L'OFFSET

Le macchine qui esposte sono quanto di migliore offre nel 2004  il mercato internazionale. Il testo non è solo rigidamente tecnico.


                         Original_Deidelberg

LITOGRAFIA, MADRE
DEL SISTEMA OFFSET

La vecchia litografia, da cui deriva la moderna stampa offset, prevede come matrici delle pietre speciali, le quali vengono trattate e disegnate con particolari vernici grasse, gomma arabica ed acido nitrico; risciacquo ed olio di trementina. La tintura di asfalto ridà il grasso al disegno, mentre le altre zone della pietra ricevono solo acqua. Una volta inumidita la pietra, solo il disegno accetta 1’inchiostro dal rullo. Questa tecnica viene ancora adoperata da quegli artisti che desiderano riprodurre in serie le loro opere. Per la stampa utilizzano un torchio simile a quello usato da SENEFELDER agli inizi del 1800. La moderna stampa offset, come ho gia detto nelle pagine precedenti, si basa su questo principio. Le pietre litografiche sono state sostituite con pratiche e leggerissime lastre di zinco e specialmente di alluminio, oggi presensibilizzate da ditte altamente specializzate, montate sui cilindri rotanti consentono alte tirature a velocità sostenuta. Le lastre, come gia descritto, vengono preparate dietro la realizzazione di un montaggio fototecnico separato. Il calcolatore sostituisce la gloriosa Linotype (che in questo momento mi piange sotto le mani). Il computer stabilisce in completo automatismo i valori e le caratteristiche della composizione. Il sistema fotocompositivo utilizza tutti i tipi di caratteri nelle diverse grandezze, stabilendone elettronicamente la disposizione, gli intervalli, ecc. Il cervello ha racchiuso in se, e miniaturizzati nei sofisticati circuiti, una intera officina tipografica. E come se non bastasse, il testo e gli schemi composti vengono integralmente memorizzati in maniera che 1’operatore può visionarli e modificarli come e quando vuole. Alla fine tutti i dati di un composto vengono impressionati su disco per essere eventualmente rimanipolati in futuro. 

   
                   Riboby offset dig4col 34x50

LE MACCHINE OFFSET

 Offset significa in inglese riporto, poiché 1’impatto sulla carta non avviene direttamente dalla matrice, ma da un cilindro rivestito di telo gommato che raccoglie 1’impronta da essa. Mentre, però, le composizioni tipografiche da piombo sono formate a rovescio, cioè con le scritte da destra a sinistra, poiché quando baciano la carta risultano diritte, le lastre offset vengono impressionate diritte, si rovesciano sul caucciù per riaddrizzarsi sulla carta.
Le normali macchine offset monocolori sono strutturalmente di semplice concezione meccanica, ma più perfette nei sincronismi e nei contatti rispetto a quelle da piombo. Una tipografica da discreti risultati anche quando non e perfettamente a punto, mentre una offset, anche dietro una lieve sfasatura, o una cattiva regolazione dei cilindri dà risultati di stampa inaccettabili. Una macchina offset monta strutturalmente tre cilindri: quello portamatrici, quello di trasporto (rivestito di caucciù), e quello di stampa o pressione. I cilindri sono di uguale diametro e girano simultaneamente. Il gruppo dei rulli inchiostratori è simile a quello delle macchine tipografiche, ugualmente un rullo si accosta al cilindro di calamaio ad ogni giro per attingere la giusta quantità di inchiostro e trasferirla al gruppo dei rulli inchiostratori. Gli ultimi rulli vanno a contatto della lastra. Un altro gruppo di rulli provvede ad inumidire la matrice ogni volta prima dell’inchiostrazione.

 L’OFFSET ASETTICA E BUROCRATICA

    
                            Rotoffset Mitsubishi

La stampa offset si è oramai diffusa a macchia d’olio nelle grandi e medie tipografie campane. E’ un peccato, per certi versi, che il lavoro creativo a misura d’omo debba finire schematizzato e codicizzato. Lo stampato eseguito, per così dire, a mano, viene davvero svolto, per dirla in chiave retorica, col braccio, con la mente e col cuore. L’industria, in un futuro prossimo, accetterà i lavori di piccola entità solo se passano sotto schemi di progettazione codicizzati e combinati con altri lavori per coprire i formati di macchina. Il piccolo tipografo impegnato fa del suo lavoro la completezza della sua personalità, come la donna lo fa con la maternità, perché plasma e modella col tocco delle dita gli elementi meccanici della composizione come fossero sculture di argilla, sino ad esclamare michelangiolescamente: Perché non parli! Poi si guarderà bene di sfasciare tutto con un martello...
A compiere il capolavoro e la maestria dei miei colleghi torresi e campani tutti, ed una certa spinta nevrotica per garantire le giuste dosi di: pathos creativo, abnegazione, sacrificio e, diciamolo pure, la disposizione alla perdita di tempo, là dove il modesto, sudato provento rimane un fatto marginale. L’artigiano appartiene al popolo, 1’industria alle multinazionali, è facile tirare le somme. Gli stampati personalizzati diverranno proibitivi. L’industria capitalistica (come in tutto il libro: non faccio politica), tende a soffocare tradizioni e folklore, perché vuole il popolo prima suo lavoratore dipendente, poi consumatore, tutto appannaggio del plusvalore. Non è servito a nulla il secolo di messianismo marxiano. Gli addetti ai lavori che mi seguono possono interpretare, in queste parole, un’apologia al piombo fuso e una denigrazione all’avanguardia tipografica.

   
                             Rotoman Roland

Dirò subito che le intenzioni di questo libro sono sentitamente costruttive, affatto recriminatorie. Lo possono confermare i miei colleghi artigiani di Torre del Greco con i quali ho sempre un dialogo aperto, a parte qualche lieve screzio di carattere concorrenziale. Si prendano le mie parole come osservazioni acritiche anche se talvolta compare una parvenza polemica. Sia chiaro una volta per tutte che io amo e rispetto tutta la famiglia planetaria dei tipografi, sia il nipote bottegaio che il nonno industriale pedissequo al sistema.
In più so valutare bene il salto produttivo e qualitativo delle nuove tecnologie offset, i problemi che postulo sono di natura diversa e credo di averli abbastanza designati. E’ probabile, devo riconoscerlo, che alcune considerazioni siano piuttosto soggettive. E’ la deformazione professionale di un bottegaio a mezza strada tra l’arte applicata e la filosopsicopoesia. Colui che mi vede operare nella mia bottega artigiana di Via Purgatorio, saltare qua e là, in quei settanta metri quadrati di terraneo polveroso, tra la pianocilindrica e la Linotype, fra la pressa dei timbri e la carretta dei manifesti, sa che ho precluso sul nascere ogni forma di ambizione incrementizia ed economica.
Questa presupporrebbe compromessi ed intrallazzi che non rientrano nel mio ordine di idee.
Un cliente di Via Montedoro mi dice spesso: Mari, mi sembri Diogene nella botte.

Un altro di Via Cesare Battisti è convinto che sia affetto da manie di piccolezza. In tutti gli eccessi vi sono disturbi della personalità. “La perfezione”, “la normalità” non sono universali. Ogni uomo, nel bene e nel male risponde coi risultati della sua età evolutiva, condizionato da fattori ambientali, da problematiche domestiche. L’altruismo – dice Roberto Gervaso – non è altro che il rimorso dell’egoismo. Spesso la bontà e la dolcezza affettate si celano sotto pulsioni aggressive.
Ma cosa vogliamo da questo povero uomo, da questa scimmia intelligente che sublima la libido distorta in centomila attività umane. Cosa vogliamo da questi uomini maschi, forse gelosi della maternità, come la donna del pene, che esaltano il loro modesto lavoro, che si completano in esso, che fanno delle loro botteghe, talvolta, tanti covi uterini. Non mettiamoli tutti nei capannoni insieme ai robot, numerati come carcerati, spersonalizzati e svirilizzati dalla potenza delle macchine. Salviamoli dalle conseguenze esiziali della cieca corsa dell’uomo verso il pozzo senza fondo del desiderio di danaro, il cosiddetto sterco del diavolo.
Oggi l’utente si rivolge ancora a noi bottegai tipografi per la realizzazione di carta da lettere e biglietti da visita. La prima cosa che esige è il contatto diretto col titolare della bottega. Il lavoro viene discusso, modificato e trasformato, tra un caffè centellinato ed una Marlboro, che spesso brucia da sola in un angolo. Talvolta si sfocia in argomenti che esulano dal lavoro, alla fine si mercanteggia e spesso non ci si mette d’accordo. Poi il cliente ritorna, ha perduto la traccia, si ricomincia daccapo. Quindi si procede finalmente alla realizzazione dello stampato con un’altra esperienza umana acquisita. Qualche perplessità costringe a ricontattare il cliente, altri scambi di idee mentre si raggiunge la comune soluzione. Alla consegna l’avventore sarà appagato e soddisfatto ad un costo moderato, riforme legislative e fiscali permettendo.
L’industria grafica, invece, offre come primo traguardo l’ufficio accettazione, dove il lavoro viene sottoposto all’attenzione di grafici e designer di fama interregionale. (Fatti il nome e piscia a letto, diranno che hai sudato). Ma andiamo avanti. I designer hanno tutti dei nomi esotici, come gli artisti dello spettacolo, sembrano gli psicoanalisti della stampa. Sempre sussiegosi e perentori. Sulla parete dietro la scrivania di pura pelle di ermellino vi è un poster rappresentante un marchio di una. multinazionale. L’austero designer aggiungerà che quell’idea è costata mezzo milione di dollari. L’avventore si deterge dalla fronte il primo madore, poi vorrebbe scappare, ma oramai è dentro, si rende conto che pagherà a caro prezzo la sua mania di snobbare. Alla fine l’utente, dopo veri e propri diverbi, dovrà accontentarsi dei caratteri trasferibili e di un marchio di tipo generico, che somiglia sempre a quello di una nota fabbrica di provoloni. La bozza passa all’ufficio amministrativo; poi ritorna all’ufficio grafico per la conferma d’ordine sotto le facce disgustate dei barbassori. Dopo un congruo acconto, l’originale passa in sala composizione elettronica, prima vagliato e valutato da un’equipe, quindi purificato da mediocrità linguistiche; indi in camera oscura, sui tavoli luminosi, nel reparto lastre e, dulcis in fundo, nell’officina di stampa, che sarebbe il terzo girone. Il lavoro, ordinato a Natale sarà pronto a Pasqua. Il cliente si guarderà bene, in futuro, di rimettere piede in quella bolgia, ridimensionerà le sue idee rilevaticce e appena gli capiterà un bottegaio tipografo sotto mano lo abbraccerà e lo bacerà a mo’ di emigrato.
I dirigenti delle industrie grafiche mi perdonino l’ardire ancora una volta. Mi scusino per l’ironia e la maniera iperbolica di dire delle loro signorie. Bando agli scherzi da prete e andiamo avanti. In realtà i grossi complessi nemmeno possono prendere in considerazione lavori di piccola entità a causa di difficoltà strutturali ed amministrative. Il mio era solo un ironico, pietoso grido di speranza associato ad una timida proposta: che i poveri utilizzatori di stampati di piccolo taglio, una volta estinte le botteghe, vengano trattati almeno nel modo anzi descritto. E’ comunque doveroso ricordare che le industrie grafiche napoletane, malgrado le palesi difficoltà gestionali degli ultimi anni, sostengono una buona fetta di livello occupazionale della categoria. Molti non chiudono i battenti solò per salvaguardare i posti di lavoro. Ciò e ammirevole. I risentimenti dei tipografi nei riguardi dei vecchi padroni despoti e sfruttatori vanno via via dissolvendosi. Forse oggi bisogna combattere il risentimento dei titolari nei riguardi delle nuove leve. Non è improbabile, per certi versi, che insieme all’estinzione delle botteghe, alcune industrie tipografiche possano anche retrocedere nel rango di tipografie artigiane. Auguriamoci che ciò non accada mai! E, credetemi, in questo ambiguo carosello di parole, non sto acciaccando e medicando tenendo fede al proverbio che dice: Per vivere comodamente bisogna accendere una candela a S. Antonio e una al diavolo. Le trovate goliardiche sono fatte così. E’ difficile discernere quando uno scherza o quando fa sul serio. Ciascuno la interpreti a modo suo. Intelligenti pauca.
Ma al di la dell’ambiguità e dei doppi sensi, grazie a Dio i nuovi dirigenti d’azienda hanno una condotta moderata. Vi è molto più rispetto della dignità individuale e maggiore adeguatezza remunerativa. E’ indubbio che i dipendenti abbiano acquistato più decoro. Vanno fortunatamente scomparendo anche i delatori che hanno fatto il gioco degli ultimi baroni della carta stampata. In quasi tutte le aziende tipografiche campane si respira un’aria diversa, più onesta più democratica.

IL PROCEDIMENTO OFFSET 

La stampa offset, essendo planografica, (cioè bianchi e scritte sullo stesso piano), non richiede 1’avviamento tipico della stampa tipografica, poiché non vi è necessita di taccheggio (livellamento degli elementi tipografici usurati dagli impieghi precedenti, livellamento tra caratteri e cliché, ecc.). Comunque lievi taccheggi, in offset, nella misura di centesimi di millimetro vanno praticati sotto il caucciù nelle zone intense di nero o la dove il caucciù presentasse delle lievissime deficienze. La stampa offset va costantemente controllata. I cilindri vanno puliti periodicamente nel corso di lunghe tirature, poiché il pulviscolo della carta o altre interferenze possono provocare alterazioni all’immagine impressa sulla carta. Di estrema importanza è la giusta dose d’acqua. Una insufficiente umidità della lastra causa aloni e macchie indesiderate; una umidità eccessiva, invece, provoca la scomposizione della viscosità dell’inchiostro. Acqua e inchiostro diventano una dannosa miscela che causa mancanza di corpo nella tinta e conseguenti effetti di sbiadimento o chiazze irregolari. L’avviamento di un lavoro offset richiede meno tempo di quello che occorre per uno tipografico, ma consuma più carta per gli scarti. Una composizione tipografica, però, regolata per bene ed avviata consente lunghissime tirature, con solo sporadici controlli relativi all’alimentazione della carta, dell’inchiostro e all’eventualità che un margine possa raggiungere la superficie dei caratteri comparendo sulla carta nella sua bella forma geometrica. Mentre per la stampa tipografica ogni tipo di carta si rivela idoneo, per quella offset bisogna fare una scelta oculata anche in relazione al tipo di lavoro da eseguire. La carta subisce, come ho gia detto, delle trasformazioni dimensionali, sia per influenze atmosferiche che per stiramenti meccanici dovuti alla pressione offset e all’umidità che la caratterizza. Nelle grosse aziende vi sono degli appositi locali atti al condizionamento della carta. Bisogna scegliere tipi di carta idonei alle policromie sovrapposte, perché non si abbiano variazioni di stabilita dimensionale, specie nelle macchine monocolore. L’umidità mal regolata può causare il rigonfiamento delle fibre provocando 1’allungamento della carta fino a 1 millimetro. Essa deve accedere in pressione con la fibra a favore per evitare deformazioni.

LE ROTATIVE OFFSET

Le macchine offset comuni vanno da un formato minimo di 35 x 50 cm. a un massimo di 140 x 200 cm. E’ inutile ripetere che per formato macchina s’intende la misura massima del foglio introducibile. La velocità di stampa varia dalle 6000 alle 10.000 copie orarie in relazione al formato e alle caratteristiche costruttive. Le macchine offset pluricolori dei grandi complessi assicurano praticità e velocità, in più i controlli sono automatici. La carta non subisce soste che favoriscono 1’alterazione dimensionale. Eventuali errori cromatici o di registro vengono corretti elettronicamente. Le rotative offset con immissione di carta a bobine hanno in media cinque gruppi stampa. Il quinto, posizionato all’ingresso, e a secco e serve solo al preventivo stiramento della carta. Queste macchine a bobina non ottennero molto successo al loro apparire sul mercato editoriale, anche per la concorrente stampa rotocalcografica. L’avvento della fotocomposizione ha ribaltato le cose perché un gran numero di quotidiani le adotta sostituendole alle rotative stereotipiche tipografiche. E’ chiaro che le rotative offset da giornale hanno un numero di gruppi stampa relativo alla quantità di pagine del quotidiano.