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LITOGRAFIA,
MADRE
DEL SISTEMA OFFSET
La vecchia
litografia, da cui deriva la moderna stampa offset, prevede come
matrici delle pietre speciali, le quali vengono trattate e disegnate con
particolari vernici grasse, gomma arabica ed acido nitrico; risciacquo ed
olio di trementina. La tintura di asfalto ridà il grasso al disegno,
mentre le altre zone della pietra ricevono solo acqua. Una volta inumidita
la pietra, solo il disegno accetta 1’inchiostro dal rullo. Questa
tecnica viene ancora adoperata da quegli artisti che desiderano riprodurre
in serie le loro opere. Per la stampa utilizzano un torchio simile a
quello usato da SENEFELDER agli inizi del 1800. La moderna stampa offset,
come ho gia detto nelle pagine precedenti, si basa su questo principio. Le
pietre litografiche sono state sostituite con pratiche e leggerissime
lastre di zinco e specialmente di alluminio, oggi presensibilizzate da
ditte altamente specializzate, montate sui cilindri rotanti consentono
alte tirature a velocità sostenuta. Le lastre, come gia descritto,
vengono preparate dietro la realizzazione di un montaggio fototecnico
separato. Il calcolatore sostituisce la gloriosa Linotype (che in questo
momento mi piange sotto le mani). Il computer stabilisce in completo
automatismo i valori e le caratteristiche della composizione. Il sistema
fotocompositivo utilizza tutti i tipi di caratteri nelle diverse
grandezze, stabilendone elettronicamente la disposizione, gli intervalli,
ecc. Il cervello ha racchiuso in
se, e miniaturizzati nei sofisticati circuiti, una intera officina
tipografica. E come se non bastasse, il testo e gli schemi composti
vengono integralmente memorizzati in maniera che 1’operatore può
visionarli e modificarli come e quando vuole. Alla fine tutti i dati di un
composto vengono impressionati su disco per essere eventualmente
rimanipolati in futuro.
Riboby offset dig4col 34x50
LE MACCHINE
OFFSET
Offset significa in inglese riporto, poiché 1’impatto sulla carta non avviene direttamente
dalla matrice, ma da un cilindro rivestito di telo gommato che raccoglie
1’impronta da essa. Mentre, però, le composizioni tipografiche da
piombo sono formate a rovescio, cioè con le scritte da destra a sinistra,
poiché quando baciano la carta
risultano diritte, le lastre offset vengono impressionate diritte, si
rovesciano sul caucciù per riaddrizzarsi sulla carta.
Le normali macchine offset monocolori sono strutturalmente di semplice
concezione meccanica, ma più perfette nei sincronismi e nei contatti
rispetto a quelle da piombo. Una tipografica da discreti risultati anche
quando non e perfettamente a punto, mentre una offset, anche dietro una lieve sfasatura, o una
cattiva regolazione dei cilindri dà risultati di stampa inaccettabili.
Una macchina offset monta strutturalmente tre cilindri: quello
portamatrici, quello di trasporto (rivestito di caucciù), e quello di
stampa o pressione. I cilindri sono di uguale diametro e girano
simultaneamente. Il gruppo dei rulli inchiostratori è simile a quello
delle macchine tipografiche, ugualmente un rullo si accosta al cilindro di
calamaio ad ogni giro per attingere la giusta quantità di inchiostro e
trasferirla al gruppo dei rulli inchiostratori. Gli ultimi rulli vanno a
contatto della lastra. Un altro gruppo di rulli provvede ad inumidire la
matrice ogni volta prima dell’inchiostrazione.
L’OFFSET
ASETTICA E BUROCRATICA
Rotoffset
Mitsubishi
La stampa offset si è oramai diffusa a macchia
d’olio nelle grandi e medie tipografie campane. E’ un peccato, per
certi versi, che il lavoro creativo a misura d’omo debba finire
schematizzato e codicizzato. Lo stampato eseguito, per così
dire, a mano, viene davvero svolto, per dirla in chiave retorica,
col braccio, con la mente e col cuore. L’industria, in un futuro
prossimo, accetterà i lavori di piccola entità solo se passano sotto
schemi di progettazione codicizzati e combinati con altri lavori per
coprire i formati di macchina. Il piccolo tipografo impegnato fa del suo
lavoro la completezza della sua personalità, come la donna lo fa con la
maternità, perché plasma e modella col tocco delle dita gli elementi
meccanici della composizione come fossero sculture di argilla, sino ad
esclamare michelangiolescamente:
Perché non parli! Poi si guarderà bene di sfasciare tutto con un
martello...
A compiere il capolavoro e la maestria dei miei colleghi torresi e campani
tutti, ed una certa spinta nevrotica per garantire le giuste dosi di:
pathos creativo, abnegazione, sacrificio e, diciamolo pure, la
disposizione alla perdita di tempo, là dove il modesto, sudato provento
rimane un fatto marginale. L’artigiano appartiene al popolo,
1’industria alle multinazionali, è facile tirare le somme. Gli stampati
personalizzati diverranno proibitivi. L’industria capitalistica (come in
tutto il libro: non faccio politica), tende a soffocare tradizioni e
folklore, perché vuole il popolo prima suo lavoratore dipendente, poi
consumatore, tutto appannaggio del plusvalore. Non è servito a nulla il
secolo di messianismo marxiano. Gli addetti ai lavori che mi seguono
possono interpretare, in queste parole, un’apologia al piombo fuso e una
denigrazione all’avanguardia tipografica.
Rotoman Roland
Dirò subito che le intenzioni di questo libro sono
sentitamente costruttive, affatto recriminatorie. Lo possono confermare i
miei colleghi artigiani di Torre del Greco con i quali ho sempre un
dialogo aperto, a parte qualche lieve screzio di carattere concorrenziale.
Si prendano le mie parole come osservazioni acritiche anche se talvolta
compare una parvenza polemica. Sia chiaro una volta per tutte che io
amo e rispetto tutta la famiglia planetaria dei tipografi, sia il
nipote bottegaio che
il nonno industriale pedissequo al sistema.
In più so valutare bene il salto produttivo e
qualitativo delle nuove tecnologie offset, i problemi che postulo sono di
natura diversa e credo di averli abbastanza designati. E’ probabile,
devo riconoscerlo, che alcune considerazioni siano piuttosto soggettive.
E’ la deformazione professionale di un bottegaio a mezza strada tra
l’arte applicata e la filosopsicopoesia. Colui che mi vede
operare nella mia bottega artigiana di Via Purgatorio, saltare qua e là,
in quei settanta metri quadrati di terraneo polveroso, tra la
pianocilindrica e la Linotype, fra la pressa dei timbri e la
carretta dei manifesti, sa che ho precluso sul nascere ogni forma di
ambizione incrementizia ed economica.
Questa presupporrebbe compromessi ed intrallazzi che
non rientrano nel mio ordine di idee.
Un cliente di Via Montedoro mi dice spesso:
Mari, mi sembri Diogene nella botte. |
Un altro di Via Cesare Battisti è convinto che sia
affetto da manie di piccolezza. In tutti gli eccessi vi sono disturbi
della personalità. “La perfezione”, “la normalità” non sono
universali. Ogni uomo, nel bene e nel male risponde coi risultati della
sua età evolutiva, condizionato da fattori ambientali, da problematiche
domestiche. L’altruismo –
dice Roberto Gervaso – non è
altro che il rimorso dell’egoismo. Spesso la bontà e la dolcezza
affettate si celano sotto pulsioni aggressive.
Ma cosa vogliamo da questo povero uomo, da questa scimmia intelligente che
sublima la libido distorta in centomila attività umane. Cosa vogliamo da
questi uomini maschi, forse
gelosi della maternità, come la donna del pene, che esaltano il loro
modesto lavoro, che si completano
in esso, che fanno delle loro botteghe, talvolta, tanti covi uterini. Non
mettiamoli tutti nei capannoni insieme ai robot, numerati come carcerati,
spersonalizzati e svirilizzati dalla potenza delle macchine. Salviamoli
dalle conseguenze esiziali della cieca corsa dell’uomo verso il pozzo
senza fondo del desiderio di danaro, il cosiddetto sterco del diavolo.
Oggi l’utente si rivolge ancora a noi bottegai tipografi per la
realizzazione di carta da lettere e biglietti da visita. La prima cosa che
esige è il contatto diretto col titolare della bottega. Il lavoro viene
discusso, modificato e trasformato, tra un caffè centellinato ed una
Marlboro, che spesso brucia da sola in un angolo. Talvolta si sfocia in
argomenti che esulano dal lavoro, alla fine si mercanteggia e spesso non
ci si mette d’accordo. Poi il cliente ritorna, ha perduto la traccia, si ricomincia daccapo. Quindi si procede finalmente alla
realizzazione dello stampato con un’altra esperienza umana acquisita.
Qualche perplessità costringe a ricontattare il cliente, altri scambi di
idee mentre si raggiunge la comune
soluzione. Alla consegna l’avventore sarà appagato e soddisfatto ad un
costo moderato, riforme legislative e fiscali permettendo.
L’industria grafica, invece, offre come primo traguardo l’ufficio
accettazione, dove il lavoro viene sottoposto all’attenzione di grafici
e designer di fama interregionale.
(Fatti il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato). Ma andiamo
avanti. I designer hanno tutti dei nomi esotici, come gli artisti dello
spettacolo, sembrano gli psicoanalisti della stampa. Sempre sussiegosi e
perentori. Sulla parete dietro la scrivania di pura pelle di ermellino vi
è un poster rappresentante un marchio di una. multinazionale. L’austero
designer aggiungerà che quell’idea è costata mezzo milione di dollari.
L’avventore si deterge dalla fronte il primo madore, poi vorrebbe
scappare, ma oramai è dentro, si rende conto che pagherà a caro prezzo
la sua mania di snobbare. Alla fine l’utente, dopo veri e propri
diverbi, dovrà accontentarsi dei caratteri trasferibili e di un marchio
di tipo generico, che somiglia sempre a quello di una nota fabbrica di
provoloni. La bozza passa all’ufficio amministrativo; poi ritorna
all’ufficio grafico per la conferma d’ordine sotto le facce disgustate
dei barbassori. Dopo un congruo acconto, l’originale passa in sala
composizione elettronica, prima vagliato e valutato da un’equipe, quindi
purificato da mediocrità linguistiche; indi in camera oscura, sui
tavoli luminosi, nel reparto lastre e, dulcis in fundo, nell’officina di
stampa, che sarebbe il terzo girone.
Il lavoro, ordinato a Natale sarà pronto a Pasqua. Il cliente si guarderà
bene, in futuro, di rimettere piede in quella bolgia, ridimensionerà le
sue idee rilevaticce e appena gli capiterà un bottegaio tipografo sotto
mano lo abbraccerà e lo bacerà a mo’ di emigrato.
I dirigenti delle industrie grafiche mi perdonino l’ardire ancora una
volta. Mi scusino per l’ironia e la maniera iperbolica di dire delle
loro signorie. Bando agli scherzi da prete e andiamo avanti. In realtà i
grossi complessi nemmeno possono prendere in considerazione lavori di
piccola entità a causa di difficoltà strutturali ed amministrative. Il
mio era solo un ironico, pietoso grido di speranza associato ad una timida
proposta: che i poveri utilizzatori di stampati di piccolo taglio, una
volta estinte le botteghe, vengano trattati almeno nel modo anzi
descritto. E’ comunque doveroso ricordare che le industrie grafiche
napoletane, malgrado le palesi difficoltà gestionali degli ultimi anni,
sostengono una buona fetta di livello occupazionale della categoria. Molti
non chiudono i battenti solò per salvaguardare i posti di lavoro. Ciò e
ammirevole. I risentimenti dei tipografi nei riguardi dei vecchi padroni
despoti e sfruttatori vanno via via dissolvendosi. Forse oggi bisogna
combattere il risentimento dei titolari nei riguardi delle nuove leve. Non
è improbabile, per certi versi, che insieme all’estinzione delle
botteghe, alcune industrie tipografiche possano anche retrocedere nel
rango di tipografie artigiane. Auguriamoci che ciò non accada mai! E,
credetemi, in questo ambiguo carosello di parole, non sto acciaccando e
medicando tenendo fede al proverbio che dice: Per vivere comodamente bisogna accendere una candela a S. Antonio e una
al diavolo. Le trovate goliardiche sono fatte così. E’ difficile
discernere quando uno scherza o quando fa sul serio. Ciascuno la
interpreti a modo suo. Intelligenti
pauca.
Ma al di la dell’ambiguità e dei doppi sensi, grazie a Dio i nuovi
dirigenti d’azienda hanno una condotta moderata. Vi è molto più
rispetto della dignità individuale e maggiore adeguatezza remunerativa.
E’ indubbio che i dipendenti abbiano acquistato più decoro. Vanno
fortunatamente scomparendo anche i delatori che hanno fatto il gioco degli
ultimi baroni della carta stampata. In quasi tutte le aziende tipografiche
campane si respira un’aria diversa, più onesta più democratica.
IL
PROCEDIMENTO OFFSET
La stampa offset, essendo planografica, (cioè bianchi e scritte sullo stesso piano), non
richiede 1’avviamento tipico
della stampa tipografica, poiché non vi è necessita di taccheggio (livellamento degli elementi tipografici usurati dagli
impieghi precedenti, livellamento tra caratteri e cliché, ecc.). Comunque
lievi taccheggi, in offset, nella misura di centesimi di millimetro vanno
praticati sotto il caucciù nelle zone intense di nero o la dove il caucciù
presentasse delle lievissime deficienze. La stampa offset va costantemente
controllata. I cilindri vanno puliti periodicamente nel corso di lunghe
tirature, poiché il pulviscolo della carta o altre interferenze possono
provocare alterazioni all’immagine impressa sulla carta. Di estrema
importanza è la giusta dose d’acqua. Una insufficiente umidità della
lastra causa aloni e macchie indesiderate; una umidità eccessiva, invece,
provoca la scomposizione della viscosità dell’inchiostro. Acqua e
inchiostro diventano una dannosa miscela che causa mancanza di corpo nella
tinta e conseguenti effetti di sbiadimento o chiazze irregolari.
L’avviamento di un lavoro offset richiede meno tempo di quello che
occorre per uno tipografico, ma consuma più carta per gli scarti. Una
composizione tipografica, però, regolata per bene ed avviata consente
lunghissime tirature, con solo sporadici controlli relativi
all’alimentazione della carta, dell’inchiostro e all’eventualità
che un margine possa raggiungere la superficie dei caratteri comparendo
sulla carta nella sua bella forma geometrica. Mentre per la stampa
tipografica ogni tipo di carta si rivela idoneo, per quella offset bisogna
fare una scelta oculata anche in relazione al tipo di lavoro da eseguire.
La carta subisce, come ho gia detto, delle trasformazioni dimensionali,
sia per influenze atmosferiche che per stiramenti meccanici dovuti alla
pressione offset e all’umidità che la caratterizza. Nelle grosse
aziende vi sono degli appositi locali atti al condizionamento della carta.
Bisogna scegliere tipi di carta idonei alle policromie sovrapposte, perché
non si abbiano variazioni di stabilita dimensionale, specie nelle macchine
monocolore. L’umidità mal regolata può causare il rigonfiamento delle
fibre provocando 1’allungamento della carta fino a 1 millimetro. Essa
deve accedere in pressione con la fibra a favore per evitare deformazioni.
LE ROTATIVE
OFFSET
Le macchine offset comuni vanno da un formato minimo
di 35 x 50 cm. a un massimo di 140 x 200 cm. E’ inutile ripetere che per
formato macchina s’intende la misura massima del foglio introducibile.
La velocità di stampa varia dalle 6000 alle 10.000 copie orarie in
relazione al formato e alle caratteristiche costruttive. Le macchine
offset pluricolori dei grandi complessi assicurano praticità e velocità,
in più i controlli sono automatici. La carta non subisce soste che
favoriscono 1’alterazione dimensionale. Eventuali errori cromatici o di
registro vengono corretti elettronicamente. Le rotative offset con
immissione di carta a bobine hanno in media cinque gruppi stampa. Il
quinto, posizionato all’ingresso, e a secco e serve solo al preventivo
stiramento della carta. Queste macchine a bobina non ottennero molto
successo al loro apparire sul mercato editoriale, anche per la concorrente
stampa rotocalcografica. L’avvento della fotocomposizione ha ribaltato
le cose perché un gran numero di quotidiani le adotta sostituendole alle
rotative stereotipiche tipografiche. E’ chiaro che le rotative offset da
giornale hanno un numero di gruppi stampa relativo alla quantità di
pagine del quotidiano. |