Gennaro Bottiglieri è
l'emblema della Torre del Greco ora et labora che dall'avvento
della Cristianità fino agli anni sessanta ha rappresentato il vero oro
della nostra angariata città, altro che quello rosso. L'oro di Torre,
come quello napoletano di Marotta.
L'operosità come etica, realizzazione, sublimazione ed esorcismo contro
l'insoluto esistenziale. Queste: tenacia, costanza, immutabilità hanno
ricostruito Torre del Greco, puntualmente, dopo trecento devastazioni del
Vulcano. Questo retaggio atavico espletato nel formicaio degli antri
talvolta adattati e sgraziati delle vecchie botteghe artigiane unte e
fuligginose, delle casupole rurali profumate di fieno, dei laboratori dei
corallari esalanti strane quintessenze di resine, di cascami di calcare
appena tranciati dalle fogge svariate che la natura sottomarina riproduce
ed offre generosa alla nostra capitale del Corallo.
Ah, generazione post-sessantottina cadi dalla padella nella brace. Sfuggi
i baronati, l'oppressione e la prevaricazione manifesta dei vecchi poteri
e cadi nell'europeizzazione, nel tedio dell'individualismo, nelle
pseudo-libertà, nelle democrazie camuffate, ancora più subdole ed
ipocrite.
Ricostruirebbero ancora Torre del Greco i nostri giovani dopo una
eventuale eruzione del Vesuvio, con gli stessi: operosità, energia, fede,
campanilismo di una volta?
Oggi che, negli asettici manieri domestici odierni, a mezzodì, il primo
piatto è troppo al dente, il secondo è troppo cotto, la frutta finisce
fradicia nei cestini ed il dolce è da paragonare al demonio per i suoi
effetti devastati sulla linea.
Oggi, che la stima, la fiducia, la dignità di un appuntamento cadono come
le carni flaccide, pur se ancora imberbi di disfatti putti dormienti dopo
ripetitive, quotidiane feste e compleanni dalle 22 alle 4 di mattina,
senza contare i "veglioni" del sabato sera, senza neppure
sfiorare i droga party, l'"estasi" e le stragi automobilistiche
del sabato notte. Oggi che se le abitazioni avessero la partita IVA, dopo
ogni scambio di visita potrebbe balenare l'idea di vertenze sindacali per
intrattenimento oltre orario, eventuale aria malsana respirata, e caffè
igienicamente non a norma. Caro Gennaro, sei l'ultimo dei torresi vecchia
maniera.
Quale giovane, prima di farsi venire una crisi convulsa solo all'idea,
realizzerebbe la Divina Commedia figurata in sei volumi, milleduecento
tavole a colori, nei ritagli di tempo, di notte, persino negli intervalli
del lavoro sugli oceani?.
E Dio sa quanto io voglia bene i giovani d'oggi, spesso solo sprovveduti
anche se più istruiti, meno scaltri e frodatori d'un tempo; eppure quale
giovane moderno, confuso, in una società con educatori, politici e
genitori altrettanto confusi dallo stravolgimento tecnologico
parallelamente alla caduta della cultura umanistica, decorerebbe in 90
tavole a colori i più bei proverbi napoletani, e tutto ciò senza sicura
prospettiva economica con la sola idea prioritaria del nutrimento dello
spirito, della trasmissione delle emozioni, nel tentativo ultimo e
disperato di recuperare ciò che vengono comunemente chiamati i valori
perduti (nella cintura vesuviana) ma che erano, in fondo, i sostegni
psicologici per esorcizzare l'insoluto esistenziale così ben domato con
la nostra napoletanità dissoltasi.
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Come al solito, non essendo
critico d'arte non mi pronuncio sul genere, sulle tecniche, sulla valentia
del lavoro di Gennaro, ma tento di penetrare nel substrato psicologico che
l'ha spinto a realizzare la sua faraonica mole di lavoro.
Spesso, intanto si commette l'errore di pensare che la quantità vada a
discapito della qualità, come, ad esempio, è accaduto con i 110 romanzi di
Mastriani,
ma questo è solo un pregiudizio. Anche dal disegno archetipico d'un
pargolo si evince emozione, una sorta di arte primordiale. Gennaro è
senza dubbio un'artista perché non cade nella venalità, nella
commercializzazione fine a se stessa di ciò che si è prodotto con il
braccio, con la mente e col cuore, per dirla in chiave retorica.
In una falciata della nostra conturbata adolescenza post-bellica a mezza
strada tra l'inedia e la grande speranza di rinnovamento, lungo la
ricostruzione ed il galoppante progresso nel boom degli anni 60, con
Gennaro coglievamo le prime suggestioni artistiche sullo stesso
pianerottolo di quella fucina di trasognamenti costituita da quell'androne
di vecchie magioni-giardino di Via Giuseppe Beneduce numero sei. Mi
crogiolavo nei trasognamenti e i voli pindarici sullo sfondo di un immenso
giardino che lasciava esalare vari ed intensi profumi agresti sprigionati
dalla fotosintesi, con ad owest lo sfondo di Capri ed Ischia sotto il
nostro sole generoso e ad est il vulcano che pareva brontolare anche
quando giace in letargo.
Fu in uno di questi assolati meriggi che il destino volle barbaramente
sovvertire in me il sublimato concetto di madre, (non di Mamma, che è
diverso). Una mia corsa saltellante fu interrotta bruscamente sul
pianerottolo di nonna Bottiglieri, nostro quartier generale, come quello
di Via Paal, per quei giochi infantili ora femminei per emulazioni
domestiche fatti di orsacchiotti di peluche ed altarini, ora violenti
perché assimilati dagli eroi di quel cinema suggestivo degli anni 50 che
spaziava dal West alla Mitologia.
Vidi la gatta di nonna Bottiglieri che si volse a guardarmi come non
l'aveva mai fatto. Il muso intriso di sangue che aveva affondato e avrebbe
affondato in un pasto insolito che esulava dalla pur squallida legge della
catena alimentare, la natura crudele e spietata che prevede che animale
divora animale per la sopravvivenza. Come un pirana il felino distolse lo
sguardo dalla mia figura marmorea, gelida e madida e consumò il suo macabro banchetto sulla carcassa
insanguinata del proprio gattino.
Solo durante la tormentata giovinezza scoprii che talvolta pure gli
esseri umani divorano i figli, non solo ammazzandoli nei raptus di follia,
rari, per fortuna, ma frequentemente divorandone la già fragile
personalità. Il caustico Nietzsche diceva addirittura che "una
madre più che amare un figlio si ama nel figlio".
Noi ragazzi del dopoguerra venivamo formati sul terreno incolto delle
vaste campagne, sui basalti vesuviani che lastricavano le strade torresi,
sulla sabbia rovente della Scala e del Cavaliere. Erano al di la da venire
le asettiche scuole materne; bene che andava c'era la "maesta"
che un po' intratteneva, un po' impartiva i primi rudimenti o le
materie scolastiche relative alla scuola elementare. La sorella di Gennaro
Bottiglieri era la nostra "maesta". In quella casa si è
in parte forgiato il mio futuro culturale, ma soprattutto quello di
Gennaro. Egli giocava in casa.
Gennaro prosegue un retaggio artistico perché il suo papà, tra l'altro,
fu uno dei costruttori del monumentale Cavallo di Troia del famigerato
film mitologico "Ulisse" degli anni 60.
Luigi Mari
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sopra per vedere le tavole della Divina
Commedia.
Se desiderate leggere subito la biografia di
Gennaro Bottiglieri è nella sezione ARTE/pittura/Pittori e
scultori, scritta da un nostro amico
comune.
Alla sezione FOLKLORE/Tradizioni
di questo sito Gennaro Bottiglieri presenta:
Proverbi napoletani illustrati |