E
IL MARE
VIENE E VA
di Clelia Sorrentino
Edizioni La Torre 1991
Per gentile concessione dell'autrice
Clelia Sorrentino, commendatore d’Italia, si alterna fra tetti e mare,
Roma - Torre del Greco, ove edita e dirige il più antico periodico
campano "La Torre" (1905) e presto il giornale del gruppo d’avanguardia
"gli Sfrattati". I racconti giornalistici, di poesia, i
racconti, i romanzi Zingara, Disamaro, Una panchina per Dafne (ancora
inedito) e questo "e il mare viene e va", hanno come matrice
comune Napoli, città irripetibile nell’ironia, nel linguaggio, nelle
contraddizioni.
Dicono di lei:
Walter Pedulla:
Avanguardia e surrealismo si mescolano agli echi di greche mitologie (Alcesti).
Come Savinio, la Sorrentino nell’estremizzare certi temi contro la
mentalità dominante, usa miscelare le lingue, pratica di urto linguistico di grande vitalità nella scrittura, caro alle culture d’avanguardia.
Adele Faccio:
I meridionali arricchiscono la lingua italiana. Bisogna recuperare il
linguaggio come musica e la prosa di Clelia la trasmette in luci
colorate che ricadono, come fuochi d’artificio.
Valerio Caprara:
Linguaggio senza pregiudizi, visivo, sollecita dubbi sull’immaginario,
toglie luoghi comuni fra i rapporti cinema - letteratura. Sarcasmo,
ritmo, densità d’immagini.
Mimmo Liguoro:
Un messaggio che viene dal Sud: bisogna ricominciare, ripartire per
fare, come dice l’Autrice, della nostra vita, un evento. Elemento di
disagio del vivere in una società in cui la ragione ha dichiarato
fallimento. Mistero e fantasia come necessità.
A. Maria Trapani: La prosa di Clelia non fa rimpiangere il più
splendido Hemingway: castissimo eros estenuante in personaggi
accattivanti ed inafferrabili. Linguaggio rivoluzionario.
Renato Civello:
Questo libro (Zingara), che si legge con piacere ed emozione,
è tra i
pochi che lasciano una traccia...
Mario Costa:
Tensione nei confronti della scrittura e di una tradizione
letteraria. Scrittura multimediale, mescola generi letterari, cinema,
muovendosi con modalità postmoderne.
Angelo Calabrese:
La cultura di un’epoca diventa espressione, bisogno di profondità
e di confronto per cui si cerca di vedersi con gli occhi degli altri,
specie quando la natura non ci consente di essere quel che si vorrebbe.
Anna del Boffino:
Volontà di riscatto della donna. Catturata mio malgrado da
"Zingara", essendo stata irretita che scriva in prima persona
un uomo, spostamento però necessario per esprimere la diversità e l’ermafrodismo
abbozzato della protagonista.
Mario d’Aquanno:
Disamaro, come "Morte a Venezia" di Mann, Napoli - Venezia
nell’aspetto più cupo di città in declino che vivono su lagune dalle
minacciose esalazioni, ma soprattutto che accolgono ogni iniziativa con
rassegnata apatia, come nell’Alenopis della Ramondino.
Flora di Roma:
Clelia ti conduce a un esame alla rovescia per cui ti fa pentire non
dei peccati che hai fatto, ma di quelli che non hai fatto. Se hai dei
tabù e non vuoi perderli, non leggere i suoi libri. Se ne hai e vuoi
perderli, leggili almeno tre volte. Se non hai tabù, tuffati in essi
voluttuosamente, sarà per te un’esaltante nuotata in un mare
catturante di spumeggiante champagne.
Hemingway. castissimo eros estenuante in personaggi accattivanti ed
inafferrabili. Linguaggio rivoluzionario.
Renato Civello:
Questo libro (Zingara), che si legge con piacere ed emozione,
è tra i
pochi che lasciano una traccia...
Mario Costa:
Tensione nei confronti della scrittura e di una tradizione
letteraria. Scrittura multimediale, mescola generi letterari, cinema,
muovendosi con modalità postmoderne.
Angelo Calabrese:
La cultura di un’epoca diventa espressione, bisogno di profondità
e di confronto per cui si cerca di vedersi con gli occhi degli altri,
specie quando la natura non ci consente di essere quel che si vorrebbe.
Anna del Boffino:
Volontà di riscatto della donna. Catturata mio malgrado da
"Zingara", essendo stata irretita che scriva in prima persona
un uomo, spostamento pero necessario per esprimere la diversità e l’ermafrodismo
abbozzato della protagonista.
Mario d’Aquanno:
Disamaro, come "Morte a Venezia" di Mann, Napoli - Venezia
nell’aspetto più cupo di città in declino che vivono su lagune dalle
minacciose esalazioni, ma soprattutto che accolgono ogni iniziativa con
rassegnata apatia, come nell’Alenopis della Ramondino.
Flora di Roma:
Clelia ti conduce a un esame alla rovescia per cui ti fa pentire non
dei peccati che hai fatto, ma di quelli che non hai fatto. Se hai dei
tabù e non vuoi perderli, non leggere i suoi libri. Se ne hai e vuoi
perderli, leggili almeno tre volte. Se non hai tabù, tuffati in essi
voluttuosamente, sarà per te un’esal-tante nuotata in un mare
catturante di spumeggiante champagne.
Capitolo 1
- Ma questa mi vuole saccheggiare.
Una vera e propria ingerenza nel mio passato. Roba da matti! Adesso che
fa? Posa la matita, chiude la cartella, mi penetra con i suoi occhi
verdi, pungenti, assetati.
Vuole a galla la verità Si tormenta nervosa le mani facendo scrocchiare
le dita. - Non sarò capace di ritrarti se non ti lasci conoscere, caro
Braccio - impone Divina. Odio persino il suo modo di abbracciare il mio
nome. - Ma no, è che sono un sacco timido. La verità è che a parlare
sono una frana.
In Oriente ho preso coscienza della poca importanza della mia persona e
mi sono abituato ai silenzi - buttò la scherzosamente. - Tutto in te
suona falso. Cerchi di parlare in romanesco e sei napoletano fino al
midollo. Fai patetici tentativi di girarla sullo scherzo e sei
completamente privo di ironia - Ora mi provoca! -
Questo bisogno di farmi conoscere, di confessarmi, io non l’ho mai
avuto - le dico, spero una volta per tutte. Non sento la necessità di
abbandonarmi ad un altro essere umano fino in fondo.
E non per sfiducia. Piuttosto perché mi pare di perdere la mia
identità di lasciare in giro brandelli di me. Quale religioso, sono gli
altri che vengono a espormi i loro problemi, a raccontarmi le loro
esperienze.
- Ma questi "brandelli", come tu li chiami - insinua lei con
nenia strascicata - questi brandelli rivelatori potrebbero essere utili
non solo a chi li ha patiti, ma anche a chi li recepisce, come nel
nostro caso.
- Baggianate. "Il dramma dell’uomo nasce dalla sua mente e ivi
ritorna", canta l’asceta Milarepa. Ogni esperienza appartiene
solo a chi la soffre, a chi di persona ci ha sbattuto il grugno, e ci ha
perduto qualcosa in proprio. Scaricarsene non è utile a nessuno -
affermo con sicurezza.
- Eppure, è una luce sul proprio mistero e sul mistero dell’altro
uomo; da quel travaglio, infatti, si può ripartire solerti, ma
rinnovati. Si dice "presa di coscienza" - insiste lei. -
Credimi, Divina. E’ la prima volta che parlo a qualcuno di queste
cose.
Divina ha cominciato a disegnare. Si sforza di non mostrare emozione, si
friccica e non sta un minuto ferma. Io, invece, arrossisco. Da una
signora come lei quel tu mi pungola brutale e sono passato anch’io al
tu. Alla mia età, alla sua, manco fossimo studenti. E poi, accettare di
farmi ritrarre!
Chi me lo ha fatto fare. E tutto per scandagliare sprazzi del mio
passato. Invece è lei, ora, che pretende di setacciare l’anima. Mi sa
che non disdegnerebbe neanche il corpo! Finora me la sono cavata.
Notiziole di me alla rinfusa farfugliate tra una futilità e una cosa
seria. Si illude, forse, come altre ingenue prima di lei, che tra un
uomo e una donna possa nascere un’intesa disinibita, un’amicizia?
Come farle entrare nella zucca che, anche se napoletano, non bevo
caffè, non canto, e un’amicizia come intende lei non l’ho avuta
neanche per uno del mio stesso sesso, se non da bambino, forse.
Comunque, i fatti miei non li ho mai raccontati a nessuno. E chi avrebbe
potuto capirli se sono un mistero anche per me?
Ho smesso persino di pensarci, tutto teso ad occuparmi degli altri. E
sicuramente va molto meglio così. Senza mollare la preda lei si
interpone fra i miei pensieri: - Perché ti fermi? Cosi facendo
interrompi il mio lavoro. Raccontami di te tutto quanto ti salta in
mente. Parla della tua infanzia. Dimmi cosa ha provocato la tua
chiusura.
E’ cosi dolce dialogare, trasmettere e, perché no?, donare un
pezzettino di sé. Spesso si ricevono tesori in cambio. - Ironico le
rendo difficile la penetrazione:
- Un pezzetto per volta, e ti ritrovi spappolato!
Come dirglielo quel che mi viene in mente? Lastrici solari ancora
infuocati da raggi pomeridiani roventi. Notti di plenilunio! Noi bambini
imparammo ad amarci da soli, facendo a meno degli altri.
Fin da allora, noi tre, Rosario, Pietro ed io, Braccio, sapemmo che
anche in amore sei solo, come quando nasci e quando muori.
Gli altri, le altre? Un contorno, un’idea, una fantasia. Li sorprendi
seminudi, in intimità, da uno spiraglio tra gli alberi, dal buco della
serratura. Irrompi in camera di tua sorella all’improvviso, spii nei
misteri della notte. Gridolini eccitati, voci alterate, cigolii, tonfi.
Corri, il cuore in gola.
La mamma che fa? La scannano. Grida. Apri la porta. Ti senti un eroe:
"Son qui io, Forte Braccio. Si, il cavaliere tuo". Tutta
discinta lei ride, mi abbraccia. Ed io: "Dormo con te? Ti
proteggo".
Da parte di mio padre, proteste, graffi. "Calci in culo,
fuori!" e mi deposita in camera tirandomi per il ciuffo.
Poi, le mie fantasie per sognare, e più sono tabù, più ti ci
arrovelli. |
Già a dodici anni
facevamo assegnamento su noi soli. Ci definimmo gli autosufficienti. Ci
sentivamo degli dei, non avevamo alcun bisogno di surrogati. I sensi di
colpa neanche ci sfioravano.
Non facevamo del male a nessuno. Ombre innocenti, corpi familiari e i
nostri sessi, come quelli degli angeli, alzati al cielo verso la dea
luna ancora non contaminata da navicelle spaziali che accettava, come
sempre, sorniona, distante, tributi spumeggianti.
- Sin da piccolo, - recito con distacco - mi sono esercitato ad essere
solo, a recepire i tradimenti, allenandomi persino a tradirmi da solo in
modo da non stupirmi per quelli che, comunque, mi avrebbe riservati la
vita. - Forse ciò è avvenuto in seguito a qualche incidente, a un
tradimento vero, vissuto in proprio? - e sottolinea le erre.
- Proprio intende sfotticchiarmi. Vado avanti ignorantone l’intenzione
- E così, mi sono esercitato al ragionamento, al confronto. Chi di noi,
per mera curiosità, per mettersi alla prova, o, quanto meno per
volubilità, non tradisce? - Io, per esempio, mai - spergiura lei,
serafica. - Abituato ai miei lunghi soliloqui, continuo ad ignorarla:
- Se noi per primi, dunque, ne saremmo capaci, perché risentirci quando
avviene il contrario? - proseguo - Perché stupirci, indignarci,
soffrire?
E, in ogni caso, non sarebbe preferibile premunirsi servendoci della
logica? Molto meglio, quindi, riuscire a raggiungere uno stato di serena
indifferenza, come insegnano i saggi tibetani, non addidandoci a
emozioni che prima ti portano all’estasi, poi ti fanno precipitare. -
- Ma è orribile, disumano, - protesta Divina - precludersi l’amore è 1’incanto
dei giorni felici presupponendo inevitabili il tradimento e la
sofferenza. Oh, no! Questa è fifa bella e buona per impedirsi di patire.
Personalmente considero il dolore come lo scotto da pagare per la gioia.
D’altra parte, non è forse cosa vecchia quanto il cuculo che proprio
il loro avvicendarsi o coesistere è linfa portante della vita stessa?
Non agitarti cosi, sta un po’ fermo, Braccio, rilassati - invita,
proprio lei che è il moto perpetuo, corrugando la fronte. Tocca a me
riprendere pacato:
- Viviamo in un mondo dominato dall’incoerenza, dall’imperfezione.
Per questo mi rifugio in ciò che è fuori dall’umano: Dio, l’unica
perfezione possibile. Questo il senso e la nascita della mia vocazione,
della solitudine che ho cercato isolandomi.
Ho rinunciato all’insegnamento per essere più libero, per calarmi
meglio nelle mie profondità. Ho girovagato lontano dal mio paese, da
tutto ciò che possedevo non solo materialmente. Avevo bisogno di mirare
a una certezza l’unica speranza era in quell’amare il silenzio
poiché, in me, non c’era presa per un amore umano. Il mio essere era
teso al sovrumano.
Così mi ritirai dalla scuola e cominciai a vagare per monasteri ed
eremi, per il mondo. Ti ho detto tutto - concludo. -
Ma lei non molla, anzi incalza:
- Non sei fuggito per il terrore di perdere la tua identità? Per
salvarti dall’angoscia di non venire corrisposto?
- Quasi a malincuore confesso: - Anzi, io sono stato un perseguitato
dall’amore, o almeno da quello che voi donne chiamate tale. Qualcuno
ha tentato persino di togliersi la vita per me. Mi viene alla mente l’aforisma
amaro di uno scrittore che ho apprezzato in gioventù: "Ogni uomo
uccide le cose che ama".
Nel caso di questo individuo, la passione era unilaterale, impossibile.
Pretendeva di donarsi cosi incondizionatamente da smarrirsi del tutto in
me. Una storia dolorosa, ne avrai sentito parlare. Ha procurato più di
una leggenda legata al mio nome, nella nostra cittadina. Trista fama de
homme fatal, la stessa che perseguita le persone dotate di un
involucro... avvenente.
Sensi di colpa. Sentirsi responsabili di una infatuazione irragionevole,
ostinata. Una vera persecuzione, non avendo volontariamente agito in
maniera tale da provocarla. Quasi una osmosi tra maestro e allievo
eccezionalmente dotato.
La persona in questione pendeva dalle mie labbra. Si insinuava nella mia
casa. Era fanatica del be-bop, suonava il sassofono improvvisando sugli
accordi con ossessiva scansione ritmica. La accompagnavo al piano. Alla
mia partecipazione contrapponeva uno stile allusivo, distaccato, alla
Lester Young, per intenderci.
La sua tossicodipendenza la aveva resa ipereccitabile. Mi spiava, mi si
offriva schiava e mi voleva schiavizzare e questo lo chiamava amore. Si
voleva impadronire di me o dell’idea che aveva di me non solo
attraverso i mistici canali della religione che insegnavo a scuola e
della musica, ma anche carnalmente.
Ero ingenuo e lo capii tardi. Invano cercavo di spiegare che ognuno è
suo e come tale ha il dovere di non straripare, di non distruggere.
- Subito interessata Divina abbandona il foglio sul grembo: - Parlami di
lei, vuoi? Continua - implora l’indiscreta, volgendo il profilo
gentile verso la luce, la dove il tramonto filtra tra le piante del
terrazzo sui tetti romani e imporpora la cupola ottagonale del Bramante.
- Ma non hai capito? Non era una lei, era un lui - le soffio a malapena,
improvvisamente sfibrato e rivolgo anch’io lo sguardo verso le
equilibrate geometrie di Santa Maria della Pace.
Mi sfiora una specie di carezza. Una nuvola di capelli rossi mi avvolge.
Nella pausa pesante mi pare di udire un "sii benedetto!".
Quando la sbircio, anche il suo viso e infiammato forse dal tramonto.
Dalla scollatura rimbalza un seno abbronzato in libertà. Qui urge che la
disorienti per smontare lo spessore della tensione. Debbo pur
resisterle. Non vorrei che dal ritratto emergesse il mio turbamento.
Le donne sono capaci di tutto, eccedono in verismo, come nel ritratto
che lei, Divina, fece a mia madre. - Che animale hai? - le chiedo con
aria blasé. - Perché? Una gatta. Che ne sai tu che ho un animale in
casa? - ribatte stupita.
- Dall’odore dell’appartamento. La camera sente di acre a tratti.
Avvezzo ai boschi, ho un olfatto particolarmente sensibile - ammetto a
mo’ di scusa.
Forte del suo disappunto, mentre piegata sul foglio ha ripreso il
disegno, le faccio subire un assaggio di bassa tecnica maschile. E
intanto mi costringo a fissare lo scollo della sua camicetta, come se
qualcosa non fosse a suo posto, e il silenzio rende il mio sguardo
sempre più pesante.
E’ coraggioso tener duro stante la mia naturale timidezza. - Che c’e?
- segue il mio sguardo, timorosa di non essere in ordine. Curiosamente,
come cane che annusa, scruta anche lei il proprio scollo e gli da una
sistematina con la mano destra.
Questo volevo provocare! Alzo un sopracciglio volutamente sprezzante,
lascio ricadere un braccio sul tavolino, accendo due sigarette. Senza
parole gliene offro una. Affranco cosi la mia villania con questa
borghesuccia preoccupata della sua scollatura.
Dovrebbe saperlo che, nel bel mondo, certi comportamenti disinvolti
prevalgono su quelli dell’istinto e del pudore. Intanto, sono stato io
a piegarla. Sono anche riuscito a distogliere 1’attenzione da me, da
una storia che scotta. Mi sento riequilibrato.
Esausti, ci diamo tregua infine sul terrazzo, al fresco. Si alza. Mi
volge le spalle mentre depone fogli, pennelli e matite. Folate di vento
giocano a rimpiattino fra i pois dei morbidi pantaloni di seta al
ginocchio, svelano la sottigliezza delle cosce, l’armonia della
silhouette.
Mi turba il suo chic di donna di mondo, la modernità, la nonchalance,
uno stile tutto Divina: perfetto dosaggio di profumo, parrucchiere di
classe, abbronzatura totale. Non ostenta. Sete preziose come pezze
positanesi drappeggiate da regina, voce che non straccia il silenzio, ma
se ne impadronisce, lo rimanda, lo riecheggia, lo incalza con brio: le
giuste pause, 1’adagio, un mormorio crescente, note tintinnanti come
cristalli di Boemia.
La casa le somiglia in armonia ed essenzialità. Il caldo legno di noce
lungo tutto il soffitto lega gli ambienti, da loro respiri ampi, li
rinfresca, li ovatta. Non oso confessarle che mi scappa la pipì. Troppo
sfrontato se dicessi:
"Ho un bisogno idrico "e" ho le mani tutte
appiccicate" non sa di ipocrisia? Se le chiedessi tout-court:
"Il bagno, per favore"?. Alla fine, opto per la soluzione
liceale: alzo 1’indice e il medio.
E’ fatta. Maledetta timidezza! Divina mi accompagna nell’intimo
luogo prezioso. Anche qui soffitto in legname del ’500 perfettamente
restaurato, vasca incassata zeppa di essenze, collezione di statuette in
corallo e pietre dure. Riconosco la mano del Maestro, un caposcuola
della nostra città che ha rivoluzionato 1’arte di incisione dell’oro
rosso.
E conchiglie, vasetti nelle nicchie. Dappertutto piccoli asciugamani con
sopra scritto per esteso DIVINA. Più personalizzato di cosi! Persino un
saggio della sua biancheria intima. Inciampo in un lembo della vestaglia
di seta écru abbandonata sulla poltrona di vimini. Mi chino per
sistemarla e un paio di mutandine della stessa seta scivolano sul
pavimento. Sarò arrivato troppo presto e non avrà avuto il tempo di
infilarle, non posso fare a meno di rilevare.
Affascinato da tanto buon gusto, soffoco, non riesco ancora a far miei
gli insegnamenti di Sutra: "Agli occhi di un Budda tutti gli
splendori del Re sembrano sputo e polvere. Ai suoi occhi, l’oro, l’argento,
tutti i tesori appaiono ciottoli".
La ritrovo con un sosia in abbandono sulle cosce. Una gatta soriana,
fulva come lei, occhi verdi, corpo scattante, atteggiamento grintoso.
Accidenti’. Vanno affrontate in due, ora. E dire che i gatti non sono
la mia passione. L’unica e rifugiarmi nel pianoforte: mi ci tuffo.
Strumento di tutto rispetto.
"Anche io suonavo, una volta" mi par di sentirla, "ora
non più, manca il tempo, il lavoro armatoriale, mettici la pittura, e
poi le mostre, e bla bla bla... E’ stato accordato di recente".
Ogni volta che si affronta un nuovo strumento è un momento unico. Non
sai con quale e con quanta voce risponderà alla pressione delle tue
dita, hai paura di batterlo troppo forte o non abbastanza, perciò c’è
pericolo che tu faccia cilecca, o che la tastiera ti respinga come uno
sconosciuto.
Cosi come quando ti metti a domare un cavallo. Ogni bestia reagisce a
modo suo in quanto a cambi di velocità, irruenza, capacita di saltare
alto, di scartarti all’improvviso senza complimenti sul terreno.
Chiudo gli occhi, le mani in dirittura d’arrivo sulla tastiera e
questa benedetta donna finalmente tace. Mi precipito sui tasti di getto
scaricandovi la tensione accumulata in quell’andirivieni nel passato,
in quelle scaramucce pseudo-amichevoli.
Qui trovo la mia distensione.
Nuovo-vecchio amico, rispondi. Vola la mano destra sulla tastiera in
cerca del fraseggio, mentre la sinistra misura nell’accordo precise
scansioni ritmiche. Concedo un saggio dell’esuberanza della mia
tecnica in un pezzo jazzistico di grande mestiere. Premo, percuoto
selvaggio, quasi volessi punire chi si permette di pormi in discussione.
Dimentico del tutto la presenza dei quattro occhi verdi. La gatta,
Divina. Il suo pianoforte è diventato il mio. Lo posseggo. Vive grazie
al forte-braccio guidato da un cervello, cioè grazie a me.
Il pianoforte e Braccio, Braccio e il pianoforte. Mi calmo nei blues
"I must have that man" e "The man I love". Le note
salgono, si attutiscono nel legname de1 soffitto, nell’unico grande
tappeto cinese, si disperdono tra le folate di vento sul terrazzo.
Quando rivengo, gli occhi sono diventati due, seppure ingranditi dall’ammirazione
e dalla commozione, la gatta si è raggomitolata su se stessa, si è
addormentata in grembo a Divina e fa le fusa godendo del calore del suo
ventre. Fuori è notte.
Fine Capitolo 1.
Il romanzo completo è composto di dieci capitoli.
Rivolgersi all’autrice.
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