si usano in banca o alla posta, destinati a durare nel
tempo. I timbri di metallo richiedono, però, un piano morbido per
ottenere una timbratura uniforme. La cosa si ovvia con l’utilizzo di
un rettangolo di feltro o di gomma disposto sotto il foglio da
timbrare. Questo accorgimento permette di ammortizzare la pressione
irregolare che esercita la mano dell’uomo, in più consente la
leggera impressione, caratteristica della rilievografia. Non
sempre, però, si dispone di feltro o gomma, quindi si pensò di
invertire i fattori, si lasciò la scrivania dura e si rese morbido il
timbro.
Se i cliché, in passato, anziché di zinco l’avessero potuti
realizzare in gomma a copiatura vulcanizzata dei timbri da una
composizione tipografica, non sarebbe sussistita. Anche se in ritardo,
oggi questo è ccaduto. Con le sostanze fotopolimeriche morbide
èpossibile fabbricare timbri di ogni genere, compreso quelli
figurativi, la dove, col procedimento tradizionale, necessita il
cliché di zinco. La pellicola negativa di ciò che deve divenire
timbro, la si mette a perfetto contatto con la lastra fotopolimerica
morbida presensibilizzata, (oggi in resina liquida che si solidifica
durante il processo), indi la si espone alla luce attinica
ultravioletta. Dopo pochi minuti la lastra viene immersa in acqua
tiepida per essere spazzolata fino a che le parti non colpite dalla
luce, ancora solubili si sciolgano, lasciando affiorare solo il
rilievo delle lettere o dei disegni costituenti i vari timbri, da
tagliare e montare sui manici.
LE TARGHE
L’incisione è una tecnica scrittoria molto
antica. Lo sviluppo del sistema, però, si è avuto con l’avanzare
della meccanica nei secoli scorsi. Furono così ideati e realizzati
dei pantografi a copiare, completamente evoluti con l’avvento, poi,
dell’energia elettrica, quando queste macchine furono motorizzate.
Le targhe, ancora oggi, vengono in parte incise con pantografi
manuali, e la copiatura da matrici sistematiche, cioè piastrine di
metallo su cui sono stati preventivamente incisi i solchi delle varie
lettere dell’alfabeto. I pantografi semiautomatici, automatici fino
ai modernissimi modelli elettronici interfacciati al computer, che non
si sono ancoradiffusi in maniera capillare.
Col sistema tradizionale le lettere-matrici, generalmente di ottone,
vengono disposte nel compositoio secondo le diciture da incidere. Il
compositoio viene fissato al pantografo sotto il dito guida. Tutti
sappiamo cos’è un pantografo da disegno, quindi è superfluo
spiegarne il principio di quello per incidere che è pressoché uguale
solo nel principio. Quello per incisione è realizzato in lega, e le
sue parti mobili vengono montate con una precisione meccanica che
rispetta il millesimo di millimetro, ciò, innanzitutto, per garantire
la regolarità dei solchi eseguiti dalla fresa. Il dito guida provvede
a scorrere nei solchi delle matrici disposte nel compositoio. Dall’altro
lato la fresa compie gli stessi identici movimenti penetrando nel
supporto da incidere con un sistema di discesa a regolazione
micrometrica. In più vi è la possibilità di ridurre (qualche
macchina, come quella che adoperi io, consente pure l’ingrandimento)
la dimensione delle scritte composte, attraverso, come è noto, la
regolazione dei bracci meccanici, servendosi delle scale graduate.
Le targhe comuni sono realizzate in ottone, alluminio, plexiglas, ecc.
Alcune sono guarnite da cornici fuse prefabbricate in serie, altre
sono trasformate in ovali convessi, in rettangoli con bordo, ecc. I
caratteri sono limitati rispetto ad un campionario tipografico. Oltre
le comuni serie di bastone condensato, normale od espanso, gli
incisori napoletani dispongono appena dello stile inglese e del
gotico. Caratteri speciali o disegni vengono realizzati attraverso la
copiatura da un clichè tipografico negativo che si adatta al dito
guida, cosi pure per realizzare disegni.
La fresa-pantografo interfacciata al computer non ha nessuna
limitazione grafica e consente di riprodurre sui supporti qualsiasi
elemento grafico, nessuno escluso, sempre, chiaramente nella
dimensione del pluri-monocromatico.
Le targhe di plexiglas sono le più diffuse poiché questa materia non
richiede manutenzione dall’intestatario. L’incisione avviene a
rovescio, nella parte posteriore della targa vista di prospetto. L’ottone
ed altri metalli, benché trattati con vernici protettive, prima o poi
vanno soggetti ad ossidazione, quindi richiedono se non rispazzolature,
almeno lucidature manuali con i comuni prodotti adeguati. La
realizzazione di una targa non è un lavoro da sottovalutare poiché,
come tutti i lavori grafici, come dire, di presentazione, riflette la
personalità, il gusto, la professionalità del suo intestatario.
Coloro che realizzano targhe dovrebbero essere in possesso delle
medesime cognizioni grafiche di un buon tipografo: senso delle
proporzioni, gusto, grazia, equilibrio, in una parola: l’euritmia.
Ma ciò non accade sempre. Molte targhe vengono esposte liberamente,
nella terra vesuviana, anche quando rappresentano degli aborti di
composizione grafica. Infine, per concludere, bisogna dire che molte
targhe, specie quelle di grande formato, o quelle prodotte in serie,
vengono realizzate in serigrafia, con ottimi risultati, anche perché
si possono ottenere maggiori finezze di dettaglio, più combinazioni
di colori, e la realizzazione di immagini. L’applicazione di
prodotti ad intaglio si è rivelata utile per targhe di grande
dimensioni, anche se si prende in prestito una tecnica che è
specifica per le insegne.
IL LINGUAGGIO OSCURO NELLA LETTERATURA
E così, pagina oggi, pagina domani, tra un avviso
di lutto ed una partecipazione di nozze, sono arrivato al termine di
questo particolare zibaldone. Tenterò ancora l’ultima divagazione,
anche se gli argomenti umanitari esposti con linguaggi moderni
finiscono con l’apparire freddi ed asettici anch’essi.
Soffermiamoci, appunto, sui linguaggi settoriali, i quali
rappresentano un problema per gli stessi linotipisti o fotocompositori,
un po’ come le lingue straniere, e ripetiamo pure la massima di Rene
Clah: “Diffida dell’uomo e della sua mania di fare nodi”.
Una delle tante cause che hanno riallontanato l’uomo medio dalla
lettura in genere, creando ostacoli allo sviluppo delle Arti grafiche,
è la deliberata ricerca del gergo complicato di molti scrittori sia
di testi letterari che tecnici, al di là della prosa sperimentale,
della poesia ermetica e della stessa critica letteraria, la quale, a
mio modestissimo avviso, serve solo, nelle prefazioni di libri delle
collane economiche, a scoraggiare in primis l’uomo medio dal
proseguimento della lettura del testo, per la massiccia macchinosità
del linguaggio con articolazioni concettuali che definire complesse,
intrecciate, astruse ed arzigogolate, e come dire facile 1’arabo...
(Senza nulla togliere alla inconfutabile maestria
artistico-intellettiva, se pur elitaria). Sara forse l’antica
necessita di apparire dotti a tutti i costi, elevandosi a ranghi
superiori atraverso una scrittura talmente adulta, che per
essere compresa si dovrebbe stare dopo la vita, dove tutti gli enigmi
vengono chiariti, almeno presumibilmente.
Spesso ci si trova di fronte ad una scrittura che va al di là dell’aulicità
delle dottrine regolate da schemi comunicativi particolari. Ciò
compromette, senza dubbio, la chiarezza e l’intellegibilità. Ma il
virtuosismo rasenta il sortilegio ed ammalia sé per primi, tanto che
pure il sottoscritto, modesto bottegaio tipografo dal colorito
olivastro, con gli abiti unti e sdruciti, risente il fascino arcano e
ne cade nella malia, incapace di sottrarsene come Ulisse dal coro
delle sirene, formulando dottrinarismi e astrusità anche in questo
libro per il desiderio irriducibile dell’uomo, eterno bambino, dell’ammirazione,
di una sorta di potere che gli altri non hanno. Ma talvolta certe
pagine indovinate, anche se sature di tecnica anche
contrapposte a pregnanza poetica o a gradevolezza prosastica provocano
musicalità ed esaltazione all’autore stesso che vspera di
trasmettere queste senzazioni negli altri, spesso in buona fede. Cert’è
che la verbosità pomposa del linguaggio, l’uso continuato di
neologismi e termini rari sfociano inevitabilmente nell’oscurità
concettuale, a prescindere dalla dialettica o dall’ermetismo. E’
peggio che dottrinalizzare il testo con numerose locuzioni latine e
proposizioni di lingua straniera, perché ciò, almeno, è
lessicamente traducibile.
Questa necessita di oscurare il linguaggio nasce, in altri casi,
invece, probabilmente da un bisogno di sopraffazione mestierante, che
utilizza tecniche e trucchi settoriali ad uso egemonico ed
intimidatorio. Si tratta, d’altra parte di espedienti antichi,
adoperati gia da scribi e sacerdoti, che articolavano costrutti
ambigui conformi al mistero ed al proibito, per incutere stupore,
timore e soprattutto ammirazione. Come se non bastasse, l’italiano d’oggi
è una lingua anche purgata dall’invasione della terminologia
angloamericana e dagli stranierismi europei, nonché dalla
proliferazione di sempre nuovi termini scientifici, non solo, ma dallo
sviluppo camaleontico del gergo giovanile. Alcune parole assumono
significati diversi non già nell’arco di qualche decennio, ma di
appena un biennio o meno.
Pasolini già negli anni sessanta diceva che il nostro era diventato
un italiano tecnocratico e strùmentalizzato, a prescindere,
chiaramente, dalla sperimentazione del linguaggio gergale della sua
dilogia che rimaneva fine a se stesso. Così leggiamo:
cosificare e cosalizzare per: trattare come una cosa;
gambizzare per: ferire alle gambe; invarianza per:
costanza; lupara bianca vuol dire omicidio con volatilizzazione
di cadavere; mainframe: grande calcolatore; Nientologo e tattologo
come: pseudo onniscente; palista: chi possiede un televisore col
sistema PAL; picista: iscritto al P.C.I.; pule: poliziotto, ecc. ecc.
Invadono gli stranierismi: medicult: cultura media; eskimo:
giaccone tipo eschimese; pop singer: cantante popolare; kitsch:
cattivo gusto; strech: minigonna elasticizzata; comics: fumetti; dream
car: automobile di sogno, ecc. ecc.
Queste cause, gli audiovisivi, fiction, ecc., hanno dirottato le Arti
Grefiche verso il commerciale, hanno contribuito ad abbassare il già
scarso interesse degli italiani per la lettura, che non è più
stimolatrice della fantasia, ma provocatrice di sforzi interpretativi
infruttuosi risolvibili solo con l’alternativa di avere più tempo e
pazienza per aggiornamenti settoriali e lessicali. Tempo e pazienza,
ciò che l’uomo moderno non ritroverà forse mai più.
Non sempre ciò che viene dopo è
progresso.
«Del romanzo storico» - Manzoni
CONCLUSIONE
La lunga chiacchierata a senso unico del vostro
modesto bottegaio tipografo si conclude con questi ultimi righi,
composti col piombo fuso ideato da nonno Gutenberg. Riconosco che ha
influito sul testo pure la componente nostalgica della mia trascorsa
età giovanile, e la visione, in chiave psicologica, del caratteriale
vesuviano, da un’ottica, chiaramente, soggettiva ed opinabile. Devo,
a proposito, aggiungere che, se pur vi è sentore di dissenso o aria
di polemica, tutte le considerazioni esposte sono state formulate in
buona fede, perché, anche se in maniera desueta ed un tantino
apprensiva, non ancora panica, celano una incommensurabile
dichiarazione d’amore al mio popolo, che mi dispiace veder mutare
sotto le pressioni negative della società.
Gia s’avverte l’intolleranza massificata verso la già, per certi
versi, nociva civilizzazione, per dirla col padre della psicoanalisi.
Questo non toglie, dunque, che al di là dell’oggettivo si può
riscontrare lungo il lavoro una sorta di risentimento personale
caratteriale (oltre le eventuali discrepanze e contraddizioni,
proprie, comunque dell’uomo comune, fuori dai partitopresismi,
caduco d’incertezze e dubbi), un desiderio vago, cioè, di rivalsa
inconscia, perché a tutti gli uomini la maturità intacca il primo
candore puerile, ed ognuno sente il bisogno di riscattare questo torto
ricevuto da tutti e da nessuno. Bisogna tener presente che, tutto
sommato, a prescindere dalla minoranza dei popoli ancora oppressi, le
masse, oggi, sono governate in maniera, se non ottimale, senza dubbio
tollerabile, facendo perno, in linea di massima, sulla grande
conquista planetaria in materia di diritti dell’uomo. La crisi,
secondo me, non è da ricercare nelle istituzioni politiche, religiose
o culturali in genere, che, malgrado ingerenze di varia natura,
tentano di fare del loro meglio, anche se apparentemente, in modo
tendenzialmente dissacratorio, si è portati a pensare il contrario;
ma nell’individuo, oggi più che mai ossessionato dall’intensificarsi
dell’ansia relativa all’insoluto esistenziale. Caratteriale che
induce all’isolamento affettivo non solo nel contesto urbano, ma
nelle mura domestiche, Ogni individuo che attraversa questo stadio
costituisce un virus, che insieme agli altri, quando non si riscontra
il crollo individuale, rappresentano la cancrena, altrimenti detta
nevrosi di massa, senza voler ancora pensare alla psicosi collettiva.
Questo fenomeno moderno, quando si supera la politica dello struzzo,
è misurabile attraverso le tonnellate di psicofarmaci venduti nel
mondo, senza contare la droga e l’alcool. Le statistiche, a
riguardo, fanno rabbrividire. Una rancida massima dice: “Tutto si
compra col danaro, l’amore solo con l’amore”. Non se ne
coglie retorica quando si parte dal presupposto che l’amore e l’inverso
della paura e suo scongiuro, oggi più che mai, nella storia dell’umanità.
Durante i cinque secoli di stampa a caratteri mobili, numerosi sistemi
paralleli all’invenzione gutenberghiana sono stati sperimentati e
messi in opera per coesistere, perché ciascuno dava la risposta ad un’esigenza
particolare, ad un’utilizzazione specifica che prescindeva o
pertingeva l’arte scrittoria; ma dopo cinque secoli molte tecniche,
ed in ispecial modo quella tipografica propriamente detta, diventano,
insieme alle loro attrezzature, argomento storiografico e materia da
museo, ad appena pochi decenni dal loro massimo perfezionamento. La
stampa a caratteri mobili, legata da sempre ad opere letterarie, vuoi
teologiche, filosofiche, poetiche, narrative, scientifiche e
giornalistiche, a mano a mano si sviluppava, risentendo l’espansione
demografica e l’alfabetizzazione, favorendo l’evoluzione dell’editoria.
Il progresso industriale legato al consumismo edonistico e quello
scientifico del XX secolo hanno dirottato l’indirizzo dell’
arte nera, dall’alfabeto alle cromotipie tetrabasilari relative
ai prodotti commerciali, moltiplicando a dismisura i supporti di
informazione visiva, dalla pubblicità rotocalcografica a quella da
contenimento, come astucci, flaconi, carta da imballo, sacchetti,
scotch adesivo e via discorrendo. La scriptura artificialiter
si è irrimediabilmente diversificata adattandosi alle nuove
tecnologie ed ai moderni prodotti oggettuali da decorare, per non
soccombere sotto la crisi editoriale e i concorrenti mass-media di
natura elettronica. Nel 1450 Gutenberg inventò la stampa a
caratteri mobili destinata a rendere veloce non già la formazione
delle pagine, ma la copiatura di esse una volta ultimata. Sistema
prioritario per cinque secoli, coadiuvato da tecniche parallele per la
riproduzione veloce di immagini, la vecchia xilografia e la calcografia,
le cui preparazioni delle matrici, compreso il sistema gutemberghiano,
risultavano procedimenti lenti e laboriosi.
Nel secolo scorso i caratteri mobili venivano meccanizzati, le
macchine tipografiche godevano della totale automatizzazione,
migliorate dopo l’avvento dell’energia elettrica. La scoperta del
clichè tipografico, infine, costituiva l’ultima pietra miliare
di una strada che sarà subito devastata dall’elaborazione di
due vecchie tecniche in letargo da secoli, la litografia,
perfezionata in stampa offset, e la calcografia,
valorizzata in stampa rotocalco. La stampa offset, più del
rotocalco, grazie alla massiccia varietà d’impiego, rappresenta,
oggi, grazie pure all’elettronica ed all’informatica, la vera
rivoluziane di tutti i sistemi, universalmente accettata quale
procedimento planografico duttile, poliedrico e soprattutto veloce,
conforme, cioè, alle esigenze, non alle necessita, di una società
che corre per il solo scopo di scoprire, in fondo, chi muore prima e
male; non guasta ripeterlo.
Le osservanze pratiche della stampa offset sono la
climatizzazione degli ambienti, la stabilizzazione dell’energia
elettrica, la costanza e la buona conservazione delle materie prime
per garantire, non già la buona riuscita delle cure delle infermità,
come negli ospedali, dove si rispettano grosso modo le stesse norme,
ma la spersonalizzazione collettiva, il disagio psichico, tradotti,
nella fattispecie, nella standardizzazione dei risultati grafici, a
svantaggio del gratificante lavoro a misura d’uomo, dove è prevista
la partecipazione emotiva diretta, epidermica, emicranica
post-sollievo, psicologicamente salutare, a mo’ di Petrolini, che
portava le scarpe strette per trovare ristoro quando se le toglieva;
lavoro umano perché non ingerito dagli asettici cervelli elettronici.
Le macchine fotoriproduttrici devono essere esenti da vibrazioni e dal
benché minimo pulviscolo, non parliamo dell’umidità... Questi sono
i cervelli artificiali, delicati e vulnerabili come gli ammalati
gravi, perciò possono perdere la testa e farci del male. Risentono
urti e manipolazioni energiche. Ricordo, a proposito, le revisioni
fatte a queste macchine, nel Napoletano, dopo il terremoto dell’80.
I locali del computer (la fotocomposizione) devono essere al riparo
dalle variazioni termiche, dai vapori chimici, dai campi magnetici. Mia
nonna, buonanima, aveva più salute addosso, a ottantacinque anni.
Bisogna riconoscere, però, che la vegliarda non consentiva la
riproduzione elettronica delle immagini, con la possibilità di
eseguire selezioni a tono continuo o retinate, mediante retini a
contatto o retinatura elettronica. La poveretta, a mala pena, negli
ultimi anni, riusciva a discernere il Vesuvio dal pennacchio, da una
vecchia cartolina, ma il suo cuore ancora vibrava.
I fotoapparecchi laser, senza ombra di dubbio privi di cuore,
consentono tutta la gamma di riproduzioni dell’immagine in negativo
o in positivo. I documenti possono essere memorizzati e archiviati su
supporto magnetico, utilizzati subito o trasmessi a distanza. I
densitometri, o sistemi di controllo elettronico, eliminano ogni
possibilità di errore sia nei lavori a tratto che nelle policromie.
Gli assemblaggi, spesso, vengono eseguiti con l’ausilio di schemi
anche prefissati in maniera da consentire la massima celerità del
lavoro, a svantaggio della salute mentale. La cibernetica
oggettualmente concretizzata trionfa vittoriosa, il cervello umano
già viene parzialmente sostituito con successo, e superato in certe
sue potenzialità, infatti le macchine non sbagliano quasi mai,
intanto non soffrono, l’angoscia non rientra nel loro ordine d’idee.
L’uomo le invidia per questo, vorrà emularle. Non è lontano il
giorno, probabilmente, in cui il tipografo verrà digitalizzato
perché sarà una macchina egli stesso, un robot dagli occhi vitrei,
la voce metallica e cadenzata, e senza cuore.
Uomo, tu non servi più, altri uomini fabbricano quanti ne vuoi di te,
meno costosi, poco esigenti in maniera di diritti. Uomo comune, ti
mettono da parte, diventi improduttivo, inutile. Ah, povero Marx,
quale utopia la tua! Poveri, bottegai tipografi, quelli onesti,
irriducibili e incorruttibili, pressati in Campania da tutte le
parti... Sopravviveranno col loro lavoro a misura d’uomo,
trasognanti nella fragranza della poesia del piombo fuso, oltre che
col proverbiale nutrimento di aria, sole e canzoni? Care, vecchie,
fuligginose tipografie artigiane, addio! Non mi dispiace di chiudere
in retorica. Le cose che sanno di latte materno, di corse nei prati,
di candore ed onestà non sono esprimibili con linguaggi moderni,
artificiosi, istrionici e fallaci.
Care botteghe disperse nelle viottole barrocciabili delle contrade
rurali vesuviane, o negli anfratti oleografici dei centri storici, nel
labirinto dei dedali della provincia prischiana; neri fondachi dell’arte
nera, nei quartieri bassi dei paesini campani più antichi. Care
botteghe adattate negli stambugi nascosti dei vicoli mai risanati
della Napoli povera di delbalziana memoria, o nei tuguri addossati
nelle traverse dei numerosi centri urbani abbarbicati alle pendici del
Vesuvio, o quelli che vanno da Capo Miseno alla Punta della
Campanella, o altri ancora dell’entroterra fino al Casertano, all’Avellinese
e al Beneventano, addio!
Tipografie romantiche, prestigiose gemme nere della cultura
partenopea, là nei sottoscala, lungo i chiassuoli vocianti, non
carrabili, nei cortili, sull’aia, sotto balaustre o balconi
addobbati di garofani e rose, tra portoncini, scalette e portelle,
negli androni infossati sotto spicchi di cielo azzurro e bucato
sciorinato al sole. Addio ! Le tecnologie industriali da
multinazionale vi braccano, come i nazisti i poveri ebrei e,
afferrate, vi sopprimono, come cose inutili, anzi dannose.
Care, vetuste, cupe botteghe tipografiche, con buona pace di Senefelder,
dove i camici neri seraiani digrumavano la colazione meridiana con
nient’altro companatico che peperoni arrostiti e cime di rapa,
sbirciando dall’uscio della bottega con quel sorriso d’intesa tra
colleghi, pacato ed ebete, le compaesane sulla strada, dagli occhi
svampiti e il colorito roseo, sempre copiose di forme. Più in là la
gaiezza puerile degli scugnizzi, eredi ideali dei lazzaroni, sempre
alla ricerca di frivolezze e nullagini per essere felici, come i
policromi rifili del tagliacarte, da utilizzare a mo’ di coriandoli
in quella lunga carnevalata che è la loro esuberante giovinezza.
Il tipografo artigiano vecchia maniera muore con la Serao, con Marotta,
con la Napoli oleografica, sostituita dalla nuova cartografia urbana
di una città ed una provincia irriconoscibili, con i falansteri della
167 di Secondigliano, e di tante Cattedrali nel deserto dell’area
campana; con gli agglomerati caotici, densissimi di popolazione,
urbanisticamente irrespirabili, automobilisticamente infernali della
provincia mai più addormentata; con l’ultimo baluardo
dell’europeizzazione vesuviana, (il riferimento non riguarda l’Europa
unita di fine secolo. N.d.r.) il Centro Direzionale che s’erge
turrito e glaciale nella babele dei giorni nostri. Intanto anche l’industria
tipografica robotica impera, e spersonalizza!
E’ destino che il popolo, altro che sovrano, in ogni epoca debba
subire nuovi malesseri ? Il benessere economico, la corsa ossessiva
per accaparrarsi la fetta di potere suggerisce l’illusione di una
migliore qualità della vita, edonistica, forse, ma al di la dell’etica
e dei sentimentalismi romantici e della morale di stampo religioso, il
vero benessere, la salute mentale, quale società, quale reame, quale
cultura l’ha mai garantita o la garantirà mai, ammesso che questo
sia di loro pertinenza.
Il domani, infatti, viene deciso anche sulle nostre ginocchie di
madri, dal nostro seno che nutre, dalla nostra capacità di
sconfiggere la paura evitando, spesso, d’amarci nei figli e non
credere di amarli, come diceva Nietzsche. Possibile che l’uomo non
trovi una strada finalmente idonea per liberarsi dai suoi miraggi di
salvezza atti a scardinare i timori del suo insoluto esistenziale, con
reazioni difensive diversificate e contrapposte? Nonno Gutenberg, tu
che sei nel cosiddetto mondo della verità, illumina l’umanità
in questo senso, scagiona, per dirla coi settari, almeno i tuoi fedeli
successori, noi tipografi del piombo fuso. Come? Con il danaro,
ingenuo di un teutonico. Mandaci una quaterna ciascuno la settimana,
diverremo una forza, vedrai. Rimanderemo i computer in Giappone, e
rifaremo Napoli l’antica fetta di giardino del mondo. Useremo le
stesse armi, il denaro contante. Vinceremo, vedrai. Se occorre il
danaro, molto danaro, per ritornare un popolo d’amore, lo troveremo,
come ai tempi dei riscatti baronali. Mandaci le quaterne, vedrai…
S’e fatto tardi, sono un po’ stanco, le palpebre si baciano
ripetutamente ed ostacolano la visuale della tastiera. Il piombo è
finito nel crogiolo. Fuori imperversa una procella. Quasi mi appoggio
alla Linotype e mi addormento, ma è maniacale, mi ricorda Quasimodo
alla fine del Notre Dame cinematografico. Ah, ecco, ora so da
dove insorge la tristezza. Intanto scusami, nonno Gutenberg se ho
sfruttato la tua grande scoperta non solo per campare, ma
questa volta per esternare quasi arbitrariamente opinioni e gridi di
speranza, nella consapevolezza che, in questo mondo di ominidi
folleggianti, vi sono ancora milioni di persone a cui non viene dato
nemmeno il diritto di rantolare: “Mi lasciano morire”, o
peggio, “mi uccidono”. Questi autentici gridi disperati,
legati a tutti i tipi di morte umana, comprese le condanne a vivere,
vengono accolte dalla stampa essenzialmente per motivi di canard.
Io mi vergogno nei confronti di questa gente che non può lasciar
leggere nemmeno una parola delle loro legittime rimostranze. Io mi
vergogno di aver detto tanto e loro nulla, mi vergogno pure di
appartenere alla stessa specie di quella minoranza dannata che non
già solo tappa loro la bocca, ma, quale muro di gomma, fa conto che
non ce l’abbiano.
A margine del lavoro è doverosa una precisazione. Ricorre nel testo
il tema dell’angoscia esistenziale non gia relativo all’Eros-Thanatos,
ma all’interrogativo primario di finibilità umana in stretta
relazione all’elaborazione culturale dell’assenza salvifica
post-mortale. Prima di tutto questa angoscia è quasi mai esplicita,
quasi sempre affiora in superficie in maniera del tutto traslata,
attraverso, cioè, tutta la scala di toni comportamentali, dall’annichilimento
passivo religioso, caratterizzato dal fanatismo intenso, all’esuberanza,
all’aggressività socio-politica, fino alla delittuosità. La
supposizione di un popolo vesuviano depresso è da interpretare
diversamente. Il caratteriale del napoletano e vesuviano per
estensione, è stato sempre e rimane prevalentemente reattivo-positivo:
ironia, scaltrezza, esuberanza, umorismo e via dicendo. Tutto ciò che
eccede, però, lascia denotare un movente di fondo, ipotizzato qui
come meccanismo esorcizzante.
Non mi piace, comunque, chiudere in tono leopardiano, tanto meno sul
filo della bravura, dell’onniscenza o, peggio, del messianico. Le
teorie esposte, solo se condivise in parte o in toto da una sia pur
minoranza predisposta all’analisi, vengano prese non come messaggio
apocalittico irreversibile, ma come novello metodo di messaggio d’amore.
Rovistare, cioè, tra i meccanismi inconsci allo scopo di rimuovere la
negatività. Ed il mio popolo, da sempre incline all’ottimismo sarà
il primo a sortire dalla conflittualità massificata di ampiezza
planetaria. Realtà, le cui manifestazioni esteriori nessuno può
confutare. Viva la vita, dunque, e viva l’amore in tutte le sue
accezioni. L’unico utile esorcismo atto a sfatare il mistero della
vita e della morte, riconoscendo la natura di spauracchio di quest’ultima.
La stampa tipografica come meccanizzazione dell’alfabeto potrebbe
darci una mano. Dovremmo, pero, prima bruciare tutte le biblioteche,
con a capo questo libercolo che, ahivoi, avete appena letto.
Sono finiti i pani di piombo, non ce n’e più un grammo nella
caldaia. Vediamo se riesco almeno a comporre la parola:
FINE
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