DONNE
PERDUTE
di Clelia Sorrentino
Edizioni La Torre - 1995
Per gentile concessione dell'autrice
Smarrite, sperse, inserrate in una femminilità tutta
da inventare, le donne di questi racconti appaiono ai maschi innamorati
che le raccontano, in una nebbia indeterminata. Ciascuna voce virile ha
la sua lagnanza, la donna amata si chiami Elena o Greta o Maria, sia
essa madre, moglie, figlia, amante. Ciascuno rimpiange le immagini
consuete in cui nessuno di loro ha pero saputo o potuto affondare
davvero. Brevi novelle di una pagina, inconsueta misura per la lingua
fluida e potente della Sorrentino. Non sono 1’incontro con l’eterno
femminino o con la bandiera femminista. E’ lo sforzo di definizione
della femminilità-mascolinità
che si compie ogni giorno, nel pieno
di una vita ricca di determinazione ma anche di sconcerto. Un’era
diversa preme: cosa ne abbiamo capito, quanto ci piace, cosa ne sapremo
fare?
CARI
LETTORI
Si, sono uno di quei cretini d’altri tempi che
spandicano per donzelle munite di rilevanti sederi. So che i giovani
storcono il naso al volgarmente noto "sedere a mandolino" non
più a la page, soppiantato irrimediabilmente dal fianco stretto che
guizza e agevole si sfila dai pantaloni.
Nel rispetto però delle altrui opinioni, consentite ch’io vagheggi
vitini da vespa, palpiti partecipe alla melanconia di occhioni velati e
di guance rigate di lagrimoni, porga all’uopo sollecite boccette di
sali.
Lasciatemi predicare e praticare 1’Amore Eterno, indulgere in
baciamani, soffocare stupori ed orrori porgendo la spalla e raccattare
fazzoletti di pizzo e donare intarsiati ventagli al riparo dei quali si
celino e si svelino vezzi di sguardi, di dita, di bocche. Il
sesamo-apriti dei sensi. E a mali estremi, perché no, estremi rimedi!
Non è lecito privare un cavaliere di spade, di destrieri e duelli,
spogliarlo della possibilità di sdegnarsi e di oprarsi a pro del gentil
sesso. Eccomi sognare dame che si abbandonano ad autobiografiche e a
diari, che si sbottonano su fogli vergini come Prime donne e chantose al
piacere e agli amanti. Sono il Diario e la Poesia i veri contenitori
femminili di misteri gelosamente custoditi, semmai filtrati attraverso
ventagli cartacei!
Ora, voi, signore, barattate piccoli punti, fraseggi musicali, sospirose
chiacchiere una volte affidate al Diario e al Poema, insomma le uniche
arti a parer nostro confacenti alle dame, con 1’Esibizione. Voi
rivaleggiate con gli uomini, ben più adatti allo scopo, nella volgarità
del Romanzo, spettegolando invece che sulle proprie, sulle altrui
vicende. E invece proprio Voi, verrete oggigiorno svelate da quei maschi
che hanno avuto la ventura di intersecarvi lungo il loro percorso. Lo
scopo che ci prefiggiamo, beneamate signore, e di stralciare dalla
nostra memoria alquanto provata dal Tempo, piuttosto caoticamente (e
chiediamo venia per 1’ordine impreciso) episodi che la dicono lunga
sul tramonto della donna-vecchia-maniera.
Cari compagni, bisogna rassegnarsi: le DONNE non esistono più; si
sono perdute! Non a caso il nostro Club riunisce probiviri incarogniti
nel nubilaggio. Essi ritengono le femmine troppo estrose per essere
prese sul serio. C’è da augurarsi che il Diario di noi tutti sia
suppletivo di quello che le donne non usano più, cui non osano
affidarsi.
Il Primo Uomo
EVA
Eva, palpo il tuo foglio e da recenti tira e molla e
ancor prima di inforcare gli occhiali, già arguisco e presagisco che te
ne vai assieme a questo secolo disastroso per tutti. Secolo amaro che ci
ha tolto ogni illusione, persino 1’amore. Ne ho la conferma
scorrendoti.
Sotto forma di missiva (anche se manca il convenzionale "mio
caro") prosaica e insieme poetica, tu immagini di esiliarmi dalla
tua vita.
I giovani sono adorabili, pur nella loro presunzione! Sappi, Eva, che il
"vuoto incolmabile" non me lo darà la tua teatrale sortita di
scena.
Sei troppo scaltra per non aver assimilato che tu, mia appendice, eri
persa per me e per te perché inesistente priva di quella costola
essenziale che era dono e sottrazione. Ammetto che anni luce di mia
esperienza più anziana rendevano fra noi ritmi e coinvolgimenti
disarmonici, bambina mia. Come sempre chi più da e si lascia derubare,
più avverte la mancanza di quei saccheggi che da giovane donna avida
effettuavi.
I concetti della lettera-prosa-poesia che mi indirizzi, sono quelli da
me predicati nel tempo e mi impressionano come uno scritto che mi
indirizzo da solo. Erediti da me tutto un bagaglio di cultura, che ti
renderanno desiderabile non solo a palpare, ahimè, Eva! Perdendoti, le
nostre costole, non più fuse come nella parabola, vagheranno per il
mondo sminuzzandoci in mille frammenti, a moltiplicarci, e vero, ma
anche a sperdere 1’originaria appartenenza. Mi dividerai in tutti gli
uomini che andrai a incontrare e nei figli che andrai a concepire, prima
che 1’ineluttabile Evento Naturale le disgreghi frantumandole in
ceneri e spargendole per ogni dove. Sanguino, Eva. Mi consumo mentre tu,
ladra insaziabile, fuggi e spargi il frutto dei tuoi saccheggi per il
mondo. E con le mie maledizioni, da tali abbondanze e mescolanze malsane
nasceranno malanni e carestie. La tua sarà 'na ben ricca collezione,
degna di figurare all’asta del 2000 da Christie’s "Costole dal
primo uomo in poi".
Ahi, Eva! Hai popolato il mondo. Hai fatto un pasticcio. Tutti
scontenti, infelici.
Adamo |
L'autrice,
oggi, durante una premiazione
ELENA?
Non è più qui
Ti lasciava parlare da solo. Le errabonde pupille
attraversandoti come una nuvola per sperdersi in non si sa quali
anfratti della sala, sul particolare di un affresco o su una faccia
Altra, se si era in pubblico. Interrompevo con pathos le dissertazioni
su trochei e dattili per controllare ove vagasse e cosa
o chi perlustrasse la sua attenzione non lesinandole clamorose partacce
se era posata su un muscoloso centurione. Seccata, si trovasse a Corinto
o ad Atene, nel forum o su un triclinium, Elena alzava le spalle
tacciando col solo motto: ridicolo! il mio eccessivo interessamento. Lo sguardo ancora limpido non contornato dai segni del
tempo, né la monotonia della voce, con asettica cortesia pronta a
rammentare e farmi riprendere il filo del discorso: - citavi Ergido e
Mopso - parevano dimostrare un’attenzione di fatto; invece
vagavano oltre le mie spalle. La mia voce ingrugnata rimaneva sempre
più a se stante.
Ovunque lo portasse quello sguardo senza partecipazione, anche nell’alcova,
la sensazione era di abbracciare un fantasma dalle fattezze
strabilianti. Tanto che cominciai a spegnere la luce di notte così da
non lasciarmi turbare dallo sguardo di quel corpo mentre lo stantuffavo
a volontà e lo investivo di epiteti fantasiosi immaginando dai suoi
gemiti di immetterla nel coinvolgimento totale della nostra lingua più
misteriosa. Ma lei era tutto un rebus.
Se mi veniva lo sghiribizzo di constatare de visu 1’effetto devastante
del mio furioso prodigarmi su di lei, immaginando che fosse la volta
buona per scorgere quel barlume raggiante sulla meravigliosa faccia
della mia diletta, tutta la furia della passione si frustrava di colpo e
cadevo ansante sul cuscino, fallito. Pupille dilatate, di porcellana,
distratte, vaganti attorno ai lidi del Peloponneso e dell’Attila, mi
turbavano come se infuriassi su di un cadavere fresco cui ancora dita
pietose non fossero accorse a chiudere le palpebre. I miei insuccessi
non la turbavano più di tanto. Qualche lieve sbuffo indecifrabile e si
ricomponeva quasi mera acquerugiola a temperatura ambiente fosse passata
su di lei. Alla valanga di parole con cui tentavo di colpevolizzarla,
opponeva le perle della sua lingua con estrema dolcezza paziente: - Ma
che, mi dilectus, hai voglia di litigare? Ti do audienza tutto il
giorno, di notte avrò pure diritto al riposo, nooo?- Magari mi
schioccava il bacetto sulla guancia e si rivoltava dal lato opposto al
mio, proprio come si fa con un pupo...
Fu uno schianto imprevisto, in barba a filosofie e a ragionari, che se
la squagliasse, anzi si facesse rapire da quello sbarbatello smidollato
di un troiano, figlio del nemico.
Scappare come una troietta qualsiasi, tu, regina sposa di un nobile
acheo, senza ritegno, alla guisa di una commessa dei grandi magazzini!
Credetemi, fu leggenda che la guerra fra Elleni e Troiani esplodesse per
un fatto di corna e non per ostacolare monopoli esercitati su tutto 1’Egeo
nel commercio e rivalità verso quelli che venivano ritenuti cultori
della bellezza. Né reggono le dicerie da donnetta che vogliono Elena
vittima degli Dei. Sulla mia sposa e su quel suo sguardo che chiamano
sguardo di Venere, ( ed io da femmina perduta), cada intero
il peso della scelta, dell’affronto che la portò lontano dal talamo,
sul mare scintillante, verso 1’Est, tra le braccia di Paride. Che sia
maledetta! La seppellisca il tartaro, e senza requie!
Menelao
LE MUSE
In qualità di Padre degli Dei prendendo atto delle
disperazioni e delle lagnanze quotidiane, di quali e quante sofferenze
dilaniano gli uomini, mi adoperai ad alleviare quelle pene.
Quale maggiore lenimento, mi dissi, di quelle creature chiamate Muse,
allevate ed educate per stordire mediante la musica le sofferenza dei
maschi, esseri generosi e solitari, provati dalle battaglie.
Essi si fanno carico del mantenimento di mogli e figli, sono
responsabili della caccia, della pesca, di lavori faticosi e sudano e
danno il meglio di sé sperperandosi nella procreazione.
Calliope, dea dalle molte grazie e d’altrettante battaglie, mi parve
adatta a rallegrare gli accampamenti dei feriti e di quegli eroi che
armeggiano lance e scudi, con la leggiadria dei suoi canti. Invece sua
sorella Melpomene, più sommessa e composta, fu da me eletta regina del
canto funebre per i caduti sul campo.
Però durante banchetti e gozzoviglie, non vi fu musa più richiesta
della languida Tersicore, che, sdraiata sui triclini in una con i
convitati, si perdeva del tutto sulla lira dorata. Tersicore non teneva
in alcun cale né si rizelava verso mani ubriache che l’abbrancicavano,
ben sapendo che in vino non stat, neque habitat luxuriam a lungo.
Talvolta la sostituiva Euterpe che a torto veniva considerata
musicalmente meno valida di Tersicore.
Tutta invidia femminile! Nessuna come lei era capace di comunicare all’uomo
la sfrenatezza. Posseduta dalla musica, era lei stessa una tastiera.
Arti, nervi, falangi, tendini, cartilagini, capelli, si dissodavano in
mille motivi... Io, Zeus, quando realizzai quali risse suscitasse Euterpe e quante gelosie tramite 1’alfabeto musicale che sprigionava
da sé e come rendeva gli uomini fanatici della danza, dell’incontinenza,
dovetti evitare che si scatenassero lotte di possessione. Non volli
soprattutto che i guerrieri, inebetiti dal suo istrumento e da smodate
assunzioni di vino, si smosciassero sui campi di battaglia.
Onde evitare che il suo strumento producesse ulteriori efferatezze, io,
Zeus, detentore di ogni potere e saggezza, ne trattenni gli eccessi
devolvendoli a mio esclusivo beneficio piuttosto che fomentare ulteriori
discordie per il mondo. Però dopo i fervori giovanili fui costretto a
lasciar andare Euterpe mio malgrado. Quassù, la giunonica consorte,
infuriatissima, fraintendendo le mie frequentazioni e invidiosa della
acerba beltà della Musa, ha creato qualche problema. Ora, sotto 1’
incombente sorveglianza sonnacchiosa e sempre più rugosa di Giunone, mi
accontento degli inni di Polymnia, tutt’altro che eccitanti e fingo d’estasiarmi
ai salmi celestiali di Urania.
Zeus
Fine quarto racconto
Il romanzo completo è composto di ottantanove brevi racconti
Rivolgersi all’autrice. |