UNA
PANCHINA
PER DAFNE
di Clelia Sorrentino
Edizioni Ripostes - Salerno 1884
Per gentile concessione dell'autrice
La "panchina" è il luogo simbolico e realissimo in cui si
consuma il destino erotico ed esistenziale di Dafne, una donna
straordinaria ed ordinarissima, che si lascia penetrare, ma non
possedere, dalla forza, presunta o vera, dell’altro sesso. La benda,
che protegge i suoi occhi durante l’atto amoroso, le consente una
difesa oltranzista dalla fallacità di una vita senza senso.
La "panchina", archetipo di una condizione marginale e
subalterna, assume nel romanzo la specifica funzione di ribaltamento
storico di una condizione di sopravvivenza, che avvolge la protagonista
della vicenda e, intorno a lei, le donne, compagne di esaltazione e di
disincanto.
Il linguaggio si raddensa su livelli diversificati, assecondando,
soprattutto nell’ultima parte, la voglia di aderire ad una realtà
degradata, fatta di uno slang quotidiano, carico di violenta
sopraffazione.
Sopravvivenza e sopraffazione sono, dunque, i motivi conduttori di un’opera,
che acquista una intensa rifrazione concettuale, quando medita, in toni
non consunti, ma biograficamente originali, sul rapporto uomo-donna, tra
cecità e chiaroveggenza, come il centrale richiamo al mondo dei
tarocchi conferma.
Anche questo, come gli altri spartiti narrativi dell’autrice, esprime
una sulfurea aderenza alle cose del mondo, che non esclude una
traboccante astrazione: passione e ragione, come nella più autentica
tradizione meridionale, si congiungono per esaltare e raccontare la
presenza e l’assenza di una femminilità che, alla fine, nella
maternità ritrova il bandolo della propria continuità.
Dall’apparente babele di parole e di situazioni emerge l’immagine di
un mistero, che si svela gradualmente, pionieristicamente, inneggiando
alla libertà, ma assaporando anche il piacere recondito di tesori,
degni di essere preservati da un’usura disumanamente selvaggia. Il
romanzo si carica, cosi, di violenza e di dolcezza, di ironia e di
verità, rivelando la tensione creativa di una donna, che vive una
condizione naturale, avida di prospettive dialettiche e di rifrazioni
drammatiche.
Francesco D’Episcopo
La Campania, Napoli, Torre del Greco, il golfo, le isole, il Vesuvio
che incombe, il terremoto che sommuove, il bradisismo che fa ondeggiare
la terra...; la gente che viveva sul mare, del mare, per il mare... e
che ora non vive più - sopravvive - di contrabbando, di traffici
illeciti, di truffe, di rapine, di furti grandi e piccoli e ha perduto
il canto e la poesia che la faceva ricca anche nella povertà. Era
povertà, adesso e miseria. Perché era viva
e vissuta e adesso è squallida e
senza riscatti. Un mondo di allucinati, ubriachi, drogati, martirizzati
dalla follia di aspirazioni, tutto sommato, meschine, senza grandezza,
senza qualità. Qualcuno si ribella. L’unico modo concreto e
andarsene, emigrare in luoghi più ampi, dove c’è uno spazio più
vasto e un tempo più largo. Il ritmo del tempo misurato sulle
lontananze - una volta quelle dei lunghi imbarchi - oggi quelle dell’esigenza
di migrare definitivamente, per trovare altrove quel lavoro che qui
ormai non si riesce a trovare - segnato sempre dal ricordo - amaro - di
quello che si è perduto e non si recupera più. Non si sa, non si può
più ritrovare, perché tutto è mutato e perduto, scomparso, affondato
in miserie che sono sostanzialmente le stesse. Le solitudini affettive,
cercate, magari, per non rivelare neppure a sé stessi la profondità
delle proprie sconfitte. E' il mutato mondo delle donne, una volta chiuso
formalmente nella operosità della casa, faticosa e ripetitiva, monotona
e limitante, ma oggi allo sbaraglio in complesse ricerche di autonomia e
di indipendenza, facili e spontanee in alcuni casi, in altri complicate,
deludenti e amare...
Adele Faccio
Filava Melis, al fuso un filo fine. Saffo
CAPITOLO I
Il posto deve essere questo senz’ombra di dubbio:
ha preso appunti. Dopo il cancello, sentiero a sinistra, fontanile, poi
a destra attraverso il bosco, sempre diritto per circa un chilometro.
Punto di riferimento: il laghetto. Quindi il bosco più fitto, secondo
cancello, di solito accostato: cigola infatti sinistramente su un’ulteriore
strettoia. All’improvviso, nonostante il fiatone per la salita, lo
squarcio che abbaglia.
Una radura da scenografia, spiazzo circolare, rotondo, a picco su lidi
frastagliati, scoscesi dirupi. Dal lato opposto verdeggiano colline
alternate a promontori rocciosi tra agavi, fichi d’India, ginestre.
La cima innevata del Vulcano sovrasta la vallata con azzurri laghetti e
ripide pareti. Stratificazioni di rocce vulcaniche vanno a strapiombo
sul fiume. Intorno, vis-a-vis qualche panca a debita distanza, e
aiuole variegate per sfumature di verde, fiori in boccio. Sembra un
posto privato per quanto e curato.
Un giardino all’italiana. Non mancano due fontane gemelle con amorini
che giocherellano a soffiarsi acque. Sull’estrema destra la casina
ombreggiata da tendoni per uno snack, ricavata da una vecchia
piccionaia.
Siede sulla panchina segnalata, quella di centro, che affaccia
direttamente sul golfo, cinta alle sue spalle da un’alta siepe fitta,
misteriosa: ci si affida illanguidita.
Il signore con cui ha appunta- mento ha del gusto, non c’è che dire.
Il paradiso, tutto per sé. E in anticipo. Ha deciso.
Questo il suo quartiere generale, la finestra sul mondo, la sede di
quelle scoperte che dalla vita le sono state finora negate, o, bisogna
che lo ammetta, che lei, troppo compresa nei ruoli dalla tradizione
affidatile, dal ristretto angolino di mondo in cui era rifugiata, non si
è affacciata a scrutare, a indagare.
Infatuata da quanto le pareva aver conquistato per sé, cieca a
spettacoli e ad avvenimenti più vasti.
Si stiracchia, abbacinata dalla distesa verde-azzurra mitigata da pini
secolari, ombrelloni naturali intorno alla radura. L’abbraccia. Pini
marittimi, palmizi, tronchi squassati, squamosi d’anni, scaglie che si
sovrappongono come sulla sua faccia le grinze.
Cime e ciuffi di palme sventagliano fronde alle brezze di un maggio
clemente, confondono mormorii a lontani giochi di bambini, a sospiri di
bambinaie, a brontolii rassegnati di anziani, a rombi di motori, echi
stanchi, sfocati della città.
Si intrecciano i bisbigli mentre estrae dai tasconi fili di lane,
gomitoli per creare tasselli. Comporranno uno scialle, chissà, una
coperta, senza disegno preciso. Mani occupate, pensieri che spaziano
sgombri da concentrazioni intellettuali o da angosce di ricordi
sgraditi.
Una catenella tira l’altra, sovrapposizioni, orditi di tessitura
imbastiti con il piccolo uncino in alternanze di punto basso, punto
alto, cordonetti intrecciati di lane, cotoni, lini, in quadrati,
triangoli, tondi, da organizzare quando avrà. voglia di più vasti
progetti. A casa si sentiva vecchia.
Il tempo, nonostante il da farsi aveva il suo peso di piombo, scorreva
pigro, pedante, tra fatiche, delusioni, confusioni, umiliazioni. Qui è
magico, fluido in questo oziare. Ritrova i vent’anni in una primavera
tardiva, ancora capace di emozioni. Maggio la irrora, le pervade i
sensi.
E' ricca di vita, una miliardaria che non possiede una lira. Tornano
vergini, intatte, le sensazioni che provava da. ragazza: sentirsi viva,
percepire, assorbire, lasciarsi inebriare dagli umori del parco che
spazzano via gli anni della routine.
Non c’è anima viva nello spiazzo, eppure non è sola. Abbandona il
lavoro in grembo, si dona ispirata, occhi socchiusi, viso levato al
cielo, alle voci fruscianti degli alberi.
Non solo, e c’è dell’altro, più vicino a lei, esattamente alle sue
spalle. Mette da parte fili e uncinetto, si sporge, sbircia tra le
fronde fitte della siepe, anzi, per meglio penetrare con l’occhio, si
crea uno spiraglio spostando piano il fogliame con entrambe le mani.
Non crede a ciò che vede. - Gesù, alla luce del giorno, come bestie! -
Dall’agitazione non può restare all’inpiedi, si china scandalizzata
sullo squarcio tra le foglie, cosi da essere più aderente al posto di
osservazione.
Sulla panca, spalla a spalla con quella da cui osserva, una giovane
donna vestita di scuro, coperta di tutto punto, gli occhi, la fronte,
parte del naso fasciati in una lunga benda nera, è in ginocchio. Vivono
di lei due narici frementi, dalle labbra socchiuse respiri affrettati.
La scorge di profilo, e il caso di dire sigillata nel corpetto fino al
collo. Ampia gonna longhette, stivali neri, castanoramati i lunghi
capelli imbavagliati anch’essi dalla sciarpa sulla nuca. Stormisce,
tutt’uno con le fronde, ai movimenti di un tizio di sicuro più maturo
di lei, grosso naso, testa liscia corvina, rada alla tempia, innaturale
nel suo ordine: sembra tinta.
Ginocchioni anche lui, e completamente aderente dietro, anzi dentro di
lei fino a confondersi. Le sembra di averlo visto da qualche parte quest’essere
oscuro, impenetrabile... Ma dove?
Con l’età la memoria fa cilecca, si sa. Dal completo di grisaglia
grigia, la parte bassa coperta dalle pieghe della gonna, fuoriescono i
terminali dei pantaloni e nere scarpe lucide.
La bocca spalancata nell’estasi, gli sfuggono suoni disumani come
muggiti, barriti stravolti, mugolii che il vento dissemina, disperde.
Suo malgrado da curva che era, cade ginocchioni anche lei, Dafne, sulla
panca. Palpita, dorso all’aria, del delirio dei due.
A dispetto del suo essere scandalizzata, soffre della tortura di Tantalo.
Irresistibile forza d’attrazione le si propaga attraverso l’amore
degli altri... Stende il braccio, vaneggia?, vorrebbe afferrare anche
lei con tutto il suo vecchio corpo, nell’istinto umano più naturale
del mondo...
Per la prima volta sa che poteva esserci un altro modo anche per lei,
non un obbligo frettoloso senza variazioni sul tema, senza i crescendo
cui si strugge, non protagonista, negletta. L’uno nell’altra il duo
non viene sfiorato dal dubbio, dal pudore di venire scoperto essendo
probabilmente tale rischio calcolo premeditato, componente essenziale
dell’esaltazione en plein air.
Il perché della benda di lei: un obbedire cieco ai voleri del suo
signore, un affidarsi a uno sconosciuto (1’uno vale 1’altro), o una
propria necessita di mistero, un aderire totale al buio in cui questo
sinistro compagno, imbalsamato e massaggiato a un tempo (Dafne non può
non rabbrividire istintivamente in un connubio attrazione-repulsione)
dentro il suo essere affonda?
Ma questi non la smettono mai; possibile che non accenni a diminuire il
loro tormentoso galoppo come in una sinfonia in cui il variare dei tempi
non denota perdita di tensione, anzi rimescola anche lei, alla sua età,
in una fregola mai provata, indipendente dalla volontà. O forse lo
vuole provare anche lei questo spasimo, questa croce e delizia che la
inchioda, sedere per aria, mani anchilosate ad ampliare la visione,
sguardo affascinato alla panca.
Non scappano mica, come fachiri, incuranti dei ferri del sedile che
sbucciano loro la pelle, di certo rendono le ginocchia doloranti.
E allo stremo Dafne, vibra all’unisono coi loro movimenti
parossistici, si dimena, vittima della stregoneria che la unisce alla
coppia diabolica. La ragazza smania spossata, ora le fuggono lamenti
flebili, una follia che trova risonanza nella femminilità di Dafne
negata fino ad oggi; agita i fianchi, lui da colpi da animale ferito,
selvaggiamente si spreca, forsennato digrigna i denti, serra gli occhi,
la faccia accartocciata dallo spasimo.
Ora le imbavaglia la bocca nel palmo della mano ad evitare 1’urlo, con
forza sovrumana le infligge l’ultimo colpo, la spacca in due, poi sfiacchito le muore entro la gonna sbattendola lunga distesa sotto di
lui contro la panca.
Ancora affanna, la bocca vogliosa appassita le bacia gli orecchi, di
certo alita intime cose. Lei sempre supina, immobile, non partecipe. L’uomo
non vuole perderla, protrae ancora l’ebbrezza, l’avvinghia, la
stritola sotto di lui nei guizzi di un abbraccio agonizzante. Lei non da
segni di vita o forse li cela sotto la fascia.
Suda e trasuda Dafne nel primo fremito risolto di sessantenne cui si
svela un mondo inatteso. Ora l’uomo estrae dalla tasca spessi occhiali
da vista, emerge abbottonato dal corpo di lei, i pantaloni lievemente
spiegazzati.
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Clelia Sorrentino negli anni 70
Si guarda in giro sospetto, rassicurato assesta le stanghette delle
lenti più volte; deve essere gesto abituale. Chi sarà mai, un attore?
Sembra finto dopo il momento di verità. Gli cogli in un baleno l’ironia
dello sguardo, il ghigno sulla bocca sfiorita.
Goffamente le ricompone la sottana, la solleva, la siede accanto a sé.
Lei una vera signora. Vera? in quella pubblica posizione indecente,
senza scomodare monsignor Della Casa, che ne direbbe Willy Farnese o il
più attuale bon-ton? Piuttosto un insolito fantoccio umano cui l’apprendista
stregone dà. la carica, l’animazione. Lui adesso, dorso a punto
interrogativo, vorrebbe scoprirla, svelare il mistero della benda sugli
occhi; la ragazza scuote il capo, si nega. Concessasi tutta nel più
perverso corpo a corpo, si trincera a difendere l’intimità del
pensiero, a non farsi derubare di quel che ha dentro. Quel che resta le
appartiene, si lascia fare ma non si espone, non si lascia frugare nell’intimo.
Scatta come molla a lungo trattenuta, Dafne. Qualcosa, un oggetto duro,
con una punta, la tasta, le indaga il groppone in più punti e sotto il
largo grembiule (è ancora ginocchioni), un fiato caldo l’annusa, le
umetta le cosce. Ma guarda, un cane, un bastone! Il cieco dell’inserzione.
E lei che se n’era dimenticata!
Zompa all’inpiedi dinanzi all’invasore che ora fruga a vacante col
suo bastone. - Dafne? Dove cacchio s’è ficcata - smadonna a destra e a
manca. Nella confusione, colta in magagna, lei dà la zampa, ma che
dice?, la mano, ad entrambi, cane e padrone.
Da quando e sola fa fatica sempre maggiore ad entrare nella realtà. E
quello dell’appuntamento in questa parte precisa del parco. Cercava
una lettrice tramite inserzioni pubblicitarie; Dafne invece una ragione
di vita nel posto ove si è rifugiata, una città nuova per lei dove
essendo una sconosciuta può comportarsi come sente e più le piace. Gli
deve la goduria di questo posto di sogno, anche se le ha guastato sul
più bello un momento di intimità a... trois.
Chi l’avrebbe mai detto, lei guardona per caso, lei ficcanaso
nelle intimità altrui... Con voce sospettosa senza mordente, da mondi
astrali, il tipo indaga cosa facesse accosciata sulla panca.
Incredibile! L’ha sentita attraverso il bastone oppure l’ha
preceduta, sulla stessa panchina, seppure privo del bene della vista, in
un’intensa attività voyeuristica?
Non commenta, forse è deluso, la pensava più giovane, la voce tutt’altro
che spenta lo deve aver tratto in inganno. Lei è paralizzata dal disagio
di non essere vista ma palpata. Si sente scoperta. Serra le gambe, si
irrigidisce senza necessita.
Da. sempre la imbarazza uno sguardo perduto nel niente, la costringe a
guardare il nulla lei pure. Scioccamente arrossisce anche se lui non la
vede, non sa dove mettere le mani. Non trova di meglio che fare i gesti
severamente proibiti dai genitori: infila un dito nel naso, lo libera da
cacchette.
Ha una leggera rinite, non respira se il setto non è sgombro. E si sente
libera d’improvviso. Se lui fosse un tizio normale avrebbe di già
preso il furgone, invece trova il coraggio di fargli capire di frenarsi.
Lei è là per prestargli anche gratuitamente la voce, ma non tutta
intera se stessa, la vita, i pensieri. Le vengono in mente come
parallelo due labbra che si schiudono, nell’eccitazione s’ingrossano
tumide, la fascia scura calata sugli occhi, il veto della ragazza
misteriosa immobile sulla panca dietro la siepe; che ne sarà di lei? Ma
pur a viso scoperto, il più enigmatico è lui, l’essere cui si
affidava; chi sarà mai?
- Cosa ti ha riservato la vita per essere cosi poco umana, cosi dura?
Siamo entrambi in un’età in cui si sciolgono le riserve - le fa il
cieco.
- Non val la pena di trincerarsi dietro barricate. Come vedi, sono tutto
allo scoperto. Tu, fortunata, puoi farti un’idea attraverso gli
occhi di come posso essere io anche dentro, invece io non posseggo che
queste mie mani e un bastone per sondare. Se li uso perché offendersi,
perché sentirsi violati?
- La voce ha toni bassi, accorati, ora. Le sopracciglia gli si ripiegano
congiungendosi su occhi vuoti, di vetro, visibili nonostante gli
occhiali bronzati. Pur essendo di media statura, sembra più alto per il
busto ostentatamente eretto, come chi ha lungamente cavalcato. Infatti,
conferma, è stato un cavaliere; capelli sale e pepe, all’Umberto.
Indossa chiari jeans giovanili, pullovers un po’ consunti ma di buona
lana su strepitosi mocassini bicolori, minuscoli però, calzerà
perlomeno taglia 36 questo Mr. Cenerentolo, ma quel che è imperdonabile,
mio Dio! ...corti calzini. A Napoli, nella sua città, persino ’ncoppa
’e quartieri, non esiterebbero a bollarlo da... mezzacalzetta.
All’improvviso le fa tenerezza, fermo restando il sottofondo di
fastidio. Scaccia da lei la compassione che la attira verso i
diseredati, i disadattati, e legge gli articoli dei quotidiani che
preferisce. Pare impegnato in politica e cultura, disinteressato allo
sport.
E' un intellettuale o lo è stato e la interroga sulle sue preferenze nel
settore. - E' rimasta a letture giovanili, ai classici - gli dice -. Da
adulta, tutte le volte che provava a leggere, difficilmente era
catturata dai libri; per quanto si sforzasse, le lettere le ballavano
dinanzi, divorata com’era da problemi quotidiani ed esistenziali.
La sera poi, stressata, non desiderava che chiudere gli occhi.... Marito
e figli non condividevano questo suo disinteresse, la disinformazione,
non le lesinavano critiche, lazzi, frecciate, che peggioravano la
situazione, l’handicappavano facendola crogiolare di più nella sua
ignoranza. Sebbene legga ad alta voce, anche adesso non riesce a
concentrarsi.
D’un tratto però è distratta da una foto sul giornale! Si batte la
mano sulla fronte. Eureka! Ora si che collega. Quell’uomo da
brivido, quello della panchina, è in prima pagina sul
"Messaggero".
Lo riconosce anche se sulla panca era visibile per lo più di dorso, di
profilo, e poi con gli occhi serrati, faccia stravolta, spalle
incassate; anzi l’aveva intravisto oltre che su varie riviste pure in
visita nella sua città; e venuto all’indomani del terremoto dell’80,
lei intrappolata in una babele d’ingorghi.
Divora la didascalia. Proprio lui. Che rischio in quella posizione
contorta nel parco, lui, un chiacchierato membro del governo per come ha
gestito i fondi del terremoto, un uomo del cui potere occulto la gente
parla e straparla per cui e difficile decifrare dove il mito diventa
realtà e
viceversa.
Fa sparire il foglio sull’altro capo della panca, accanto al lavoro a
maglia. Dopo lo leggerà a fondo, quando sarà sola. Certamente il cieco
non farà caso alla sparizione; il quotidiano e oggetto di consumo,
prendi e getta.
La radura si va animando di bambinaie con carrozzine, impiegati all’uscita
degli uffici, signore con cappellini dirette alla casina per un caffè.
Una ragazza grassottella, in scarpe da ginnastica, rabbonisce il cane
che ringhia, le affida giacca e borsa per correre nel parco in libertà,
per smaltire qualche chilo di troppo.
- Se le sta bene - la voce di Dafne recita impersonale al cieco - potrò
lavorare per lei una volta alla settimana, qui, su questa panchina.
Per il compenso mi rimetto a lei, anzi se ha problemi sono a
disposizione gratuitamente - e nel frattempo dà una spiata alle sue
spalle allargando di nuovo le fronde della siepe, ma di quei due neppure
l’ombra.
La panchina incriminata vuota, un’isola tra le siepi, nascosta. Bella
improntitudine; un uomo cosi importante. Lo si potrebbe ricattare. No,
lei è troppo perbenino, composta, è da escludere che sia una del
mestiere. Di parecchio più giovane del suo partner deve
eccitarlo al parossismo per esporsi a quel modo, all’aperto,
rischiando lo scandalo. Spinge lo sguardo più lontano, attorno al
laghetto.
Alcuni giovani si beano dell’ultimo sole sul prato; un gruppetto gioca
al pallone, poi verso il bosco, lo chiamano il boschetto degli amanti,
ma a quanto pare gli amanti meglio si compenetrano sulla panca. E il
pensiero si fissa attorno a quei due, per lei un’ossessione. Chissà,
già veterani o alle prime armi?
- No, negli altri giorni non posso leggere per lei. Impegni già assunti
- mentisce e si difende. Secondo la logica maschile vuole sfruttarla
allo stremo, spremerla all’osso come lettrice.
La signorilità non
lo esime dall’accettare di buon grado la generosa offerta gratuita di
una sconosciuta, anzi con degnazione, come dovuta al suo stato, omaggio
umanitario alla propria disgrazia.
Neanche chiede o si domanda se Dafne può permettersi economicamente di
fargli elemosina della sua voce. E intanto lei, dietro sue indicazioni,
si spreca e si spolmona china sul libro, come da sempre è sua
consuetudine nella vita.
Comincia lì dove Ines, la lettrice precedente, aveva interrotto; c’era
un segno, un angolino piegato del volume. Si sfiata senza badare troppo
ai significati pur di far risaltare gli alti - bassi - pause - crescendo
- le diverse inflessioni. Ha la gola secca, e lui non accenna ad averne
abbastanza. Persino il cane ai loro piedi immobile, non scodinzola per
lo spiazzo.
Bestia e padrone, beati, assorbono vibrazioni, energie, attraverso la
voce di lei, mentre la luce del giorno svanisce cosi come volge alla
fine il Viaggio in Italia del Goethe: l’elegia di Ovidio
che, condannato all’esilio, dovette abbandonare Roma in una notte di
luna. "Non c’era verso che mi uscissero di mente quei suoi versi
nostalgici.
E ripetetti quei distici che in parte mi rifiorirono spontanei alla
memoria, ma che in realtà intralciarono e incepparono la mia vena
poetica, la quale, anche più tardi rievocata, non mi rispose mai
più".
Gli restituisce il libro, contagiata di nostalgia per la propria vena
poetica. Dai tempi del ginnasio è inaridita. Lui le ha posto il
problema: è del tutto indurita la vecchia Dafne’? - Andiamo a bere
qualcosa da me, se vuoi da te. Dopo però mi riaccompagni. Hai la
macchina, dove abiti? - - No grazie, non posseggo auto, non abito, dormo
in un bugigattolo ammobiliato nei paraggi. E' tardi, casco dal sonno,
sono spossata. Per oggi buonanotte - secca 1’accomiata.
Ha voglia di godere della panca da sola, di prendere visione del parco
prima che il cielo si uniformi nell’unico colore della notte. E
abituata a parlar poco, piano o per niente in tutti questi anni, ad
ascoltare voci grosse, esigenti, richieste e ragioni dei despoti di
sempre, padri, fratelli, mariti e figli, a reprimere le proprie istanze
anche con se stessa, ad assentire per quieto vivere, a difendersi nella
dignità del silenzio, nella pigrizia della sonnolenza. Riguarda sul
giornale la foto dell’onorevole personaggio. Da brivido!
Eppure lei stessa ne ha subito di persona la forza carismatica
inspiegabile, poco fa sulla panchina. In visita in un paese dell’est,
stringe la mano, anzi ha finito di abbracciare un alto capo di Stato con
cui mostra grande familiarità, tristemente noto per le repressioni in
cui stringe il suo popolo.
Da quando e sola lei non compera più giornali, non ha telefono né
tivu e si guarda dal tenere la conta dei giorni. Vive fuori dal mondo.
Meglio ignorare quel che avviene. Di continuo angosce, costrizioni,
notizie ferali. Forse è vero, è diventata sorda ai mali altrui, specie
quando comportano la perdita delle proprie forze per prestarle a chi
affonda, ti si aggrappa e ti trascina seco perché per lui conta
solamente il proprio destino.
La pietà. ha il dovere di rivolgerla verso di sé, ultrasessantenne
finora tutta famiglia ma priva di considerazione e di sfera affettiva.
Aria secca, silenzio, panche vuote. L’ora della verità, la più
naturale di certo, non ancora ammantata di stelle né della
spettacolarità della luna, addolcita dall’assenza di bagliori e di
calure solari. Già penombre lambiscono i fianchi delle colline e le
palme disseminano ombre da paesaggio africano.
Tutti spariti al richiamo del desco familiare. E lei?
Nessuno l’aspetta o è in pensiero per il ritardo. E libera di
rientrare quando vuole, né c’è il ricatto per doveri disattesi. Si
sente ancora più disponibile, libera perché vecchia e povera, questa
la sua indipendenza e il prezzo pagato non le sembra eccessivo. Cosa
dovrebbe temere?
- Non vai via? - le fa la ragazza cicciottella, trafelata per la corsa
nel parco, in via di indossare sulla tuta la giacca affidatale sulla
panca mentre leggeva al cieco. - Tra poco chiudono i cancelli. Rischi di
rimanere incastrata. - Poi consultando l’orologio e, ssss, ssss,
prestando orecchio al rombo e al clacson di una macchina lontana:
- Evita quello scroccone e il suo cane. Quello impietosisce le donne con
annunci solitari, cosi sverna a loro spese e spreme loro energie.
Prima riesce ad adescarle, dopo poco lo mollano tutte.
Tu sei gagliarda. Non ti far far fessa. Mo’ devo andare. E' arrivato l’omo
miiio con la macchina - mastica complice strizzando ironica l’occhietto.
- Digruma leccornie; gliene lancia una a razzo. Ha ripreso la sua corsa
verso l’amore suo, anche se si traveste da scettica blu.
Fine Capitolo 1.
Il romanzo completo è composto di nove capitoli.
Rivolgersi all’autrice. |